di Giovanni Salmeri (10 marzo 2005)
Che cosa significa riconoscere un valore sacramentale al matrimonio, e qual è il «di più» che con questa determinazione si aggiunge alla più comune e ovvia istituzione umana, nella quale l'universale ricerca dell'altro si intreccia con l'accoglienza ed educazione di nuovi componenti della comunità umana? La storia di questo problema è complessa, e nelle pagine che seguono intendiamo metterne in luce soltanto alcuni passi decisivi per quanto riguarda la tradizione occidentale, che si svolgono nel Medioevo nel rapido volgere di un paio di secoli. La prima tappa fondamentale può essere individuata dal monumentale trattato De sacramentis christianae fidei di Ugo di S. Vittore (1096-1141). Ben più di un trattato sui «sacramenti», esso è nelle sue intenzioni una completa presentazione della fede cristiana, in cui il «sacramento», inteso come «signum rei sacrae», costituisce la chiave di lettura di sapore platonico. Tutto ciò che è sensibile rimanda a qualcos'altro di spirituale e sovrasensibile, come se l'intera realtà, dalla creazione in poi, possedesse una profondità che ne costituisce la ragion d'essere. In tale atteggiamento intellettuale non gioca soltanto un generico platonismo, cordialmente condiviso da Ugo, ma anche una espansione della tradizione dell'interpretazione della Scrittura, che diventa sia il cifrario sia il modello di un'analoga lettura della realtà umana:
Quid sit sacramentum, doctores brevi descriptione designaverunt: «Sacramentum est sacrae rei signum.» Quemadmodum enim in homine duo sunt, corpus et anima, et in una Scriptura duo similiter, littera et sensus, sic et in omni sacramento aliud est quod visibiliter foris tractatur et cernitur, aliud est quod invisibiliter intus creditur et praecipitur. Quod foris est visibile et materiale, sacramentum est; quod intus est invisibile et spirituale, res sive virtus sacramenti est; semper tamen sacramentum quod foris tractatur et sanctificatur; signum est spiritualis gratiae, quae res sacramenti est et invisibiliter percipitur (lib. 1 p. 9 cap. 2).
Si osservi che la distinzione operata qui da Ugo nei confronti della Scrittura non riguarda un senso allegorico nei confronti di un senso letterale: ma più radicalmente un senso nei confronti di una lettera. In base a questo parallelo, non affermare la realtà significata da un sacramentum non significherebbe fermarsi ad un significato letterale, ma piuttosto non afferrarne affatto alcun significato, mancandolo cioè proprio nella sua qualità di segno e lasciandolo come una traccia enigmatica. Da questo punto di vista, proprio la trattazione del matrimonio offre uno degli casi più interessanti. È tipico della concezione di Ugo riconoscere al solo matrimonio una «sacramentalità» che deriva dalla sua prima istituzione al momento della creazione, una sacramentalità dunque che non è motivata dal peccato e non se pone come rimedio. Piuttosto, essa si esprime nel significato simbolico sia del patto di comunione tra l'uomo e la donna, sia della loro unione carnale:
Sacramentum coniugii solum ex omnibus sacramentis quae ad remedium hominis instituta sunt, ante peccatum hominis legitur institutum; non tamen propter peccatum, sed ad sacramentum solum et ad officium. Ad sacramentum propter eruditionem, et ad officium propter exercitationem. Erant enim duo haec in coniugio ipso: coniugium ipsum, et coniugii officium, et utrumque sacramentum erat. Coniugium constabat in consensu foederis socialis, officium coniugii constabat in copula carnis. Coniugium sacramentum fuit cuiusdam societatis spiritualis quae per dilectionem erat inter Deum et animam, in qua societate anima sponsa erat et sponsus Deus. Officium coniugii sacramentum fuit cuiusdam societatis quae futura erat per carnem assumptam inter Christum et Ecclesiam, in qua societate Christus sponsus futurus erat et sponsa Ecclesia (lib. 1 p. 8 cap. 13).
Nel matrimonio c'è dunque una sorta di duplice sacramentalità: c'è la sacramentalità del sacramento, che è il suo significare l'amore tra Dio e l'anima nella comunione amorosa tra uomo e donna; e c'è la sacramentalità dell'officium del sacramento, che è il suo prefigurare nell'unione carnale degli sposi l'incarnazione del Verbo, cioè la sua unione alla carne della natura umana, grazie alla quale la Chiesa è sposa del Verbo incarnato. L'origine di questa duplice interpretazione è facile da individuare: essa accoglie in sé la tradizione dell'interpretazione del Cantico dei Cantici, la cui lettura allegorica istituzionalizzata da Origene poneva, al di là del senso letterale, un duplice livello di lettura appunto in riferimento a Dio e l'anima e a Cristo e la Chiesa. Nell'assunzione di questa seconda lettura da parte di Ugo ovviamente gioca un ruolo determinante anche la rilettura del passo di Paolo in cui proprio il matrimonio viene definito sacramentum magnum (mystérion méga) «in riferimento» a Cristo e alla Chiesa (Eph. 5, 32). L'aspetto più originale di questa operazione sta nel fatto che questi due livelli di significato non vengono giustapposti, né articolati in una scala di approfondimento, ma piuttosto assegnati ai due momenti del matrimonio che erano stati già individuati come tipici di ogni sacramento in quanto tale. D'altra parte, in questo modo viene proposta in controluce anche una interpretazione della storia della salvezza in cui il farsi carne del Verbo è il compimento storico della donazione di Dio all'uomo.
Tutto ciò va inteso nel senso più forte possibile: Ugo non sta proponendo una interpretazione simbolica aggiuntiva dell'istituzione del matrimonio, ma piuttosto il motivo per cui un matrimonio è sacramento: esso lo è appunto perché esiste per significare, primo tra le realtà create, l'amore di Dio per l'uomo; e l'unione carnale è parte integrante del matrimonio (ne è officium, compito, dovere) esprimendone una seconda sacramentalità nei confronti dell'amore divino. Il fatto che ciò venga assegnato, direttamente o indirettamente, al carattere «didascalico» del matrimonio (ad erudiendum) non va quindi frainteso: platonicamente, l'esperienza sensibile offerta dal segno è l'unica possibilità esistente per risalire al significato: nessuna comprensione dell'amore assoluto, nessuna comprensione di un amore che giunga ad abbracciare e far propria la carne altrui, senza esperienza dell'amore umano.
Ovviamente Ugo, seguendo Agostino, non ignora che dopo il peccato il matrimonio svolge anche un ruolo di rimedio nei confronti della concupiscenza umana, parla anzi esplicitamente di una «seconda» istituzione:
Secunda institutio coniugium in foedere dilectionis sancivit, ut per eius bona id quod in carnis commistione infirmitatis erat et delicti, excusaretur. Officium autem coniugii in commistione carnis, concessit ut in eo praeter generis multiplicationem generantium infirmitas exciperetur (lib. 2, p. 11, cap. 3).
Ma tale seconda istituzione non significa l'aggiunta di un carattere sacramentale che prima mancherebbe. Ugo non si stanca in effetti di sottolineare, anche in questo contesto, come esso derivi tutto intero dal duplice riferimento simbolico prima esposto. L'unica differenza è che l'officium si trasforma in remedium, il che mette in luce il fatto che dopo il peccato l'unione carnale vada intesa in senso subordinato rispetto all'amore reciproco delle anime:
Officium vero coniugii sacramentum est illius societatis quae in carne est inter Christum et Ecclesiam. Scriptum est enim: «Erunt duo in carne una» (Gen. 2 [24]); sed si duo in carne una, iam non duo sed una caro. Hoc est sacramentum quod ait Apostolus «magnum» in Christo et Ecclesia (Eph. 5 [32]), ad quod sacramentum pertinere non potest mulier cum qua noscitur non fuisse carnale commercium. Potest tamen pertinere ad aliud sacramentum non magnum in Christo et Ecclesia, sed maius in Deo et anima. Quid enim? Si magnum est quod in carne, magnum non est: imo multo maius quod in spiritu est? «Caro, inquit, nihil prodest, spiritus est qui vivificat» (Ioan. 6 [63]). Si ergo magnum est quod in carne est, maius utique est quod in spiritu est. Si recte per Scripturam sanctam Deus sponsus dicitur, et anima rationalis sponsa vocatur, aliquid profecto inter Deum et animam est, cuius id quod in coniugio inter masculum et feminam constat, sacramentum et imago est. Et forte ut expressius dicatur ipsa societas et quae exterius in coniugio pacto foederis servatur sacramentum est, et ipsius sacramenti res est dilectio mutua animorum, quae ad invicem in societatis et foederis coniugalis vinculo custoditur. Et haec ipsa rursus dilectio, qua masculus et femina in sanctitate coniugii animis uniuntur, sacramentum est; et signum illius dilectionis qua Deus rationali animae intus per infusionem gratiae suae et spiritus sui participationem coniungitur (ibidem).
Escogitare un «sacramentum maius» da contrapporre al «sacramentum magnum» di cui parla Paolo è quanto meno artificioso, così come è esegeticamente improprio allegare a questo scopo la citazione di Giovanni relativa al ruolo vivificante dello Spirito. Tuttavia, queste forzature servono a Ugo non per diminuire la forza simbolica del matrimonio, ma al contrario per neutralizzare quell'aspetto della dottrina agostiniana che rischiava di appiattire il matrimonio dopo il peccato nella sua funzione di semplice argine ad una sensualità incontrollata. Anche dopo il peccato il matrimonio significa l'amore di Dio (anzi ne è proprio imago!), e lo significa appunto essendo «l'affetto con cui un uomo e una donna si uniscono nei loro animi». Questo è il carattere che il matrimonio ha avuto fin dall'inizio, fin da quando la prima donna è comparsa all'alba dei tempi, sancendo così in questa originaria alterità il carattere di eccellenza di questo sacramento, l'unico creato non per rimediare ma solo per avere un senso.
Il panorama muta radicalmente in Tommaso d'Aquino (1224-1274). Il confronto di questi con la teoria del matrimonio di Ugo di S. Vittore avviene indirettamente, attraverso la sintesi che di fatto ne aveva offerto Pietro Lombardo nel suo Libro delle Sentenze, con il quale ogni magister doveva confrontarsi. La prima radicale mutazione si avverte già nell'esordio della trattazione, che per Tommaso è costituito dal problema se il matrimonio sia «naturale». Dopo aver escluso quel senso di «naturalità» che implica un moto necessario, Tommaso riconosce un secondo senso, applicabile al matrimonio, che implica solo una «inclinazione» che deve essere portata a termine tramite il libero arbitrio. Questa inclinazione naturale si rivela anzitutto in riferimento al bene dei figli, che è individuato come il «fine principale» del matrimonio:
Et hoc modo etiam matrimonium est naturale, quia ratio naturalis ad ipsum inclinat dupliciter. Primo quantum ad principalem eius finem, qui est bonum prolis: non enim intendit natura solum generationem eius, sed traductionem, et promotionem usque ad perfectum statum hominis, inquantum homo est, qui est virtutis status. Unde, secundum Philosophum, tria a parentibus habemus: scilicet esse, nutrimentum, et disciplinam. Filius autem a parente educari et instrui non posset, nisi determinatos et certos parentes haberet: quod non esset, nisi esset aliqua obligatio viri ad mulierem determinatam, quae matrimonium facit (Super Sent., lib. 4, d. 26, q. 1, a. 1, co.).
In secondo luogo la naturalità si specifica in riferimento al carattere «politico» dell'uomo, una cui prima realizzazione è appunto costituita dall'unione mutuamente utile dell'uomo e della donna:
Secundo quantum ad secundarium finem matrimonii, qui est mutuum obsequium sibi a coniugibus in rebus domesticis impensum. Sicut enim naturalis ratio dictat ut homines simul cohabitent, quia unus homo non sufficit sibi in omnibus quae ad vitam pertinent, ratione cuius dicitur homo naturaliter politicus; ita etiam eorum quibus indigetur ad humanam vitam, quaedam opera sunt competentia viris, quaedam mulieribus; unde natura movet ut sit quaedam associatio viri ad mulierem, in qua est matrimonium. Et has duas causas ponit Philosophus in 8 Ethic. (ibidem).
Tale discussione è del resto introdotta (nel secondo sed contra) proprio dall'esplicito riferimento all'affermazione aristotelica secondo cui l'uomo è «animal coniugale» più ancora che «animal politicum». Il mutamento di prospettiva rispetto ad Ugo di S. Vittore è clamoroso. Se per questi l'originarietà del matrimonio si ricava dal testo della Genesi e dall'esultante grido dell'uomo «Questa volta lei è carne della mia carne», Tommaso la ottiene dall'opera di Aristotele, il filosofo per eccellenza. Lo stesso concetto di «natura», che pure compare in Ugo, viene implicitamente riformulato fino a significare ciò che è accessibile alla ragione umana indipendentemente dalla rivelazione, e che quindi può essere bene testimoniato dai filosofi vissuti prima di Cristo.
Il fatto che le due prospettive siano in buona parte ritraducibili l'una nell'altra (ciò che è accessibile alla pura ragione umana è proprio l'ordine della creazione) non elimina la profonda distanza culturale e di sensibilità: il discorso di Tommaso avviene in un'epoca in cui la traduzione latina delle opere di Aristotele ha violentemente posto il linguaggio cristiano di fronte alla sfida di una nuova cultura embrionalmente secolarizzata; un'epoca in cui l'istituzione universitaria, con la tensione tra facoltà delle Arti e facoltà di Teologia, costringe ad una maggiore precisione nelle distinzioni dei reciproci campi di competenza; un'epoca infine in cui il confronto sia pure a distanza con le tradizioni dei monoteismi non cristiani diventa parte integrante dell'agenda culturale. Tommaso accetta interamente questa triplice sfida, e inizia la sua trattazione del matrimonio con una prospettiva in cui l'originarietà del matrimonio è riconoscibile già negli elementari sentimenti di affetto verso la persona amata e verso i propri figli. Facendo ciò segue proprio quella preziosa articolazione del discorso dell'Etica Nicomachea di Aristotele in cui l'impianto intellettualistico di questi vacilla e viene quasi smentito per far posto alle esigenze della philía, quella cosa senza il cui accogliente calore nessuno potrebbe mai essere felice sia pure in presenza di ogni perfezione intellettuale e materiale. Il discorso cristiano non cancella né stravolge tutto questo, ma al contrario lo accoglie usando un linguaggio accessibile ad ogni uomo.
Ma a quale prezzo? Al prezzo altissimo di sacrificare l'universo simbolico che per Ugo di S. Vittore costituiva la ragion d'essere del matrimonio. Le considerazioni che in questi campeggiavano non trovano più alcuno spazio, come se il signum avesse perso la sua capacità, o non avesse più bisogno, di indicare qualcosa altro da sé. Ma significa allora questo che il matrimonio non è un sacramento? Certamente no, ma nella determinazione del contenuto di questa sacramentalità si assiste prevedibilmente ad una seconda mutazione, nella quale questa volta Tommaso è costretto a prendere esplicitamente distanza dalle sue fonti. Tale presa di distanza avviene in tre passi successivi.
Nel primo Tommaso afferma in linea generale il carattere sacramentale del matrimonio, giacché esso comporta «aliquod remedium sanctitatis homini contra peccatum, exhibitum per sensibilia signa» (lib. 4 d. 26 q. 2 a. 1 co.). Già in questa determinazione viene dato per ovvio che soltanto dopo il peccato si può parlare in senso proprio di sacramento, scardinando dunque come fallace la prospettiva di Ugo secondo cui l'eccellenza del matrimonio deriva dall'essere l'unico sacramento istituito non come remedium. Ma ancora più esplicitamente il confronto avviene sul terreno di quello che per Ugo costituiva proprio la ragione della sacramentalità, che ora Tommaso cita proprio come un argomento contro di essa:
Praeterea, omne sacramentum novae legis efficit quod figurat. Sed matrimonium non efficit coniunctionem Christi et Ecclesiae quam significat. Ergo matrimonium non est sacramentum (lib. 4 d. 26 q. 2 a. 1 arg. 4).
Il punto chiave di questa obiezione è costituito evidentemente dalla esigenza della efficacia: merita di essere chiamato sacramento solo un segno che fa ciò che significa. C'è quindi pur sempre un significato, ma esso è determinante solo nella linea dell'«efficienza». Ma evidentemente l'unione carnale degli sposi non provoca l'incarnazione di Cristo! Per rispondere a questa obiezione Tommaso è costretto a rettificare esplicitamente il «maestro» (Pietro Lombardo, e indirettamente Ugo):
Ad quartum dicendum, quod unio Christi ad Ecclesiam non est res contenta in isto sacramento, sed res significata non contenta; et talem rem nullum sacramentum efficit, sed habet aliam rem contentam et significatam, quam efficit, ut dicetur. Magister autem posuit rem non contentam: quia erat huius opinionis, quod non haberet rem aliquam contentam (lib. 4 d. 26 q. 2 a. 1 ad 4).
La presa di distanza dal sistema simbolico di Ugo non poteva essere più chiara. Non è il significare che costituisce un sacramento, ma il contenere efficacemente qualcosa (che sarà specificato come «grazia»). Certo, quasi rendendo l'onore delle armi ad una concezione ormai storicamente morente Tommaso aggiunge che tale «cosa» dev'essere contenuta e significata: ma quanto questo omaggio sia qui esile e simbolico si vedrà tra poco quando Tommaso solo per una via del tutto indiretta, come al buio, ricostruirà quale sia questo «contenuto», così come poco più che un omaggio ad una tradizione arcaica è il riconoscimento effettuato in altro contesto secondo cui in un certo senso, cioè appunto quanto al «significato non contenuto», il matrimonio è il sacramento più degno, «quia signat coniunctionem duarum naturarum in persona Christi» (lib. 4 d. 7 q. 1 a. 1 qc. 3 co.). È interessante poi notare che delle due determinazioni simboliche di Ugo (l'amore tra Dio e l'anima, l'unione del Verbo incarnato con la Chiesa) solo la seconda viene citata: quella cioè che poteva riallacciarsi all'affermazione paolina sul «sacramentum magnum» che Tommaso cita come argomento scritturistico a favore della sacramentalità del matrimonio; è assente l'altra, che aveva dalla sua solo la tradizione dell'interpretazione allegorica del Cantico (interpretazione allegorica che in linea generale Tommaso non desidera usare per le dimostrazione teologiche). Ma sarebbe stata possibile la stessa obiezione anche contro questo secondo (anzi, primo) valore simbolico? anch'esso è un semplice significato «non contenuto»? Lasciamo per ora in sospeso la domanda.
Il secondo passo di Tommaso consiste nell'introdurre una meticolosa distinzione relativa all'istituzione del matrimonio:
[1] Matrimonium, secundum quod ordinatur ad procreationem prolis, quae erat necessaria etiam peccato non existente, institutum fuit ante peccatum; [2] secundum autem quod remedium praebet contra vulnus peccati, institutum fuit post peccatum tempore legis naturae; [3] secundum autem determinationem personarum, institutionem habuit in lege Moysi; [4] sed secundum quod repraesentat mysterium coniunctionis Christi et Ecclesiae, institutionem habuit in nova lege; et secundum hoc est sacramentum novae legis. [5] Quantum autem ad alias utilitates quae ex matrimonio consequuntur, sicut est amicitia et mutuum obsequium sibi a coniugibus impensum, habet institutionem in lege civili (lib. 4 d. 26 q. 2 a. 2 co.).
Questa teoria di cinque diverse istituzioni ha l'evidente scopo di mettere ordine, tramite i necessari distinguo, in una situazione percepita come difficile e confusa. Mettendo da parte la terza e la quinta istituzione (rivelatrici della preoccupazione di Tommaso di tener conto dell'innegabile ripercussione politica del matrimonio), ciò che colpisce di più rispetto al discorso di Ugo è lo scorporamento del significato simbolico in rapporto a Cristo e alla Chiesa dal senso originario del matrimonio: per Ugo non esiste una «quarta» istituzione perché essa è già inclusa nella prima. Ma è proprio in questo modo che Tommaso retroattivamente giustifica il suo ricorso all'autorità del solo «filosofo» nel determinare la naturalità del sacramento: nella pura natura non ferita dal peccato non può esservi sacramento, perché questo è da intendere solo come «signum et remedium».
Il terzo e decisivo passo si realizza nel determinare quale sia la «cosa contenuta» grazie alla quale il matrimonio è sacramento della nuova legge. Tommaso dà già per acquisito che questa «cosa» sia la grazia, e affronta quindi la questione di quale sia questa grazia che viene conferita, non prima di aver confutato ancora una volta implicitamente Ugo, attribuendogli un po' anacronisticamente l'opinione secondo cui il matrimonio «non è assolutamente causa della grazia, ma soltanto un segno». Ecco l'argomentazione di Tommaso:
[1] Alii dixerunt, quod confertur ibi gratia in ordine ad recessum a malo: quia excusatur actus a peccato, qui sine matrimonio peccatum esset. Sed hoc esset nimis parum: quia hoc etiam in veteri lege habuit; et ideo dicunt, quod facit recedere a malo, inquantum mitigat concupiscentiam ne extra bona matrimonii feratur; non autem per gratiam illam sit aliquod auxilium ad bene operandum. Sed hoc non potest stare: quia eadem gratia est quae impedit peccatum, et quae ad bonum inclinat, sicut idem calor qui aufert frigus, et qui calefacit. [2] Unde alii dicunt quod matrimonium, inquantum in fide Christi contrahitur, habet ut conferat gratiam adiuvantem ad illa operanda quae in matrimonio requiruntur; et hoc probabilius est: quia ubicumque datur divinitus aliqua facultas, dantur etiam auxilia quibus homo convenienter uti possit facultate illa; sicut patet quod omnibus potentiis animae respondent aliqua membra corporis, quibus in actum exire possint. Unde, cum in matrimonio detur homini ex divina institutione facultas utendi sua uxore ad procreationem prolis, datur etiam gratia sine qua id convenienter facere non posset; sicut etiam de potestate ordinis supra dictum est, et sic ista gratia data est ut iam res contenta in hoc sacramento (lib. 4 d. 26 q. 2 a. 3 co.).
È interessante notare come questa determinazione della grazia conferita non solo venga compiuta in maniera del tutto indipendente dal ruolo «rappresentativo» dell'amore di Cristo per la Chiesa (che pure appena una pagina prima era stato attribuito come elemento tipico al matrimonio come sacramento della nuova legge), ma anche argomentando in maniera squisitamente «naturale»: è ragionevole che Dio dia l'aiuto necessario per compiere «convenienter» qualcosa di cui egli stesso ha dato facoltà. Sulla base di questa ragionevolezza si può arguire con probabilità quale sia la grazia che fa del matrimonio un sacramento.
Che la lieta novella sul matrimonio sia qui affidata ad un probabilius lascia molto perplessi. Ma dall'altra parte, l'intenzione profonda di questa strategia non consiste forse nel vedere il senso sacramentale del matrimonio proprio nell'invisibile e indimostrabile compagnia di Dio laddove la compagnia umana è radicata nei più elementari sentimenti, e contemporaneamente sperimenta quotidianamente difficoltà e fallimenti? e ancora: la strenua ricerca di una «res contenta», nella sua inquietante materialità, non è il modo per tener ferma la concretezza e libertà del dono di Dio, che va al di là di ogni capacità umana di decifrare l'opaca superficie di un'esperienza di comunione? In conclusione: è difficile passare dall'una all'altra prospettiva, quella di Ugo e quella di Tommaso, senza provare un senso di disagio nel percepire preoccupazioni parimenti nobili e giustificate ma che di fatto stentano a coesistere in un discorso unico, come se la realtà non riuscisse ad essere espressa se non sperimentando contemporaneamente l'ambiguità e insufficienza del proprio linguaggio.
Uno dei punti in cui il discorso condotto da Tommaso nel commento alle Sentenze di Pietro Lombardo mostra di più la sua difficoltà è proprio la deduzione della sacramentalità del matrimonio. Di fatto a ben guardare essa pende dal probabilius con cui viene determinata (quasi come un'incognita x) la grazia conferita, giacché la risposta precedentemente data, che come visto riguarda il carattere di «remedium» del matrimonio, viene di fatto poi ridimensionata da Tommaso, il quale fa capire che essa si applica tale e quale anche al matrimonio inteso nella sua seconda istituzione, dunque «sacramentum» sì, ma non della nuova legge:
Contra concupiscentiam potest praestari remedium dupliciter. Uno modo ex parte ipsius concupiscentiae, ut reprimatur in sua radice; et sic remedium praestat matrimonium per gratiam quae in eo datur. Alio modo ex parte actus eius; et hoc dupliciter. Uno modo ut actus ad quem inclinat concupiscentia, exterius turpitudine careat; et hoc fit per bona matrimonii, quae honestant carnalem concupiscentiam. Alio modo ut actus turpitudinem habens impediatur; quod fit ex ipsa natura actus: quia dum concupiscentiae satisfit in actu coniugali, ad alias corruptelas non ita incitat; propter quod dicit apostolus, 1Cor. 7,9: «melius est nubere quam uri» (lib. 4 d. 26 q. 2 a. 3 ad 4).
O, detto più impietosamente, la novità cristiana del matrimonio appare qui quasi una petitio principii, perché dipende proprio da quel conferimento della grazia postulata perché il matrimonio è un sacramento. La storia della negazione del carattere sacramentale del matrimonio dopo Tommaso seguirà proprio sub contrario questa strada, dimostrando come una teologia del matrimonio avesse ancora un grande campo di lavoro. Il domenicano Durando di S. Porziano († 1332) negherà semplicemente che nel matrimonio venga conferita positivamente una grazia e rifiuterà così al matrimonio un carattere sacramentale vero e proprio. Martin Lutero (1483-1546), citando l'antica tradizione simbolica che abbiamo visto testimoniata in Ugo di S. Vittore, affermerà: «Il matrimonio può pure essere una figura di Cristo e della Chiesa; ma comunque non è un sacramento istituito divinamente, ma l'invenzione di uomini di Chiesa che nasce da ignoranza sull'argomento» (De captivitate Babylonica). Con un linguaggio più moderato ma sostanzialmente concorde la Confessio Augustana redatta da Melantone (1497-1560) sosterrà: «Il matrimonio non è stato introdotto per la prima volta nel Nuovo Testamento, ma all'inizio, poco dopo la creazione del genere umano. Esso ha però il comando di Dio, ha anche delle promesse, che tuttavia non hanno propriamente nulla a che fare con il Nuovo Testamento, ma piuttosto con la vita fisica. Quindi, se lo si vuole denominare sacramento, lo si deve distinguere da quelli sopra citati [battesimo, cena del Signore, penitenza], che sono in senso proprio segni del Nuovo Testamento e testimonianze della grazia e del perdono dei peccati» (art. 13, n. 14). Giovanni Calvino (1509-1564) drasticamente concluderà: «Infine c'è il matrimonio, che tutti ammettono che sia stato istituito da Dio, ma nessuno prima di Gregorio considerò un sacramento. E chi ragionando lucidamente potrebbe considerarlo tale? L'ordinamento di Dio è buono e santo; così anche l'agricoltura, l'architettura, la fabbricazione delle scarpe e il taglio dei capelli sono legittimi ordinamenti di Dio, ma non sono sacramenti» (Istituzioni, IV, XIX, 34).
Fa molto pensare che in tali prospettive il punto di partenza è in fondo analogo a Tommaso, se non addirittura da lui desunto: al sacramento corrisponde l'efficacia della grazia divina, legata alla sovrana libertà della sua promessa, e non ci si può contentare nella sua definizione di un semplice significato simbolico. Ma trasportata in un contesto teologico diverso (e soprattutto combinata con l'occhio umanistico che nei Vangeli non vede nessun esplicito atto istitutivo da parte di Cristo) questa esigenza più rigorosa porta ad un risultato opposto e al penoso declassamento del matrimonio alla compagnia della fabbricazione delle scarpe e del taglio dei capelli. Appare così fin troppo chiaro il rischio implicito nel linguaggio di Tommaso.
Come in molte altre occasioni, qui l'intelligente sottigliezza di Giovanni Duns Scoto († 1308) è un'ottima testimone. Appena qualche decennio dopo Tommaso, e prima dunque che l'evoluzione storica avesse portato in primo piano i possibili effetti delle tensioni interne al suo linguaggio, egli sembra percepire tanto i guadagni irrinunciabili del predecessore domenicano, quanto la necessità di reintegrare la tradizione risalente ad Ugo di S. Vittore. Giovanni Duns Scoto segue nell'Ordinatio una via simile a Tommaso soprattutto quando riassume l'intera questione dell'istituzione naturale del matrimonio e anche della sua sacramentalità con una rapida sequenza di assunti (conclusiones) logicamente connessi e in parte mutuati proprio da Aristotele:
Ad solutionem quaestionum tractandarum de matrimonio, sunt hic quaedam necessaria praemittenda; et sit haec prima conclusio principalis: ad procreandam prolem debite educandam, marem et feminam vinculo indissolubili sibi mutuo copulari et obligari, honestum est; secunda conclusio est, marem et feminam potestatem suorum corporum sibi mutuo tradere pro usu perpetuo ad procreandam prolem debite educandam, honestum est; tertia conclusio, istam donationem mutuam a Deo institui et approbari, congruum est; quarta conclusio, isti contractui donationis mutuae aliquod sacramentum annecti, congruum est, et ita factum est; quinta, in matrimonio necessarium est plura distincta concurrere, et quae? (l. IV, d. 26, q. un., n. 4).
Alcuni slittamenti rispetto a Tommaso sono percepibili: nella tertia conclusio viene sancita l'opportunità della promulgazione divina in presenza di una legge naturale che non è «evidentissima» (per Giovanni Duns Scoto solo i comandamenti della prima tavola possono essere giudicati legge naturale in senso «strettissimo»); il vincolo matrimoniale è felicemente definito una «mutua donatio» (espressione mai ricorrente in Tommaso, per il quale nel matrimonio la «donatio» è solo la dote); ma l'impianto generale, la cui enunciazione viene meticolosamente argomentata (nn. 5-34), sancisce chiaramente il successo di una teoria del matrimonio che in qualche modo si fondi, con l'aiuto della ragione naturale, sull'esperienza elementare degli uomini. Simile è anche il modo in cui viene dedotta la «congruenza» dell'annessione di un sacramento al matrimonio naturale, dando ormai per acquisita la teoria che vede come essenziale del sacramento la collatio gratiae: il matrimonio prevede un'obbligazione contemporaneamente honesta e difficilis, bella e difficile, e appare dunque opportuno che Dio offra il suo aiuto per il compimento di essa (n. 32). Differente è invece la strada seguita sia nella affermazione di fatto dell'esistenza di un sacramento del matrimonio in senso stretto, sia nella determinazione del carattere della grazia che viene conferita. Riguardo al primo punto: dopo aver replicato l'osservazione tommasiana sulla non efficacia del matrimonio riguardo all'unione di Cristo con la Chiesa (n. 37), Giovanni Duns Scoto decide la questione così:
Sed quia communiter tenet Ecclesia sacramentum matrimonii esse septimum inter Ecclesiastica sacramenta, et de sacramentis Ecclesiae non est aliter sentiendum quam sentit Ecclesia Romana [...], ideo dici potest quod contractui matrimoniali annexit Deus sacramentum proprie dictum, saltem pro lege evangelica, alioquin non esset sacramentum novae legis; et tunc oportet dicere quod institutum fuit a Christo, sicut universaliter dictum est supra de sacramentis Ecclesiasticis (n. 38).
Quella che in Tommaso poteva apparire una petitio principii viene qui non solo dichiarata, ma esibita come una sorta di petitio fidei, o meglio ancora proprio in una petitio Ecclesiae. Il sacramento ha il suo luogo nella Chiesa, ed è solo lì dunque che la sua presenza può essere accertata. Non si tratta soltanto di un'eco, in un certo senso radicalizzata, del principio lex orandi lex credendi (in fondo il «sentire» della Chiesa a quell'epoca non era ancora dogmaticamente definito); ma, come in tanti altri casi, appare qui anche sullo sfondo quello che in Giovanni Duns Scoto è un principio epistemologico irrinunciabile, collegato a doppio filo alla sua interpretazione della teologia come «scienza del contingente»: nel momento in cui fosse possibile dimostrare un atto libero di Dio, esso sarebbe trasformato in qualcosa d'altro, in un rapporto cioè matematicamente necessitato. La grazia, possiamo interpretare, non può essere mai dimostrata, ma solo costatata e vissuta là dove si manifesta. E così il sacramento del matrimonio o lo si vede e vive dentro alla Chiesa, oppure il massimo che la ragione può fare è sperare che Dio ponga davvero quell'atto amoroso che si percepisce solo come «congruo». Il contenuto non è affatto inconciliabile con quello di Tommaso, ma la sensibilità è chiaramente diversa.
L'affermazione della sacramentalità conduce Giovanni Duns Scoto ad affrontare la questione che nel commento di Tommaso non si poneva neppure: quando Cristo ha istituito il sacramento del matrimonio? Ecco la risposta:
Ubi autem non invenitur planius quam Matth. 19 [4ss], et licet ibi tantum approbaverit contractum institutum (Gen. 2 [27]) et per consequens illud non instituit, instituit tamen sacramentum, quod potest accipi ex illo verbo quod addidit: «Quod Deus coniunxit, homo non separet», ut non intelligatur ibi «coniunxisse» pro «instituisse praecise contractum matrimonii», sed «coniunxisse ex tunc gratiose per institutionem sacramenti concomitantis illum contractum coniungentem» (n. 39).
Giovanni Duns Scoto accetta insomma in anticipo la sfida che verrà posta dallo sguardo filologico dei riformatori, e individua nella presa di posizione di Gesù riguardo al ripudio l'istituzione del matrimonio come sacramento. Questa sfida è sì risolta con una forzatura esegetica: interpretando il «congiungere» pronunciato da Cristo come la parola performativa che pone il sacramento; ma sarebbe da discutere quanto questa forzatura abbia il merito di proiettare sulla dimensione del linguaggio sacramentale ciò che nel testo suona come un semplice imperativo: come se l'ingiunzione di non separare abbia senso solo perché la grazia divina un attimo prima è venuta in soccorso alla realizzazione di quell'obbligo «bello e difficile» che il matrimonio implica. Ciò che però è esplicito è il riconoscimento della grazia non solo in una personale dotazione concessa agli sposi, ma in una qualità che si aggiunge alla loro unione. È la loro stessa unione che nel matrimonio sacramentale diventa «graziosa». L'idea viene approfondita poco dopo, quando Giovanni Duns Scoto riprende la domanda sull'«effetto» del matrimonio:
Sed quis effectus? Dico quod duae gratiae in animabus contrahentium, et hoc nisi sit obex peccati mortalis hinc et inde. Non enim sufficit ad gratiam percipiendam quod contrahens non sit fictus respectu sacramenti, sed oportet quod prius paenituerit, quia istud sacramentum non dat primam gratiam. Secundum effectus est unio animarum contrahentium; sed primus effectus totalis est unus, scilicet gratiosa coniunctio animarum (n. 45).
Seppure senza un'esplicita citazione (e forse anche senza una precisa consapevolezza) Giovanni Duns Scoto sembra sentire la necessità di recuperare l'universo simbolico che era vacillante: il matrimonio è davvero segno efficace dell'amore di Dio per l'anima umana, perché la grazia che in esso è conferita salda le due anime degli sposi in una congiunzione «graziosa» -- forse nessun'altra espressione di appena tre parole (gratiosa coniunctio animarum) sarebbe stata capace di esprimere la presenza amorosa di Dio nel matrimonio senza invischiarla nell'equivoco di un rapporto a tre, puntando invece su un concetto di «unio animarum» che curiosamente in Tommaso non si trova mai (se non, comprensibilmente, in un passo isolato in cui parla del matrimonio di Maria e Giuseppe!). Questo elemento caratterizzante del matrimonio cristiano è poi nell'Ordinatio ulteriormente rafforzato dalla teoria secondo cui la prole è sì il bene principale del matrimonio, ma estrinseco, mentre il suo bene «primo e intrinseco» è costituito dall'indissolubilità che rappresenta «l'indissolubilità della congiunzione di Cristo e della Chiesa» (l. 4 d. 31 q. un. nn. 13-15). E con questo ad Ugo di S. Vittore sembra resa tutta la giustizia che era possibile in una ormai mutata concezione del sacramentum.
Che cosa d'altra parte avrebbe ancora scritto Tommaso sul matrimonio se la sua mano non avesse abbandonato la stesura della Summa a metà della trattazione della penitenza, stanca di teologizzare? Come abbiamo già visto, egli dei due significati esposti da Ugo di S. Vittore riesce a confutare come collaterale solo il secondo, lasciando invece non discussa una efficacia riguardo all'unione tra Dio e l'anima. In più, quando riespone la teoria già presentata nel commento alle Sentenze secondo cui anche il matrimonio ha un suo primato rispetto agli altri sacramenti, sembra alludere a qualcosa di più grande rispetto alla sua primitiva teoria. Dopo aver stabilito che il primato in senso assoluto spetta all'eucarestia, sia perché contiene sostanzialmente Cristo, sia perché ad essa sono ordinati gli altri sacramenti, così determina il rapporto tra eucarestia e matrimonio:
Matrimonium autem saltem sua significatione attingit hoc sacramentum, inquantum significat coniunctionem Christi et Ecclesiae, cuius unitas per sacramentum eucharistiae figuratur, unde et apostolus dicit, Ephes. 5, «sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia» (S. Th. III, q. 65 a. 3 co.).
Pensava Tommaso a qualcosa di nuovo con questo «saltem», «almeno»? e questo «attingere», «raggiungere» l'eucarestia, avrebbe svolto un ruolo anche in un ripensamento del valore simbolico del matrimonio? Ovviamente non lo sapremo mai.
Quando Calvino parlava del taglio dei capelli come di un «ordinamento di Dio», «buono e santo», certo non scherzava, malgrado il tono volutamente paradossale. Ma sia lecito scegliere le sue parole come epigrafe di una possibilità di secolarizzazione dei sentimenti umani in cui questi possono essere scelti e mutati come un'acconciatura, senza che essi rimandino ad un ordine simbolico in grado di dar loro senso e consistenza. La complessa ricostruzione storica che abbiamo tentato, semplificando processi molto più sfaccettati, ha inteso però mostrare che tale possibilità non si fonda su qualche nefasto elemento estraneo, che basterebbe quindi individuare ed espellere, ma proprio sulle tensioni interne nascenti dal tentativo necessario e però rischioso di edificare il discorso cristiano sullo sfondo di una natura universalmente intesa.
Ciò vale ancor di più quando si osservasse con attenzione la vicenda che il concetto di natura ha attraversato dalla fine del Medioevo fino ai nostri giorni, continuamente messa in dubbio in sé e soprattutto nella sua capacità di orientare significativamente i comportamenti umani. Accenniamo rapidamente ad alcuni nomi più significativi. Guglielmo di Ockham († 1349) con la sua critica nominalistica appenderà ogni comandamento alla sola volontà divina, di fatta escludendo ogni possibilità di anticiparla razionalmente se non per quanto riguarda il solo principio di non contraddizione. Thomas Hobbes (1588-1679), in una serrata critica all'aristotelismo, osserverà che «essere» è solo un verbo copulativo, e una conoscenza delle «essenze» è quindi fallace in partenza; da parte loro, le tendenze naturali umane sono così variabili e contraddittorie che su di esse non può essere fondata alcuna morale che non si trasformi in una ratifica dei propri personali appetititi: l'unica via d'uscita è dunque che tutti si sottomettano ad una legge la quale per la prima volta, sia pure arbitrariamente, stabilisca che cosa è «bene» e che cosa è «male». David Hume (1711-1776) smaschererà la fallacia di un ragionamento che pretenda, confondendo la morale con la fisica, di dedurre da un'affermazione sulla realtà un criterio di comportamento, senza al contempo mettere in conto il determinante sentimento di approvazione e avversione. Infine, Ludwig Wittgenstein (1889-1951) affermerà che la pretesa di dire qualcosa sul valore in senso propriamente etico è destinata al fallimento, giacché si vorrebbe fare con il linguaggio qualcosa che esso non può, chiuso com'è nei limiti di un rispecchiamento dei fatti del mondo.
Anche in questo caso, sarebbe superficiale vedere solo un lamentevole processo di dissoluzione. La richiesta che positivamente qui viene avanzata è che, oltre alla realtà data, intesa nel suo senso più fattuale e opaco, vi sia un'istanza ulteriore che permetta di giudicarla e di orientarsi in essa: un'istanza che assume caratteri differentissimi a seconda degli autori (Dio, la respublica, il sentimento morale, il «mistico»), ma che appunto è accomunata da questo carattere di alterità. Il bene non si riduce insomma all'essere: ma in questa riformulazione già si nota che la storia della contestazione del concetto di natura segue volens nolens una direzione che era stata inaugurata già dal neoplatonismo, quando riflettendo sul carattere platonico del Bene «al di là dell'essenza» lo aveva interpretato come un piano trascendente e irriducibile alla fattualità esistente, dunque letteralmente non esistente. Esso però non è una chimera, perché è testimoniato proprio dalle tendenze più nobili dell'uomo, quelle del quale Wittgenstein dice: «non vorrei mai, a costo della vita, mettere in ridicolo», o che platonicamente si chiamano semplicemente amore del bene e del bello, eros.
Siamo così inaspettatamente ritornati al punto di partenza, con una scoperta e una conferma in più: se la natura in senso aristotelico «funziona» come punto di partenza per una riflessione sulla conformazione sociale dei sentimenti umani e degli affetti famigliari, è senza dubbio perché essa incorpora già, seppure in una forma sobria e descrittiva, proprio l'eredità dell'eros platonico come criterio di senso e implicito rimando simbolico ad un altro ordine. Non è per caso che anche per Aristotele l'intero universo è in ultima analisi mosso dall'amore verso Dio, né è privo di significato che, come abbiamo già notato, la sua trattazione della philía non riesce a mantenere una perfetta coerenza con l'orientamento intellettualistico della sua etica, presentandosi piuttosto come una sua totale riformulazione, in cui il concetto di felicità dipende da una comunione amichevole e amorosa che non è completamente retrotraducibile nei termini della personale perfezione. Ma tutto ciò, questa è appunto la conferma che abbiamo ricevuto, vuol dire che l'essenziale rimane sempre, sia esso esplicito o no, la presenza e la tutela di un ordine simbolico. Esso significa sempre, esso dà la possibilità di percepire come sensate non solo le strutture sociali in cui si solidificano le decisioni originate dagli affetti umani, ma perfino quelle esperienze in cui l'amore afferra gli esseri umani come una sorpresa. Al di là delle infinite e ricche sfumature delle diverse comprensioni elaborate nella storia della teologia (che alla teologia stessa spetta giudicare) questo è almeno un elemento su cui riflettere.
[In una versione leggermente diversa, questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in Anthropotes, anno 20 (2004), n. 1, pp. 23-41.]
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