Salta il menù

Invia | Commenta

Lo specchio della natura.
Il corpo tra filosofia e teologia

di Giovanni Salmeri (31 gennaio 2008)

Certamente il tempo in cui viviamo propone delle sfide particolari che esigono più che mai serietà e intelligenza nella riflessione e nella comprensione delle poste in gioco. Prima delle feconde ibridazioni con sistemi filosofici di diversa origine, nell'essenza della fede cristiana c'è l'incontro con un evento storico, contingente, libero, corporeo, che mette in gioco la propria esistenza e nel quale si riconosce che avviene qualcosa di decisivo, di eternamente decisivo. La teologia cristiana, costretta com'è a fare i conti con questa prepotente fatticità, forse si trova nelle condizioni migliori per pensare questo dato insuperabile che è il corpo, ovvero, in termini forse equivalenti, il modo in cui l'uomo è radicato in un fondamento che gli sfugge in maniera insuperabile.

1. L'identità difficile

Se spesso la tradizione filosofica (e non sempre a torto) può essere sospettata di aver creato dal nulla temi che non corrispondono, o corrispondono solo molto indirettamente, ad esperienze facilmente identificabili nell'esperienza quotidiana, oppure di aver visto aspetti problematici laddove la vita non ne sa nulla, la variegata riflessione sul corpo che attraversa la tradizione occidentale sembra una volta tanto, almeno in linea di principio, sfuggire a questi sospetti. Non solo il concetto di «corpo» pare avere un riferimento immediato e inevitabile nell'esperienza di ogni uomo, ma ad esso pare anche associarsi un carico problematico che non ha bisogno di stati patologici per rivelarsi. Tutti conoscono, perfino a volte per qualche remoto ricordo personale, il delicato processo di identificazione che ogni bambino compie riguardo ad esso, così come le tante piccole o grandi occasioni in cui ciò che quotidianamente è così proprio da essere alla fine semplicemente identificato con sé stessi viene tuttavia sentito come lontano, estraneo, indocile, o addirittura nemico.

La tradizione platonica, che ha esercitato la più duratura influenza sulla storia filosofica dell'Occidente, da questo punto di vista è un'ottima testimone e non deve essere fraintesa. Tra i suoi elementi non si trova un generico disprezzo della materia, o del sensibile. Il sensibile e il materiale in sé non hanno per Platone nulla di intrinsecamente male: basterebbe rileggere il Timeo per trovare lo sguardo ammirato su una realtà che nella sua perfezione è la migliore rappresentazione possibile dei rapporti matematici e ideali, o il Fedro, per vedere pienamente all'opera, all'interno della dinamica erotica con cui viene identificata la stessa filosofia, il carattere sinceramente attraente della bellezza corporea, che è l'unico modo in cui la bontà metafisica può rendersi visibile e quindi imporsi attivamente all'attenzione dell'uomo. Tra i fondamenti remoti della filosofia platonica si trova piuttosto quell'esperienza, pienamente costitutiva dell'umano, della refrattarietà del corpo ad un'identificazione completa e senza residui con la soggettività umana. È per questo che l'anima, la psyché, un cui certo vago concetto è databile fin dai poemi omerici e quindi dalle stesse origini della cultura greca, diventa in Platone l'altro polo per definire il soggetto umano: un polo che non è richiesto affatto da un'astratta necessità logica (da questo punto di vista la sua posizione ha anzi qualcosa di incerto e problematico), ma che risalta come il punto di riferimento rispetto al quale il corpo può apparire (come abbiamo detto) lontano, estraneo, indocile, o addirittura nemico. In altre parole, il problema dell'identità, un'identità per di più sfuggente e invisibile, che ha bisogno di essere addirittura «dimostrata», non sorgerebbe affatto se non fosse suscitato da quell'identità ambigua e contraddittoria che è rappresentata dal corpo e dalle sue esperienze. Questo elemento è chiaro già dalle celebri parole di Platone, in cui la separazione dell'anima del corpo diventa la cifra della libertà del filosofo, che l'uomo comune non riuscirebbe a raggiungere:

-- Per quanto riguarda l'acquisto della saggezza, pensi che il corpo possa essere d'impedimento se uno nella ricerca lo prende come collaboratore? Voglio dire questo: la vista o l'udito danno agli uomini una qualche verità oppure, come ci ripetono alla noia i poeti, noi nulla vediamo e nulla udiamo di esatto? E se questi sensi corporei non sono né precisi, né chiari, tanto meno gli altri: tutti infatti sono meno validi di questi, o non ti pare?

-- Certo.

-- Quando, dunque, l'anima coglie la verità? Quando infatti essa si accinge a cercare qualcosa con l'aiuto del corpo, è chiaro che ne viene ingannata.

-- Dici il vero.

-- E allora, non è nel ragionare, se mai in qualche modo, che raggiunge qualcosa delle cose che sono?

-- Sì.

-- E l'anima ragiona nel modo migliore quando nulla dei sensi la disturba, né la vista, né l'udito, né il dolore né il piacere; solo quando soprattutto è sola, lasciando perdere il corpo, e per quanto possibile senza essere in compagnia di esso e senza toccarlo, essa raggiunge ciò che è.

-- È così.

-- Non è quindi per questo che l'anima del filosofo disdegna il corpo e lo fugge e cerca di essere sola?

-- Sembra (Phaed., 65 a9-d3).

Certamente non bisogna sottovalutare il peso che in questa concezione esercita la prospettiva epistemologica, che Platone poteva tranquillamente recepire dalla matematica speculativa del suo tempo. L'opera della mente è qui quella che in maniera puramente teorica sa ricavare per esempio le proprietà geometriche, senza aver bisogno di immagini fisiche e senza lasciarsi confondere dalla loro mutevolezza e imprecisione: si tratta di quella linea speculativa che più tardi confluirà in Euclide, il quale eviterà perfino di parlare di «punti» (stigmái), nominando piuttosto i «segni» (seméia). Ma il problema della verità non è tutto, se Platone stesso, poco più tardi, con parole impetuose, può indicare il corpo come il responsabile non tanto dell'errore, ma dell'alienazione dell'uomo:

Forse esiste come un sentiero che ci conduce assieme al discorso nella ricerca, perché, finché abbiamo il corpo e la nostra anima è confusa con un simile malanno, noi non possederemo a sufficienza ciò che desideriamo: e ciò affermiamo che è la verità. Il nostro corpo ci procura infiniti fastidi a causa della necessità del nutrimento; e inoltre, quando ci vengono delle malattie, ci impediscono dalla caccia della verità; e, poi amori, desidèri, paure, immagini d'ogni genere e vanità ci riempiono completamente, così che non possiamo veramente concentrarci su nulla. E così le guerre, le discordie, le battaglie, è nient'altro che il corpo che le suscita con i suoi desideri. Infatti tutte le guerre nascono per il possesso di beni, e i beni siamo costretti a procurarceli per il corpo: siamo dunque degli schiavi al suo servizio. A causa di tutto questo non abbiamo il tempo per dedicarci alla filosofia. E alla fine, anche se riusciamo a trovare tranquillità e ci volgiamo a indagare qualcosa, durante le ricerche un chiasso che viene da ogni parte ci porta agitazione e confusione, così che per colpa sua non possiamo distinguere la verità (Phaed., 66 b3-d7).

È notevole il fatto che la coppia concettuale di «corpo» e «anima», usata poco prima, viene qui tacitamente alternata alla coppia «corpo» e «io»: come se il peso e la passività di cui il corpo è simbolo e testimone lo facesse inevitabilmente identificare con un'estraneità, che poco alla volta fa scivolare l'uomo verso quelle alienazioni ancora peggiori e distruttive che derivano dal tentativo di possesso: in fondo, è solo con il corpo che si può possedere qualcosa, che ci si può cioè proiettare verso l'esterno per intendere alcuni oggetti come una sorta di prolungamento di sé (un'idea che per millenni è sembrata ovvia, prima dell'invenzione della fragile nozione di «proprietà intellettuale»). Nel seguito della tradizione filosofica questa caratterizzazione del corpo acquista ancora in chiarezza, per esempio quando, nel neostoicismo, converge con l'ispirazione in senso lato socratica che caratterizzava l'antico stoicismo. In Epitteto il principio direttivo dello stoicismo viene indicato come la differenza tra ciò che è in potere dell'uomo e ciò che non lo è. Il corpo è la prima entità classificata nel secondo gruppo, il che appare tanto più significativo quando si osservi che ciò avviene in una forma filosofica che originariamente non ha alcuna simpatia per la metafisica idealistica di Platone:

[1.] La realtà si divide in cose soggette al nostro potere e cose non soggette al nostro potere. In nostro potere sono il giudizio, l'impulso, il desiderio, l'avversione e, in una parola, ogni attività che sia propriamente nostra; non sono in nostro potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche pubbliche e, in una parola, ogni attività che non sia nostra. [2] E ciò che rientra in nostro potere è per natura libero, immune da inibizioni, ostacoli, mentre quanto non vi rientra è debole, schiavo, coercibile, estraneo. [3] Ricorda, allora, che se considererai libere le cose che per natura sono schiave, e tuo personale ciò che è estraneo, sarai impedito, soffrirai, sarai turbato, ti lamenterai degli dèi e degli uomini; se invece riterrai tuo solo ciò che è tuo, ed estraneo, come in effetti è, ciò che è estraneo, nessuno ti potrà mai coartare, nessuno ti impedirà, non ti lamenterai di nessuno, non accuserai nessuno, non ci sarà cosa che dovrai compiere contro voglia, nessuno ti danneggerà, non avrai nemici, perché non potrai patire alcun danno. [...] [5] Quindi esèrcitati fin d'ora a dire a ogni rappresentazione che ti colpisca per la sua asprezza: «sei soltanto una rappresentazione, non sei affatto ciò che sembri in apparenza». Poi analizzala e sottoponila alla valutazione degli strumenti in tuo possesso, accertando -- il primo e il più importante esame -- se essa sia relativa a cose che ricadono in nostro potere ovvero a quelle che non vi rientrano; e in questo secondo caso abbi già pronta la conclusione: «per me non è nulla» (Ench., 1).

Il tema viene ripetuto altre volte: «la malattia è impedimento del corpo, non della scelta morale» (9), «i cattivi auspici sono diretti non a me, ma a questo mio misero corpo» (18), «è segno di scarse qualità naturali dedicare troppo tempo alle cose del corpo» (41), e così via. In tutti questi casi, così come in quelli in cui alla corporeità dell'uomo si allude indirettamente, ciò che viene sottolineato non è tanto un generico minor valore del corpo, quanto il fatto che questo non gode di quell'assoluta libertà di cui (così pare) disporrebbero le attività mentali. Il mio corpo può essere catturato, debilitato da una malattia, impedito, ma nulla e nessuno potrà mai veramente costringermi a pensare qualcosa contro la mia volontà. Non c'interessa qui rilevare i limiti e anche l'ingenuità di una visione antropologica che riconosce una sovranità quasi divina allo spirito umano, ingenuità che rimane anche quando il testo di Epitteto venga correttamente letto non come una descrizione di fatto della realtà umana, ma piuttosto quale un obiettivo regolativo verso il quale solo con una lunga e faticosa ascesi è possibile avvicinarsi. C'interessa piuttosto notare come il «corpo» diventa qui il termine con cui concepire un soggetto umano che non è ciò che spontaneamente sperimenta e crede di essere: il corpo è insomma la frontiera spessa, e proprio per questo sfumata e fragile, tra la duplice evidenza di un'attività spontanea e di un'invincibile soggezione a qualcosa di incontrollabile.

2. Corpo e comprensione della natura

Contrariamente ad una certa apparenza, è dunque proprio il corpo, e non l'anima, ad essere speculativamente più problematico, o (in altre parole) ad essere con più difficoltà integrato in una visione «speculativa» dell'uomo. Che cosa significa qualche cosa che contemporaneamente è mio e non è mio, che è mio in quanto rappresenta il punto di riunione e convergenza di tutte le sensazioni e le azioni che si possono esercitare sul mondo circostante, e contemporaneamente non è mio in quanto sfugge ad un mio controllo diretto, e tanto più ad una conoscenza precisa?1

Esiste tuttavia un livello ancora più profondo in cui la duplicità concettuale di corpo e anima allude alla contrapposizione tra estraneità e appropriazione: è il livello dell'origine del singolo essere umano, della sua comparsa al mondo. Venire alla luce, a partire da altri esseri generanti, è in fondo il modo più radicale in cui la vita umana deve arrendersi a non essere sovrana e autonoma, per di più soggetta a tutti quei carichi di condizionamenti ereditari, di tempo e di spazio, che l'esperienza quotidiana insegna prepotentemente. La pretesa di autonomia è qui sconfitta anzitutto dal fatto di avere un'origine, che impedisce non solo di fatto, ma di diritto, che la ricognizione dell'identità personale tramite la catena della memoria proceda all'infinito: non solo i ricordi si confondono e sfumano man mano che indietreggiano verso la propria origine, ma ad un certo punto devono necessariamente annullarsi, per così dire, in un punto zero al di là del quale c'è l'abisso del proprio nulla. È questo abisso, e il fatto che l'uscita da esso è per eccellenza ciò che sfugge al potere del singolo essere umano, a sottrarre la vita al suo controllo, a renderla non totalmente sua.

Si tratta di una formulazione del problema troppo «esistenziale» per essere applicata al mondo filosofico greco? Forse. Ma in ogni caso bisogna costatare che la teoria della reminescenza, che Platone ricava e rielabora a partire dalla tradizione religiosa greca, sembra esattamente la risposta a queste inquietudini. In essa la continuità e l'autonomia dell'esistenza umana risulta assicurata dalla capacità speculativa della mente: è vero che i ricordi empirici sfumano e terminano, ma esiste una memoria più radicale, la memoria dell'eterno, che in un certo senso assicura l'anima della sua stessa eternità, o almeno del fatto che il suo destino precede quello del coinvolgimento nello storico e nel sensibile che il corpo rende possibile e testimonia. A questo punto si comprende anche quale sia il vero ruolo della prospettiva epistemologica che prima abbiamo rilevato tra le componenti del testo del Fedone: il fatto che il corpo ostacoli la ricerca delle verità eterne non indica un semplice incidente conoscitivo, ma piuttosto significa l'ostacolo posto di fronte a quell'attività tramite cui il soggetto umano può convincersi di non essere vincolato all'hic et nunc (come ancora Tommaso d'Aquino ripeterà) e di affondare le sue radici in un infinito temporale che scavalca l'evento della mia generazione. Insomma, e detto più semplicemente: solo il corpo nasce, non l'«io» reale dell'uomo, che al massimo risulta temporaneamente confuso e turbato dall'incarnazione. Ancora una volta, bisogna ribadire che non è qui all'opera un «disprezzo» del corpo (che semmai può apparire come una conseguenza, o una sorta di abbreviazione divulgativa), ma piuttosto l'esperienza di una problematica autoidentificazione, il cui peso viene concentrato sul concetto di «corpo». I termini a partire dai quali stiamo qui caratterizzando questo ingresso del corpo nella riflessione filosofica sono sostanzialmente platonici, ma la loro presenza è ben più estesa nella storia della filosofia: sarebbe interessante per esempio notare come attraverso di essa esista un lungo filo rosso in cui, pur messa tra parentesi l'ipotesi orfico-religiosa della trasmigrazione delle anime, la teoria della «reminescenza» sopravvive tramite innumerevoli trasfigurazioni: segno questo, ben più di una presunta ossessiva presenza del platonismo, di una corrispondenza con l'esperienza umana di alcuni dei suoi disagi di fondo.

Se questa lettura che abbiamo finora tentato ha una qualche plausibilità, c'è un risultato verso cui essa converge: il fatto che attraverso il concetto di corpo viene assunto e riflettuto, in modo tutto particolare, il rapporto dell'uomo con la natura. Assumiamo questo termine nella pluralità di significati che esso fin dall'inizio (come phýsis) ricoprì nel pensiero greco, e che Aristotele molto bene passa in rassegna, concludendo alla fine così:

Dalle cose che si sono dette risulta che la natura, nel suo senso primo e principale, è l'ousía delle cose che posseggono il principio del movimento in sé stesse in quanto tali: infatti, la materia si dice natura perché è in grado di ricevere questo principio, e le generazioni e il crescere perché sono movimenti che derivano da questo principio. E il principio del movimento delle cose che sono per natura, in qualche modo esistente in essi, è o potenziale o attuale (Met., V 4, 1015 a13-19).

In questa conclusione si potrebbe intravedere un certo tentativo di neutralizzare la carica inquietante ed eversiva del concetto di natura: il significato della «natura» come «generazione» o «nascita», che nella rassegna linguistica Aristotele aveva classificato per primo, valorizzando così il carattere di nomen actionis che phýsis possiede, viene qui derubricato ad ultimo, sussumendolo al primo posto sotto il concetto pienamente ontologico di ousía. Ma anche se ciò fosse vero (e non si dovesse invece dire esattamente il contrario, cioè che così facendo viene fatta esplodere dall'interno l'eredità dell'essere parmenideo) rimane pur sempre vero che nella «natura» deve essere pensato il venire all'essere, quel processo che continuamente gli uomini costatano nel mondo ambiente e -- soprattutto -- del quale essi stessi sanno e sperimentano di fare parte. Il concetto di «corpo» dà esattamente espressione a questa consapevolezza, e ne riflette tutti i problemi e le ambiguità. Sarebbe facile obiettare che proprio Aristotele, colui che abbiamo citato per trovare una definizione più completa della «natura», sembra non cedere alla tentazione platonica di concettualizzare tali ambiguità tramite la contrapposizione tra il corpo e l'anima, fino al punto di interpretare l'anima stessa come principio del movimento, come forma funzionale del corpo, quindi proponendone una lettura decisamente naturalistica; ma, a parte il fatto che la stessa concezione tradizionalmente attribuitagli di una struttura ilemorfica dell'essere umano non è esente da pesanti incertezze filologiche, più semplicemente ancora bisogna dire che proprio sul punto che appare speculativamente decisivo, e cioè lo statuto dell'anima nella sua funzione intellettuale, il testo di Aristotele non offre nulla di più del celebre fuggevole accenno del De anima, completato altrove dalla notazione secondo cui l'immortalità dell'anima è da classificare tra i problemi irresolubili. Sono queste evidenti ripercussioni delle tensioni del rapporto tra io umano e natura: se si accetta l'evidenza secondo cui l'uomo, con la sua corporeità e con tutti i processi vitali guidati dalla psyché, è parte integrante della natura, allora i processi intellettuali restano su un piano incerto e difficile da definire: un destino certo paradossale per le funzioni che per Aristotele stesso caratterizzano l'uomo e lo «divinizzano» per quanto possibile. Il problema, quindi, rimane ancora una volta quello della comprensione della natura e dell'intimo rapporto dell'uomo ad essa.

3. Il dualismo cristiano

Che cosa avviene con la comparsa del cristianesimo nella scena culturale dell'Occidente? Tra i luoghi comuni più facili da ascoltare vi è quello secondo cui la visione «dualista» dell'uomo sarebbe stata fronteggiata da una concezione unitaria della persona di origine «biblica»; in tal quadro per esempio bisognerebbe anche collocare la distanza tra una dimostrazione dell'immortalità dell'anima e una promessa della resurrezione della persona tutt'intera. Tutte le ricomparse, tenaci quanto si voglia, della dualità platonica sarebbero dovute a nient'altro che ad una rischiosa commistione, che oggi finalmente saremmo in grado di superare.2 Di fronte a questa ricostruzione (che certo può avere numerose varianti, più o meno raffinate) si dovrebbe però anzitutto precisare che l'eventuale esistenza di un'antropologia «biblica» non dice assolutamente nulla sulla sua consonanza e tanto più necessità per la fede cristiana: dopo che una storia abbastanza travagliata ci ha convinto che la Scrittura vuole insegnarci «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo», bisogna augurarsi che non servano altrettanti travagli per sapere che essa non vuole neppure insegnarci come è fatto l'uomo, ma per che cosa è fatto l'uomo (problemi evidentemente connessi, ma ben distinti).

Ma al di là di questa osservazione di metodo, è nel merito che questo luogo comune si mostra molto difettoso. Potrebbero per esempio essere citate le espressioni evangeliche in cui chiaramente si dà per ovvia una distinzione tra anima e corpo: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna» (Matth., 10, 28). Ma ancor più deve essere citato il linguaggio di Paolo, che in punti cruciali contrappone sárx e pnéuma. Ovviamente tale contrapposizione non coincide, né lessicalmente né concettualmente, con quella platonica tra corpo e anima: soprattutto, è il concetto di «spirito», con il suo significato strutturalmente ambiguo tra «spirito umano» e «spirito divino», che pone la distinzione in una prospettiva teologica del tutto peculiare, in cui questa volta è lo «spirituale» che sembra, con la sua gratuita imprevedibilità e sovrabbondanza, tramutare l'estraneità da elemento inquietante in spiraglio di salvezza. Ma ciò non toglie nulla al fatto che la coppia concettuale paolina vuole esprimere la stessa esperienza di incertezza identitaria da cui partiva la riflessione platonica, e che anzi tale incertezza viene resa ancora più lacerante dalla luce della legge divina che cadendo sull'esistenza umana ne disegna con implacabile nettezza le ombre. È celebre il brano della Lettera ai Romani in cui Paolo disegna con più precisione la situazione limite dell'uomo combattuto tra tendenze conflittuali:

Sappiamo infatti che la legge è spirituale, ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato. Non comprendo quel che faccio, perché non faccio quello che voglio, ma quello che odio. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la legge è buona. Ora non sono più io che faccio il male, ma il peccato che abita in me. So infatti che non abita in me, cioè nella mia carne, il bene, poiché il volere è presente in me, ma non il fare il bene, poiché non faccio il bene che voglio, bensì il male che non voglio. Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me. Io riscontro dunque in me questa legge, che volendo fare il bene, in me è presente il male. Difatti, secondo l'uomo interiore, mi compiaccio nella legge di Dio, ma osservo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per Gesù Cristo, Signore nostro! Dunque, io stesso, con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne servo la legge del peccato (Ep. Rom., 7, 14-25).

Come si può notare, qui la più comune coppia sárx / pnéuma è sostituita da altre: sárx / nóus in primo luogo, poi membra / uomo interiore, infine peccato / io: nel primo caso la felice ambiguità del termine spirito viene risolta in un termine di carattere spiccatamente antropologico (nóus) che fa allusione alla capacità dell'uomo di intuire e comprendere la legge divina (un termine che può essere messo in connessione con la celebre affermazione dell'esordio della stessa Lettera ai Romani sulla possibilità di una conoscenza «noetica» di Dio, anche lì in un contesto morale); nel secondo il corpo viene per così dire «disarticolato» (membra), come rappresentato in un tumulto di passioni prive di unità di fronte alla certezza dell'interiorità; nel terzo caso, infine, con una curiosa personificazione l'io viene contrapposto ad una forza anonima e senza volto, il «peccato». In questo gioco di trasformazioni lessicali, che sembrano tanto più interessanti quanto meno studiate, ciò che risulta chiaramente è il dramma umano, il dramma della sua difficile identificazione con sé stesso. La prospettiva teologica fa esplodere questo dramma in un'infelicità ancora maggiore di quella dell'uomo pagano di Platone, il quale in fondo poteva consolarsi nella concentrazione dello studio e nella sicurezza che le idee eterne ed universali così raggiunte fossero l'indizio del destino eterno dell'anima stessa. Quando diciamo «dramma» pensiamo anche al significato teatrale del termine: tanta è la tensione che Paolo vuole suggerire che la poche righe che abbiamo citato tendono ad una forma quasi dialogata: non è però un dialogo filosofico in cui la certezza di una verità da raggiungere conferisce sin dall'inizio la fiducia in un accordo, ma piuttosto un dialogo tragico in cui l'esito dipende dalle libertà poste in gioco, ivi inclusa la libertà divina, qui infinitamente più sovrana di quella di un Deus ex machina.3 Che quindi l'immagine «biblica» o «cristiana» dell'uomo non contempli alcun «dualismo» è un'affermazione che avrebbe bisogno di molte precisazioni, e che così come suona sembra semplicemente falsa.

Da questo punto di vista, il dogma dell'incarnazione del Figlio di Dio, che ovviamente può essere citato per ricordare lo sguardo non sprezzante che il cristianesimo ha sulla realtà del corpo umano, non può però essere invocato per diminuire questa carica drammatica. Al contrario, esso acquista il suo pieno valore speculativo proprio perché questo dramma esiste e nella misura in cui esso viene vissuto e riconosciuto. Se analizzato nel dettaglio, questo tema aprirebbe però un capitolo che porterebbe lontano, intrecciato com'è con la complessa evoluzione del dogma cristiano.

4. Molte nature, molti corpi

Qui intendiamo invece solo verificare l'ipotesi che avevamo formulato riguardo alla concezione greca del corpo: rimane vero anche nel pensiero cristiano che il corpo è una sorta di prisma per comprendere e concettualizzare il rapporto dell'uomo con la «natura»? Non intendiamo ovviamente chiederci se il cristianesimo possa in questo lasciare in vigore la mentalità greca (domanda alla quale se non altro la storia ha risposto positivamente), ma piuttosto se la forma di razionalità cresciuta all'interno della fede cristiana offra elementi originali per pensare questo rapporto. La risposta ci pare nettamente positiva, e il segno si trova nella misura in cui il pensiero cristiano ha meditato e reso più complesso proprio il concetto di «natura». Se Aristotele classificava come abbiamo visto, significati diversi, che oscillavano tra il valore originario di «nascita» fino alla cristallizzazione di tale nascita nelle caratteristiche stabili degli enti naturali, il pensiero cristiano opera una differenziazione più radicale, di tipo storico. Per il cristiano non è infatti la stessa cosa parlare della natura prima o dopo il peccato dell'uomo. Nel primo caso è una situazione di perfetta armonia con Dio e con il cosmo, nel pieno delle proprie facoltà fisiche, intellettuali e spirituali; nel secondo caso la spontanea armonia è infranta in ogni direzione e le facoltà sono tutte appannate. Tali scompensi non sono tuttavia conseguenza di cause razionalmente o empiricamente accertabili, che permetterebbero di comprendere la «vera» natura una volta sottratti gli evidenti difetti, ma restano così avvinghiati all'esistenza umana da costituirne quasi un'altra natura.4 All'interno della fede cristiana ciò diventa quasi un'evidenza, ma, appunto, solo all'interno di essa: neppure l'ebraismo, che pure leggeva le stesse pagine della Genesi e che in epoca tarda aveva sviluppato di fronte alla domanda del male nel mondo una risposta analoga a quella del «peccato originale» cristiano, non ha tuttavia mai stabilizzato tale intuizione in un dogma, come invece è avvenuto nel cristianesimo di fronte all'imponenza dell'annuncio di una salvezza che giunge come una sorta di nuova creazione. Questo annuncio anzi non solo crea restrospettivamente l'immagine di una natura originaria forse ingenua ma perfetta, ma annuncia ancora un terzo significato di natura, la natura sotto la grazia divina, e poi un quarto, la natura come sarà alla fine trasfigurata nella gloria.

Ora, è molto interessante notare che ad ogni sfumatura di significato di natura corrisponde una diversa immagine del corpo umano, al cui interno viene riflettuta un'esperienza reale. Il passo prima citato di Paolo ci ha posto davanti agli occhi il corpo della natura decaduta, cioè l'indocilità, l'estraneità vissuta come distruttiva ed enigmatica, quell'indocilità che consiste nel «fare ciò che si odia». Dall'altra parte, sullo sfondo emergeva però anche il corpo sotto il segno della natura redenta dalla grazia; se vogliamo leggerlo più chiaramente, basta per esempio nella stessa Lettera ai Romani procedere fino alla sezione parenetica, che è introdotta da un'esortazione a compiere il «culto logico (logiké latréia) « offrendo «i propri corpi» (12, 1-2), un'espressione forte e paradossale che può essere meglio compresa quando letta sullo sfondo del tentativo di riforma intellettualistica del paganesimo effettuata dalla filosofia ellenistica: là il culto degno del lógos è la completa rinuncia a tutto ciò che è sensibile, qua diversamente è sostanziato dalla vita corporale.5

È difficile da questo punto di vista non vedere una profonda consonanza negli sviluppi della dottrina del peccato originale che in Occidente saranno impressi da Agostino, in particolare con il profondo legame che egli stabilisce con la sessualità umana: essa è il luogo in cui il corpo sembra più allontanarsi dalla mente, seguendo una legge propria e incomprensibile, perfino l'organo sessuale (maschile) segna nel complesso dell'organismo umano l'unica eccezione di un organo esterno che non è sotto il controllo della volontà e che pare avere quasi una vita propria; dall'altra parte, proprio la sessualità è ciò che permette la nascita dell'uomo, dunque la sua piena naturalità, ed è quindi profondamente logico che la natura trasmessa per il tramite di una sessualità sfuggente e alienata, quale pare quella umana, sia affetta all'infinito dallo stesso scompenso della concupiscentia, che poi si rifrange in ogni rapporto dell'uomo con l'altro uomo e con le cose:

Il male dunque del peccato con il quale nasce ogni uomo è precisamente il fatto che il fervore della concupiscenza si muove disobbedientemente nelle membra del corpo di questa morte e tenta di trascinare tutto l'animo dopo d'averlo a sé assoggettato, e non insorge quando la ragione vuole né si calma quando la ragione vuole. [...] Il solo a nascere senza peccato è stato colui che la Vergine concepì senza l'amplesso maritale: non per concupiscenza della carne, ma per obbedienza della mente. La sola che poté partorire la Medicina per la nostra ferita è stata colei che diede alla luce il Capo di una discendenza santa senza l'intervento della ferita del peccato (De pecc. mer. et rem., I, 29. 57).

La posizione di Agostino è ovviamente più complessa di quanto queste poche righe possano far comprendere. Ma anche in questa forma semplificata ci pare importante notare che non c'è bisogno di scusare Agostino, per esempio invocando l'ingenuo platonismo o i sensi di colpa per le disordinate esperienze personali. Ciò che qui conta è il realismo e la serietà con il quale si guarda al rapporto tra l'uomo e la natura, e il modo in cui si formula tale rapporto attraverso una riflessione sull'esperienza della corporeità. Nel momento in cui lo stesso Figlio di Dio ha preso una «carne di peccato» anche lo sguardo su questa carne deve diventare più profondo, penetrando anzi nel punto di divisione tra lo stato attuale, fragile e terribilmente ambiguo (che cosa più ambiguo della sessualità, che può scatenare le più forti passioni di amore e le più umilianti sopraffazioni?), e il modo in cui questa fragilità viene trasfigurata, forse perfino valorizzata, dalla grazia di Dio: l'uomo in stato di grazia non viene certo reso immune dall'indocilità del corpo, e tuttavia può sperimentare qualcosa che è ancora più grande di ciò che con il peccato di Adamo venne perduto. Tutto ciò vale per quanto oggi possa parere limitata la visione della corporeità (e per inciso anche quella del matrimonio) che in Agostino viene proposta.

Anche gli altri due significati di natura, quelli che possiamo chiamare protologico ed escatologico, che sfuggono ad un'esperienza immediata, vengono presi molto sul serio dalla tradizione del pensiero cristiano proprio nel loro significato corporale. È facile sorridere del dettaglio con il quale la teologia scolastica ha cercato d'immaginare le caratteristiche fisiche di Adamo prima del peccato e quelle dei beati al momento della resurrezione dei corpi. Si può per esempio rimanere un poco perplessi quando Tommaso d'Aquino con piena serietà s'interroga sul contenuto degli intestini dei corpi glorificati (che cosa scegliere tra i contenuti imbarazzanti tipici di questa vita terrena e il vuoto che la natura aborre?).6 Ma anche in questo caso è evidente che prendere sul serio la corporeità equivale nelle intenzioni a prendere sul serio la fede cristiana e la nuova esperienza in cui essa in maniera imprevedibile introduce. Il tema della resurrezione dei corpi è da questo punto di vista caratteristico e cruciale. Ciò non accade perché essa segni una «riabilitazione» del corpo: il Timeo di Platone era ben sufficiente per riconoscere il mondo sensibile nella sua insuperabile dignità e bellezza, tanto è vero che la sua forma mentis sarà un punto di riferimento essenziale in tutte le discussioni sulla creazione del «mondo migliore possibile», che dall'antichità cristiana attraversano tutto il pensiero medievale (il tema era presente nelle Sentenze di Pietro Lombardo e quindi divenne tema di riflessione per tutti i maestri della scolastica dal XIII secolo) fino a giungere nella loro forma «razionalizzata» fino a Leibniz. Il tema della resurrezione dei corpi piuttosto mette a fuoco una modalità differente di concepire la propria corporeità, ovvero, come stiamo costantemente evidenziando, di vivere il rapporto con la natura. La posizione di Tommaso d'Aquino è da questo punto di vista estremamente istruttiva nel suo equilibrio instabile. A prima vista, egli è deciso nell'indicare i cogenti motivi razionali che inducono ad affermare la futura resurrezione dei corpi. Ecco i primi due che vengono introdotti nella Somma contro i Gentili:

La futura resurrezione della carne è suffragata anche da una ragione evidente, una volta supposto ciò che prima è stato mostrato. Si è mostrato infatti [...] che le anime degli uomini sono immortali. Dunque dopo [la morte dei] corpi rimangono separate dai corpi. È anche manifesto, da ciò che è stato detto [...], che l'anima si unisce naturalmente al corpo: secondo la sua essenza è infatti forma del corpo. Dunque è contro la natura dell'anima essere separata dal corpo. Ma nulla che è contro natura può essere perpetuo. Dunque l'anima non sarà per sempre senza il corpo. Dato che dunque rimane per sempre, è necessario che si congiunga per una seconda volta con il corpo [corpori iterato]: il che vuol dire risorgere. Dunque l'immortalità delle anime appare esigere una futura resurrezione dei corpi.

Inoltre, è stato mostrato sopra [...] che il desiderio naturale dell'uomo tende alla felicità. Ma la felicità ultima è la perfezione di chi è felice. Chiunque dunque manca di qualcosa per la perfezione non ha ancora una felicità perfetta, perché il suo desiderio non è ancora completamente appagato: infatti ogni realtà imperfetta desidera naturalmente conseguire la perfezione. Ma l'anima separata dal corpo è in qualche modo imperfetta, come ogni parte che esiste al di fuori del suo tutto: infatti l'anima è naturalmente parte della natura umana. Dunque l'uomo non può conseguire la felicità ultima se l'anima non si congiunge una seconda volta con il corpo, soprattutto dal momento che si è mostrato che in questa vita l'uomo non può pervenire alla felicità ultima (S.c.G., IV, 79, n. 10-11).

I motivi addotti da Tommaso senza dubbio sono razionalmente fondati: praticamente tutti i presupposti citati sono coerenti con il pensiero aristotelico (al di sopra di ogni sospetto), se non addirittura da lui letteralmente desunti. La resurrezione dei corpi, dunque, sembra qui (per usare i termini e il modello tommasiano) non un articolo di fede, ma piuttosto un preambulum fidei accessibile alla ragione filosofica. E tuttavia, c'è qualcosa che insospettisce e non convince: il passo che abbiamo citato si trova nel quarto libro della Somma contro i Gentili, quello dedicato alle verità della fede, e gli argomenti razionali in favore della resurrezione sono addotti solo dopo quelli propriamente teologici: un procedimento che appare curioso. Certamente in tutto questo c'è un'analogia con lo stesso fondamento dell'etica, dove il desiderio di beatitudine dell'uomo si dimostra naturalissimo, ma ciononostante irrealizzabile tramite le sue forze naturali. In questo caso tuttavia la questione è più radicale: dato che evidentemente la resurrezione non è un processo naturale (Tommaso lo ammette pacificamente), la ragione sarebbe qui in grado di dimostrare la necessità di un libero atto miracoloso di Dio! Non pare allora particolarmente difficile né tacciabile di fideismo il compito di chi, come Giovanni Duns Scoto, si accinse a mostrare l'infondatezza di questa pretesa, infondatezza che contemporaneamente fa apparire con più sorpresa e luminosità la promessa cristiana di una gioia eterna dell'uomo tutto intero.

E tuttavia, il dissidio si ricompone un poco, o almeno si comprende meglio, quando si suppone che il retroterra non dichiarato delle argomentazioni razionali in favore della resurrezione futura sia in fondo un'esperienza umana peculiare e diversa da quella dell'umanità pagana, ma pur sempre un'esperienza reale e attuale. «L'anima si unisce naturalmente al corpo», «il desiderio naturale dell'uomo tende alla felicità», «l'anima è naturalmente [solo una] parte della natura umana», ha sostenuto Tommaso: ma l'esperienza che queste affermazioni suppongono e valorizzano è probabilmente meno quella della vita teoretica aristotelica e più quella dell'esistenza cristiana, che poi certo è in grado di ricostruire una coerenza concettuale delle sue convinzioni. È un'esistenza in cui, come abbiamo intravisto già dalla testimonianza di Paolo, l'uomo nel suo contrasto interiore, comparso in tutto il suo dramma, può alzare lo sguardo verso la salvezza della grazia divina, quella che permette di guardare alla propria corporeità come un dono ricevuto che a sua volta può essere donato. Essere venuti al mondo è una ripercussione lontana, ma non equivoca, della fecondità divina, e crea la condizione per compiere quel «culto logico» che non è un mezzo ma solo un fine, e dunque riassume e reinterpreta lo stesso senso della vita teoretica greca e quindi della felicità.

5. Il sapere e l'agire del corpo

Sono temi che qui ci contentiamo di accennare, che sicuramente impongono una revisione di un'interpretazione troppo meccanica della distinzione tra fede e ragione, ma che sono cruciali per comprendere la ripercussione che la fede cristiana ha avuto sulla razionalità. Prima delle feconde ibridazioni con sistemi filosofici di diversa origine, nell'essenza della fede cristiana c'è l'incontro con un evento storico, contingente, libero, corporeo, che mette in gioco la propria esistenza e nel quale si riconosce che avviene qualcosa di decisivo, di eternamente decisivo. È questo carattere decisivo che, significativamente, anche nel contesto più speculativo i teologi sono costretti ad invocare quando sono in questione quegli elementi che definiscono il sapere e l'agire cristiano: un sapere che è fondato su una catena di testimonianze, e cioè sull'ininterrotto incontrarsi di persone che hanno visto, toccato, e che si sono trasmesse per così dire corporalmente la loro certezza vitale, e un agire che, al di là di tutti i successi e gli scacchi dell'etica, è normato dai sacramenti, cioè segni sensibili, materiali che rappresentano e rendono presente qualcosa che non può semplicemente esaurirsi in una comprensione ideale (questa, pur con tutti gli eccessi fisicisti, sembra la grande intuizione sottesa agli sviluppi medievali della dottrina dell'eucaristia). La teologia cristiana, costretta com'è a fare i conti con questa prepotente fatticità, forse si trova nelle condizioni migliori per pensare questo dato insuperabile che è il corpo, ovvero, in termini forse equivalenti, il modo in cui l'uomo è radicato in un fondamento che gli sfugge in maniera insuperabile. Detto in una battuta, tutto avviene come se la «trascendenza», per uno sguardo educato alla tradizione e al sacramento, fosse un affare più del corpo che dell'anima. È questo un tema che non può affatto essere banalizzato come una valutazione «positiva» della corporeità, della quale, ripetiamo, perfino il platonismo era ben dotato, forse ancor di più della tradizione cristiana nel suo complesso, cui il realismo ha sempre imposto molte cautele.

Può avere un valore razionale tutto ciò? Pure ammesso che non lo abbiano le risposte, sicuramente lo hanno le domande. Certamente il tempo in cui viviamo propone delle sfide particolari che esigono più che mai serietà e intelligenza nella riflessione e nella comprensione delle poste in gioco. Il filosofo americano Francis Fukuyama, dopo aver preconizzato nel 1992 la «fine della storia», dieci anni dopo mutò tale idea, nelle sue intenzioni ottimista, sostenendo che l'ingresso delle biotecnologie sia in grado di mutare così radicalmente il senso di «umanità» da creare condizioni nuove in grado di introdurre radicali trasformazioni nell'ordine politico mondiale, e quindi «riaprire» la storia. È possibile che il giudizio in un certo senso vada capovolto: forse il rischio delle biotecnologie è esattamente il contrario, cioè chiudere una storia che finora è stata aperta. Un corpo che, fosse pure solo nell'immaginario sociale, è creabile a piacimento, è lo specchio vuoto di una natura che non esiste più, di un dato e una condizione che sono scomparsi. Più libertà? Certamente, nello stesso senso dell'ingenua colomba di Kant:

La colomba leggera, mentre nel libero volo fende l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone così numerosi limiti all'intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell'intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada con i suoi sforzi; giacché non aveva nessuna resistenza (Widerhalt), per così dire quale appoggio sul quale sostenersi e a cui applicare le sue forze per muovere dal suo posto l'intelletto. Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edificio, e solo alla fine cercare se gli siano state gettate buone fondamenta. Ma poi si cercano abbellimenti di ogni specie per confortarci sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica (KrV, «Einleitung», III, A5 / B8-9).

Ciò che per Kant era un sottile problema teoretico (per sua stessa ammissione lontanissimo dalle preoccupazioni dell'uomo comune), oggi può diventare in altro campo un problema etico e politico gravissimo, forse ancor prima un problema educativo: il crollo dell'umanità sarebbe certo ben più grave del presunto crollo di una scienza infondata. Ma se davvero le propaggini della storia di cui abbiamo cercato di ricostruire qualche tratto toccano così da vicino la nostra libertà, il calore delle nostre vite, la bellezza delle memorie e delle speranze scritte nella nostra corporeità, c'è da augurarsi che una volta tanto i filosofi e anche i teologi non siano le nobili nottole che si alzano in volo quando tutto è già avvenuto.

[Relazione al XXI Convegno nazionale dell'Associazione docenti italiani di filosofia, Verità del corpo, Cividale del Friuli, 6-8 settembre 2007.]

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

Note

  1. Da questo punto di vista è significativo il rapporto di sospettosa ammirazione che ha segnato le origini della medicina e le origini della filosofia. Se Platone poteva presentare più volte la filosofia come una cura dell'anima parallela a quella del corpo, nonché indicare in Ippocrate il modello metodico della filosofia (cosa raramente ricordata: vedi Fedro, 270 c9-d7), da parte sua proprio Ippocrate, o qualche suo discepolo, si sentiva in dovere di rivendicare alla sola medicina il merito di un'autentica conoscenza dell'uomo: «Ma alcuni medici ed esperti di sapienza (sophistái) dicono che non è possibile che conosca la medicina chi non sa che cos'è l'uomo, ma questo deve capire chi intende curare correttamente gli uomini. Il loro discorso tende alla filosofia (es philosophíen), come per Empedocle e altri che hanno scritto sulla natura partendo da che cosa è l'uomo e da come si formò all'inizio e da che cosa è costituito. Ma io anzitutto ritengo che tutte le cose dette da un esperto di sapienza o da un medico, o scritte sulla natura, si avvicinino più alla pittura che la medicina: ritengo invece che non è possibile conoscere qualcosa di chiaro sulla natura [dell'uomo] da nessun'altra fonte che dalla medicina. E questo si sarà in grado di apprenderlo quando si abbraccerà tutta la medicina stessa correttamente (e finché ad allora mi pare che ci mancherà molto): intendo questa indagine: sapere che cosa è l'uomo e per quale genere di cause si forma e tutto il resto, esattamente» (De pr. med., 20). La complessità della conoscenza medica, sulla quale Ippocrate scrisse righe di un'apertura mentale straordinaria, che la sua stessa scuola dovette presto rassegnarsi a non poter dominare, diventa così il punto da cui rivendicare la complessità e anche la fragilità umana (la medicina è suscitata sempre dal problema della malattia!). Solo esse riescono a rendere conto della natura dell'uomo, pure di fronte a quelle alterazioni, come l'epilessia, che erano state ricondotte a cause soprannaturali non solo per pigrizia e ignoranza, ma anche e soprattutto per il loro carattere oscuro ed estraniante. Testo

  2. Il testo forse più celebre che ha messo a fuoco questa dicotomia è di Oscar Cullmann, Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti? La testimonianza del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1986. La presunta alternativa tra le due visioni è comunque un caso particolare dei più generali problemi interpretativi legati alla cosiddetta ellenizzazione del cristianesimo, sui quali non possiamo qui entrare. Basti notare, a mo' di rilievo critico, che spesso questa istanza sembra da una parte il modo (negativo) per richiedere una migliore valutazione delle radici ebraiche del cristianesimo, che tanto peso ha avuto per esempio nel cattolicesimo postconciliare; dall'altra il modo (positivo) per significare una generica esigenza di rinnovamento, che in realtà ben poco ha a che fare con la cultura greca in quanto tale (tant'è vero che qualche volta s'incrocia curiosamente con l'altro grande recente movimento di rinnovamento che è il ritorno alle fonti patristiche, molto più ellenizzate della teologia neoscolastica che s'intende superare). Il caso in questione della concezione del corpo può essere considerato un punto di vista prezioso per guadagnare una prospettiva più complessa e differenziata. Testo

  3. Per i nostri scopi è sufficiente questo cenno. È doveroso però segnalare che la pagina di Paolo (che, quasi nello stile di una diatriba, comincia al v. 7) è esegeticamente molto complessa. In essa, scartando una banale interpretazione autobiografica, c'è oggi un certo consenso nel vedere un «io» narrativo che s'immedesima nella vicenda di Adamo, interpretata attraverso la tradizione giudaica (testimoniata per esempio dal Libro dei Giubilei e dell'Apocalisse di Mosé) e ovviamente nella prospettiva della redenzione cristiana. In tale lettura il comando dato ad Adamo è identificato con la Torah stessa, e il «desiderio» del frutto diventa radice del peccato in quanto manifestazione di sfiducia nel confronti di Dio, il cui comando è interpretato come prodotto di «invidia». In questo quadro l'ultima affermazione del testo («Dunque, io stesso, con la mente servo della legge di Dio, ma con la carne servo della legge del peccato», v. 25b) può essere sospettata essere una glossa, in quanto sposta la prospettiva dalla drammatizzazione archetipica della vicenda di Adamo alla situazione del cristiano pur sempre peccatore. Su tutte queste questioni possono essere confrontati i moderni commentari (per esempio Heinrich Schlier, Der Römerbrief, Herder, Freiburg i. Br. 1977, Ulrich Wilckens, Der Brief an die Römer, voll. I-III, Benziger-Neukirchener, Zürich-Neukirchen/Vluyn 1978-1982). Stante la complessità del retroterra culturale, è sorprendente quanto tale pagina riesca così immediatamente a coinvolgere il lettore. Testo

  4. Ovviamente le interpretazioni esatte del peccato originale sono state molto diverse lungo la storia del pensiero cristiano, a partire dal fatto che della sola tradizione di lingua latina è propria, sotto il prevalente influsso agostiniano, la decisa teorizzazione di una colpa ereditaria. Ma anche nella tradizione latina si può trovare una gamma di interpretazioni molto ampia, fino a giungere all'estremo di Giovanni Duns Scoto (Ord., p. II, d. 30-32) che tende a vedere il peccato originale come la semplice mancanza dei doni sovrannaturali che Dio aveva concesso ad Adamo e promesso per i suoi discendenti. Ciò non toglie che anche in questa lettura minimalista (peraltro mai condannata, come neppure l'analoga versione orientale) l'effetto del peccato originale consiste nel lasciare per così dire «nuda» la realtà umana di fronte alla sofferenza e all'enigma dell'esistenza: una nudità che forse solo la fede può far percepire, ma che è nondimeno reale. Comunque stiano le cose è possibile quindi parlare di un duplice senso di natura. Le considerazioni che faremo tra poco riguardo ad Agostino in effetti prescinderanno dalla particolare curvatura da lui impressa al senso del peccato di Adamo, per evidenziare solo il realismo drammatico usato nel notarne le conseguenze. Testo

  5. La questione del «culto logico» è stata documentata da Johannes Quasten, Musik und Gesang in den Kulten der heidnischen Antike und christlichen Frühzeit, Münster 1930, pp. 67-77 (e seguita in un suo interessante sviluppo da M. Benedetta Zorzi, «Autonomia della musica e mistica cristiana. Lo iubilus in Agostino d'Ippona», Reportata, 1º settembre 2003, http://mondodomani.org/reportata/zorzi01.htm: la musica nella sua materialità appare come medium appropriato di culto quando viene presa sul serio l'incarnazione del logos). È del resto significativo come un certo recupero della concretezza esistenziale e storica avviene quasi di necessità nel pensiero cristiano pure quando esso sia condizionato da precomprensioni spiritualistiche: per fare solo una citazione rapsodica, perfino nel momento in cui Origene, l'esponente di spicco di un'interpretazione alessandrina e gnosticheggiante del cristianesimo, commenta il Vangelo di Giovanni, la preminenza di un «vangelo eterno» che lascia alle spalle gli ainígmata delle parole e dei gesti storici di Gesù non impedisce che in tale significato noetico venga inclusa ogni «opera buona» compiuta a favore di Gesù, ivi comprese quelle del lettore stesso: come se insomma l'abbandono del somatico fosse, dopo ogni mediazione intellettuale, finalizzato ad una sua ripresa al livello dell'amore, cioè del corpo donato. Testo

  6. Il problema, assieme ad altri simili sulla resurrezione delle unghie e dei capelli, è affrontato in Super Sent., IV, d. 44, q. 1, a. 2, qc. 1, arg. 2 (ed è fedelmente trascritto da Reginaldo da Piperno nel Supplementum della Summa, q. 80, a. 1, arg. 2). Il principio generale della risposta consiste nell'affermare una resurrezione perfetta di un corpo che nella sua compagine è riflesso dell'anima. Tutto ciò quindi che è parte dell'integrità dell'individuo vivente deve risorgere. Ciò ovviamente crea di fronte all'evidenza del metabolismo non pochi problemi, che vengono in maniera diffusa discussi secondo i migliori paradigmi scientifici del tempo, ovviamente aristotelici. Testo