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La razza umana, o come le donne possono essere state create a immagine e somiglianza di Dio? Dalla mitologia greca a Gregorio di Nissa (1/2)

di John M. Rist (15 febbraio 2011)

Viene qui pubblicata la prima parte della traduzione italiana di una delle più acute e complete ricognizioni della questione femminile nei primi secoli del cristianesimo. Testo originale: John M. Rist, What is Truth? From the Academy to the Vatican, Cambridge University Press, Cambridge 2008, Copyright © John M. Rist 2008, «The human race, or how could women be created in the image and likeness of God?», pp. 18-103; trad. italiana di Benedetta De Marchi e M. Benedetta Zorzi, con revisione dell'Autore. Il testo è qui pubblicato con licenza dell'editore (9 dicembre 2010) per fini di istruzione e ricerca. Questa pagina Internet può essere stampata solo per lo scopo di studio personale. Per la seconda parte, vedi La razza umana, o come le donne possono essere state create a immagine e somiglianza di Dio? Da Gregorio di Nissa ai giorni nostri.

Mulier non Codex
(Trimalcione, nel Satyricon di Petronio)

1. L'importanza del problema

Nonostante la sua gamma di figure femminili, l'Antico Testamento nel suo tradizionalismo predica una religione essenzialmente maschile. Questo vale ancor più che nel Corano, in cui alle donne può essere accordata una sorta di rispetto per la loro posizione, ma nella cui tradizione successiva (e nella pratica) esse valgono esattamente quanto la metà di un uomo; come è noto, un uomo può avere fino a quattro mogli contemporaneamente (a Maometto stesso è stato attribuito un numero indefinito di mogli, senza contare le concubine), mentre nessuna donna può avere contemporaneamente più di un uomo (che invece può essere condiviso), senza rischiare la condanna a morte in quanto adultera. Nonostante gli atteggiamenti chiari e straordinari in questo senso del suo fondatore, il Cristianesimo stesso ha avuto la possibilità di svilupparsi (umanamente parlando) quale religione essenzialmente maschile, e in periodi in cui veniva dato particolare peso all'Antico Testamento (oltre che ad alcuni passi ambigui di Paolo), sia nel Cattolicesimo che nel Protestantesimo -- per non parlare dell'Ortodossia -- c'è stata la tendenza a tornare convinzioni pregresse riguardo ai rapporti tra uomo, donna e Dio, tipici del Vicino Oriente.

Certe caratteristiche della filosofia greca (per non parlare della cultura Greco-Romana) hanno confermato in importanti aspetti tali convinzioni. Tale filosofia del resto ha dato tanto aiuto al Cristianesimo nel formulare e sviluppare i suoi dogmi. Questo è a tal punto vero che in qualsiasi studio sullo sviluppo della cultura cattolica risulta particolarmente interessante il fatto che il Cristianesimo cattolico non sia poi diventato una religione «maschile». Cercando una parziale spiegazione a questo fatto storicamente sorprendente, intendo riesaminare il lungo dibattito -- ancora incompleto -- svoltosi sia nel primo che nel tardo cristianesimo sollevato attorno alla questione del come, perché, e in che senso, l'uomo sia creato ad immagine e somiglianza di Dio, e se questo implichi che anche le donne lo siano parimenti.

Un'indagine storica e teologica circa la questione della creazione della donna ad immagine di Dio può aiutare a chiarire la natura umana e il senso della differenziazione sessuale in contesto cristiano: è il primario ed esplicito obiettivo del presente capitolo. Si considereranno anche le ramificazioni che si sono sviluppate a partire della questione della creazione di tutti gli esseri umani (in quanto homo) ad immagine di Dio. Queste saranno trattate più avanti nel Capitolo 6, dove, discutendo delle sfide intellettuali e delle provocazioni che la Chiesa è chiamata ad affrontare nella società moderna e post-moderna, sosterrò che la dottrina della creazione si sta mostrando di capitale importanza nel rispondere ad alcuni dei problemi fondamentali dell'etica e della politica contemporanea. In particolare, sta diventando sempre più chiaro che tale teoria ci fornisce la base teoretica per fondare i diritti umani e le pari opportunità per uomini e donne, opportunità che sono purtroppo pericolosamente carenti nel mondo secolare post-cristiano, soprattutto per le donne.

Secondo la Genesi «l'uomo» è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Almeno due grandi problemi si presentano in ogni interpretazione cristiana di queste parole: «Qual è il significato di "uomo"?» e, «qual è il significato di "immagine"?». Voglio prendere in considerazione alcune delle risposte a queste domande, in particolare alla prima, emerse nel periodo patristico e successivamente, così come intendo prendere in considerazione il perdurare delle confusioni in cui ci hanno lasciato le antiche risposte e le soluzioni intellettualmente mediocri che in tempi recenti ci sono state troppe volte offerte. Ho anche un'altra intenzione: investigare, in questa specifica tematica, la relazione tra idee derivanti dalla Bibbia e quelle influenzate anche dalla filosofia greca, in particolare dalla tradizione platonica, ma anche dallo Stoicismo.

Alla domanda filosofica «cos'è l'uomo?», il pensiero occidentale ha offerto in genere due tipi di risposte. La prima può essere definita una spiegazione morale; essa ha identificato l'uomo cioè con la sua personalità morale, con la sua capacità di prendere decisioni morali, o, più in generale, con la sua esistenza in uno «spazio morale». In linea di massima, questo approccio nei primi tempi del cristianesimo è costituito da una tradizione filosofica derivante da Socrate e Platone, e che tende ad identificare l'essere umano con la sua anima o con il «sé». Una seconda tradizione, complementare alla prima, è pure ben rappresentata nell'antichità, in particolare da Aristotele; si tratta di quella che può essere considerata una descrizione ontologica dell'uomo: cioè una spiegazione di ciò che metafisicamente rende un uomo «uomo», e non, per esempio, solo un'anima, o una mente, o un corpo.

Nonostante un filo rosso nella dottrina cristiana (derivata dall'Antico Testamento e significativamente rinforzata da Paolo) per cui gli esseri umani dovrebbero essere considerati «olisticamente», cioè al di là di un dualismo ontologico corpo-anima, questa seconda tradizione ha avuto un impatto limitato sul cristianesimo nell'antichità; e questo nonostante un forte, sebbene solo iniziale, interesse del cristianesimo nei confronti del vitalismo stoico. Tuttavia, solo nel Medio Evo cristiano l'aristotelismo emerse con forza e sosterrò che all'interno delle tradizioni «platonizzanti» della tarda antichità, in particolare in Agostino, si svilupparono tensioni che avrebbero potuto -- o addirittura dovuto -- spingere gli antichi cristiani ad dirigere le loro idee platoniche riguardo all'uomo in una direzione più generalmente aristotelica.

Pertanto, pur considerando il concetto patristico di immagine e somiglianza di Dio, e in particolare l'interpretazione in termini «morali» di tale tradizione, derivata genericamente dal platonismo -- cioè che l'uomo, come Dio, è una sorta di agente morale (libero, autorevole, ecc.) -- mi riferirò anche ai tentativi, certo incompleti, fatti dai cristiani dell'antichità di pensare non solo biblicamente, ma anche filosoficamente secondo una tradizione maggiormente ontologica e olistica. Mi muoverò poi verso una interpretazione particolare di questa tradizione che è costituita dal suo riemergere nella versione tomista. Qui mostrerò come l'approccio «platonizzante», adottato progressivamente fin dai tempi di Clemente di Alessandria (200 d. C.), a prima vista può mostrare carenze evidenti perché tende a «spersonalizzare» l'umanità in quanto immagine di Dio. Tuttavia tale approccio risulta capace, più nelle sue versioni patristiche che nella sua controparte «biblica», di mantenere il livello filosofico che mantenuto in ogni resoconto sulla natura umana che voglia dirsi esaustivo.

Così come si sono sviluppate, almeno nei tempi antichi, sia la versione più «platonizzante» che quella più generalmente «olistica» presentano le loro inadeguatezze, alcune delle quali dobbiamo ancora superare. Teorie delle due sostanze, che usano il linguaggio anima-corpo, sembrerebbero spiegare meglio delle loro rivali ontologicamente superiori alcuni importanti fenomeni (non da ultimo la similitudine a Dio) della natura umana. Questo non significa che esse non siano, in ultima analisi, fuorvianti o inadeguate o che non abbiano causato incidentalmente un gran danno, sia teoretico che sociale.

Frequentemente, non da ultimo in Agostino, ma in generale nell'antichità, il cristianesimo si è definito superiore nei confronti dei suoi nemici reali o percepiti. Tali nemici, inizialmente, erano rappresentati o da «semi-amici» come gli Ebrei e gli «eretici», o nel particolare contesto dell'ostile e apparentemente eterno Impero Romano, dai pagani. Questo Impero era ancora dominato dagli dèi pagani -- o demoni, come i cristiani li consideravano.1 In parole povere, questi «dèi» incoraggiavano due falsi amori: idolatria del sesso (o «Venere») e del potere (o «Giove»); entrambi si proponevano di dare le più alte soddisfazioni, laddove di solito il secondo poteva contribuire sostanzialmente a promuovere il primo. Sul piano sessuale, una delle posizioni cristiane più estremiste era proposta senza vergogna da Ambrogio: «Come può la sensualità richiamarci verso il Paradiso, quando lei da sola ci ha derubato dei suoi piaceri [del paradiso]?» (Lettera 63, 11-14). In una società ideale, come la sognavano molti cristiani, forse entrambi i desideri -- di potere e di attività sessuale -- sarebbero dovuti essere eliminati.

Ma se l'idolatria del sesso può e deve essere eliminata, che ne è della distinzione, creata da Dio, tra uomo e donna? Perché dunque Dio ha creato la differenza sessuale? E quanto è determinante questa differenza per l'intera umanità? Non è forse chiaro che la differenza sessuale -- o almeno la sola sessualità, come anche von Balthasar (per esempio) sembra ancora oggi spesso credere -- non fa parte della creazione originaria dell'uomo ad immagine di Dio?2 Gran parte del presente capitolo rifletterà sull'interpretazione o la reazione cristiana all'apparentemente «pericoloso» e sovversivo potere della sessualità umana, più in particolare delle donne. Negli ultimi capitoli tratterò dell'altro falso Dio, il dio del potere, definito da Agostino «amore del dominio». Grosso modo, come vedremo, l'amore per il sesso fine a se stesso è stato visto dai benpensanti del cristianesimo antico come un vizio «femminilizzante» anche per gli uomini eterosessuali;3 [invece] l'amore per il potere, perfino di onnipotenza, è ritenuto così ovviamente maschile da costituirsi come luogo di competizione con il patriarca supremo, cioè Dio stesso. Capire se tali categorizzazioni siano fondate e quale fase rappresentino nello sviluppo della cultura cristiana, sarà tra gli obiettivi della presente indagine.

Nell'antichità Cristiana, sin dal suo primo sviluppo, una delle maggiori questioni -- ancora irrisolta nel momento in cui l'Impero di Costantino e di Giustiniano avevano da tempo lasciato il palco -- è stata se le società «laiche», dominate dall'amore e dal culto del sesso e del potere, dovessero essere rimpiazzate da qualche forma di teocrazia o da un regno di «diritto divino». E se non questo, allora cosa? E se sì, come si sarebbero dovute gestire le relazioni tra i sessi nel regime desiderato? Chiaramente ciò dipenderà dalla risposta ad una preliminare domanda su chi sia «l'uomo» destinato ad essere (ad) l'immagine di Dio e quando «egli» sia così determinato. Le questioni circa la condizione della donna in rapporto a Dio non possono essere separate, né in teoria né storicamente, dai problemi riguardo lo stato sociale delle donne, sia in una teocrazia, sia in altre e più accattivanti, forme di società cristiana.

Secondo i Vangeli sinottici (Marco 12, 25; Matteo 22, 30; Luca 20, 36), in risposta alla domanda dei Sadducei riguardo la resurrezione, Gesù osservò che nel paradiso non ci si sposerà, né si darà in sposa (e in particolare una donna sposata più volte diverrà una «donna» di nessuno), dal momento che saremo come gli angeli. Anche se questi testi non dicono che le donne non saranno più donne, e benché siano stati spesso fraintesi, essi fanno parte del bagaglio culturale nel dibattito cristiano sulla miglior condizione umana; e nel quarto secolo la nozione di «vita angelica» fu una questione di rilievo, non da ultimo perché gli angeli (anche se formalmente maschili) non hanno una natura, né organi né attività sessuali. Infatti, la sessualità nella vita angelica -- per lo meno dal punto di vista strettamente genitale -- diventerà inutile per coloro che in ogni caso sopravviveranno alla morte e non avranno bisogno di progenie terrena che dia loro «immortalità». Ma altrettanto importante può essere l'idea più diffusa che esseri sessualmente «neutrali» possano essere considerati maschili, in quanto la «sessualità» si attiva solo nel momento in cui si introduce un secondo tipo di essere umano, e cioè quello femminile.4 In quanto «maschi/neutri» gli angeli sono perfetti nel loro genere, così lo sono gli esseri umani maschi/neutri, creati (o ricreati) ad immagine di Dio.

2. Dalla mitologia alla filosofia

Ogni studente di mitologia greca sa che, a quanto pare, tutte le donne sedotte o violentate da Zeus rimangono incinte5 e che eccetto in un caso i figli sono sempre maschi. L'eccezione è costituita da Elena, figlia di Zeus: non è un maschio, ma è semplicemente la donna più bella del mondo.6 La spiegazione di tali miti risiede nell'idea, comunemente accettata in Grecia sin dai tempi antichi -- come emerge con forza nelle Eumenidi di Eschilo (552ss.) -- che il concepimento viene spiegato in analogia alla semina di un campo. Sia il seme umano sia quello divino si svilupperanno in un essere umano (o un semi-dio), alla sola condizione che sia impiantato in un terreno fertile. Così la femmina (come la parola thelys [ndt femminile, delicato] può indicare) è considerata come una nutrice, sia prima che dopo la nascita.

Eppure anche prima della scoperta delle ovaie da parte di Erofilo, nel terzo secolo a. C., ad Alessandria, durante un breve periodo in cui fu permessa la dissezione di cadaveri, tale idea del concepimento non era universalmente accettata da medici e filosofi. Empedocle, Democrito, l'autore del presunto libro X della Storia degli animali di Aristotele, e successivamente Epicuro, così come una minoranza tra gli autori ippocratici che discussero di ginecologia, hanno sostenuto che sia il genitore maschio sia la femmina apportano «semi»- a volte aggiungendo la sfumatura che entrambi contribuiscono con entrambi i semi, maschile e femminile -- e che il sesso nel neonato è determinato dal seme che, in qualsiasi condizione, dimostra di essere il più forte. Una teoria simile fu adottata da Galeno e fu molto importante durante il cristianesimo. Ma la teoria dei «due semi» non implica che i «semi» siano di tipo diverso, come sarebbe previsto dalle moderne teorie sul concepimento. Il seme è lo stesso sia che venga dall'uomo che dalla donna, e la tipologia femminile è comunque inferiore a quella che deriva dall'organismo maschile «canonico».7 Per quanto riguarda Aristotele, la sua prospettiva più «matura», che io considero come un sofisticato e metafisicamente motivato sviluppo di una credenza popolare (e come vedremo platonica) circa il ruolo dominante del maschio, è quella secondo la quale è il seme maschile a fornire la forma al feto, mentre il mestruo fornirebbe la materia. La forma, ovviamente, è dominante rispetto alla materia.8

Spostiamoci dagli amori di Zeus al racconto di Pandora fatta da Esiodo. Il tipico assunto della mentalità greca era che gli uomini (almeno i «veri uomini» in quanto distinti da quelli nati naturalmente e dagli adulti omosessuali passivi) sono i veri esseri umani completi: cioè sono inequivocabilmente membri di una classe universalmente riconosciuta. Nelle prime società greche, sia nel mito che nella filosofia, circolava l'idea che le donne fossero differenti: non semplicemente maschi difettosi ma qualcosa di ancora «altro». Torniamo a Pandora. Due versioni della sua storia sono narrate dal poeta Esiodo nell'VIII secolo (Le opera e i giorni 57- 105; Teogonia 512-589), sebbene il suo nome non appaia nella Teogonia.

Dopo che gli dèi hanno creato i maschi, Zeus, arrabbiato con Prometeo e con l'aiuto di Atena, Afrodite e Ermes, crea Pandora, la prima donna. Come gli uomini, anche lei è fatta di argilla e le viene data la vita, ma è differente in maniera significativa dai maschi, anche perché Ermes l'ha dotata di «sfacciataggine» e inganno -- ed è lei che apre il vaso riempito dagli dèi con mali e malattie. Presumibilmente (sebbene qualcuno pensi il contrario) il vaso simboleggia la sua femminilità, rappresentando la vagina e l'utero.9 Quando gli uomini la «conoscono» (lei o le sue discendenti), apprendono ciò che è altro da loro e a loro inferiore, così che quei mali e quelle malattie contenute nel vaso vengono liberati e riversati su di essi.10 La femminilità di Pandora introduce in tal modo, sia per le donne che per gli uomini, i problemi dell'attività sessuale. Nel mito non c'è il «problema» della sessualità maschile in quanto tale -- essa è un elemento neutrale dell'essere umano -- ma esso emerge solo con la sua attivazione da parte del nuovo essere femminile. Come andremo a vedere, c'è qui un'anticipazione di gran parte della teoria antica: la sessualità femminile ha lo scopo di essere semplicemente usata, rischiando di essere non-sacra e idolatra, e tende a generare caratteristiche «delicate» ed «effeminate» negli uomini; al contrario la sessualità maschile è di per se stessa propriamente asessuale (se e quando inattiva) e potenzialmente sacra.

Lasciamo i caldi giorni della Beozia di Esiodo e torniamo ad Aristotele. Qui troviamo il problema di Pandora in chiave metafisica. Come spesso accade nella sua etica e nella psicologia, Aristotele è pronto a fornire una versione razionale delle credenze comunemente condivise. Nella Metafisica (1058A29ss.)11 e in Sulla generazione degli animali (1, 730B35) allude al concetto popolare, diffuso anche tra alcuni filosofi,12 che uomini e donne non apparterrebbero alla stessa specie. Un precedente di questa idea è ciò che abbiamo letto nel racconto di Pandora in Esiodo -- così anche in ciò che altrove lo stesso poeta dice riguardo la «razza» delle donne (Teogonia 591).

Anche se Aristotele liquida più o meno sbrigativamente la teoria delle «due razze», considera invece più seriamente l'alternativa che uomini e donne siano tipi umani radicalmente differenti. In effetti, sebbene ci si potrebbe aspettare che egli affermi una distinzione tra uomini e donne solo in riferimento alle loro principali differenti funzioni riproduttive, egli sostiene una variante ancora ben più radicale. Dal momento che vi sono due modalità di condizione umana, egli ritiene che questi non possano essere «ugualmente» esseri umani; infatti questo implicherebbe l'esistenza di due esseri umani perfetti, o due perfette categorie di esseri umani: il perfetto femminile e il perfetto maschile. Ma per Aristotele, secondo la sua cultura tradizionale e quella di molti altri, ci può essere un solo tipo di essere umano perfetto, il perfetto maschile, come normalmente ammesso dai mitografi. E ai racconti mitologici Aristotele va ad aggiungere della scienza: il pneuma delle donne (una sostanza semi-ormonale che in qualche maniera mette in relazione forma e materia, quasi come un quinto elemento) è più freddo di quello di un uomo.

In che senso Aristotele, seguendo le tradizioni popolari, ritiene che tale «scienza» sia confermata da fatti empiricamente osservati? Prima di tutto, come ho osservato nel caso di Zeus -- l'esempio perfetto -- i maschi da soli possono produrre semi che, con una più o meno appropriata assistenza ricevuta all'interno del corpo delle donne, si svilupperanno in nuovi membri della razza umana, dotati di tutte le caratteristiche umane. Per Aristotele questa superiorità fisiologica del maschio è spiegata in termini di pneuma. Il sangue, pneumatizzato o bollito, è il prodotto raffinato dei processi di nutrizione umani, e gli uomini, essendo più caldi delle donne, pneumatizzano il loro sangue a un più alto grado di perfezione; quindi, in questo senso molto specifico, le donne sono inferiori e come dei maschi incompleti (Sulla generazione degli animali 737A28). Ancora più in particolare, uno dei prodotti più avanzati della «pneumatizzazione» è il seme maschile; le perdite mestruali e il latte sono prodotti inferiori, in quanto meno cotti nelle donne. Al momento del concepimento, il seme, che consiste in pneuma più acqua, determina o concuoce il sangue mestruale, un po'come il succo di mela o di fico fermenta il latte. Esso è attivo sulla passività femminile: una tesi che sarà presto estesa oltre la sfera biologica e riproduttiva.

Cosa dire dunque a riguardo della superiorità mentale, morale o spirituale dell'uomo? È essa connessa con la sua superiorità fisiologica? Aristotele non vuole sostenere -- rifiutando così almeno in parte la saggezza tradizionale -- che le donne non abbiano intelletto (nous), la più alta qualità degli esseri umani. Se difettassero in questo, non sarebbero affatto esseri umani, al massimo sarebbero al pari di coloro che sono schiavi naturali.13 Ma nella Politica Aristotele afferma che, sebbene le donne siano in possesso di una certa capacità intellettuale, la loro debolezza fisica le rende adatte ad esercitare virtù esclusivamente in casa. Più interessante, tuttavia, è l'ulteriore affermazione che, nel rispetto delle loro specifiche capacità deliberative, le donne sarebbero generalmente akouroi [prive di autorità] (1, 1260A13): cioè non che siano meno intelligenti, ma le loro deliberazioni tendono ad essere inefficaci. Sono meno capaci di far valere ciò che ritengono giusto, al di là delle loro emozioni; sono meno «controllate», quindi più idonee alla casa che all'assemblea, più adatte ad essere governate che a governare (1254B). Questo non vuol dire che siano acratiche [carenti di autocontrollo] nel senso tecnico sviluppato da Aristotele nella sua Etica. L'acratico è un peccatore che conosce il meglio ma pratica il peggio; egli potrebbe, in un certo senso, fare meglio e quindi è riprovevole. Le donne invece sono deboli in modo congenito, quindi non sono da biasimare, ma vanno guidate e sostenute.

È stato ampiamente riconosciuto che le due carenze femminili di fatto, il potere generativo e la debolezza mentale di condurre le decisioni ad azioni effettive, hanno un comune aspetto «metafisico». Certamente sono entrambe collegate da Aristotele all'indefinitezza, alla mancanza di forma e quindi di perfezione e completezza della natura femminile a livello fisico, ma per lui le differenze materiali riflettono differenze di forma o di anima. E l'indeterminatezza è anche indice di passività -»naturale» nelle donne che sono passive in quanto donne (Sulla generazione degli animali 729A28),14 ma «effeminato», e quindi da disprezzare, negli omosessuali passivi che svolgono un ruolo «inferiore», senza la giustificazione di essere donne.15 Tra i greci era normalmente considerato un segno di subordinazione il semplice sperimentare qualcosa tramite un altro, anche nel caso di ricevere regali o atti di gentilezza.

Riflettendo sulla «degradazione» del «patire» o del «fare esperienza» e sul concetto greco della superiorità dell'agire e quindi addirittura dell'infliggere, dovremmo riconoscere che è particolarmente degna di nota l'affermazione di Socrate nel Gorgia, per cui è meglio soffrire un'ingiustizia che compierla. Non importa cosa Socrate disse di essere pronto a soffrire, nessuno nell'antichità lo ha mai definito effeminato -- come al contrario fecero con Alcibiade, che, giustapposto a Socrate nel Simposio di Platone, qualche volta viene rappresentato nelle cronache medievali come una mulier pulchra [bella donna]; Socrate, nonostante la sua «passività», appare come un vero uomo.

Per concludere questa indagine preliminare sui greci, e rilevando che le implicazioni sociali della teoria dei due semi nella influente versione di Galeno,16 potrebbero essere molto simili alla versione di Aristotele, darò uno sguardo ad altri due fenomeni culturali apparentemente non correlati: il mondo dell'arte «alta» e le speculazioni numerologiche di diverse generazione di pitagorici. Entrambi sostengono la teoria per cui la perfezione umana (e quindi divina) è originariamente «maschile», anche se gradualmente e non senza esitazione, vennero aperte nuove alternative.

Se diamo uno sguardo alla storia della scultura greca nel V e IV secolo a. C., scopriamo un ampliamento del soggetto ideale (e quindi divino), dal nudo maschile, al nudo femminile, al nudo ermafrodita. Nelle forme minori dell'arte «alta» del nel VI e V secolo -- ad esempio nella pittura vascolare -- si ritrovano donne nude, che rappresentano forme di comune erotismo o semplicemente simboli di fertilità, ma nello stesso periodo i nudi in scultura sono quasi esclusivamente maschili.17 Abbiamo la stessa situazione nella pittura: il nudo dell'Elena di Zeusi costituì una novità, e in ogni caso, come abbiamo visto, Elena è speciale. In questo periodo della Grecia antica le donne rispettabili, e specialmente le divinità, sono vestite; nel trono di Ludovisi (c. 400) -- io lo ritengo originale -- anche se una delle figure secondarie è nuda, la divinità centrale è ancora coperta, sebbene solo con un velo trasparente sopra l'ombelico.

Senza dubbio ci furono tante motivazioni per queste convenzioni, ma dobbiamo menzionarne almeno due. Prima di tutto, il più importante per la nostra attuale indagine, è che l'anatomia maschile è la versione umana perfetta, e quindi più adatta ad essere idealizzata. In secondo luogo, a parte le rappresentazioni di erotismo popolare terra-terra e di famose scene mitologiche che troviamo nella pittura vascolare (come il rapimento di Cassandra), i nudi femminili -- come implicherebbe la descrizione di Pandora fatta da Esiodo -- sono socialmente e religiosamente pericolosi. Quando Prassitele (nel IV secolo) scolpì la sua Afrodite -- la prima grande statua di nudo di una dea, presentata come un immagine ideale -- fu rifiutata dalla gente di Cos in quanto troppo pericolosa e presa al posto loro dalla popolazione di Cnido. La sua amante e modella Frine -- l'incarnazione della perfezione femminile -- doveva essere una rappresentazione della dea ai tempi del suo splendore: la sua figura dorata e (probabilmente) nuda venne eretta a Delfi tra le rappresentazioni di un re spartano e uno macedone.18 Ma Frine fu un'occasione persa: nonostante la sua indiscussa bellezza, creò solo una piccola scalfittura nella convinzione che, in qualche modo, la forma maschile è quella superiore. Questo non fu l'effetto di un'argomentazione -- poiché tale argomentazione non c'era ancora -- ma di un assunto. Presumibilmente si è in qualche modo «convenuto» che la bellezza di Afrodite non poteva competere con la bellezza di Zeus. Ritorneremo, se non a Frine, almeno alle sue discendenti.

Per dire che la mascolinità non è l'unica forma di perfezione umana non basta dire che ci sono solo due forme perfette, il maschio e la femmina. La perfezione necessita l'assenza totale dell'identità sessuale -- un'opzione solo teoricamente disponibile allo scultore greco -- oppure potrebbe essere bisessuale.19 Di qui il rapido sviluppo dell'ideale bisessuale in epoca ellenistica. Non c'è bisogno di respingere in toto la vecchia «puritana» convinzione che nell'arte l'ermafrodita rappresenti un inclinazione corrotta; a volte lo fu senza dubbio. Ma si possono fare considerazioni a livello più teorico per spiegare questo fenomeno ristretto e probabilmente esse sono importanti almeno quanto qualsiasi altra ragione spudoratamente lasciva.

Anche qui, comunque, le vecchie priorità non sono completamente cambiate. Lo stesso Ermafrodito è fondamentalmente maschio; il figlio di Ermes e Afrodite.La sua bisessualità è sbilanciata verso una mascolinità (effeminata): si tratta di un maschio femminile più che di una donna mascolina, perché resta il pene quale simbolo di un'umanità completa con la sua capacità di procreatività attiva e le idee ad essa associate di dominio e superiorità deliberativa.

Asessualità o bisessualità: la scelta, abbastanza stranamente, si è presentata anche presso i Pitagorici. La prima testimonianza, specialmente quella di Aristotele (Metafisica 1. 985B22ss.), suggerisce che il Pitagorismo fu in origine un dualismo con la sua famosa colonna degli opposti, di beni e mali. Unità, limite e mascolinità si trovano tra i beni, molteplicità, indeterminatezza e femminilità si trovano tra i mali. Il maschio è quindi superiore alla femmina -- per ragioni che ora dovrebbero essere chiare. L'unità e la determinazione maschile prevalgono sulla pluralità e l'indeterminazione femminile.

In tali questioni, come altrove, Platone fu influenzato dal Pitagorismo, ma l'influsso andò anche nell'altra direzione. Nella tarda metafisica di Platone l'Uno e la Diade sono entrambi principi primi, ma l'Uno è superiore, e dal I secolo a. C. «neopitagorici» come Eudoro di Alessandria,20 sviluppando tale superiorità, ritennero la Diade stessa derivata dall'Uno, convertendo in tal modo il dualismo in un monismo. Che cosa comporta questo per i principi di maschile e femminile? Per rispondere a questa domanda dobbiamo guardare alla storia del numero uno. Originariamente era solo un numero; sarebbe il primo numero dispari, e quindi da considerarsi maschile, mentre il primo numero pari, il due, sarebbe femminile. Due sarebbe «derivato» dall'uno, ma entrambi andrebbero considerati numeri. Ma poi, per i Pitagorici, l'uno divenne non solo un numero ma la fonte del numero; del dispari e del pari. Se tale è la fonte del dispari e del pari, esso potrebbe non essere né maschio né femmina, ma non fu questa la conclusione che si trasse, o almeno non immediatamente. Si cominciò, invece, a parlare di bisessuale, maschio-femmina, arsenothelys, Ermafrodito o di Afrodite barbuta o il maschio-e-femmina Zeus; anche questo concetto -- come si può intuire -- non era sconosciuto nella tarda antichità. L'opzione della non-sessualità è difficile da concepire per il numerologo, non solo per lo scultore, e nelle unità maschile-femminile, come avviene negli ermafroditi, viene quindi mantenuta la predominanza maschile.

Ritornando da tali ampie considerazioni culturali ad una più serrata argomentazione filosofica dobbiamo tenere presente che nella cultura greco-romana si rispecchiano tutte le varie forme semi-mitologiche che abbiamo considerato, nelle quali, anche laddove la dicotomia maschio-femmina sembra sul punto di essere superata, il dominio maschile persiste, e quindi anche la relativa sussidiarietà femminile.

3. Platone e la perfetta anima (maschile)

Platone afferma in quattro occasioni che lo scopo della vita umana è ottenere la somiglianza con Dio,21 ma è il Teeteto (176AB) il dialogo più frequentemente citato dagli autori cristiani (così come dai pagani) a questo proposito: non di meno, forse, perché in questo testo Platone non solo ci spinge a cercare la somiglianza con Dio per quanto possibile, ma anche perché egli parla del «passaggio» da questo mondo al mondo degli dèi, cioè il mondo immateriale (e non fisico) delle Forme. Possiamo supporre che tale passaggio non implicherà solo un certo grado di ascesi in fatto di cibo, bevanda e sesso, specialmente se mangiare, bere e sesso comportano una ricerca del piacere fine a se stesso; piuttosto una lieta accettazione del piacere come un effetto collaterale: quindi possiamo godere di un bere moderato e ma non dobbiamo farlo per il fatto che ci piace bere. Ciò comporterà anche un certo ritiro dagli aspetti che della vita pubblica corrompono di più, almeno nella misura in cui la vita pubblica è considerata come una mera lotta per il potere.

Al di là di una tale attività transeunte, troviamo verità e forza morale nel mondo delle Forme riconosciute da una mente educata dall'eros, l'amore filosofico per la saggezza. In tale «passaggio» il nostro desiderio e il nostro amore sarà diretto in primo luogo alla ricerca e alla contemplazione di quelle realtà morali e spirituali in virtù delle quali, secondo il Fedro (249C5-6), gli dèi sono divini. Riconoscendole, anche noi diventeremo simili a Dio, anzi divini, e ritornando alla nostra vita quotidiana ci comporteremo come dio e come partecipi delle azioni provvidenziali degli stessi dèi. Conoscendo il bene, saremmo obbligati (e desiderosi) a fare il bene.22

In questa visione platonica riconosciamo una supposta affermazione metafisica riguardo a ciò che Platone chiama «anima», vale a dire un essere eterno o una sostanza immateriale condannata nella sua presente esistenza a stare in un corpo. (Platone non è mai chiaro riguardo alla ragione di questo, o forse non è particolarmente intenzionato a ragionarci sopra). A livello metafisico, siamo anime immortali temporaneamente esistenti «all'interno di» una struttura materiale, e in questo siamo come la nave nella bottiglia. A livello morale, però, l'immagine della barca e della bottiglia è inadeguata perché la barca risulta essere responsabile della bottiglia, è in grado di fare della bottiglia quello che vuole se prova a sufficienza. Socrate, come descritto nel Fedone, decide di non fuggire a Tebe quando le leggi gli dicono di rimanere imprigionato ad Atene: egli agisce quindi non tanto come una barca nella bottiglia quanto come un animo tormentato, come quel capitano di una barca in pericolo con cui è paragonato il filosofo ideale nella Repubblica (6, 488AB). Così nella nostra situazione presente, quando siamo invitati a cercare la somiglianza con Dio, siamo chiamati a vivere per quanto possibile la vita che speriamo di godere alla fine, come anime senza corpo -- a condizione di non abbandonare la responsabilità morale verso la società nel quale viviamo fintanto che siamo «con, e nel, corpo».

Con tutto questo in mente, rimane un certo numero di questioni da affrontare prima di lasciare Platone e occuparci dei suoi diretti o indiretti eredi cristiani. La prima è se tutti gli esseri umani sono in grado di raggiungere la somiglianza con Dio e con quale dio. Sicuramente per un uomo non si tratterà di una somiglianza con una dea! La seconda è il ruolo del piacere in quello stato «felice» per il quale siamo naturalmente -- ed eroticamente -- fatti. In altre parole, che relazione c'è, per Platone, tra l'amore per la bellezza e l'amore per il piacere che la bellezza ci dà?

Anche a questo la risposta è chiara: è la bellezza, non il piacere, che ci ispira; il piacere nella bellezza è un effetto secondario da gustare (fa parte della nostra motivazione erotica), ma non dovrebbe essere perseguito come fine a se stesso. D'altra parte, cercare la bellezza pur respingendo il piacere, come sembrano aver interpretato alcuni eredi di Platone, sarebbe come cercare la quadratura del cerchio.

Sembrerebbe che Platone, specialmente nel Fedro, abbia creduto che tutti gli uomini siano in grado di raggiungere una certa somiglianza con Dio, ma non tutti allo stesso livello. Nel suo linguaggio mitologico, alcuni sono capaci di «unirsi al coro» di Zeus, mentre altri raggiungeranno solo un livello divino inferiore. Ma tra le divinità minori sembra che vi siano differenze di qualità e di statura morale. Colui che è capace di raggiungere la somiglianza con Ares, sarebbe sicuramente di minore levatura di colui che è capace di ottenere la somiglianza con Apollo. E cosa dire nel caso di somiglianza con una dea?

Nel Fedro, la riflessione su tali temi ruota attorno ai destini finali e alle possibilità dei maschi, dal momento che il contesto del dibattito è il successo o il fallimento degli amanti di sesso maschile, nella ricerca comune della verità e della bellezza. Allora cosa pensa Platone circa le prospettive finali dell'altra metà del cielo? Un'indicazione della sua posizione l'abbiamo nello stesso Fedro, in cui egli parla secondo la tradizione popolare dell'eiaculazione maschile come di «semina di bambini» (251A1): un'ulteriore prova della concezione dominante che la femmina è balia prima e dopo la nascita. E nel Timeo ci sono testi nei quali, parlando il linguaggio dei Pitagorici o quella delle strade di Atene, ci dice che dopo la creazione dei maschi, quelli che hanno vissuto male si reincarneranno come donne (Timeo 90E, cfr. 42AB e Politico 271-274): un segnale che le donne sono ancora considerate inferiori agli uomini, o viceversa che gli uomini sono una versione superiore di umanità (e quindi più idealizzabile).

Come abbiamo visto in tutta la letteratura classica, c'è anche in Platone un uso diffuso del termine «maschio» per dire più virtuoso e «femmina» a significare inadeguatezza intellettuale e morale. La mascolinità è superiore alla femminilità e in un passaggio del Politico (271-274) egli stabilisce specificatamente che le donne sono volute per il bene della riproduzione, mentre i maschi apparentemente a fini intellettuali e/o spirituali -- un punto destinato ad essere reiterato sotto varie forme in molti testi cristiani.

Ma questo non esaurisce il pensiero platonico. Nella Repubblica ci sono guardiani di sesso femminile, e anche se Platone sembra supporre che le loro conquiste più alte saranno comunque inferiori a quelle degli uomini migliori, non c'è dubbio che abbiano capacità filosofiche e di governo. Tale idea, comune a molti all'interno della cerchia di Socrate23 (affascinato, come sembra, dall'esempio della capacità politica di Aspasia di Mileto, l'amante di Pericle e voce principale nel dialogo platonico Menesseno), è stata tradotta in una realtà storica nell'Accademia, nella quale ci furono almeno due membri donne durante la vita di Platone. I loro nomi (Assiotea (= Diotima) e Lastenia di Mantinea, DL 3, 46; 4. 2) possono ritrovarsi dietro la figura di Diotima di Mantinea, personaggio fittizio di Platone e principale portavoce dell'eros filosofico nel Simposio. Infatti Diotima -- forse Socrate sotto mentite spoglie24 -- è l'esponente non solo dei misteri dell'ascesa erotica al mondo delle Forme, ma anche della prima introduzione dettagliata in quel mondo, o almeno all'elemento che viene forse riconosciuto per primo: la Forma ispiratrice della Bellezza che per ispirare deve essere essa stessa perfettamente bella.

Una chiave per tali apparenti contraddizioni nell'idea platonica circa le potenzialità femminili in confronto a quelle dei maschi, può essere trovata ipotizzando quanto segue: pur avendo Platone una visione tradizionale del maschio, in quanto prototipo umano perfetto, egli suppone che, se le donne fossero capaci di mettere da parte le debolezze e le indeterminazioni, in qualche modo loro al loro ruolo ricettivo (e/o sottomesso) nella procreazione, potrebbero arrivare alle potenzialità intellettuali e morali al pari degli uomini.

Così Platone riterrebbe che la differenza sessuale sia un aspetto puramente fisico della condizione umana e che l'anima immortale di per sé -- e per entrambe i corpi, maschi e femmine -- è maschile, o perlomeno non femminile. Questo spiegherebbe in parte perché nel Menone Socrate sostiene, contro il tradizionalista ottuso dal quale prende nome il dialogo, che la virtù (come l'anima stessa) è identica per uomini e donne. Aristotele, come abbiamo visto, è un neo-tradizionalista sostenendo che le differenze fondamentali del corpo devono andare di pari passo con le differenze dell'anima e di conseguenza delle virtù.

La posizione di Platone comporta apparentemente che la femminilità morale e spirituale sia qualcosa da sviluppare: una dichiarazione rappresentata mitologicamente dal passaggio del Timeo, a cui ho accennato, dove si dice che gli uomini meno meritevoli si reincarneranno in donne; mentre presumibilmente donne superiori si reincarneranno in uomini. Anche qui teorie sbagliate riguardo al concepimento potrebbero aver contribuito a tali tesi: Platone -- come abbiamo visto dalla sua descrizione dell'eiaculazione come «semina di bambini» (Fedro 251A1) -- sembra aver aderito alla tesi secondo cui la donna fornisce il campo fertile nel processo del concepimento -- lo spazio appropriato (chora [campo, spazio]) -- nel quale il seme, una sorta di homunculus, può essere seminato e crescere. Similmente, secondo la biologia cosmica del Timeo, il Demiurgo introduce le immagini delle Forme in un grembo, o matrice, cosmica (ekmageion): il principio maschile insemina così attivamente il campo femminile,25 e costruisce l'universo -- assieme al tempo, come riconobbe ragionevolmente Aristotele -- in una modalità che nei secoli cristiani divenne nota come creazione «de deo»; cioè una sorta di sostanza proveniente direttamente da Dio stesso, operante in qualcosa come un vuoto cosmico.

Quindi come interpretare le tesi di Platone, secondo le quali il nostro obiettivo è cercare la somiglianza con Dio per quanto possibile? Cosa diventeremo in questo stato perfetto? Certamente non avremo corpi; saremo semplicemente anime, o al massimo esseri intellettuali, e in quanto tali saremo tutti maschi, come il Demiurgo generatore dell'universo. La femminilità è un fenomeno fisicamente necessario per la produzione di bambini (e quindi per un surrogato di immortalità), ma non rilevante per un'esistenza eterna. Questa tesi aiuterebbe a spiegare perché gli omosessuali nei dialoghi Platonici, come Pausania nel Simposio, disprezzano gli amanti delle donne in quanto si accontentano di vivere a un livello, in ultima analisi, subumano e quindi in parte femminile. E ciò chiarirebbe una apparente anomalia nel discorso di Fedro nello stesso dialogo in cui si dichiara Alcesti, una donna, essere un eroe, anche se non quanto Achille (179B). Come un guardiano platonico, e ispirata dal suo amore per un uomo, Alcesti risulta capace già in questa vita di agire come un uomo. Come anima ella è capace di vivere secondo la sua giusta mascolinità e come capitano della sua nave. Indubbiamente è Diotima (che si riferisce anche ad Alcesti) ad indicare che la mera procreazione è un mezzo di basso livello per garantire il bene dell'immortalità (Simposio 208E).

Alla luce di tutto questo possiamo riconoscere una ragione generale e non solamente culturale, per cui il Simposio e il Fedro di Platone richiedono un contesto omosessuale. L'anima è maschile e il corpo maschile -- almeno nei circoli di tradizione popolare -- è considerato più bello di quello femminile. Quindi un amore «più alto», diretto al bene come alla bellezza, sarà in primo luogo diretto dai maschi verso corpi maschili. Così ciò che sembrano essere giustificazioni egoiste, anche ciniche, di pederastia da parte dei primi oratori nel Simposio, dovrebbero essere considerate in una maniera più sfumata. Fedro, il primo oratore, usa l'ordinario linguaggio dell'amante di una bellezza (maschile), sebbene egli dichiari che tale amore sia vantaggioso per entrambe le parti, ma Pausania, che gli succede, introduce la distinzione cruciale tra Afrodite «volgare» e «celeste». Afrodite volgare (con Eros volgare) riguarda esclusivamente il corpo, ma Afrodite celeste (che nella tesi di Pausania esiste solo tra uomini (181CD) riguarda soprattutto il benessere dell'anima e la virtù.

Una volta che la distinzione tra anima e corpo è stata introdotta, Platone può sviluppare ulteriormente le sue implicazioni, fino alla fine; nel discorso di Diotima può dire che l'amante che veramente riconosce la bellezza dell'anima trascurerà completamente la bellezza fisica. Ma in questo caso, e se è l'anima (maschile nelle donne così come negli uomini) ad essere più bella, possiamo capire perché alla fine (nel Fedro e più ampiamente nelle Leggi) Platone concluda che gli atti omosessuali non sono il vero e proprio culmine di un desiderio erotico per la bellezza, ma una semplice distrazione per il filosofo erotico -- e non avendo altra utilità sociale devono essere proibiti.26 Tra l'amore per il Bene in se stesso e l'amore meramente fisico per il corpo viene l'amore per l'anima giustamente maschile e presente sia in uomini che donne.

La teoria di Platone, riguardo alla natura di uomini e donne, dipende dalla sua posizione -- respinta da Aristotele -- circa la relazione tra anima e corpo. Riconoscendo ciò, possiamo capire perché, quale necessario corollario di tale rifiuto, Aristotele debba respingere la conseguente asserzione platonica secondo la quale la virtù delle donne è uguale a quella degli uomini. Quindi, la definizione di Aristotele, più volte revisionata, dell'unione metafisica tra anima e corpo, di entrambi uomini e donne, lo porta ad ipotizzare una maggiore inferiorità delle donne rispetto ciò che Platone riteneva giustificata dall'evidenza. Per Aristotele sono semplicemente maschi difettosi: difettosi in quanto tali e non solamente in quanto possessori di corpi umani deboli e inferiori.

4. Interpretando la Genesi

È il momento di spostarsi da Atene a Gerusalemme. Sebbene questo non sia il luogo per speculare in dettaglio sulle intenzioni dei due «scrittori» dei racconti della creazione dell'uomo nell'Antico Testamento, le seguenti osservazioni sono destinate a creare le premesse per le interpretazioni riguardo questi due racconti da parte di autori cristiani. Basti quindi dire che nel tardo racconto nel libro della Genesi Capitolo 1 -- la cosiddetta versione sacerdotale -- lo scrittore prima descrive «l'uomo» creato a immagine (che può riferirsi al suo essere ombra della grandezza materiale di Dio) e somiglianza di Dio (forse in certi tratti del suo ruolo, o come rappresentante dell'autorità divina) e poi continua con il versetto esplicativo: «Maschio e femmina li creò».

L'intento dell'autore è difficile da comprendere.27 Poteva semplicemente intendere il fatto che gli esseri umani, maschi e femmine, siano stati creati assieme -- creati pure uguali -- a immagine di Dio; questa interpretazione sarebbe supportata dal passaggio della Genesi 5, 1-2, dove Adamo (»il genere umano») è chiaramente identificato al plurale. O poteva suggerire che la mascolinità insieme alla femminilità fornisce un migliore quadro composito della natura e del potere di Dio. O forse ci potrebbe essere un rimando ad una credenza più antica e a lungo scartata in una divinità bisessuale (»Creiamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza»; qualche rabbino pensò che il primo «uomo» fosse androgino)?28 Oppure questa distinzione maschio-femmina è irrilevante nella questione dell'immagine di Dio, e fu Adamo -- come «uomo» (con tutte le sue ambiguità) -- l'immagine perfetta e originale?

Quest'ultima lettura apre il testo all'interpretazione quasi inevitabilmente scorretta secondo la quale Dio diede luogo alla creazione in due fasi temporali, o almeno in due fasi metafisiche: prima «l'umanità», successivamente gli individui dei due sessi, un maschio e una femmina. In questo caso non possiamo evitare di interrogarci sul significato di «umanità»: una soluzione sarebbe il riferimento ad una condizione di sessualità inattiva anche se non necessariamente asessuata (vale a dire, come maschio), un altra soluzione sarebbe invocare la l'Idea Uomo. Il concetto che «l'umanità» sia originariamente maschile, creata a immagine di un Dio «maschio», è un'opzione che suona abbastanza greca, sebbene anche strettamente semitica. La versione dei Settanta della Genesi, comunque, traduce «umanità» con anthropos [genere umano], sebbene anche questa non sia una prova definitiva che la femminilità vada inclusa, come sembra aver pensato l'autore in Genesi 5, 1-2.

Nel secondo, ma più antico, racconto della Genesi, il capitolo due della versione definita Yahwista, descrive la creazione, prima di un uomo, poi della donna Eva, tratta dall'uomo. Qui non si fa menzione dell'immagine di Dio; l'uomo sembra essere storicamente precedente e la donna è creata da lui. Questo testo potrebbe -- forse non intenzionalmente -- suggerire una subordinazione originale, prelapsaria, della donna all'uomo, come hanno fatto un certo numero di esegeti cristiani -- e se viene miscelata con la versione sacerdotale è facile leggerla come la conferma che solo il maschio (o almeno il non-femmina) Adamo è a immagine di Dio. Certamente la donna descritta dall'autore della versione yahwista è subordinate nella storia dopo la Caduta, una tesi congeniale all'autore di 1 Timoteo 2: 13-15; lei è più una serva di Adamo che la sua compagna -- non da ultimo per il fatto che è alla sua mercè sessuale e quindi assoggettabile a infinite gravidanze.

5. Filone l'ebreo e Paolo di Tarso

Il cristianesimo è nato in ambiente ebraico, ma tale ambiente fu circondato e permeato da idee greche. Molte di queste idee sono diventate parte della comune atmosfera intellettuale del mondo greco-romano, incluso il mondo dei traduttori dei Settanta, in modo che quando esse compaiono in un testo cristiano non è facile distinguere una precisa fonte non cristiana. Esse possono essere citate dai cristiani con poca o nessuna nozione della loro fonte primaria. Ciò che peggiora il problema è che la grande maggioranza dei testi filosofici e storici ellenistici risultano oramai perduti o sopravvivono solo in frammenti e, a volte, per quanto ne sappiamo, sono fraintesi o citati fuori dal contesto al punto da risultare come prove del tutto inaffidabili per indicarci intenzioni e linguaggio dei loro autori originali. Tuttavia facciamo bene a considerare gli scritti di Filone giudeo di Alessandria, sia perché essi sono sopravvissuti in gran quantità, sia perché possiamo essere certi che, sebbene poco considerati successivamente dagli ebrei, furono ampiamente letti dagli autori cristiani, specialmente da quelli che, come Origene, volevano commentare l'Antico Testamento.29 Ma esaminando Filone dobbiamo ricordare che le idee «filoniane» possono sia indicare idee familiari con lo scritto stesso di Filone, sia idee che hanno una più generale familiarità con il tipo di giudaismo ellenistico che Filone rappresentava, ma che fu in gran parte in declino dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d. C. -- anche se nella nativa Alessandria di Filone forse lo era meno.

Filone è stato molto influenzato sia dagli Stoici che da Platone, in particolar modo dal Timeo di Platone. Le sue fonti, sia per il Platonismo che per lo Stoicismo, sono sia dirette che indirette; tra i tramiti vanno inclusi Antioco di Ascalona e, in particolar modo, il suo collega Eudoro di Alessandria. Questi credeva che l'anima fosse sepolta nel corpo come in una tomba, e probabilmente citò il Gorgia di Platone (soma-sema 493A),30 a riprova dell'affermazione che il fine della vita filosofica è la soppressione delle passioni (apatheia),31 e che ci sono due tipi di anime umane, delle quali la superiore, quella che sopravvive alla morte, è razionale e «maschile».32

Per Filone la femminilità denota il mondo dei sensi, la mascolinità il mondo dell'intelletto e quindi di Dio,33 sebbene ci siano tracce del concetto, sviluppato poi da Origene, che in relazione a Dio le anime dei devoti sono analoghe a quelle della miglior categoria di donne, cioè le vergini.34 Comunque, è l'intelletto ad essere creato a immagine di Dio. Nella nostra vita presente individuale l'anima intellettuale maschile ha bisogno della anima sensibile femminile per attivarsi nel corpo, così come Adamo ebbe bisogno di Eva come campo per la procreazione: una tesi con ovvie analogie a quella di Pausania nel Simposio di Platone.

Filone propose una versione platonizzante della storia della genesi della creazione dell'universo in cui Dio (apparentemente asessuale, ma al quale la mascolinità è pertinente più della femminilità) dapprima fece le Forme (Sulla Creazione 16), inclusa l'Idea Uomo (probabilmente pure questa asessuata) a sua immagine e somiglianza, e successivamente Adamo ed Eva, gli individui di sesso maschile e femminile, come due tipi diversi all'interno del genere umano (anthropos, Sulla creazione 76).35 Di questi solo Adamo -- o meglio l'anima di Adamo (e quindi le anime dei suoi discendenti maschi) -- si avvicina in sé all'immagine di Dio. Prima della venuta della donna, che (come Pandora) liberò i desideri carnali, egli era senza peccato (Sulla creazione 58, 151).36

Come ho suggerito, i redattori finali della Genesi possono aver creduto che il maschio Adamo fu creato in toto a immagine di Dio, così come Dio stesso è considerato maschio e materiale.37 Filone propone una spiegazione molto differente, dipendente da un concetto platonico dell'uomo come composto di due sostanze separate: anima e corpo.38 Il vero «uomo» è l'anima maschile. Per quanto riguarda le donne, queste saranno normalmente -- e non platonicamente -- condannate a rimanere femmine. E inoltre, a differenza di Platone, Filone spiega perché le femmine devono essere inferiori ai maschi: la femminilità, essendo strettamente sensuale, è distinta dalla natura immateriale di Dio e inadatta a ragionare efficacemente o ad avere autorità.

Pur ammettendo l'esistenza di anime femminili -- forse un eco di aristotelismo o stoicismo -- Filone lega la femminilità più radicalmente al corpo. Egli è comunque pronto ad ammettere, e in questo è un precursore di gran parte del pensiero pre-monastico e «monastico» cristiano, che se una femmina abbandona del tutto l'attività sessuale -- un decorso insolito e non platonico -- può diventare una sorta di uomo.39 «Il progresso è certamente nient'altro che la rinuncia del genere femminile che muta nel maschile, dato che il genere femminile è materiale, passivo, corporeo, e sensibile ai sensi, mentre il genere maschile è attivo, razionale, incorporeo e più affine alla mente e al pensiero» (Quest. Ex. 1, 8). Certamente, in modo più chiaramente aristotelico, Filone conclude che la femmina è semplicemente un maschio imperfetto (1, 7).

A «maschio», comunque, uno può apparentemente sostituire «vergine»: in quanto sessualmente inattivo. «Quando le anime si mettono al servizio di Dio, da donne diventano vergini, rinunciando alle corruzioni femminili dei sensi e delle passioni...» (Quest. Ex. 2, 3). E ancora: «Quando Dio inizia a relazionarsi con l'anima, egli rende di nuovo vergine ciò che era donna, perché toglie le passioni ignobili e non virili che rendono effeminati. (ethelyneto)... (Cher. 50).40 Si noti ancora la differenza dal Platone della Repubblica dove i guardiani, sia maschi che femmine, non devono rinunciare all'attività sessuale, ma solo regolarizzarla. La loro attività eterosessuale non ha necessariamente un collegamento con il loro successo o fallimento nel diventare «come Dio».41

Se guardiamo a certe apparenti somiglianze tra Filone e il suo contemporaneo Paolo di Tarso, ci rendiamo conto che la soluzione di Filone alla «questione femminile» -- due tipi di anime nei loro rispettivi corpi maschili e femminili -- non è in questione per coloro che rifiutano l'affermazione metafisica per cui c'è differenza di sostanza tra anima e corpo. Nel fare questa divisione Filone preferisce la tradizione platonica, non solo a quella della maggior parte dei suoi contemporanei ebrei meno ellenizzati (che potevano risultare più vicini allo spirito degli autori originali della Genesi) ma anche alla descrizione materialista (benché meno radicale) -- o meglio, vitalista -- della relazione tra anima e corpo che si poteva trovare tra gli Stoici. Anche se gli Stoici erano abbastanza «greci» da fare una distinzione (anche se materiale) tra anima e corpo -- e in questo «materialismo» furono seguiti da Tertulliano e da altri cristiani che speravano in tal modo di promuovere l'intelligibilità della resurrezione del corpo -- l'opzione di un'anima asessuale (o per lo più maschile) sostanzialmente separata e distinta non era filosoficamente pensabile per le donne.

Che Filone sia allo stesso tempo ebreo e ellenista diventa più chiaro se lo compariamo a Paolo della 1 Corinzi 11, 7. I dibattiti di Paolo sull'immagine di Dio sono spesso connessi con l'idea che Cristo (come secondo Adamo) è la perfetta immagine (2 Corinzi 3, 18-4, 6; Colossesi 1, 15: «immagine del Dio invisibile»). In 1 Corinzi 11, 7 -- un passaggio sempre interpretato, forse a ragione, dalla maggior parte degli autori patristici (eccetto che dal tardo Agostino) come implicazione o affermazione che i maschi ma non le femmine sono creati ad immagine di Dio --42 egli (all'ebraica) si rifiuta di avvalersi della distinzione greca tra anima e corpo -- una distinzione anzi generalmente estranea al suo pensiero, incentrato com'è sulla resurrezione dell'uomo con tutto il corpo. Per questo egli non esprime la nostra ambiguità morale in termini di distinzione anima-corpo ma nel -- probabilmente convenzionale43 -- linguaggio di «carne» e «spirito», oppure dell'uomo interiore ed esteriore.44 Un esempio di linguaggio di questo tipo lo ritroviamo solo nella Repubblica di Platone.45 Può trattarsi di un incidente di trasmissione dei testi e non v'è ragione di credere che Paolo abbia letto la Repubblica, o che questa sua tesi «dell'uomo interiore» sia identica a quella di Platone, se non per gli interpreti di Platone.46

Come è stato osservato in più occasioni, una volta che la dicotomia carne-spirito si diffuse nei circoli cristiani, si fu tentati -- e non sempre si è resistito -- ad interpretare «carne» con riferimento, almeno in primo luogo, alla sessualità, e «spirito» ad una fuga dall'universo sessuale, e quindi effeminato, verso il mondo di un Dio non femminile. In sintesi, la tesi probabilmente «ebraica» di Paolo secondo la quale le donne non sono (almeno direttamente) create a immagine di Dio -- anche se escatologicamente non c'è maschio e femmina in Cristo -- presenta analogie con la posizione di Filone. Su questo punto il non ellenico Paolo non intende usare una distinzione ontologicamente radicale tra sostanza immateriale dell'anima e la sostanza materiale del corpo per sostenere una posizione per la quale nulla di femminile possa essere creato a immagine di Dio. Se mai abbia fatto uso di una tale distinzione, comunque, sarebbe stato portato sia a sostenere la tesi platonica (e più tardi ampiamente agostiniana) che solo in termini fisici le donne sarebbero radicalmente inferiori, sia -- mantenendo l'affermazione che la donna è creata inferiore -- a sostenere qualcosa di simile all'idea filoniana dell'anima femminile inferiore che abita l'inferiore corpo femminile. Se è così, egli sarebbe stato spinto a difendersi «filosoficamente». In seguito, tra i cristiani -- una volta introdotta la dicotomia anima-corpo intesa più o meno platonicamente -- entrambe le posizioni avrebbero trovato i loro sostenitori.

6. Carnale e spirituale, corporeo e non-corporeo

Come evidenziò Origene per primo nel III secolo d. C.,47 la parola «incorporeo» (asomatos) non appare nel Nuovo Testamento, anche se già prima di Origene era stata largamente adottata nel Cristianesimo come risultato dell'influsso del pensiero greco. Nel Nuovo Testamento Dio è riconosciuto come «spirito», ed egli deve essere adorato «in spirito e in verità». Spesso in un essere umano «spirito» viene messo in contrasto con «carne»; il contrasto è tra la volontà di agire secondo lo spirito divino interiore, che è la caratteristica dell'»uomo interiore» paolino, e un desiderio, che è «carnale» o «secondo la carne» (sarx), ad agire contrariamente alla volontà di Dio nella nostra condizione attuale e decaduta: quindi «lo spirito è pronto ma la carne è debole». Una corretta comprensione di «carne», tuttavia, si rende più difficile in quanto il termine è talvolta usato semplicemente per indicare la condizione umana creata distinta da Dio, dal momento che «la Parola divenne carne»: cioè, divenne uomo. In ciò che segue ignorerò questa seconda e più ampia interpretazione di «carne» e mi concentrerò su «carne» in opposizione a spirito, in un senso morale o spirituale più ristretto, non-ontologico.

L'antitesi «morale» di «spirito-carne» lascia irrisolto se lo «spirito» sia materiale o immateriale, corporeo o incorporeo. Certo, si potrebbe supporre che quando furono introdotte le categorie «corporeo» e «incorporeo» nel cristianesimo (in gran parte come risultato dell'influsso del Platonismo fin dal tempo di Giustino nel II secolo), sarebbe stato saggio sostenere sia che lo «spirito», che è Dio, va al al di là della distinzione corporeo-incorporeo sia che tale distinzione non sarebbe correlata alla natura di Dio in quanto spirito. Ciò, tuttavia, non accadde; sin da quando i cristiani ricorsero alla dicotomia platonica (corporeo-incorporeo) per evitare l'interpretazione stoica dell'essenza divina al modo di uno «spirito» nel senso panteista, hanno cominciato ad assimilare all'idea di incorporeo e immateriale anche il concetto di spirito «invisibile» (come troviamo nel Nuovo Testamento). Essi arrivarono così a supporre -- anche se Tertulliano andò in controtendenza -- che parlare di immaterialità e incorporeità di Dio fosse la maniera migliore per proteggere la sua trascendenza. Ma se lo spirito è incorporeo, è facile anche cambiare il significato di «carne»; così «carne» tende ad essere identificata con la corporeità, che è, per noi, il corpo -- con risultati disastrosi per una tradizione ascetica e un radicale malinteso dell'uso paolino di «carne» che invece voleva ad indicare non tanto il corpo, quanto l'uomo interiore decaduto: l'io che lotta contro Dio e il bene.

Così per il bene o il male, la distinzione del Nuovo Testamento tra il nostro io spirituale e il nostro io decaduto tese a risolversi in una distinzione tra un'anima capace di vivere in un mondo immateriale e un corpo che vive in un mondo di oggetti sensibili. Non è difficile riconoscere il probabile effetto di questo sulla concezione della differenza tra maschi e femmine per coloro che credono -- e per coloro che non credono -- che in senso stretto sarebbe l'anima il vero sé. Ho cercato di distinguere approssimativamente i due gruppi in ellenizzanti (o Platonici) e giudaizzanti. Ovviamente entrambe le tendenze parleranno degli esseri umani come di una sorta di composto di anima e corpo, ma il primo gruppo sosterrà che tutti noi siamo (e siamo sempre stati) anime in realtà maschili destinate a vivere in un mondo immateriale, mentre il secondo gruppo tenderà a supporre (come hanno fatto molti cristiani del II secolo) che, poiché le nostre anime sono materiali, così come i nostri corpi, (anche se la «materia» in questione è di un tipo superiore e più luminoso, «spirituale»), allora le differenze sessuali, essendo certamente corporee, fanno parte più plausibilmente dell'intera persona, dell'intero composto corporeo anima-corpo. Quindi, se la femminilità è inferiore, allora la sua intera persona è inferiore.

Come ulteriore effetto del passaggio dal dualismo spirito-carne (originariamente inteso) ad anima-corpo, una terza, forse superiore, possibilità che tenderà a scomparire del tutto è quella secondo la quale tutti noi abbiamo una parte «spirituale» che non ha nulla a che fare con le differenze sessuali dei nostri corpi o con le eventuali differenze sessuali delle nostre anime, ma che dovrebbero pervadere sia il corpo che l'anima: il soggetto umano completo, maschio o femmina. In ogni caso, tutte queste differenti possibilità si riflettono sulle antiche spiegazioni circa chi è creato a immagine di Dio così come sui successivi tentativi di migliorarle.

7. Diventare maschio: le versioni platonizzanti e non platonizzanti

Sulla scia di Efesini 4, 13 i testi cristiani, sia ortodossi sia quelli che sarebbero stati giudicati come «eretici», svilupparono rapidamente il concetto secondo il quale diventare perfetto significa diventare maschio (andra).48 Dal momento che diventare perfetto è acquisire la somiglianza con Dio, e questo in termini cristiani significa imitare Cristo, diventare maschio arriva (in qualche modo) ad essere considerato come parte del cammino verso la somiglianza con Dio. La mia preoccupazione immediata è comprendere come tali idee su come raggiungere la somiglianza con Dio abbia influenzato le prime risposte cristiane alla domanda se, o in che modo, le donne erano considerate create a immagine di Dio. La risposta a tali domande variò con il variare delle teorie riguardo alla natura delle donne. Il fatto che esse fossero create capaci di essere intellettualmente maschi in corpi femminili -- la posizione platonica -- ha generato una risposta che sarebbe risultata inconcepibile per coloro che invece avevano rifiutato la separazione tra anima e corpo, sostenendo che tutte le donne -- almeno in quanto create -- sono interamente ed esclusivamente femminili. In quest'ultimo caso forse solo i maschi sono creati a immagine di Dio, mentre può essere possibile o no per le donne diventare maschi «nel loro insieme», come risulto della loro scelta di vita. In termini cristiani, ciò potrebbe significare che esse devono vivere in maniera tale che il loro corpo risorto (e non meramente e platonicamente la loro anima) sarà maschio. Comunque sia, molte teorie dell'antichità si allontanarono dalla tesi teologica secondo la quale sia i maschi sia le femmine sono ugualmente creati a immagine di Dio.49

Nonostante il moderno consenso, tuttavia, il nostro intento è seguire lo sviluppo -- più o meno legittimamente raggiunto -- di una comprensione cristiana (ma discutibilmente non-paolina) dei racconti della creazione della Genesi.

«In Cristo non c'è più maschio né femmina» (arsen [arrhen] kai thely) (un'eco della Genesi nella lettera ai Galati 3, 28): l'interpretazione ovvia (che in Cristo non importerà se siamo maschi o femmine perché l'unione fisica dei corpi nel matrimonio non sarà più necessaria) può sembrare semplicistica. Ci sono altre possibilità logiche: per esempio, quella di futuri ermafroditi50 -- un revival di un motivo ellenistico -- o che non ci saranno più maschi e femmine perché saremo tutti maschi (cioè, asessuati), nell'imitazione della mascolinità di Gesù. Come già ipotizzato, vi potrebbero essere spiegazioni platonizzanti o non platonizzanti -- potremmo dire «olistiche»- di quest'ultima possibilità.

La tesi secondo la quale solo l'anima dell'uomo sarebbe creata ad immagine di Dio fu interessante anche perché, se Dio è immateriale, la sua immagine sarebbe più comprensibile come immateriale. Ma tali argomenti possono essere pericolosi; potrebbero suggerire non la nuova dottrina cristiana della resurrezione del corpo, cioè dell'intera persona, bensì il vecchio concetto pagano della naturale immortalità dell'anima: una tesi scomunicata alla fine del secondo secolo sia «dall'ortodosso» Giustino (Dialogo 6) che «dall'eretico» Taziano (Discorso ai Greci 13. 1). Quindi possiamo notare una divergenza tra coloro che hanno un'idea più materialistica di Dio -- cioè tendente a favorire l'idea che la donna non poteva essere creata a sua immagine -- e i più spirituali «alessandrini», come Clemente e Origene, che usano Genesi 1, 27b per sottolineare la creazione della donna a immagine di un Dio spirituale, almeno nella di lei anima maschile.

Probabilmente la versione olistica (spesso materialistica) apparve per prima -- cioè, prima della comparsa di un cristianesimo platonizzante, «alessandrino». Forse il miglior esempio per questo è il noto logion 114 del Vangelo di Tommaso: «Simon Pietro disse loro, "Lasciate che Maria [Maddalena] se ne vada, poiché le donne non meritano la vita." Gesù disse, "Io stesso la guiderò in modo da farla maschio, Così anche lei potrà diventare uno spirito vivente somigliante a voi maschi. Poiché ogni donna che farà se stessa uomo entrerà nel Regno dei Cieli".» Qualcuno dubita che tale «diventare maschio» comporti una rinuncia cessazione della stessa possibilità dell'attività sessuale, cioè, conservando la verginità o vivendo in celibe vedovanza. Le vergini, in questa tradizione, non sono ancora (fortunatamente!) donne, mentre le vergini consacrate hanno accettato una chiamata a non diventare donne mentre le vedove celibi hanno smesso di essere donne.51 In tali testi ultra-ascetici o «encratiti» si perde ogni traccia di una femminilità di per se stessa desiderabile; le donne non possono essere immagine di Dio senza attivare la loro possibilità di «divenire maschi».

Eppure Giustino, forse vicino alla data di composizione del Vangelo di Tommaso, sembra seguire una linea più «platonizzante», sostenendo, nello spirito del Menone, che la circoncisione è lungi dall'indicare una virtù superiore nei maschi. Al contrario, Dio creò le donne ugualmente capaci di vivere una vita virtuosa e giusta. Sfortunatamente non collega questa affermazione con un qualche commento specifico sulla creazione ad immagine di Dio (Dialogo 23. 5).

8. Clemente di Alessandria e la donna: l'eros platonico e l'apatheia stoica

È stato spesso osservato che Clemente di Alessandria, influenzato platonicamente e conoscendo Filone molto bene, è il primo cristiano «ortodosso» a citare Efesini 4, 13 (»finché arriviamo tutti all'unità della fede... all'uomo perfetto...»; Stromati 6. 14. 114. 4). Quindi non c'è da stupirsi se lo troviamo a distinguere tra l'essere fisicamente femminile e avere un'anima maschile -- o forse neutrale, ma certamente non-femminile (Stromati 6. 12. 100. 3): «Le anime di per sé stesse sono anime uguali, né maschio né femmina (oute arrhenes oute theleiai), quando non contraggono matrimonio, né sono date in matrimonio. E non è forse la donna (guné) che si è fatta uomo (andra), quella che è diventata anche non femminile e perfetta e virile (andriken)?»52 Altrove negli Stromati (4. 21. 132. 1) siamo tutti apparentemente esortati a diventare uomini perfetti (andra). Tali idee di una trasformazione devono essere considerate simbolicamente, più che fisiologicamente, almeno per i platonizzanti che considerano solo l'anima come propriamente maschile; ma il loro impatto culturale può essere compreso se andiamo al sogno di Perpetua, che risulta più «fisiologico». Allorché ella sta per affrontare le bestie nell'anfiteatro a Cartagine, dice: «Fui spogliata e fui fatta maschio (masculus)» (Passione 10. 7).53

Clemente evita di discutere l'immagine di Dio nei termini di 1 Corinzi 11, 7,54 preferendo seguire Galati 3, 28 secondo la quale non c'è maschio o femmina in Cristo -- e quindi nella creazione -- quindi «platonicamente» la donna (qua anima) è creata a immagine di Dio. Questo implica ancora una volta che la femminilità è considerata un fenomeno fisico, creato solamente con intenti riproduttivi, e poiché Eva deriva da Adamo, gli è anche subordinata nell'ordine terreno. Quindi, sebbene Clemente difenda il matrimonio contro gli «encratiti», egli segue Filone e lo stoico Musonio Rufo nel sostenere che l'attività sessuale dovrebbe verificarsi solo allo scopo della procreazione.55 Qualunque altro uso potrebbe effeminare non solo l'anima delle donne, per le quali tale femminilità risulta più naturale, ma anche degli uomini che ne sono consorti. Come con Filone, così con Clemente, la femminilità simbolizza la sensualità e i suoi desideri.56

La Lettera agli Efesini permette a Clemente di sviluppare ciò che era forse latente in Filone. Sebbene in Cristo non siamo né maschi né femmine, siamo successivamente assimilati all'uomo perfetto o «vero». In altre parole, mentre essere considerati «maschi» potrebbe indicare una vita sessualmente attiva «carnalmente» (in cui i maschi in un certo senso sono corrotti dalle donne), quando i maschi rifuggono l'attività sessuale diventano «veri uomini» (come Gesù). Anche le donne, abbandonando la femminilità, non diventano maschi ordinari (sessualmente attivi), ma «veri uomini». Così in Stromati 6. 12. 100. 3, come abbiamo visto, quando una donna diventa «non femminile» non diventa «maschile» (cosa che andrebbe ad indicare un'attività sessuale maschile) ma virile (andrike) e perfetto.

Per il platonizzante Clemente la vera «donna» è la sua anima; quindi l'effetto della cessazione dell'attività sessuale è quello di permettere a questa anima «virile» di sbarazzarsi della sua femminilità (come a quella maschile della mera mascolinità) e divenire simili a Gesù. A rigor di termini, è solo il Cristo-Logos ad essere ad immagine di Dio. Come Clemente dice, «L'immagine di Dio è il Logos divino e reale, un essere umano impassibile... l'immagine di Cristo è la mente umana» (Stromati 5. 14. 94. 5). Come in Filone, è l'anima (virile), non il corpo, ad essere creato a immagine di Dio; la sessualità umana, essendo fisica, non ha parte in ciò che fu creato così.57

Eppure Clemente si è allontanato dalla posizione di Filone. Se il maschio deve liberarsi dalla sua «maschile» attività sessuale nel diventare un «vero uomo» sembra che, sebbene la femminilità sia un'ovvia debolezza, ci sia qualcosa di sbagliato (anche se meno sbagliato che nella femminilità) anche nella mascolinità. Per dipanare il problema, Clemente ricorre al linguaggio platonico della teoria dell'anima tripartita: la femmina rappresenta il desiderio (simbolizzato dal cavallo nero del Fedro), mentre l'impulso maschile (arrhena hormen) è energia (thymos) (Stromati 3. 13. 93. 1).58 Al di là di queste analogie tra maschio e femmina, comunque, è l'auriga del Fedro, la parte razionale (logistikon) di cui si parla nella Repubblica.59 Come Clemente spiega altrove (Stromati 4. 23. 151. 1), Dio (la mèta della nostra vita a sua immagine) è apathes, senza thymos (maschio, cavallo bianco) e desiderio (femmina, cavallo nero).

In breve, Clemente pensa (platonicamente) che tutte le anime siano virili per natura -- quindi create a immagine di Dio e quindi capaci di virtù (Stromati 4. 8. 59-60; 6. 12. 96. 3) -- ma che tra le persone sessualmente attive dobbiamo riconoscere una distinzione fisica tra maschi e femmine, che può influenzare le anime di entrambi, e questo effetto (non sorprende) può essere chiamato «femminizzazione». Clemente ha tuttavia un'altra preoccupazione, potenzialmente conflittuale: egli vuole sostenere i benefici del matrimonio e della procreazione contro gli «encratiti».60

Come armonizza dunque questo, con la tesi che i veri uomini (anche se fisiologicamente sono femminili) non sarebbero sessualmente attivi? La risposta va cercata nella distinzione, già presente in Filone, tra la moderazione delle passioni (metriopatheia) e l'apatheia (che per il momento lascerò non tradotto). L'uomo perfetto, sbarazzatosi della femminilità, e anche della mascolinità, è un essere apathes61 (come, in un certo senso, anche Dio lo è). Come è stato oramai ampiamente riconosciuto, l'uso esteso che Clemente fa del concetto di apatheia oltre ad essere nuovo tra i cristiani è anche di immenso significato per il cristianesimo successivo, e qui di nuovo Filone è il suo predecessore.62 Clemente si rifiuta di seguire i suoi contemporanei «medioplatonici», che normalmente sostenevano che la metriopatheia fosse il più alto livello di virtù, preferendo un ideale più stoicizzante dell'uomo così come di Dio.63 Per Clemente la metriopatheia è uno stadio intermedio, sia nel senso di una semplice moralità «ordinaria» (che porta a una salvezza ordinaria) sia nel senso di un mezzo per un ulteriore avanzamento. Egli non si accorge tuttavia che avrà difficoltà a combinare la metafisica platonica con una forte etica stoica: e qui i cristiani hanno qualcosa da imparare riguardo allo sviluppo della loro cultura. Il processo è durato molto tempo, e certamente è ancora incompleto. Il significato della metriopatheia è sufficientemente chiaro, indicando una disposizione in base alla quale l'uomo virtuoso controlla le parti non razionali della sua anima per impedire loro di sopraffare i dettami della ragione. Questa idea, ovviamente, è ammessa solo da coloro che credono all'esistenza di una parte (o di parti) non-razionale dell'anima; è di conseguenza eretica per gli stoici ortodossi. Per colui che è arrivato alla metriopatheia un pathos è un impulso che deve essere tenuto sotto controllo; l'uomo di buona volontà farà esperienza di pathe. Ma per gli stoici ogni pathos è irrazionale; secondo la loro definizione classica, il pathos è un impulso che va fuori controllo (DL 7. 110; Clemente, Stromati 2. 13. 59. 6). Perciò l'uomo saggio non ha pathe, ma solo stati emotivi appropriati o emozioni buone (eupatheiai) che sono gli effetti collaterali di uno stato soddisfatto derivante da un atteggiamento razionale.64 Se avessimo chiesto a Clemente (e anche a Filone), «A che tipo di pathos si riferisce quando tratta di apatheia e metriopatheia?», forse la risposta sarebbe che non c'è nulla di irrazionale riguardo alla condizione emotiva dell'uomo buono, perché egli non è mai assoggettato alle sue emozioni. Se l'uomo buono è «apathes», questo significa che è libero da quelle pathe considerate peccaminose poiché eccessive; le pate che prova, non sono irrazionali e sono sempre controllate. Ma in effetti ciò che Filone e Clemente dicono, stoicamente, è che l'uomo buono non ha affatto path (aggiungendo che le pathe di colui che è nella metriopatheia sono solo contenute). Ciò implica che l'uomo buono ha solo una sorta di «coloritura» emozionale di atti razionali, cioè una eupatheia; qualcosa come un «benessere» ma non un'esperienza motivante.65 Eppure Clemente permette che l'uomo buono non solo abbia un giusto timore di Dio (Pedagogo 1. 9. 87) senza cessare di essere apathes, ma che sia anche in grado di provare pietà e pentimento. Secondo gli Stoici una caratteristica importante dell'apatheia è l'invulnerabilità; il saggio non è toccato, tanto meno influenzato, da attrazione o dal dolore per le sofferenze altrui. Questo è il lato impietoso dell'etica stoica -- come pure l'affermazione secondo la quale qualsiasi tinta emozionale possa esserci nelle azioni e nelle credenze di un uomo saggio, sono tutte guidate da una razionalità impersonale. Ma sebbene tutto questo poteva essere accettabile per Filone, tali idee pongono dei problemi al cristiano Clemente, e li vediamo all'opera nel suo concetto circa la mèta della vita buona, vale a dire come ottenere la somiglianza con Dio. Considerando tale somiglianza, capiamo che se le donne possano essere o no considerate create ad immagine di Dio, dipenderà dall'idea che abbiamo della natura di Dio.

Clemente certamente associa apatheia con la ricerca della somiglianza con Dio.66 Egli collega questo non solo alla Genesi ma anche con l'idea platonica della somiglianza con Dio in quanto mèta delle aspirazioni umane. Per Clemente l'uomo è creato a immagine di Dio e realizza la sua somiglianza, platonicamente, con il suo stile di vita, anche se in un modo peculiarmente cristiano, cioè nella sequela e nell'imitazione di Cristo (Protrettico 8. 3). Ma per diventare come Dio uno deve conoscere la natura di Dio, e per Clemente, seguendo Filone, Dio è apathes in senso stoico: egli è pura razionalità, non dominato da componenti irrazionali. Eppure il Dio stoico è apathes, non solo nel senso di puramente razionale, ma anche in quanto invulnerabile, essendo in ultima analisi incurante della felicità o dell'infelicità umana, anche se in effetti è pure provvidenziale. Tale incuranza è inammissibile per Clemente, sebbene egli non solo sia d'accordo con Filone che Dio è apathes, ma aggiunge che pure Cristo è apathes, e che è attraverso il raggiungimento della somiglianza con Cristo che raggiungiamo la somiglianza con Dio.67

Poiché di norma per Clemente noi cerchiamo di ottenere la somiglianza con il Padre, si potrebbe supporre che egli ritenga anche che dobbiamo diventare come lui nella nostra anima virile. Ma a questo Clemente propone una modifica, ed essa risulta quindi un'ulteriore modifica della versione stoica dell'apatheia. In Quale ricco si salverà? (37. 2), leggiamo quanto segue:68

«E mentre la realtà ineffabile di Lui è Padre, la sua pietà per noi si è fatta madre. Il Padre avendo amato (agapesas), si è fatto femminile, e il grande segno di questo è Colui che Egli generò da se stesso: e il frutto che è stato generato dall'amore è amore».

Dio Padre, dice Clemente, divenne madre del Figlio, e quindi nostra madre. Questo indica non solo la cura amorevole di Dio -- lontana dalla indifferente provvidenza degli Stoici -- ma caratterizza esplicitamente tale cura come «femminile» e come divina. Dio creatore è caratterizzato in veste di padre, mentre Dio il salvatore amorevole e incarnato è caratterizzato come madre. Questo a sua volta potrebbe suggerire che la «divinità» (e la divinità immaginata) abbia caratteristiche femminili in quanto tali; eppure Clemente, e ciò è tipico della sua epoca, fa poco uso di questa idea.

Una simpatia di questo genere (molto diversa dalla «simpatia» stoica delle parti dell'universo) indica un'ulteriore rottura dello schema di un Dio apathes. Questa non è solo il prodotto di una parte irrazionale dell'essere divino, ma non ha legame con la materia, poiché per Clemente Dio è totalmente immateriale. Essa non è nemmeno il risultato di una semplice coloritura delle emozioni che abbiamo riconosciuto come eupatheiai nei testi stoici. È molto più sanguigna, indicando che anche noi, nella misura in cui siamo simili a Dio, dobbiamo presentare simili caratteristiche «femminili». La «simpatia» è legata all'amore, particolarmente all'agape. Ci chiediamo quindi a quale tipo di amore Clemente faccia riferimento.69 Il problema, alla fine, è chiaro: poiché Dio è amore, anche noi dobbiamo diventare amore; quindi noi dobbiamo considerare non solo l'amore di Dio per noi ma anche il nostro amore per Dio. Secondo una interpretazione tradizionale della quale il massimo rappresentante è il teologo svedese Anders Nygren, «Clemente usa il termine Agape del Nuovo Testamento, ma la realtà che egli intende trasmettere corrisponde più a ciò che Platone chiama «l'Eros celeste».70 Nygren ha ragione a riconoscere l'influsso della tradizione platonica sull'analisi dell'amore fatta da Clemente (anche se la sua distinzione radicale tra Agape e Eros è storicamente, filosoficamente, teologicamente e psicologicamente insostenibile).71 Clemente ritiene certo che nella nostra somiglianza con Dio siamo in qualche maniera divinizzati (Stromati 4. 23. 148. 8; 7. 10. 56. 6, ecc.) -- una tesi che condivide con il suo quasi contemporaneo Ireneo (Contro le eresie 4. 33. 4) -- e che l'amore (normalmente chiamato agape) è il mezzo con cui diventiamo «dèi»:72 una condizione intesa principalmente come immortalità, e verso la quale avanziamo non per natura ma per grazia di Dio. Almeno in una occasione (Protrettico 11. 117. 2) Clemente parla di un eros celeste e di uno divino (usando la terminologia apparentemente platonica): «L'eros celeste, e veramente divino, è presente al genere umano ogni volta che la vera bellezza è in grado di risplendere nuovamente accesa nell'anima dalla Parola divina.» Nygren ha tuttavia ragione, ad osservare che Clemente normalmente evita la parola eros, anche se fraintende il motivo che vi si cela dietro. Questo diventa chiaro nei passaggi come Stromati 6. 9. 73. 3. Difendendo l'apatheia contro i suoi critici, Clemente tenta di purificare da ogni elemento di «desiderio» l'amore perfetto (questa volta l'agape) del cristiano «gnostico» (vale a dire perfetto). Agape inizia ad apparire come un eros stoicizzato, incolore e impassibile.

Gli avversari di Clemente si domandano, «Come può l'uomo che desidera cose belle (ton kalon) restare apathes, dal momento che ogni familiarità (oikeiosis) con le cose belle emerge con il desiderio?». A questo Clemente replica che «queste persone» non capiscono la natura divina dell'agape:

«L'amore in effetti non è più appetito (orexis) di colui che ama, ma affinità affettiva, che restituisce lo gnostico, non più condizionato da bisogno di tempo o luogo, all'unità della fede. Ed egli già trovandosi attraverso l'agape nella condizione in cui sarà, poiché ne ha già anticipata la speranza tramite la «gnosi», non aspira più nemmeno ad alcuna cosa, possedendo, per quanto è possibile, l'oggetto stesso d'ogni aspirazione. (VI, 9, 73, 3-4) Che bisogno ha di energia e desiderio (di nuovo i due cavalli platonici), dal momento che ha ottenuto la familiarità dall'amore con il Dio che è apathes

Il desiderio è, nella migliore delle ipotesi, un segno del cristiano incompleto, non dello «gnostico» perfetto o di Dio stesso. Il vero agape, generando comportamenti simili a quelli di Dio, lo rende senza alcun desiderio. Quale conseguenza di tale stato, esso è l'espressione -- forse si potrebbe dire la faccia esteriore -- della bontà e della bellezza.

La posizione di Clemente è anomala. Egli sembra iniziare con il concetto stoico fondamentale dell'apatheia o dell'eupatheia, di cui agapesis -- come una sorta di volizione (boulesis) o di un gentile affetto razionale -- è un tipico termine stoico.73 Egli poi modifica il suo stoicismo con l'aiuto di un concetto di amore per la bellezza più strettamente platonico, cercando di evitare qualsiasi allusione ad un desiderio erotico in una condizione paradisiaca finale con il desiderio radicato nella apatheia (Stromati 6. 9. 74. 1). Come abbiamo visto sopra, occupandoci specificatamente dell'eros divino, egli dice che risplende in presenza della bellezza e di fronte al volto della bontà. Ma eros, in effetti, è demascolinizzato, per darsi una vernice stoica di virtù, e mette in grado Clemente di mantenere una imperturbabilità razionale, almeno questo sembra il senso giusto da dare alla sua apatheia -- con buona pace della timore razionale del Signore -- come caratteristica sia di Dio che del cristiano perfetto, lo «gnostico».

C'è certamente un residuo di platonismo nella posizione di Clemente, nel fatto che, quando un vero e proprio eros platonico «genera e partorisce nel bello», questo è produttivo piuttosto che semplicemente desiderativo. Ma l'interpretazione di Clemente è esangue ed è facile capire perché nella sua spiegazione stoicizzante della bontà egli stia usualmente ben alla larga dalla parola eros, con le relative associazioni platoniche alla «mania».

La posizione di Clemente è espressa più chiaramente quando afferma che allorché lo «gnostico» vede un bel corpo, la sua «santa agape» lo guida a pensare alla bella anima: proprio come quando è sbalordito di fronte a una bella statua e pensa all'artista e a ciò che è veramente bello (Stromati 4. 18. 116. 2). Questo risulta come quel Platonismo stoicizzato, impersonale e alla fine incomprensibile -- perché senza desiderio -- dal quale, come ha notato Spanneut,74 la compassione è ridotta a beneficenza. La profondità con cui Clemente -- che come ho notato sarebbe un difensore del matrimonio contro gli «encratiti» -- si addentra in tali questioni, si chiarisce nel momento in cui egli osserva che anche l'atto d'amore nelle coppie sposate, effettuato esclusivamente per la procreazione, non viene compiuto con desiderio (epithymia) ma con un «impulso razionale» e una «volontà rigorosa e casta» (Pedagogo 3. 6. 58. 2), non comportando alcun piacere pericoloso, anzi una «soddisfazione controllata» (enkrates apolausis) -- probabilmente per un dovere ben eseguito.75

Eppure, come abbiamo visto, permangono punti vulnerabili nella corazza di Clemente, che possiamo vedere se torniamo alla sua concezione per cui è solo l'anima maschile ad essere creata a immagine di Dio. Poiché l'eros, anche nella sua versione celeste, non può evitare certe connotazioni sessuali, dal momento che la sessualità è solo una questione fisica e non dell'essere umano completo (maschio o femmina), sembra meglio scollegarlo del tutto dalla vera mascolinità. In questo, comunque, Clemente non riesce, poiché non può liberare completamente il suo concetto di agape, il suo amore «gnostico», dal senso della bellezza -- e bellezza, in un contesto greco, ha sempre connotazioni erotiche chiare o sublimate.

Non era forse qui implicita la minaccia che una volta separato completamente l'eros, o l'amore sotto qualsiasi altro nome, dalla bellezza, la bellezza sarebbe scomparsa dalla vita del perfetto cristiano e dalle definizioni di Dio? La domanda rivela un problema di base che è di tipo piuttosto storico: la bellezza al tempo di Clemente è raramente un attributo del Dio cristiano,76 e Clemente stesso, sebbene influenzato dalle Idee platoniche sia della bellezza intellegibile che della distinzione tra bellezza visibile e invisibile (come nel Pedagogo 3. 1. 3, 3), sembra esitare ad introdurla -- anche se fu incoraggiato in questa direzione dalla riflessione sulla Trasfigurazione di Cristo. Eppur lo introduce; anche la sospetta parola kallos [bellezza] è applicata alla bellezza dell'anima. Agape è la vera bellezza; il Salvatore è bello: l'unico oggetto del nostro anelito verso la vera bellezza (Stromati 2. 5. 21. 1) -- anelito che probabilmente perdiamo divenendo perfetti.

Nei tempi antichi i Platonici ritenevano i Cristiani nemici del Bene e del Bello, e anche se gli storici moderni che si occupano degli atteggiamenti cristiani nei confronti dell'arte (e quindi nei confronti delle belle raffigurazioni di figure umane e divine) hanno rifiutato la vecchia tesi secondo la quale i primi cristiani sarebbero stati dei proto-iconoclasti,77 ed hanno anche contestato l'affermazione, perfino più debole, che l'amore per l'arte sarebbe stata inizialmente sospetta alla gerarchia cristiana, non c'è dubbio che, sia sotto l'influenza dei tradizionali timori giudaici di idolatria -- in particolare nel caso di ritratti -- sia riguardo al culto (implicito o reale) greco-romano della bellezza fisica (sessuale),78 gran parte dei cristiani prima del quarto secolo si interessarono all'arte, anche se si sentirono poco spinti dalla rivelazione a pensare alla bellezza come ad un attributo divino. (Sosterrò nel capitolo 3 che è un errore supporre che la tesi di Ireneo circa la gloria di Dio vada considerata un segno di un rilevante cambiamento a questo proposito.) Ma se la bellezza è sostanzialmente tenuta in poca considerazione, allora la creatività -- non meno della creatività sessuale -- diventa una questione non di desiderio ma di una nobile volontà per un dovere razionale, come abbiamo visto: nel matrimonio c'è il dovere della procreazione.79

In una affermazione troppo mitigante, Eric Osborn osserva che «Clemente non riconcilia mai del tutto la sua convinzione sul matrimonio come dono di un creatore buono con la sua convinzione che il rapporto sessuale sia un segno di imperfezione».80 Forse tenendo in conto la sua paura della bellezza fisica, e la sua determinazione, non-platonica ma profondamente stoica, a ridurre la corretta emozione ad una mera coloritura o espressione di virtù, inizieremo a capire il perché. In Clemente praticamente non c'è un senso di ispirazione per bellezza: certamente non per una bellezza sessuale. E il frutto dell'agape è «benevolenza del Signore» (Stromati 4. 6. 28. 2).

Clemente definisce l'esempio supremo della carità di Dio come philanthropia,81 una parola molto usata per descrivere le azioni provvidenziali dei re ellenistici e del Dio dello stoicismo e del medio platonismo. In Teofilo, un vescovo di Antiochia del secondo secolo, indica la reazione caritatevole di Dio di fronte alla disobbedienza dell'uomo (Ad Autolico 2. 27). In Clemente è usata con un significato speciale: l'estremo esempio della philanthropia di Dio è il suo divenire uomo (anthropos) per noi (Pedagogo 1. 8. 62. 1-2).

Per Clemente la philanthropia è un'espressione dell'agape di Dio, e lungi dall'essere incompatibile con l'apatheia di Dio, ne è una definizione. Ma ciò sembrerebbe svalutare l'apatheia di Dio, e costituisce un ulteriore esempio della confusione di Clemente. Abbiamo visto Clemente dirci che, nel suo amore e nella sua compassione per noi, Dio si è fatto nostra madre. Il suo senso dell'incarnazione potrebbe averlo indotto ad abbandonare la sua insistenza sull'ideale dell'apatheia divina e umana, anche se con scarso successo. Forse a causa della paura delle associazioni con la sessualità e delle implicazioni dell'amore e della compassione -- anche se in una forma più «accettabile» di femminilità come l'amore materno -- Clemente preferisce restare con il Dio Padre imperturbabile e con il senso del dovere del cristiano «gnostico». Forse la sua ambivalenza (nella migliore delle ipotesi) riguardo alla bellezza (nonostante una certa platonizzazione nella sua considerazione dell'amore e il suo riconoscimento dell'aspetto «femminile» dell'Incarnazione) lo tratteneva dall'offendere il senso puritano, e in fondo potenzialmente iconoclasta, di molti dei suoi contemporanei «ortodossi»82 -- per non dire «encratiti». Alla fine la sua idea dell'Incarnazione aggiunge poco alle caratteristiche dell'immagine divina nella prima donna, la quale sarebbe potuta essere stata creata a immagine di Dio non solamente nella sua (stoicamente) impersonale razionalità, ma nel suo amore e compassione. O forse addirittura nella sua bellezza?

9. La platonizzazione dopo Clemente

Al tempo di Origene i principali approcci alla creazione dell'uomo ad immagine di Dio erano stati fissati. L'esegesi dipendeva da svariati fattori, il più importante è il grado in cui il singolo scrittore accettava la teoria delle due sostanze dell'uomo, vale a dire il fatto che consistiamo di una «miscela» ontologica (più che morale), una combinazione o associazione di anima e corpo. Chi, come Clemente, ritiene che siamo un composto di sostanze materiali e immateriali normalmente crede che sia l'anima immateriale in ogni essere umano ad essere stata cresta ad immagine di Dio; quindi che quest'anima è in qualche maniera pre-sessuale, e dunque in un certo senso da considerarsi maschile, non da ultimo perché Gesù in quanto maschio fu considerato «l'uomo perfetto» al quale dobbiamo cercare di assomigliare -- una somiglianza normalmente vista come a un Dio che non muta, le cui «emozioni» sono considerate incolori e senza passione, cioè un Dio apathes. Alcuni pensatori sono inclini a vedere la sessualità -- specialmente nella forma femminile -- come non propriamente umana, ma aggiunta a fini riproduttivi ad un corpo destinato a finire con il tempo e da abbandonare prima di entrare in paradiso. In termini generali, ho identificato questa corrente come un'interpretazione platonizzante sia a livello ontologico che con riferimento alla sessualità, sebbene essa sia mediata principalmente dall'influente interpretazione ebraica fatta da Filone. Il secondo tipo di esegesi è piuttosto di tradizione ebraica e paolina, derivante dall'idea di un essere umano strutturato singolarmente, spesso definito in modo alquanto materiale. Secondo questa visione l'intera persona perisce con la morte del corpo; una versione estrema può essere riconosciuta nella dottrina dei Sadducei che non prevedono la resurrezione. Nel cristianesimo, al contrario, tale teoria è presentata con una forte insistenza sulla resurrezione del corpo e/o della carne: cioè, dell'intera persona. Può essere accompagnata o meno dal corollario dell'immortalità dell'anima.

Nessuna di queste posizioni apparirà sempre in una forma inequivocabilmente completa; le uso piuttosto come parametri di riferimento. Ma ogni variazione dipenderà da una delle due tesi ontologiche che ho identificato: cioè, dalla definizione «platonica» o «paolina» (ovvero «olistica») della natura umana. Tuttavia con lo sviluppo dell'esegesi delle Scritture le tensioni nella teoria delle due sostanze dell'uomo si rafforzano, specialmente in Agostino. Prima di lasciare il mondo antico, quindi, voglio esaminare brevemente queste tensioni -- e la loro relazione con la questione di chi è creato a immagine di Dio -- dal momento che il loro approccio ai primi principi ontologici è insostenibile. Li considererò sotto una seri di tematiche: apatheia; l'origine della sessualità nelle tradizioni platonizzanti; la continuità della tradizione paolina in quella che che possiamo definire ampiamente, anche se un po'impropriamente, la cosiddetta interpretazione antiochena; l'interpretazione di 1 Corinzi 11, 7. Infine studierò gli aspetti della teoria di Agostino sulla persona umana. Questi metterà a fuoco i problemi più disparati che sono stati evidenziati, creando quindi le basi per successivi sviluppi.

9.1. Origene: Apatheia e Eros

Potrebbe sembrare che le teorie sull'apatheia abbiano solo una rilevanza marginale sulla questione di chi e come sia stato creato a immagine di Dio, ma non è vero. Abbiamo visto in Clemente un tentativo di imporre una presunta descrizione platonica delle «passioni» -- ampiamente considerate come attività delle parti più basse e irrazionali dell'anima «tripartita» -- su una base stoica. Così, il raggiungimento dell'apatheia, con il suo sradicamento delle parti irrazionali dell'anima, indicherebbe non solo una purificazione della persona e l'eliminazione di una patologia, come in uno schema tipicamente stoico, ma anche una rimozione di caratteristiche non necessarie (o non più necessarie) del sé empirico. Se questo fosse vero, ciò implicherebbe che solo la «mente» (comunque intesa, e in questo l'idea di Clemente è per molti versi più stoica che platonica) sarebbe il vero «noi»; in ultima analisi, né il corpo, né le parti «inferiori» affettive dell'anima sono necessari. Se si aggiunge l'idea che solo la mente «maschile» è l'immagine di Dio (la versione platonizzante del tema di cui stiamo trattando), rimane la possibilità che le donne siano create a immagine di Dio, poiché le anime sono asessuate, intese come maschili. Il prezzo da pagare, tuttavia, è la rimozione sia dei nostri affetti, sia dei nostri corpi dal nostro vero io. L'equivalenza creaturale delle donne è dunque conservata al prezzo di una considerazione inadeguata della natura umana nel suo insieme. Corollario di tutto questo è che diventa sempre più difficile -- una difficoltà già riscontrata in Clemente -- offrire una definizione dell'amore cristiano per Dio poco più che stoicizzante e scialba. Cristo viene ridotto al saggio stoico o kantiano. Si rende necessaria una breve descrizione riguardo alcuni risultati di questo tentativo «platonizzante» di fondere l'apatheia con la vita cristiana -- e l'inizio più ovvio è Origene, che fu in qualche modo successore di Clemente nel suo ruolo di maestro ad Alessandria. Ma le complicazioni nascono subito, la prima delle quali rende la posizione di Origene sulla sessualità molto più rigida di quella di Clemente, e lascia in eredità una tradizione di estremismo ai suoi successori, specialmente ai Cappadoci. Origene riteneva che l'originaria anima asessuata di Adamo fosse caduta in un corpo, e in qualche modo l'intera razza umana fosse racchiusa «nei suoi lombi» o «in qualche altro ineffabile modo».83 L'originario corpo di Adamo era etereo, ma già sessualmente differenziato. Eva era fisicamente diversa da Adamo nel giardino (In Mt 14. 16), anche se il rapporto fisico non era ancora necessario -- ma nell'atto di disobbedienza a Dio la coppia originaria divenne «corporea» o «animale».84 «L'esercizio» della sessualità iniziò dopo la cacciata, e quindi non è solo una triste necessità, ma una manifestazione del peccato che deve essere superata, se si vuole ripristinare il nostro stato paradisiaco originale. Nel matrimonio «decaduto», ogni atto sessuale comporta sporcizia e impurità dal quale ci assolve il battesimo.85

Origene, per dirla schiettamente, è un encratita revisionista.86 Egli non sostiene (come facevano molti encratiti) che il peccato originale fu di natura sessuale, o come Clemente che fu «un'anticipazione» del matrimonio da parte di Adamo ed Eva.87 Origene crede, tuttavia, che senza peccato -- un meccanismo di autosoddisfazione o di noia nella contemplazione di Dio88 -- non si sarebbero verificati né l'attivazione della sessualità e di certo non il fenomeno stesso della donna, strettamente parlando, e che la differenziazione sessuale scomparirà nel corpo angelico che acquisiremo in cielo. Allora, il corpo fisico, corporeo, luogo necessario per il progresso dell'anima, terminerà la sua stessa utilità. Alla fine del quarto secolo Rufino sembra aver tentato attribuire a Girolamo una versione radicale di tali idee, in un tendenzioso tentativo di ritrarlo come una sorta di origenista estremo.

«Possiamo noi mariti aver a cuore le nostre mogli come le nostre anime hanno a cuore i loro corpi, così che le mogli possano trasformarsi in maschi e i corpi in anime, e non vi può essere differenza di sesso; ma così come tra gli angeli non vi è né uomo né donna così noi -- che saremo come gli angeli -- possiamo sin da ora iniziare ad essere ciò che ci è promesso in cielo.»89

Forse si tratta di una posizione distorta di Origene, riguardo al fatto che il corpo tornerà ad essere una pura anima; per Origene, perfino gli angeli hanno corpi spirituali ed eterei. Comunque, egli sembra aver pensato che il corpo di carne ridiverrà etereo; sarà «incorporeo» (asomatos), ma nel senso che non avrà caratteristiche carnali, materiali o animali -- e sarà senza gli organi della differenziazione sessuale.90 Tuttavia, egli sembra aver a volte esitato sul fatto che il «corpo» risorto sarebbe stato completamente immateriale e incorporeo; tale caratteristica può essere attribuita solamente a Dio.91

Seguendo le orme di Filone, Origene propone una creazione in due momenti: prima l'anima, o meglio la mente (nous) -- «l'uomo interiore»92 paolino, secondo l'immagine di Dio93 -- poi, il corpo nella sua differenziazione sessuale. In paradiso, Adamo aveva un corpo spirituale ed era in qualche modo di sesso maschile, ma non ebbe rapporti con Eva. Rimase, e sarebbe dovuto rimanere, vergine spiritualmente e fisicamente.94 Quindi, in prima istanza, scopo della vita umana è il recupero dello stato verginale, e perciò avvicinarsi all'anima asessuata dell'Adamo originale.95

Anche se Origene segue Clemente nel ritenere la metriopatheia un passaggio nel cammino verso l'apatheia, fa meno uso del concetto di apatheia rispetto il suo predecessore,96 e ne modifica sostanzialmente il senso. Per Origene un pathos è un'esperienza delle parti non razionali dell'anima intesa platonicamente, più che stoicamente; egli non insegna la completa soppressione delle emozioni, ma l'eliminazione di quelle peccaminose. Inoltre, in contrasto con Clemente, adotta una versione cristianizzata dell'eros Platonico, sostenendo che l'amore è superiore all'apatheia. Anche Dio Padre non è inequivocabilmente apathes,97 perché Origene resiste all'opinione che l'agape sia eros senza passione.

Al fine di cogliere l'importanza di questo, dobbiamo fare una breve digressione sulla storia dell'eros nel primo cristianesimo. Prima di Origene -- come abbiamo notato con Clemente -- la parola è di solito evitata dai cristiani, soprattutto per il suo consueto riferimento al desiderio sessuale. Tuttavia, tale desiderio è stato collocato dai filosofi della tradizione platonica in un preciso contesto metafisico e psicologico. Seguendo il Simposio e il Fedro, i platonici in particolare avevano identificato l'eros (come Longo dice nella prefazione del suo romanzo Dafni e Cloe) non semplicemente come desiderio -- sia di sesso che di altro -- ma in particolare come ispirazione e desiderio di bellezza: «Mai nessuno infatti si è sottratto all'amore o vi si sottrarrà, finché Bellezza (kallos) esisterà e gli occhi saranno in grado di apprezzarla» [ed. Studio Tesi, Pordenone, 1987].

In questa tradizione, la «reale» bellezza, la bellezza che rimane immutata, si trova solo tra le Forme. Sebbene la bellezza terrena sia banale in confronto alla Bellezza stessa, i platonici non hanno mai sviluppato quell'ansia riguardo le immagini della bellezza, non da ultimo della bellezza del corpo umano, ampiamente riscontrata nel cristianesimo primitivo. Anche se, come Filone, i primi cristiani erano lieti di far eco all'Antico Testamento e riflettono sulla gloria di Dio della bellezza del creato, l'eros, fu generalmente da essi temuto, dal momento che esso riguarda in primo luogo la bellezza del corpo umano.98

Il linguaggio di Filone dovrebbe essere osservato con attenzione: egli è sufficientemente platonico, quando riflette alla protensione dell'uomo verso Dio come eros, ma prova spesso a separare l'eros dalla bellezza -- non da ultimo per la possibile connessione con la pederastia.99

Egli preferisce pensare all'eros come ad un anelito verso la saggezza (Sulla Creazione 1. 5; 1. 70), e respinge le sue varianti più volgari come dirette non tanto verso la bellezza quanto verso il semplice «piacere», alterando così la connessione tra eros, bellezza e piacere che Platone aveva accuratamente stabilito.100

Sulla scia di Filone (come pure degli stoici, per i quali l'eros sia platonico che popolare è troppo brutale), abbiamo trovato Clemente far uso del concetto di eros anche se evita per lo più la parola stessa, benché in un caso abbia connesso un eros «celeste e divino» -- in modo platonico (Protrettico 11. 39ss.) -- con ciò che è «veramente bello». Alla luce di questo contesto è significativo che Origene non solo inizi a riformulare la versione clementina dell'apatheia ma, specialmente nel suo Commentario al Cantico dei Cantici, presenta Dio come eros e Cristo come amante della bellezza: «Non penso che si possa essere incolpati se si Chiama Dio Eros» (In Ct, prologo71). L'anima, ci racconta nelle sue Omelie sullo stesso testo, deve diventare «bella» (Omelia 1. 3, cfr. 2. 4). E benché sostenga che «l'amore carnale» provenga da Satana (Omelia 1. 2), Origene conserva l'aspetto sensuale dell'eros, anche (o forse soprattutto) se l'anima è originariamente maschile (ma sessualmente inerte), lo fa attraverso una nuova dottrina dei «sensi spirituali», tramite i quali possiamo vedere, gustare e toccare la bellezza della realtà immateriale analogamente al nostro uso dei sensi fisici.101 Tali esperienze, causate dai «dardi»102 dell'amore, sono le gioie sensuali del mondo intellegibile, di cui si ha esperienza con il nudo spirito (Omelia 2. 8). Essi in paragone rendono le gioie della «conoscenza» fisicamente sessuale una semplice distrazione (Su Giovanni 19. 4. 20)103.

Come abbiamo visto, nella tradizione platonica, alla quale Origene è debitore, il desiderio erotico è una caratteristica prevalentemente maschile, ma Origene associa le stesse caratteristiche sensuali all'anima perfetta, che, sebbene in quanto anima non sia femminile «a livello terreno» sia negli uomini sia nelle donne, diviene femminile in rapporto a Dio.104 La femminilità -- che in un contesto strettamente umano è una versione degradata della mascolinità -- diventa a un livello superiore (in analogia con i sensi spirituali) un'espressione della nostra umiltà e dipendenza nei confronti del Creatore. Come nella procreazione umana (secondo Origene) il maschio è il partner attivo, così a livello spirituale l'anima (sia di uomini che di donne) è ciò su cui il «maschio» Dio -- sia bello che amante della bellezza -- agisce. Origene senza dubbio non ruscì a riconoscere tutte le implicazioni di questa «risessualizzazione» dell'anima.

Secondo Origene, la differenza sessuale che riguarda il corpo è da superarsi nel passaggio dell'anima tramite la seri di eoni. Il vero amore per la bellezza e il vero desiderio riproduttivo sono eroticamente diretti altrove. Tutto ciò gli permette non solo di essere d'accordo con Clemente e Filone nel considerare le donne -- nella misura in cui hanno un'anima maschile -- create a immagine di Dio, ma anche nel ricostruire l'idea filoniana, secondo la quale nella misura in cui l'anima è innamorata di Dio diviene femminile in Cristo: suggerisce così almeno che, mentre solo l'anima originariamente maschile sarebbe ad immagine di Dio, l'anima maschile che arriva ad essere femminile raggiunge una maggiore «somiglianza.105 Una versione di questa ultima idea potrebbe essere un elemento plausible, certamente più che plausibile, delle teorie della creazione ad immagine e somiglianza di Dio agli occhi di coloro che sostengono -- resistendo alla idea «platonizzante» per cui ogni anima è sempre essenzialmente «asessuata», «maschile», o almeno «non femminile»- che le anime maschili «terrene» entrano in corpi maschili e le anime femminili in corpi femminili.

9.2. Didimo, Basilio e Gregorio di Nissa

L'influsso dell'encratismo rivisitato di Origene, associato alla sua spiegazione platonizzante della differenziazione sessuale, pertinente solo al corpo -- mentre vediamo che le caratteristiche sessuali «femminili» si esprimono nei rapporti con il divino di tutti gli esseri umani, «maschi» e «femmine», -- resta forte sia nei suoi immediati successori come Didimo il Cieco di Alessandria e tra i cosiddetti Cappadoci. Accenno quindi brevemente a Basilio -- così come a Didimo -- prima di esaminare in dettaglio Gregorio di Nissa, che per molti versi può essere considerato il culmine delle varie correnti platonizzanti cristiane. Questi trae la sua ispirazione fondamentalmente da Filone -- anche se, come vedremo, la considerazione di Gregorio dell'unità psico-sessuale differisce notevolmente da quella di Filone.

Didimo segue Origene nel ritenere che solo l'uomo interiore, il nous, sia creato a immagine di Dio, ma egli pensava (come poi fecero la maggior parte degli antiocheni) all'immagine principalmente in termini di esercizio della capacità di legittimare l'autorità. In accordo anche con la tradizione secondo cui maschio e femmina indicano intelligenza attiva e anima passiva, Didimo segue l'Origene del Commentario del Cantico dei Cantici applicando lo stesso principio alla relazione del genere umano con Dio; l'anima umana è femminile in relazione al suo divino Maestro.106

Quanto a Basilio di Cesarea, egli accetta anche che la donna nella sua anima maschile sia creata a immagine di Dio: ma usa una frase un po'ambigua (che si troverà anche tra gli antiocheni le cui vere implicazioni saltano agli occhi) che i due sessi sono «eguali in onore».107 Ciò potrebbe significare che siano entrambi creati a immagine di Dio, essendo infatti «eguali in onore», ma che uno è più immagine di Dio dell'altro. Ma per l'interpretazione più estremista della versione «platonizzante» della nostra storia -- o addirittura iper-platonizzante -- dobbiamo guardare al fratello di Basilio, Gregorio. A differenza di Basilio, Gregorio segue la posizione neo-encratita di Origene nel proporre una creazione «in due momenti»108 : nella misura in cui l'uomo è creato a immagine di Dio egli è creato senza sesso, ma, prevedendo il peccato dell'uomo e la conseguente mortalità, Dio ha aggiunto la distinzione sessuale. Infatti, fraintendendo Galati 3, 28, Gregorio si spinge fino ad affermare che Cristo stesso (in quanto Immagine perfetta) è senza sesso.

Gregorio considera gli esseri umani nel loro stato decaduto come prigionieri, in cammino inesorabile verso la morte. Possiamo solo scongiurare gli effetti della morte con una sequenza infinita di matrimoni e generando bambini109 - oltre alla speranza di poter anticipare il ristabilimento della nostra condizione adamitica tramite la pratica della verginità. Ad un livello ontologico, questa tesi sembra porre fine a quell'ambiguità tra un Adamo maschio e uno asessuato che ha caratterizzato gran parte del dibattito precedente; tornando a qualcosa di più simile alla posizione di Clemente, Gregorio sostiene che anche la mascolinità non è abbastanza adeguata per l'immagine di Dio, e qui egli è molto chiaro:

Duplice è la creazione della nostra natura, quella che è ad immagine di Dio e quella che è divisa in queste diversità [...] per qualcosa di simile il passaggio è reso oscuro da quanto detto dove prima si dice, «Dio creò l'essere umano a immagine di Dio» e poi, in aggiunta a quanto detto, «maschio e femmina Dio li creò» -- un concetto che è alieno alla nostra concezione di Dio.110

La tesi di Gregorio è chiara, Dio è spirito, lo spirito è asessuato, quindi l'immagine di Dio è asessuata. Ciò comporta che, per conseguire la somiglianza con Dio dobbiamo diventare il più asessuati possibile, il che si ottiene al meglio perseguendo la verginità. Siamo in effetti esseri doppi, una combinazione tra angelo e bestia e la sessualità è un segno della bestialità: utile a raggiungere il numero richiesto di esseri umani,111 ma senza caratteristiche ad immagine della divinità. Alla resurrezione, che è «niente più» che il ripristino della condizione originaria di Adamo prima della caduta, torneremo allo stato spirituale di angeli asessuati (senza carne) (Creazione dell'uomo 17; Anima e resurrezione (PG 46, 148A)).

Per Gregorio i due effetti principali del peccato dell'uomo, sorti dalla caduta nella storia, sono la morte e la sessualità: forse considerati come l'estremizzazione dei vecchi nemici della saggezza greca: dolore e piacere. Ma dopo la controversia sul concetto origeniano di resurrezione e la sua confutazione da parte di Metodio e altri,112 Gregorio non ha alcuna intenzione di sminuire, tanto meno negare o anche dare l'impressione di negare, una qualche sorta di resurrezione del corpo. Anzi la difende con vigore, sostenendo apparentemente che l'unità dell'essere umano la esige: egli pensa che l'incorruttibilità del corpo risorto sia un segno della natura divina del corpo;113 se non fosse stato per la sua ostilità nei confronti della differenza sessuale, Gregorio probabilmente sarebbe stato pronto a sostenere una più radicale unità metafisica tra corpi e anime, inclusa la sessualità dei corpi sessuati se non addirittura quella delle anime. Ma la resurrezione del corpo (come la sua anima immortale) così come la intende Gregorio è divina proprio perché priva di sessualità come della corruttibilità che vi si associa. Si tratta di un corpo non-carnale, asessuato ed etereo -- che rischiava di sembrare troppo origenista ad un palato «ortodosso». Secondo Gregorio, insomma, uomini e donne sono creati a immagine di Dio, e -- per dirla con Basilio -- sono «eguali in onore» (Anima e Resurrezione 157AB; Basilio, Sulla creazione dell'Uomo 1. 18), ma questo è dovuto al fatto che in fondo non sono proprio uomini e donne ma angeli caduti. La versione platonizzante della tesi per cui la «donna» è stata ugualmente creata a immagine di Dio viene mantenuta, ma a un prezzo ancora più grande di quello pagato da Origene.114

Il fulcro della posizione di Gregorio, la tesi che l'attività sessuale sia stata prevista da Dio solo come rimedio alla caduta, è stata ripresa da Massimo il Confessore (che nomina espressamente Gregorio nei Capitoli a Talassio 1), da Giovanni Damasceno (Sulla fede ortodossa 4. 24) e da Scoto Eriugena (Divisione della Natura 2. 534A, 539D11-13; 5. 893D). Eriugena infatti rende definitivo tale risultato ultra-alessandrino tramite una «affondo» su Agostino.115 È interessante notare che un altro cappadoce del IV secolo, Basilio di Ancira, afferma che Maria è una «statua» (agalma) di Dio «nella sua anima e nel suo corpo».116 Egli però non fa alcuna riflessione a livello metafisico su questo, e non trae alcuna conclusione in merito alla creazione delle donne in generale, pensando forse che la verginità di Maria (maschile e impassibile) è più importante della capacità creativa femminile nella sua maternità.

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Note

  1. Per l'antica identificazione tra divinità e demoni (da parte di Taziano) cfr. K. Gaça, The Making of Fornication (Berkeley/Los Angeles/London 2003), 221-246. L'argomentazione classica si ritrova nella La Città di Dio di Agostino. Testo

  2. H. U. von Balthasar, The Glory of the Lord VI (Edinburgh 1991), 99, nota 22: «Sexuality cannot be derived from man's original state as image of God». Per ulteriori commenti su Balthasar cfr. alle note 27, 115, 196 e 197 successive. Testo

  3. Per qualche informazione di base, sia da parte pagana che cristiana cfr. J. W. Knust, Abandoned to Lust (New York 2006). Testo

  4. K. E. Børresen (ed.), Image of God and Gender Models (Oslo 1991). Testo

  5. Il Poseidone omerico osserva che i rapporti degli dèi sono sempre fruttuosi (Od. 11.249-250). Testo

  6. Gli effetti delle tresche sentimentali di Zeus con le dèe sono di vario genere, come si conviene al rango di un partner divino: in tal modo Artemide è generata come Apollo. Almeno alcune dèe, come Era, possono generare prole maschile e femminile per partenogenesi. Nel caso di Elena, sua madre Leda partorì sette figli e una sola figlia. E dovremmo anche considerare altre versioni della storia di Elena (per esempio quella di Apollodoro): in un caso la vera madre di Elena è Nemesi, un essere poco più che mortale. Questa fu colei che partorì un uovo (dopo essere stata violentata da un'oca) che andò a finire casualmente nelle mani di Leda, il quale si dischiuse facendone uscire Elena. In una seconda versione fu Leda stessa ad avere un rapporto con Zeus, ma nella stessa notte anche con suo marito Tindaro. Parte della sua prole era quindi di Zeus, e parte, come detto, di Tindaro -- sebbene i mitografi sostengano di solito che fu Zeus, e non Tindaro, il padre di Elena. (Si noti, tuttavia, la credenza , diffusa nell'antichità, secondo la quale il rapporto dopo il concepimento può generare difetti (tra i quali l'essere femmina); cf. Aristotele, GA 2.748A; HA 6.577AB, 584B-585B.) Testo

  7. È stato ben chiarito che c'era un solo modello monosessuale per tutti i corpi, da T. Laqueur, Making Sex: Body and Gender from the Greeks to Freud (Cambridge, Mass. 1990). Testo

  8. Per altre versioni che sostengono questa teoria dei due semi, cfr. D. M. Halperin, «Why is Diotima a Woman? Platonic Eros and the Figuration of Gender», in D. M. Halperin, J. Winkler and F. I. Zeitlin (eds.), Before Sexuality (Princeton 1990), 278; anche M. Boylan, «The Galenic and Hippocratic Challenges to Aristotle's Conception Theory», JHBiol 17 (1984), 83-112. Il più completo resoconto di ginecologia aristotelica e pre-aristotelica è probabilmente L. Dean-Jones, Women's Bodies in Classical Greek Science (Oxford 1994). Testo

  9. F. I. Zeitlin, «The Economics of Hesiod's Pandora», in E. Reeder (ed.), Pandora (Baltimore 1995), 49-56. Testo

  10. Per ulteriori commenti cfr. (tra gli altri) N. Loraux, «La race des femmes et quelques unes de ses tribus», Arethusa 11 (1978), 43-89; J. Rudhart, «Pandora: Hésiode et les femmes», MusHelv 43 (J. N. Bremmer, «Pandora or the Creation of a Greek Eve», in G. P. Luttikhuizen (ed.), The Creation of Man and Woman (Leiden 2000), 19-33. Testo

  11. Cf. 1044A34-35; 1071A13-17; 1071B14-31. Testo

  12. Forse allude al Timeo (42B, 90E). Cfr. G. Sissa, «The Sexual Philosophies of Plato and Aristotle», in P. S. Pantel (ed.), A History of Women 1 (Cambridge, Mass. 1992), 60-61. Testo

  13. A favore dell'idea che l'opinione di Aristotele sugli schiavi naturali è stata largamente fraintesa, si veda J. M. Rist, The Mind of Aristotle (Toronto 1989), 249-252; per le donne cfr. 246-249. Testo

  14. Cfr. 728A18 sull'impotenza. Testo

  15. Per un commento si veda Maud W. Gleason, «The Semiotics of Gender», in Halperin, Winkler and Zeitlin, Before Sexuality, in part. 396-399. Testo

  16. Per i dettagli si veda O. Temkin, Galenism: Rise and Decline of a Medical Philosophy (Ithaca, N.Y. 1973). Testo

  17. Cfr. M. Robertson, A History of Greek Art (Cambridge 1975), 390-395. Testo

  18. L'apparizione di Frine mezza nuda nel tribunale di Atene fu sufficiente a garantirle l'assoluzione (come ad una giusta serva di Afrodite) quando le orazioni di un distinto retore come Iperide stavano per fallire. Sembra, tuttavia, che, anche se nuda, la sua statua di bronzo fosse priva della vulva o dei peli pubici: quest'ultimi almeno avrebbero infatti abbassato il tono ad un livello di erotismo popolare. Si veda J. Kilmer, «Genital Phobia and Depilation», JHS 102 (1982) 104-112. Testo

  19. Si veda R. Mortley, Womanhood: The Feminine in Ancient Hellenism, Gnosticism, Christianity and Islam (Sydney 1981); L. Brisson, «Bisexualité et médiation en Grèce ancienne», Nouvelle Revue de Psychanalyse 7 (1973), 27-48. Per un commento sui primi esseri umani creati ermafroditi nell'Haggada ebraica (e nello Gnosticismo) vedere M. C. Horowitz, «The Image of God in Man -- Is Woman Included?», HTR 72 (1979), 184-186. Testo

  20. Per maggiori informazioni su Eudoro, si veda in particolare J. M. Dillon, The Middle Platonists (London/Ithaca, N.Y. 1977), 115-135. Testo

  21. Rep. 10.613B; Theaet. 176AB; Tim. 90Ass.; Lg. 716B. Un recente dibattito è quello di D. Sedley, «The Ideal of Godlikeness», in G. Fine (ed.), Plato 2: Ethics, Politics, Religion and the Soul (Oxford 1999), 309-328 (sebbene l'affermazione di Sedley circa la scarsità di «studi che prendono questo sul serio» lascia dubbiosi; alcune delle più datate analisi sono menzionate in J. M. Rist, Eros and Psyche (Toronto 1964), 15-19, etc.). Testo

  22. Per più approfondite analisi vedere J. M. Rist, «Desiderio e azione», in L. Alici (ed.), Azione e persona: Le radici della prassi (Milano 2002), 29-44. Testo

  23. Cfr. i commenti di C.H. Kahn, Plato and the Socratic Dialogue (Cambridge 1996), 23-29 e di P. A. Vander Waerdt (ed.), The Socratic Movement (Ithaca, N.Y./London 1994), 87-106. Per ulteriori commenti sulla scuola platonica, Diotima, etc., vedere Rist, The Mind of Aristotle, 192, 311-312. Testo

  24. Si veda Halperin, «Why is Diotima a Woman?». Testo

  25. Per la biologia cosmica di Platone si veda Rist, The Mind of Aristotle, 191-205. Si noti il linguaggio delle Leggi 8.838 ss., citato con la consueta approvazione da parte di Clemente di Alessandria (Paed. 2.10.91-92). Testo

  26. Per una dettagliata analisi cfr. J. M. Rist, «Plato and Professor Nussbaum on Acts "Contrary to Nature"», in M. Joyal (ed.), Studies in Plato and the Platonic Tradition: Essays presented to John Whittaker (Aldershot 1997), 65-79. Testo

  27. K. Barth (Church Dogmatics 3.2 (eng. trans. Edinburgh 1961), 285-324) sostenne che la relazione tra uomo e donna aveva lo scopo di indicare la relazione trinitaria con Dio. Per un appropriato commento critico (con ulteriori riferimenti) cfr. H. U. von Balthasar, Theo-Drama II (trad. ing. Graham Harrison, San Francisco 1990), 318, 321. Ma Balthasar (cf. note 2, 115, 196, 197), ammettendo l'esegesi di G. von Rad (Genesis (London 1972) 60) come teologicamente corretta, sostiene che la capacità procreativa dell'uomo, benché benedetta, «è rimossa dall'immagine di Dio» (v. nota 2). Interpretare il testo della Genesi stessa risulta ancora più difficile nella versione dei Settanta, dove l'enfasi sulle storie della creazione è a volte diversa da quella della Bibbia ebraica. Entrambe le versioni hanno influenzato i primi cristiani, per quanto possano essere incompatibili tra loro nei dettagli. Per un'introduzione a questi problemi cfr. W. Loader, The Septuagint, Sexuality and the New Testament (Grand Rapids / Cambridge 2004). Testo

  28. L'idea di una divinità bisessuale sembra aver avuto una ripresa nel tardo giudaismo, forse in parallelo con le tesi greche più tarde riguardo l'ermafrodita; cfr. The Treasure 2,13 e i commenti di J. Jervell, Imago Dei (Göttingen 1960), 96-106; anche, con forti elementi rabbinici, G. M. G. Teugel, «The Creation of the Human in Rabbinic Interpretation», in Luttikhuizen, Creation, 107-127. Circa il significato originale del testo della Genesi si veda J. C. de Moor, «The Duality in God and Man: Genesis 1: 26-27», in J. C. de Moor (ed.), Intertextuality in Ugarit and Israel (London 1998), 112-125. Ma il «noi» in «Facciamo l'uomo...» può riferirsi a Dio in quanto Elohim (con tutte le implicazioni di pluralismo che questo comporta nel concetto ebraico di divinità). E contro la tesi di De Moor secondo la quale il testo di Genesi stesso auspica una divinità androgina, vedi E. Noort, «The Creation of Man and Woman in Biblical and Ancient Near Eastern Traditions», in Luttikhuizen, Creation, 1-18. Noort, comunque, non discute il passaggio di Genesi 5,2: un testo che ha incoraggiato perlomeno alcuni rabbini a pensare Dio stesso (e alla sua immagine) in maniera androgina. Testo

  29. Per la conoscenza cristiana di Filone si veda D. T. Runia, Philo in Early Christian Literature (Assen/ Minneapolis 1993). Testo

  30. Cfr. oppurtunatamente Dillon, The Middle Platonists, 149, che cita Leg. Alleg. 1.108. Testo

  31. Cf. Leg. Alleg. 2.100-102. Testo

  32. Tornerò sulla questione di quanto sia meglio soffermarsi sul «non-femminile» piuttosto che su «maschile». Testo

  33. Si veda in particolare R. A. Baer, Philo's Use of the Categories Male and Female (Leiden 1970), 14-44. Testo

  34. Così De Cher. 49. Al di là di Filone sembra vi sia stato un discorso rabbinico sul rabbino come «moglie di Dio»: see H. Eilberg-Schwartz, God's Phallus (Boston, Mass. 1994), 163-194. Testo

  35. Filone segue probabilmente Platone (Pol. 263A). Si noti che il Dio di Filone costruisce la Forma dell'Uomo: una posizione non-platonica (nonostante Repubblica X) che potrebbe condurlo a difficoltà metafisiche (anche se alcuni cristiani come Gregorio di Nissa sono ancora disposti a seguirlo). Per Filone le Forme -- apparentemente anche le Forme morali, come la Giustizia -- non sono attributi divini. Testo

  36. In The Male Woman: A Feminine Ideal of the Early Church (Uppsala 1990), 86, K. Aspegren osserva giustamente che sebbene Filone alluda al Simposio di Platone (189C-193D), la sua lettura è molto diversa: In Platone la divisione tra uomini e donne incompleti è una conseguenza del peccato umano; in Filone l'esistenza della donna è la causa del peccato. Testo

  37. Vedere anche P. A. Bird, «Sexual Differentiation and Divine Image in the Genesis Creation Texts», in Børresen, Image of God and Gender Models, 11-34. Testo

  38. Per un commento recente vedere A. van den Hoek, «Endowed with Reason or Glued to the Senses: Philo's Thoughts on Adam and Eve», in Luttikhuizen, Creation, 63-75. Testo

  39. Filone usa le nozioni di «diventare maschio», «diventare vergine» e «diventare uno» in un contesto ascetico riferendosi sia a uomini che a donne. Per quanto riguarda le donne Terapeute, Baer, Philo's Use of the Categories, 98-101. K. Vogt non discute Filone, ma cita Bear: vedere «"Becoming Male": A Gnostic and early Christian Metaphor», in Børresen, Image of God and Gender Models, 172-187; «"Becoming Male": A Gnostic, Early Christian and Islamic Metaphor», in K. E. Børresen e K. Vogt (eds.), Women's Studies of the Christian and Islamic Traditions (Dordrecht/Boston, Mass./London 1993), 217-224. Testo

  40. D. Gourevitch (Le mal d'être femme : La femme et la médecine dans la Rome antique (Paris 1984), 96) commenta che per molti dottori dell'antichità una donna non mestruata non è una vera donna (ma forse qualcosa di meglio). Testo

  41. In Platone, come abbiamo visto, un rapporto omosessuale (così come il ricorso alle prostitute) è alla fine escluso. Il seme (l'umanità pre-embrionale) non dovrebbe essere deliberatamente sprecato dove la gravidanza è impossibile o indesiderata. Testo

  42. A. G. Hamman (L'homme, image de Dieu (Paris 1987) 29) asserisce, senza commentare, che nella prima ai Corinzi «selon une interpretation rabbinique» [Paolo] si occupa di uomini e non di donne, semplicemente osservando che questo «contrasta» con Col. 3,11 e Gal. 3,28. Per le questioni di base delle tesi patristiche si veda Børresen, Image of God e F. G. McLeod, The Image of God in the Antiochean Tradition (Washington 1999). Hamman (seguendo Jervell, Imago Dei, 108) nota che la tradizione rabbinica (nota a Paolo) era divisa sulla questione se le donne fossero create a immagine di Dio, anche se tale immagine sia negata a Eva stessa. La tesi di Paolo, comunque, non nega chiaramente che le donne siano create a immagine di Dio, come sostiene Børresen. Nella 1Cor 11,7 dice che l'uomo non dovrebbe coprirsi la testa, poiché egli è immagine e gloria di Dio, ma la donna è la gloria dell'uomo. Il suo pensiero, certamente, è disciplinato da Gen. 1,26-27a e da Gen. 2,7, egli ma li combina in una strana maniera, dicendo che è aner (il maschio) e non anthropos [il genere umano] ad essere creato ad immagine di Dio. (Vedere il dibattito in L. J. Lietaert Peerbolte, «Man, Woman and the Angels in 1Cor. 11,12-16», in Luttikhuizen (ed.), Creation 76-92.) Le parole di Paolo potrebbero essere interpretate come implicazione, anche in senso diretto e sfacciato, che la donna non è creata a immagine di Dio (la tarda e normale tesi della scuola «Antiochena», o -- alla luce [della lettera agli] Efesini 4:13 ritenendo che sia scritta da Paolo stesso o almeno che sia «paolina») -- che, poiché il nostro obbiettivo, sia in quanto uomini o donne, è di «arrivare alla piena conoscenza del Figlio di Dio, ad un maschio perfetto», le donne possono realizzare una più perfetta somiglianza «diventando uomini» o «diventando vergini». Questa possibilità potrebbe comportare che esse abbiano ricevuto un certo tipo di immagine «creaturale» in quanto esse «provengono» dall'immagine di Adamo. La loro relazione con l'immagine sarebbe indiretta, consistendo il loro principale difetto nel loro essere femminili nel corpo. Questo sarebbe più vicino a quanto Agostino pensa a riguardo, come vedremo. A favore della lettura di Børresen comunque -- e prescindendo dalla questione di quale interpretazione rabbinica della Genesi Paolo favorisse o seguisse -- è il fatto che egli considera gli esseri umani come una singola sostanza. Egli non può, come Agostino o gli altri platonizzanti, pensare le femmine come anime maschili (o asessuate) in un corpo femminile, così egli sembra ritenere che quelle che sono femmine nel corpo (e quindi femminili in quanto tali) debbano in qualche modo «diventare maschi», come sembra suggerire Efesini 4,13. Così esse non sarebbero state create a immagine di Dio, sebbene abbiano la capacità di acquisire un'immagine di natura simile (come Ambrosiaster e altri in seguito hanno creduto). Forse Paolo non ha pensato fino in fondo al problema; certamente non poteva prevedere gli effetti delle sue ambiguità. Ritornerò sul problema al termine del presente capitolo. Testo

  43. Al di fuori, cioè, dei circoli platonizzanti -- e alla luce del fatto che «carne» sembra assumere un senso filosofico simile, anche tra gli Epicurei non paolini, e del fatto che (di nuovo) la maggior parte della letteratura ellenistica in prosa è persa! Testo

  44. Eso anthropos: cfr. Rom 7,22; 2 Cor 4,16; Ef 3,16. Testo

  45. Rep. 9.589A6, ho entos anthropos. Testo

  46. Per quanto riguarda lo scontro di motivazioni e la tendenza di una versione di un singolo motivo platonico a dominare tra i circoli cristiani, si veda C. Markschies, «Die platonische Metapher von "innerem Menschen": Eine Brücke zwischen antiker Philosophie und altchristlicher Theologie», ZKG 105 (1994) 1-17. Testo

  47. De Princ., proem. 8-9, con la nota di Crouzel-Simonetti in SC 253, ad loc. Testo

  48. Vedere (ad esempio) Vogt, «"Becoming Male": A Gnostic and Early Christian Metaphor», and «"Becoming Male": a Gnostic, Early Christian and Islamic Metaphor»; G. Sfameni Gasparro, «Image of God and Sexual Differentiation in the Tradition of Enkrateia», in Børresen (ed.), Image of God, 138-171. C'è un parallelo «carnale» con le relazioni lesbiche; per la superiorità (e posizione dominante) del partner «maschile» cfr. Knust, Abandoned, 30-31. Testo

  49. Ogni argomentazione sulla donna a immagine di Dio dovrebbe conoscere il lavoro di K. E. Børresen, specialmente (ed.) Image of God e «In Defence of Augustine: how femina is homo?», in B. Bruning, M. Lamberigts and J. van Houten (eds.), Collectanea Augustiniana: Mélanges T. J. van Bavel (Louvain 1990), 263-280. Testo

  50. Vedere Vogt, «"Becoming Male": A Gnostic, Early Christian and Islamic Metaphor», 223; W. Meeks, «The Image of the Androgyne: Some Uses of a Symbol in Earliest Christianity», History of Religions 13 (1974), 165-208. Testo

  51. Vedere P. Brown, The Body and Society (New York 1988), 113-115 e specialmente M. W. Meyer, «Making Mary Male: The Categories "Male" and "Female" in the Gospel of Thomas», NTS 31 (1985), 554-570. Simili idee circa l'eliminazione delle «opere della femmina» si trovano nel Vangelo degli Egiziani (citato da Clemente in Strom. 3.9.63.1). Testo

  52. Cf. Paed. 3.19.1-2 (l'attività è maschile, la passività femminile), Strom. 4.8.59.4-5. Vedere Aspegren, The Male Woman. Testo

  53. Cf. le leggende di Tecla, con i commenti di Meeks, «Image», 196. Testo

  54. Cf. Børresen, «God's Image, Man's Image? Patristic Interpretations of Gen. 1,27 e 1 Cor. 11,7», in Image of God, 194-196. Testo

  55. Cf. Strom. 2.23.141.1; 3.6.52.1; 3.6.58.2; 3.11.71.4; 3.12.79.3; 3.12.81.4; Paed. 2.10.83.1; 2.10.90.3; 2.10.98.2, etc. Testo

  56. Per l'ambigua concezione di Clemente sulle donne nella società, si veda D. Kinder, «Clement of Alexandria: Conflicting Views on Women», Second Century 7 (1990), 213-220. Testo

  57. H. U. von Balthasar vuole negare questo, sostenendo che Clemente «altrove considera il corpo come parte dell'<immagine>» (Theo-Drama II, 322, nota 24 (citando Paed. 3.11.64.3 e 3.11.66.2). Ma per la negazione della qualità di immagine attribuita al corpo cfr. Prot. 10.98.4; Strom. 2.19.102.6; 6.14.114.4; 6.16.136.3 (quest'ultimo con 2.19.102.6, citato da Balthasar). Testo

  58. Vedere T. H. C. van Eijk, «Marriage and Virginity, Death and Immortality», in J. Fontaine e C. Kannengiesser (eds.), Epektasis: Mélanges patristiques offerts au Cardinal Jean Daniélou (Paris 1972), 220 e D. G. Hunter, «The Language of Desire: Clement of Alexandria's Transformation of Ascetic Discourse», Semeia 57 (1992), 95-111, in part. 101; cf. S. R. C. Lilla, Clement of Alexandria (Oxford 1971), 81-83; W. Völker, Der wahre Gnostiker nach Clemens Alexandrinus (Berlin 1952), 130-132. Testo

  59. Per maggiori dettagli sulla ripresa da parte di Clemente dell'auriga di Platone cfr. Lilla, Clement of Alexandia, 97. Testo

  60. Per una discussione su alcuni presupposti filosofici cfr. Hunter, «The Language of Desire». Hunter omette di spiegare che la lode di Clemente per il matrimonio va a confliggere con i presupposti delle sue tesi sullo stato superiore di apatheia. Testo

  61. Strom. 7.2.10.1; 7.14.84.2; Paed. 3.6.35.2, etc. Per un'indagine sull'apatheia cristiana si veda «L'apatheia chrétienne aux quatres premiers siècles», POC 52 (2002), 165-302; per Clemente pp. 197-202, 247-259. Testo

  62. L'apatheia non è ignorata dagli scritti cristiani prima di Clemente, ma è marginale. Per Giustino, vedere 1 Apol. 10.2; 57.2, ecc.; per un commento cfr. M. Spanneut, Le stoïcisme des Pères de l'église (Paris 1957), 246 e «L'apatheia chrétienne», 173-174. Testo

  63. La situazione può essere molto differente per i Neoplatonici, come sostiene Lilla, ma Clemente è precedente al Neoplatonismo. Lilla è in errore nell'ipotizzare l'influsso platonico sul concetto di apatheia in Clemente. Testo

  64. Per un commento recente vedere R. Sorabji, Emotion and Peace of Mind (Oxford 2000), 47-51; M. Nussbaum, The Therapy of Desire: Theory and Practice in Hellenistic Ethics (Princeton 1994), 398-401. Secondo Spanneut («L'apatheia chrétienne», 199, note 99), Clemente usa l'eupatheia una sola volta riguardo a Cristo. Spanneut nota anche che nel suo entusiasmo nell'attribuire l'apatheia a Cristo, Clemente tende a diminuire la sua piena umanità (200). Testo

  65. Spanneut sostiene che l'apatheia di Clemente non è «essenzialmente insensibilità». Io sostengo che il problema è che Clemente è confuso. A volte si rende le cose difficili negando addirtittura la condizione razionale stoica di «gioia» (chara): come in Strom. 6.9.71.3. Testo

  66. Vedere già H. Merki, ̓Ομοιωσις θεῷ: Von der platonischen Angleichung an Gott zur Gottähnlichkeit bei Gregor von Nyssa (Freiburg in der Schweiz 1952), 48-52; A. Mayer, Das Gottesbild im Menschen nach Clemens von Alexandrien (Roma 1942). Testo

  67. Vedere Lilla, Clement of Alexandria 111. Testo

  68. Parte di questo testo è citato da J. Behr, Asceticism and Anthropology in Irenaeus and Clement (Oxford 2000) 161, nota 144. Testo

  69. Clemente è influenzato da una specifica determinazione stoica dell'Eros. L'uomo saggio, per gli Stoici, accoglierà l'eros ma in alcun modo come «mania», tanto meno in un modo che possa compromettere la sua apatheia e autosufficienza. Per Clemente, come spiegherò, l'agape sembra essere un eros senza passioni (cf. Spanneut, «L'apatheia chrétienne» 257). Platonici come Plutarco negarono del tutto che un tale stato potesse essere propriamente designato come eros; per una buona argomentazione (senza riferimento a Clemente) cfr. M. Nussbaum, «Eros and the Wise» in J. Sihvola and T. Engberg-Pedersen (eds.), The Emotions in Hellenistic Philosophy (Dordrecht 1998), 271-304, in part. 289-298. Testo

  70. A. Nygren, Agape and Eros (trad. P. S. Watson, Philadelphia 1953) 364. Testo

  71. Cf. Rist, Eros and Psyche. Per confutazioni dettagliate di Nygren vedere specialmente M. C. D'Arcy, The Mind and Heart of Love (London 1962), J. Burnaby, Amor Dei (London 1938) e vari saggi in C. W. Kegley (ed.), The Philosophy and Theology of Anders Nygren (Carbondale, Ill.1970). Testo

  72. vedere in generale Quis dives, 7.3; Strom. 2.19.97.2; 5.3.19.4; 7.2.13.1-3. Testo

  73. Cf. Ps.-Andronicus, Sulle emozioni 6 (= SVF 3.432). Testo

  74. Spanneut, Le stoicisme 249. Testo

  75. Per un'analisi più dettagliata delle tesi fataliste di Clemente (e le loro origini), vedere Gaça, The Making of Fornication, in part. 262-266. Testo

  76. Una più dettagliata analisi della bellezza verrà svilluppata nel capitolo 3. Testo

  77. Nella stessa controversia iconoclasta entrambe le parti sostennero che i loro avversari erano «Ellenisti», gli Iconoclasti rigettando tutte le icone in quanto «greche», quindi pagane e ispirate dal Diavolo, i loro avversari sostenendo la distinzione tra un uso cristiano e uno «Ellenico» delle immagini; vedere A. Giakalis, Images of the Divine: The Theology of Iconsat the Seventh Ecumenical Council (edizione rivista, Leiden 2005), in particolare 32; per I riferimento cfr. Mansi 13, 276B, 293B, 296C-E. È interessante notare che entrambe le parti furono incapaci di citare una fonte previa al quarto secolo, e quindi gli Iconoclasti dovettero apportare come prima prova una lettera di Eusebio alla sorella di Costantino (PG 20, 1545-1549) -- senza successo perché il testo era teologicamente sospetto e scritto da un teologo ufficialmente sospetto (cioè «ariano») -- insieme a un brano attribuito falsamente a Epifanio di Salamina. Per il primo periodo vedere M. C. Murray, «Art and the Early Church», JTS 28 (1977) 303-345. Il merito di questo dettagliato studio è mostrare che l'idea ampiamente sostenuta secondo al quale l'Iconoclastia ebbe origine a partire da credenze risalenti al primo cristianesimo è storicamente false; la concezione dei primi Iconoclasti era spesso fine a se stessa. Ma Murray offre una piccola prova a favore dell'idea che prima del quarto secolo ci fu grande entusiasmo da parte dei cristiani per una bellezza estetica (piuttosto che per una mera rappresentazione di scene e simboli biblici), e che i Platonici pagani continuarono a pensare che tale entusiasmo fosse del tutto assente. Il problema teologico e sociologico dell'Iconoclastia -- non solo nella sua versione bizantina -- resta dunque questa: non ha forse il Cristianesimo palesato regolarmente una vera e propria un'ambivalenza, se non un'ostilità, verso le rappresentazioni artistiche di uomini e di Dio, e prodotto anche una certa ostilità nei confronti della bellezza fisica, specialmente della bellezza del corpo umano, considerata distinta da una bellezza della natura che può essere rese accettabile più facilmente poiché rivela lo splendore del potere di Dio? Per una trattazione sulla la negazione della ritrattistica nel primo Cristianesimo e la preferenza accordata alle narrazioni del Nuovo Testamento cfr. anche R. M. Jensen, Face to Face (Minneapolis 2005) 23. Rilevante per il primo dibattito fu l'interpretazione di Is 53:2-3 -- come anche, ma in una differente prospettiva, del Sal 45 -- il quale prima di Clemente era regolarmente considerato come riferito a Gesù (prima della Resurrezione), in quanto senza eidos [forma], doxa [apparenza] e time [pregio] (essedo quindi né bello né glorioso): così Giustino, Dial. 36.6; 49.2; 85.1 (aeid s) [invisibile]; Tertulliano, De carne Christi 15.5; Adv. Iud. 14.1-3 (nessuna species [forma] o decus [dignità]). E si noti il contrasto in Clemente tra gli ammiratori della kallos [bellezza] (fisica) e i contemplatori del mondo intelligibile (Strom. 6.17.151.3). Successivamente, di certo, Cristo ritornerà nella gloria (cf. Dan. 7): così Giustino, Dial. 49.2; 110.2 etc. Per un utile commento vedere J. Taubes, «La giustificazione del brutto nella tradizione cristiana delle origini», in Messianismo e cultura: Saggi di politica, teologia e storia (Cernusco 2001) 255-281. Testo

  78. L'importanza della paura degli «idoli» (spesso raffigurati in nudità eroiche o erotiche, unendo così due motivi per il sospetto) non è da sottovalutare, e avrebbe potuto portare ad una distinzione formale tra arte idolatra e non idolatra, sebbene, a dispetto dei successivi passi esitanti in questa direzione degli «iconofili», ciò non sia avvenuto. Qualsiasi distinzione di tal genere sarebbe, almeno inizialmente, resterebbe necessariamente indeterminata: potremmo aspettarci ritratti quasi religiosi di soggetti «secolari» e, più frequentemente, ritratti «secolarizzati» di temi religiosi. È interessante che, una volta scomparsi gli antichi dei, si presentò un nuovo iconoclasta, e Lutero, temendo in quel momento apparentemente il neo-paganesimo, dichiara che le immagini «idolatre» cristiane dovrebbero essere sostituite dalla parola, cioè dalla predicazione della «parola» di Dio. Testo

  79. Cf. Strom. 2.20.118ss., 3.7.58ss. per amare una moglie senza «desiderio» di lei. Behr (Asceticism and Anthropology 175) osserva giustamente che c'è maggiore preoccupazione per l'amore reciproco e per la devozione in Musonio che in Clemente. Testo

  80. E. Osborn, Ethical Patterns in Early Christian Thought (Cambridge 1976), 74. Testo

  81. Per un interessante commento si veda C. Osborne, Eros Unveiled: Plato and the God of Love (Oxford 1994), 164-184. Testo

  82. I cristiani hanno naturalmente ereditato dagli ebrei una problematica riguardo le immagini di Dio -- e qualcosa dell'ebraica avversione per la bellezza «ellenica». Ma l'arte delle sinagoghe in questo periodo (come a Bet Alfa in Galilea) è stata apparentemente meno severa riguardo le immagini di quanto lo divenne in seguito, e i cristiani iniziarono abbastanza rapidamente a dipingere (come nelle catacombe romane) immagini di Cristo nelle vesti, per esempio, del Buon Pastore. Eppure, apparentemente, restò un certo timore a rappresentare Cristo sofferente: fino al quinto secolo, per esempio, non abbiamo rappresentazioni della crocifissione. Coloro che avevano assistito alle crocifissioni sarebbero stati in difficoltà a descrivere l'umiliazione della pena più che semplicemente il dolore -- come Platone aveva rifiutato nel Fedone di descrivere i dettagli dell'avvelenamento da cicuta. Testo

  83. Comm. in Rom. 5.2 (PG 14, 1029D). Testo

  84. Ogni spiegazione della condizione originaria di Adamo e del suo rapporto in genere con la caduta delle creature razionali nei corpi (secondo Origene), deve rimanere a livello di ipotesi speculativa. Non è chiaro quante «cadute» propose Origene; anzi non si sa nemmeno se egli abbia sostenuto una unica posizione coerente per tutta la sua vita. Sono particolarmente in debito con il dibattito di C. Bammel, «Adam in Origen», in R.Williams (ed.),The Making of Orthodoxy: Essays in Honour of Henry Chadwick (Oxford 1989), 62-93, in part. 68-69. L'alternativa più interessante è proposta da G. Bürke, «Die Origenes Lehre vom Urstand des Menschen», ZKTh 72 (1950) 1-39. Un commento più recente (con qualche analisi sull'escatologia) può essere trovato in E. Prinzivalli, «L'uomo e il suo destino nel Commento a Giovanni», in E. Prinzivalli (ed.), Il Commento a Giovanni di Origene: Il testo e i suoi contesti (Villa Verruchio, RN 2005), 361-379, in part. 373-374. Testo

  85. Comm. in Matt. 17.35. Cf. P. Pisi, «Peccato di Adamo e caduta dei NOES nell'esegesi origeniana», in L. Lies (ed.), Origeniana Quarta (Innsbruck 1987), 322-335. Testo

  86. Per i dettagli, una buona sintesi è quella di Sfameni Gasparro, «Image of God», specialmente, 146-150. Testo

  87. Vedere il recente Behr, Asceticism and Anthropology, 143-144. Testo

  88. Cf. M. Harl, «Recherches sur l'origénisme d'Origène: La satiété (kóros) dela contemplation comme motif de la chute des âmes», Studia Patristica 8, TU92 (Berlin 1966), 373-405 Testo

  89. Rufino, Apologia 1.24. Testo

  90. Per questo e altri problemi del genere, si veda H. Crouzel, «La doctrine origénienne des corps ressuscités», Bulletin de littérature ecclésiastique 81 (1980), 175-200, 241-266, in part. 188-197. Sarebbe interessante -- e tenderebbe a confermare la teoria di autocastrazione di Origene -- se egli avesse pensato (come Basilio di Ancira negò più tardi) che con la castrazione uno cessasse di essere un maschio nella vita presente. Così la liberazione della sessualità corporea costituirebbe il primo passo della perdita del corpo animale in generale -- sebbene per Origene un tale corpo «desessualizzato» debba continuare, in qualche modo, a fornire un «contesto» per la purificazione dell'anima fino a che la purificazione sia completa (cfr. ancora Brown, Body and Society 165). Testo

  91. Vedere Prinzivalli, «L'uomo e il suo destino» 374-379. Testo

  92. Entr. Her. 12; cf. In Joh. 20.22.183 (GCS 4.2, p. 355, 11ss.). Testo

  93. H. Crouzel, Théologie de l'image de Dieu chez Origène (Paris 1956), 145, 148. Testo

  94. Cf. C. Jenkins (ed.) «Origen on I Corinthians II», 29, JTS 9 (1908) 370. La questione è complicata dall'uso (filoniano) da parte di Origene delle distinzioni che ci sono all'interno di ogni essere umano tra lo spiritus maschile e l'anima (più sensuale) femminile: cf. Omelia sulla Genesi 1.13.15. In tal modo la caduta potrebbe significare una compiacenza dello spiritus nell'adulterio dell'anima con la carne (e la Redenzione sarebbe il recupero stesso dell'unione originale con lo spirito). Testo

  95. Per la visione «attenuata» della resurrezione da parte di Origene vedere Crouzel, «La doctrine origènienne». Testo

  96. Così Crouzel, Théologie de l'image 244; W. Völker, Das Vollkommenheitsideal des Origenes (Tübingen 1931), 153-156. Evagrio, uno degli ultimi discepoli di Origene, collocò l'apatheia in una posizione centrale all'interno della sua dottrina ascetica, ma questo ci porterebbe troppo lontano dal tema della creazione e non sarà discusso qui. Testo

  97. Per l'apatheia in Origene e i Cappadoci si veda anche il riassunto di A. e C. Guillaumont, Évagre le Pontique : Traité pratique, SC 170 (Paris 1971), 100-108. Per la negazione dell'apatheia al Padre (dove non viene apportata l'interpretazione allegorica) vedere Hom. in Ezech. 6.6; per ulteriori discussioni cfr. L. Perrone, «La passione della carità: Il mistero della misericordia divina secondo Origene», Parola, Spirito e Vita 29 (1994), 223-235; T. Kobusch, «Kann Gott leiden? Zu den philosophischen Grundlagen der Lehre von der Passibilität Gottes bei Origenes», VC 46 (1992), 328-333; Spanneut, «L'apatheia chrétienne», 204. Origene certamente interpreta in modo allegorico i riferimenti (per esempio) all'ira di Dio presenti nell'Antico Testamento, e normalmente pensa al Padre come apathes dal momento che è immutabile, senza peccato, ecc., ma fa uso del concetto stoico di emozioni preliminari per spiegare la «rabbia» di Gesù nel Tempio (vedere Spanneut, «L'apatheia chrétienne», 205-207). Testo

  98. Per lo sviluppo delle idee cristiane sulla bellezza «erotica» vedere il capitolo 3. Testo

  99. A proposito si veda De Vita Contemplativa 7.57. Testo

  100. Così Leg. Alleg. 3.113. Testo

  101. Cf. K. Rahner, «Le début d'une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène», Revue d'Ascétique et de Mystique 12 (1932), 113-145; J. M. Dillon, «Aisthesis Noete: A Doctrine of Spiritual Senses in Origen and in Plotinus», in The Golden Chain (Aldershot 1990), essay XIX. La tesi avrà ramificazioni nella questione che sarà discussa successivamente circa la natura della conoscenza che Dio ha dei particolari. Per gli sviluppi in Gregorio di Nissa e le possibili connessioni con l'apatheia vedere J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique (Paris 1944), 100. Testo

  102. Sul concetto di «dardi» si veda Osborne, Eros Unveiled, 72-74. Testo

  103. SC 290, pp. 22-25. Testo

  104. Rilevante è che nella descrizione di Origene della Sposa nel Cantico dei Cantici, sia la Chiesa sia l'anima individuale (sebbene no vi sia ancora particolare enfasi sulla donna vergine) sono in un certo senso la nuova Eva -- in precedenza invece ella era identificata solo con la Chiesa (cf. Tert., De Anima 43.10). Ho già commentato la tendenza a vedere l'anima come femminile in rapporto a Dio, sia in Filone che nei rabbini. Testo

  105. Nel quarto secolo troviamo spesso una combinazione di idee: da una parte l'anima maschile deve essere femminile in relazione a Dio ma d'altra parte essa deve essere «maschile» nella vita ordinaria, viceversa l'anima femminile deve essere resa maschile (o angelica) con la soppressione dello stesso corpo femminile, per esempio con il digiuno che interrompe le mestruazioni delle donne, diminuisce i seni, ecc. Per un dibattito dettagliato su questo si veda T. M. Shaw, The Burden of the Flesh: Fasting and Sexuality in early Christianity (Minneapolis 1998). Testo

  106. Per un commento si veda K. Børresen, «God's Image, Man's Image? Patristic Interpretations of Gen. 1,27 and 1 Cor. 11,7», in Image of God, 196-197. Testo

  107. Sermo de creatione hominis 1.18 = Hom. 10 (SC 160, 212-216). Testo

  108. Il giovanileDe Virginitate non dà indicazioni sulla doppia creazione. Per una discussione recente su come vada interpretata la doppia creazione (se si tratti di una sequenza storica o logica) cfr. S. Taranto, «Esiste una "doppia creazione" dalle origini in Gregorio Nisseno?», Adamantius 8 (2002) 33-56. Testo

  109. Vedere soprattutto J. Daniélou, L'être et le temps chez Grégoire de Nysse (Leiden 1970). Per una ricostruzione immaginaria del parere di Gregorio vedere Brown, Body and Society 293-299. Testo

  110. De hom. op. 16 (PG 44, 181B). Dio creò «l'uomo» a sua immagine e somiglianza, poi aggiunse la distinzione sessuale (physeos idiomata, 181D). Testo

  111. De hom. op. 16. Testo

  112. Cfr. E. Prinzivalli, Magister Ecclesiae: Il dibattito su Origene fra III e IV secolo (Roma 2002), 24, 87-89. Testo

  113. De an. et res. 157AB, sebbene con buona pace di Hamman (L'homme, image de Dieu 219) egli non dice che l'uomo intero è «a immagine di Dio», come Hamman stesso sembra ammettere in seguito (p. 236). Testo

  114. Per ulteriori commenti sul fatto che Gregorio abbia continuato ad usare la nozione origenista secondo la quale tutte le anime sarebbero donne in rapporto a Dio, e sulla tipica descrizione della santità eroica delle donne come «maschi», vedi Børresen, «God's Image», 198. Testo

  115. Cfr E. Jeauneau, «La division des sexes chez Grégoire de Nysse et chez Jean Scot Erigène», Eriugena, Studien zu seinen Quellen (Heidelberg 1980), 33-54. Tutti questi testi sono discussi da Balthasar (Theo-Drama II, 379-382, e si veda la nota 2 supra) che, pur ritenendo la posizione gregoriana più soddisfacente delle altre alternative, conclude che «dobbiamo lasciare la questione aperta». A favore delle tesi gregoriane, secondo Balthasar, c'è il fatto che esse riconoscono la sessualità «solamente come un'eco secondaria dell'umanità completa», per le quali egli si riferisce alla dottrina della Chiesa secondo la quale in paradiso non ci saranno atti sessuali. Ciò non dice nulla sulla questione che la sessualità è stata creata da Dio per la vita dell'uomo sulla terra ed è qualcosa che riguarda più che la sfera meramente genitale; anzi essa sembra accettare la linea gregoriana e pre-gregoriana per la quale la sessualità sarebbe limitata agli atti genitali del corpo. La tesi di Gregorio dipende dall'idea che il paradiso ripristina lo stato di Adamo prima della caduta, che deve «quindi» essere stato asessuale. Dal momento che Balthasar sembra respingere questa parte della visione Gregoriana, ci si chiede perché (contro l'Agostino maturo) egli sia interessato a negare una vera e propria sessualità a favore di una spiegazione apparentemente «decorativa» delle differenze fisiche tra Adamo ed Eva che sono originali: un problema che non si pone, se accettiamo le conseguenze di chi rigetta tutte le soluzioni «platonizzanti» (o «angelizzanti») del problema della differenza sessuale. Balthasar sembra confondere ulteriormente la questione in Theo-Drama VI, 100, dove discutendo la Genesi conclude (accettabile contro Barth) che «il matrimonio [...] non è una immagine di Dio in senso protologico... il matrimonio (nel Nuovo Testamento) trascende se stesso per divenire la verginale ed eucaristica reciprocità tra Cristo come Uomo e la Chiesa come Donna» -- eludendo così la questione se e in che senso la sessualità riguardi l'immagine divina, e tende ad identificare «sessuale» con «carnale» in modo patristico, come qualcosa che deve essere «trasceso». Testo

  116. Come notato da Hamman, L'Homme, image de Dieu, 236. Per Basilio di Ancira cfr. De Virginitate (PG 30, 785C). Come osservato in precedenza, Basilio suggerisce in modo interessante, ma senza svilupparla, l'idea che la castrazione lascia comunque l'uomo sessualmente (kata physin, [secondo natura] 787CD) maschio. Questo è probabilmente un tentativo di dissociarsi dall'estremismo «origenista» -- a meno che physis non si riferisca semplicemente al pene? Per un interessante dibattito su Basilio in quanto portavoce della versione «omoiousiana» del progresso ascetico vedere S. Elm, "Virgins of God": The Making of Asceticism in Late Antiquity (Oxford 1994). Testo