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La scommessa di Dio. La fede come dinamica della realizzazione personale: commenti

(10 marzo 2005)

Un lungo intervento (che qui pubblichiamo ridotto), prendendo le mosse da una franca critica all'idea di mistica sottesa dall'articolo La scommessa di Dio, solleva molti importanti problemi relativi sia alla comprensione della vita cristiana, sia al rapporto con le esperienze di altre religioni:

L'articolo mi lascia profondamente perplessa. Non sono un'esperta, ma un'appassionata lettrice di testi mistici di ogni confessione religiosa e non concordo con la sua interpretazione del misticismo. Già l'accostamento dell'esperienza contemplativa alla terminologia del nuovo management (performance di successo, modeling, personal coaching, know how, engagement, imprenditore come mistico operativo, sciamani del marketing, operatività e autorealizzazione, materialismo come dominio reale delle idee) mi provoca disagio.

Chi rischia più dell'imprenditore? [...]. dopo l'eroe, è l'imprenditore la figura drammatica che rischia il tutto per tutto, sempre, a lui non è concessa pausa né attenuante di sorta, tutto è in mano sua e tutto può continuamente sfuggirgli dalle mani. [...] la condizione dell'imprenditore, di fatto idealtipica, è poi omologa a quella di ogni essere umano che voglia realmente vivere all'altezza della propria vocazione.

Ritengo invece che il vero eroe (e anche martire!) dei nostri tempi sia l'uomo comune. Chi più di lui è il «catalizzatore individuale del rischio»? Chi rischia più di lui che è in balia delle decisioni altrui? Chi è più mistico di lui che più di ogni altro si affida alla provvidenza, si fida dell'altro e esercita l'obbedienza, il servizio e la pazienza? Nessuno più di lui si esercita nell'arte dell'abbandono-attivo. Questo è un atto di fede: affidarsi-fidarsi all'altro di cui non si conosce il grado di eticità, moralità, consapevolezza. Non è garantito dalle scelte altrui, quindi non delega il rischio ad altri, ma si affida e si fida, nel credere all'altro rischia per se stesso. In questa relazione di dipendenza si vincola assieme all'altro all'esercizio della responsabilità come interdipendenza etica.

L'uomo lotta per realizzare se stesso facendo ricorso ad ogni suo personale talento e scoprendone dei nuovi. La lotta favorisce sempre la scoperta del nuovo. Così operando, l'uomo scopre e riscopre se stesso, amplia il reticolo delle sue possibilità, gioca quasi con Dio cercato che lo chiama a sempre nuovi compiti.

Non condivido l'idea di un Dio con cui giocare al gioco dei talenti, tanto meno l'idea che la mia realizzazione dipenda da questi: più che una metafisica pare una sorta di strategia aziendale impostata sulla flessibilità delle competenze personali e sul raggiungimento degli obiettivi. Replico con una frase di Eckhart:

Dio non fa né ha mai fatto un dono perché lo si possegga e ci si acquieti in esso, ma tutti i doni da lui fatti nel cielo e sulla terra egli li fece per poterci fare un dono solo, cioè se stesso; con tutti gli altri doni egli vuol prepararci a quel dono che è lui stesso. E tutte le opere, che Dio ha compiute in cielo e sulla terra, le ha compiute per poter effettuare un'opera sola: quella di renderci beati.

Afferma l'articolo:

L'uomo è originariamente e si scopre sempre nuovamente libero nella lotta. Eliminare la competizione dalla vita significa semplicemente espungere ogni dinamica di realizzazione concreta della libertà. In questo senso, l'Occidente è la terra della realizzazione della libertà, in quanto l'uomo occidentale, da sempre, si è spinto fin oltre la soglia del già noto per sondare e conoscere l'orizzonte ultimo della storia.

La scoperta di sé e della propria vocazione è lo «specifico» di tutte le persone, è patrimonio dell'umanità intera e non solo dell'uomo occidentale: voglio ricordare che Cristo era orientale e non occidentale. La tradizione mistica indica come nostro compito primario, ai fini della realizzazione della nostra personale vocazione, trovare il nostro spirito che condivide la natura di Dio, in quanto in esso si trova la salvezza, nella dimensione della sua comunione di Sé. Comunione che ci libera dalla volgarità del possesso egoico (fosse anche di un talento!) e ci consente la visione e comprensione del Regno. L'unica vocazione dell'uomo è la chiamata alla santità (o buddhità, satori, nirvana, illuminazione), come sua condizione naturale: in quest'ottica i talenti sono accessori rispetto al godimento del dono, dono che è il godimento stesso del dono deprivato del possesso, perché goderne equivale a riconoscerLo e glorificarLo: «Nostro Signore mi conservi il gusto dell'Essere e la visione che l'Essere è Lui» (Pierre Teilhard de Chardin).

Non appartiene al mistico l'autorealizzazione utile alla performance di successo, ma il morire a se stessi, alla presunzione di essere qualcosa fuori di Dio. L'unica operatività che gli appartiene è quella del non-fare, che non è quietismo o passività, ma abbandono attivo, «ignoranza degna di lode» come la definisce Dionigi, è operare il distacco come destrutturazione concettuale. «Il fare che compete all'uomo e in cui si risolve la sua eticità è un non-fare: è un togliere via il parvente, il molteplice, dissolvere l'illusorietà del creato, affinché in noi sia ed agisca solo Dio [...] Il fare di Dio è nulla se non si attua in noi: perché esso esige il nostro non-fare» (G. Faggin). Dopo aver fatto il vuoto mediante l'astrazione e il distacco, il non-fare porta all'abbandono come predisposizione ad accogliere il dono. Solo attraverso l'accettazione della non conoscenza l'ignoranza diventa degna di lode, e dove muore la ragione può nascere la vera fede che si nutre di uno slancio carico di desiderio di riunificazione come appartenenza al Divino mistero sconosciuto. Plotino affermava che non si arriva alla conoscenza, ma ad una unione al di là della conoscenza.

Questa stessa idea si ritrova in molti mistici. Lao-tzu: «Con lo studio ogni giorno si aumenta, con la Via ogni giorno si diminuisce. Si diminuisce sempre di più, finchè si arriva al non-fare. Non facendo, non c'è nulla che non sia fatto». Eckhart: «Preghiamo Dio di liberarci dell'idea di Dio», e similmente un koan zen dice «Se volete scoprire la verità quando incontrate sulla vostra strada il Buddha, uccidete il Buddha!». Bonaventura da Bagnoreggio: «Abbandona i sensi e le operazioni intellettuali, le cose sensibili e quelle insensibili, l'essere e il non-essere, e per quanto ti è possibile, abbandonati fiduciosamente a colui che è sopra ogni essenza e ogni scienza». Dionigi: «Abbandonare i sensi e le operazioni intellettuali, abbandonare le cose sensibili e intelleggibili, che sono e non sono, e in piena ignoranza protenditi, per quanto è possibile, verso colui che supera ogni conoscenza. Mediante questa tensione irrefrenabile e mediante l'inattività di ogni conoscenza apparterrai completamente a colui che è sconosciuto». P. Teilhard de Chardin: «Poiché è scritto "nessuno viene a me se io non lo prendo e non lo attiro io stesso in me", la beatitudine mistica raggiunge la perfezione nella coscienza di questa gratuità, e cioè di questa suprema dipendenza». É. Zolla: «Gli uomini si fanno trasportare dalle proprie biografie... la maschera mondana diventa la pelle del viso... liberazione è lasciar cadere l'identificazione con la nostra biografia...». Platone parla della «filosofia come esercizio di morte». Al-'Arabi ad-Darqawi: «Quanto poi a quel che dicevamo circa l'attaccamento del cuore alla visione dell'Essenza del nostro Signore, nessuno di noi lo possiede finché il nostro ego non è estinto, cancellato, scomparso, annichilito, come disse il santo Abul-Marwahib at-Tunsi -- Iddio sia soddisfatto in lui --: "L'estinzione è cancellazione, sparizione, distacco da te stesso, cessazione"; e secondo il santo Abu Madyan -- si compiaccia Iddio di lui --: "Chi non muore non vede Dio"; e questo è stato confermato da tutti i maestri della Via». Eckhart: «Dice Sant'Agostino: versa fuori per essere riempito; impara a non amare, se vuoi impare ad amare; rivolgiti in là per essere rivolto qua. Precisamente: ciò che deve accogliere e ricevere, deve necessariamente essere vuoto. I maestri ci dicono che l'occchio non percepirebbe i colori né in sé né nelle cose se quando conosce avesse un colore in se stesso: esso vede tutti i colori appunto perché è privo di qualsiasi colore». E similmente un racconto zen relativo al concetto di vuoto come mente decondizionata, esprime quanto detto da Agostino: ciò che deve accogliere e ricevere deve necessariamente essere vuoto:

Un filosofo si reco un giorno da un maestro zen e gli dichiarò: «Sono venuto ad informarmi sullo Zen, su quali siano i suoi principi ed i suoi scopi». «Posso offrirti una tazza di tè?» gli domandò il maestro. E cominciò a versare il tè da una teiera.

Quando la tazza fu colma, il maestro continuò a versare il liquido, che traboccò. «Ma che cosa fai?» sbottò il filosofo. «Non vedi che la tazza è piena?» «Anche la tua mente è troppo piena di opinioni e di idee perché le si possa versare dentro qualcos'altro.»

Concordo con il fatto che il futuro della religione è il misticismo, ma inteso come esperienza contemplativa di unificazione, non nella versione narcisista che lo interpreta come esaltazione dell'individualità:

La bellezza della visione cristiana della vita risiede nella sua prospettiva di unità, in cui l'umanità intera viene vista come un tutt'uno in Colui che è unito al Padre [...]. Nell'unione diveniamo ciò che siamo chiamati ad essere: soltanto nell'unione abbiamo piena consapevolezza di chi siamo [...]. Nella visuale cristiana scopo primario della nostra vita è quello di realizzare l'unione, la comunione [...]. Si tratta di superare ogni dualismo, ogni divisione in noi stessi, di andare al di là dell'alienazione che ci separa dagli altri. È stato proprio il dualismo che ha minacciato di distruggere la stupenda centralità, l'equilibrio della visione cristiana. Ed è ancora il dualismo l'origine di tutte quelle possibili «alternative» non realistiche che si pongono a ciascuno di noi e che ci causano tanto inutile tormento: Dio o l'uomo, amore per sé stessi o amore per il prossimo, chiostro o mondo degli affari [...]. Per poter comunicare l'esperienza cristiana dell'unione, l'esperienza di Dio in Gesù, dobbiamo innanzi tutto risolvere queste false dicotomie in noi stessi. Dobbiamo lasciarci fare uno da Colui che è Uno. Sembra essere proprio delle dualità il diffondersi ed il complicare la totalità e la semplicità da cui proveniamo e a cui la preghiera profonda ci riconduce. Tra queste dualità, una delle più significative è costituita dalla polarizzazione della vita attiva e di quella contemplativa [...]. Le conclusioni che si son tratte dall'errata comprensione della dimensione contemplativa della Chiesa hanno distorto l'esplicito insegnamento del Nuovo Testamento, ovvero che la chiamata alla santità è universale. Non vi è nulla oggi di più urgente, in seno alla Chiesa e nel mondo, del comprendere nuovamente che la chiamata alla preghiera profonda è universale. L'unità fra i cristiani così come l'unità tra le varie razze ed i diversi credi religiosi, trova fondamento nella scoperta di ciascuno di noi del principio profondo di unità inteso come intima esperienza personale. Se vogliamo comprendere appieno che il Cristo è davvero la pace tra gli uomini, dobbiamo fare nostro il concetto che «Cristo è tutto in tutti». E noi siamo in Lui. La vera sfida dei nostri tempi è rappresentata dalla necessità di ritrovare una forma di preghiera profonda che ci guidi verso un'esperienza di unione, lontano dalle distrazioni superficiali e dalla religiosità consapevole. Tutto il nostro perseguire un recondito sapere, dottrine o percorsi inespressi è ormai inutile, perché l'ultimo segreto è stato rivelato: «il segreto è questo: Cristo in voi». Quindi, in preghiera non cerchiamo di far accadere qualcosa: è già accaduto. La schiavitù dei preconcetti, che impedisce di compiere questo percorso, non trattiene coloro che capiscono di «possedere l'intelletto di Cristo». L'incontro tra Oriente e Occidente nello Spirito, che rappresenta uno dei grandi avvenimenti del nostro tempo può dare frutti solo se si realizza sul piano della preghiera profonda. Altrettanto può dirsi per quanto riguarda l'unione delle diverse Chiese cristiane (John Main).

E ancora:

Nasce così una nuova e contemporanea pastorale che ci auguriamo sia in sintonia con la «nuova evangelizzazione»: la pastorale dell'insegnamento contemplativo [...] un insegnamento da non confondere con quello della sola preghiera, ma indirizzato ad educare la coscienza a travalicare ogni movimento concettuale e mentale. Allo stesso modo si prospettano gli orizzonti di un nuovo ecumenismo, basato non tanto sul confronto delle idee, quanto sulla condivisione delle esperienze spirituali [...] Il primo ecumenismo, il più vecchio, ha avuto da secoli la testa come luogo d'origine. Ma la testa, dall'inizio dei tempi, è abituata più a separare che ad unire. L'ultimo ecumenismo, e speriamo sia quello definitivo, nasce da un cuore purificato nel silenzio (John Main).

La stessa idea è portata avanti da un celebre autore di spiritualità:

la meditazione ci porterà da sola verso la conoscenza mistica delle cose spirituali, cioè a una comprensione diretta di queste realtà, senza immagini o pensieri che svolgano il ruolo di mediatori. A dire la verità, noi avremo un piccolo mediatore, almeno all'inizio di ogni esercizio: il respiro [...] . Come ho affermato pubblicamente più volte, non esito a dire che la meditazione non concettuale è essenziale al completo sviluppo dell'essere umano. Non solo non è inutile ma costituisce un anello essenziale, finora mancante a livello di coscienza dell'umanità [...]. Le religioni del mondo si sentivano poi concordi nel sottolineare che la terra non potrà mai essere trasformata in meglio se non cambia prima la coscienza degli individui [...] le religioni pur consapevoli del gemito universale dell'umanità, si sono dimostrate finora inefficaci a provocare questa scossa e questo risveglio nella coscienza degli abitanti del nostro pianeta [...] ma parlare, riflettere mentalmente, essere spronati dal di fuori non è sufficiente a cambiare una coscienza così vasta come quella dell'intera umanità. Ci vuole una esperienza diversa, che sorga come una fulminea intuizione dal di dentro, più intima del nostri intimo e più radicale della nostra radice. Ci vuole l'esperienza globale che trasformi ogni coscienza individuale e da quel punto si espanda in ondate di benedizione fino a permeare l'immensa coscienza della famiglia umana. Solamente l'«effetto villaggio» di McLuhan sarà possibile a questi scopi grazie alla meditazione silenziosa [...]. La meditazione non è un semplice aiuto al pari con il pensiero positivo e con le preghiere tradizionali (M. Ballester).

Alla possibile accusa di omologare esperienze religiose differenti egli replica:

Non ho cercato un parallelismo ferreo tra due strutture culturali o religiose, cioè fra buddismo e cristianesimo, ma piuttosto una possibile analogia e sintonia entro il mondo spirituale dei mistici [...]. In realtà il linguaggio mistico può essere sottomesso ai rigori di una presentazione strutturale accurata. Gli stessi mistici lo fanno spesso, specialmente quelli che si muovono in ambienti in cui il mondo dei concetti filosofici e teologici primeggia su quello dei simboli. Ma curiosamente sono essi stessi a far uso delle risorse del linguaggio apofatico e poetico quando si vedono superati dalle profondità abissali dell'esperienza mistica stessa. La vera sintonia quindi si troverà sempre più nello scambio di una esperienza che non nei complessi meandri di una struttura (M. Ballester).

Nella mia esperienza meditativa e nella lettura della mistica dell'oriente e dell'occidente ho trovato le risposte più adeguate sul senso della vita. Molto spesso è attraverso la meditazione e le parole dei mistici che ho compreso i discorsi dei teologi o dei filosofi, attraverso la lente della loro esperienza contemplativa e del mio esercizio di meditazione ho interpretato i percorsi concettuali da loro seguiti, e a volte mi sembra che la mistica costituisca l'ancora di salvezza della teologia. Il sapere puramente intellettuale o rituale della fede non soddisfa, un cammino puramente cognitivo non dà risposte all'interrogativo esistenziale. Non si può raggiungere un vero umanesimo attraverso l'etica dei comandamenti, ma mediante la conoscenza ed attraverso l'esperienza di unione con tutti gli esseri. L'esercizio spirituale consiste nel raggiungere la nostra vera natura, il nostro centro divino o come lo si voglia chiamare. Ogni morale imposta dall'esterno sembra condannata al fallimento. Certo si rende necessaria la definizione di comandamenti e regole, ma la vera trasformazione dell'uomo scaturisce dal profondo dell'essere. Credo che la risposta autentica alla ricerca d'interiorità del nostro tempo è data dalla rivalutazione della tradizione mistica delle religioni, all'interno delle proprie tradizioni, ma anche al di là di queste. L'importanza della meditazione e della contemplazione è stata spesso dimenticata, ma solo l'esperienza della «realtà» può costituire la meta finale. I teologi hanno operato una costante razionalizzazione della fede, abbandonando la mistica come fenomeno irrazionale e marginale, non considerandola più come fondamento dell'evento spirituale. La scienza teologica, la religiosità, le formulazioni concettuali, hanno sostituito il dato esperienziale mistico perché indefinibile e impossibile da incasellare ed etichettare.

La nostra mente, la nostra civiltà razionale ha partorito un Dio al culmine della creazione, che non si trova e non respira nella creazione, ma è meta verso la quale tutto si muove. Al di fuori del mondo determina il destino del mondo pur riconoscendo all'uomo la libertà fittizia di gestire a suo piacimento la vita. Confesso di aver trovato da sempre detestabile l'idea di un Dio estraneo e irraggiungibile non si può amare se non per servilismo, un Dio che non si capisce per quale motivo dovrebbe volere, limitato dal suo stesso desiderare altro al di fuori di se stesso per il suo compiacimento. Il rapporto tra l'anima e Dio risulta così nel segno dell'angoscia della distanza. Fortunatamente ci sono altri interpreti della realtà, tra i quali i mistici: la loro esperienza e le loro parole indicano la via e le modalità per seguirla, e placano l'angoscia che nasce dal sentirsi immersi in una universale estraneità del cosmo. Da loro ho imparato che non esiste un abisso che separa l'uomo da Dio, che il mondo è la manifestazione del divino e che la redenzione non va intesa come il superamento di tale abisso, ma come un risveglio della nostra vera natura.

Non v'è che una sola Messa al mondo, in tutti i tempi: la vera Ostia, l'Ostia totale, è l'Universo, che sempre più intimamente, il Cristo invade e vivifica. Dalla più lontana origine delle cose sino al loro imprevedibile compimento, attraverso le dinamiche senza fine dello spazio illimitato, l'intera Natura subisce, lentamente ed irresistibilmente, la grande Consacrazione. In fondo, una sola cosa si fa, da sempre e per sempre, nel Creato: il Corpo del Cristo (P. Theilhard de Chardin).

E in altro passo:

Non potendo esaurire la profondità dell'Ostia, tentai di aderire, per lo meno, alla sua intera superficie. Non era forse molto liscia e piccola? Cercai dunque di coincidere con Essa dal di fuori, di sposarne esattamente tutti i contorni [...] Lì, mi aspettava un altro infinito che deluse la mia speranza. Quando volli avvolgere la Santa Particola nel mio amore, tanto gelosamente da aderirvi senza perdere del suo prezioso contatto neppure l'area di un atomo, accadde infatti che Essa si differenziò e si complicò indefinitivamente sotto il mio sforzo. Man mano che credevo di stringerla, non era affatto Essa che tenevo, ma una delle mille creature nel cui seno è coinvolta la nostra vita: una sofferenza, un piacere, un lavoro, un fratello da amare o da consolare [...] Così nel fondo del mio cuore, grazie a una meravigliosa sostituzione, l'Ostia si sottraeva mediante la superficie, lasciandomi alle prese con l'intero Universo ricostituito da Essa, tratto dalle sue Apparenze [...] Avevo sempre avuto un'anima naturalmente panteista. Del panteismo provavo le insuperabili aspirazioni, senza osare utilizzarle liberamente, non sapendo come conciliarle con la mia fede. Da quando ho fatto queste varie esperienze (ed altre ancora) posso dire di aver trovato, per la mia esistenza, l'interesse inesauribile e la inalterabile pace. Vivo in seno ad un Elemento Unico, Centro e Dettaglio d'ogni cosa, Amore personale e Potenza cosmica.

Una fondamentale differenza distingue queste tesi dal pantesimo:

Si possono completamente fraintendere queste profonde frasi, ed allora si parla di «panteismo». Magari quando le si intendono nel senso di von Hartmann, per cui Dio giunge alla coscienza di se stesso solo nella coscienza dell'uomo. Per Eckhart questa è follia pura. Infatti Dio genera eternamente suo Figlio in se stesso. Eternamente la divinità si determina in Dio, in autocoscienza ed autoconoscenza personale, mentre il Padre pronuncia in se stesso la Parola. Ma Dio dona eternamente all'anima tutto quello che è e tutto quel che ha, e l'anima «partecipa» al suo stesso essere, e solo così ha l'essere. Così partecipa anche al suo conoscere. E così il suo conoscere non è agire proprio, non è provare proprio: questo è il punto della questione! Essa conosce solo perché l'Essere eterno è in lei, e così anche l'eterna autoconoscenza. Questo non è panteismo, ma il suo opposto estremo e più alto: non una divinizzazione della creatura, ma un sentire teopantico e l'espressione di una dottrina «eccessiva» della grazia (R. Otto).

La conoscenza ricavata dalla religione è quindi solo provvisoria. Le scritture sacre sono come il dito che mostra la luna, e che scompare quando l'oggetto stesso viene visto: in questo senso Dionigi e Origene sono grandi maestri. La vera conoscenza è la comprensione personale intuitiva di ciò che le scritture hanno insegnato. Questa esperienza contemplativa, mistica, intuitiva è l'esperienza della grazia. Per accedere a ciò, la via che ci viene indicata dai mistici è un salto nel buio. Purtroppo ciò che manca è il coraggio di uscire da una struttura dogmatica e cercare un nuovo (sia pure antico) approccio. Certo ciò comporta il rischio di entrare in crisi, di perdere la sicurezza e l'identità offerte dalla propria tradizione, ma accettare tale vuoto accogliendolo come stimolo alla ricerca significa scartare sia il fondamentalismo che la passiva adesione a rituali che precludono l'accesso all'esperienza contemplativa personale. Incomprensibile invece è il linguaggio desueto, chiaro solo per gli specialisti, di molti teologi, che intenti a spiegare il vangelo producono il risultato opposto: rendere inaccessibile la fecondità della Pentecoste agli uomini. Dio non vuole essere «adorato» o «capito», vuole essere vissuto. L'esperienza mistica dà questa consapevolezza: la vera religione è vivere la vita, perché la nostra vita è religione. In quest'ottica di conoscenza e consapevolezza la quotidianità è preghiera: camminare, respirare, esserci. Una storia ebraica racconta che i discepoli chiesero al rabbi quale fosse il segreto della sua saggezza, e lui rispose: «Quando sono seduto sono seduto, quando sto in piedi sto in piedi, quando cammino, cammino». Ma i discepoli replicarono: «Questo lo facciamo anche noi ma non siamo saggi». Il rabbi rispose: «No, voi non fate questo. Quando siete seduti, vi siete già alzati, quando state in piedi, vi siete già avviati, e quando camminate siete già arrivati». Similmente Eckhart esprime lo stesso concetto:

Partendo da questo fondo intimissimo, dovresti compiere le tue azioni senza un perché. Ti dico in verità, che finché compi le tue azioni per ottenere il regno dei cieli, o per Dio, o per la tua salvezza eterna, quindi dall'esterno, non vivi giustamente. Ti si può anche accettare così, ma non è la cosa migliore. Perché in verità, se pensi di ottenere di più nell'interiorità, nella devozione, nella dolce estasi ed in uno stato particolare di grazia di Dio rispetto a quando ti trovi accanto al focolare o nella stalla, non fai altro che prendere Dio, avvolgergli un mantello intorno al capo e spingerlo sotto una panca. Perché chi cerca Dio in un modo, prende il modo e perde Dio, che è nascosto nel modo. Chi invece cerca Dio senza modo, lo coglie come è in se stesso, e vive con il Figlio, ed è la vita stessa. Se qualcuno chiedesse alla vita per mille anni: «perché vivi?», questa non potrebbe che rispondere: «Vivo perché vivo». Questo deriva dal fatto che la vita vive a partire dalla sua propria essenza e scaturisce dalla sua propria fonte; ecco perché vive senza perché, in quanto vive per se stessa. Se richiedesse, dunque, ad un uomo giusto che agisce a partire dalla propria natura: «perché compi le tue azioni?», questi, per rispondere giustamente, non direbbe nient'altro che: «agisco perché agisco».

Naturalmente esiste anche una pseudomistica e il movimento della New Age ha contribuito ad aumentare l'offerta di alternative di un nuovo senso della vita.

La compenetrazione della spiritualità nella vita quotidiana presuppone quindi l'esperienza che non esiste nulla che non sia forma espressiva del divino. Questa consapevolezza implica un'ulteriore riconoscimento: che la vita è il vero contenuto della religiosità e che compito davvero religioso consiste nel vivere la vita. Questa consapevolezza rende la quotidianità preghiera. Chi fa questa esperienza fino in fondo ritorna al quotidiano come uomo trasformato: fare e riconoscere questa esperienza della realtà è la redenzione indicata dai mistici di ogni tempo e luogo. Quindi nella via spirituale, dopo il distacco dalla mondanità intesa come liberazione dai condizionamenti, è necessario ritornare nel mondo che viene vissuto in modo completamente diverso. La via spirituale non significa quindi affatto dissolversi nel tutto o perdere la singolarità: il vuoto è un passaggio e non la meta. Neppure estasi e visioni sono la meta (Dionigi e San Giovanni della Croce lo indicano molto chiaramente), ma fasi transitorie da superare. Questo ritorno alla «piazza del mercato» non è dettato dall'etica, ma dall'amore realizzato, non è forzato, ma è naturale perché questo movimento è la sua natura. È amore senza perdita d'identità. È amore come unica norma di riferimento, «ama e fa' ciò che vuoi», perché questo operato è permeato dallo Spirito dell'amore che non necessita di leggi, che cancella l'angosciosa estraneità del mondo ed elimina la distanza pur mantenendo la differenza. Non è con-fusione o con-fondersi, ma relazione, danza. Essere senza essere, come lo chiama Margherita Porete.

Nostro Signore mi conservi il gusto dell'Essere e la visione che l'Essere è Lui.

La grande felicità non è forse quella di aver intuito (intravisto) che il mondo aveva un centro, e che questo Centro è amante? (P. Theilhard de Chardin)

Patrizia Cupini

Ovviamente tutti i temi sollevati (e altri che per brevità sono stati omessi) sono degni di approfondimento, e costituiscono alcune delle sfide più importanti che la teologia cristiana oggi è destinata ad affrontare: ci auguriamo che in varie forme trovino spazio sulle pagine di Reportata. Forse, oltre alle giuste esigenze che sono state sollevate, deve fare pensare anche il fatto che il radicamento «storico» del Cristianesimo, apparentemente agli antipodi di una sensibilità mistica, nella storia della teologia è stato anche il modo per riflettere sulla infinita libertà di Dio (un Dio il cui comportamento appunto non sui lascia dedurre e dimostrare!) e sulla concretezza e carnalità dell'amore al quale ogni uomo, qui-e-ora, è chiamato. E quindi, al di là delle contrapposizioni, vale forse la pena di pensare se non c'è un senso in cui la memoria del passato e la separazione convergano con l'esperienza di ogni momento e l'unità.

In una linea completamente diversa un breve intervento che riflette sull'impossibilità di ricavare la fede da un ragionamento e conclude, con un po' di amarezza, sulla gratuità e indisponibilità della grazia:

L'articolo è molto bello e denso di significato. Che ci voglia fede e fiducia per la realizzazione della propria vocazione è innegabile, ma l'idea che questa fede tragga origine da un ragionamento, seppur convincente, mi lascia un po' perplesso. Dunque, realizzare la propria vocazione che poi è quella di esistere e crescere... in che modo? attraverso quali scelte? E qui forse il ragionamento sartriano sulla condanna ad essere liberi un po' è pertinente, quanto meno per gli aspetti psicologici legati all'angoscia. Quindi mettiamoci nei panni di un uomo che voglia realizzare la sua essenza, edificare la sua vita nel segno dell'umanità. Bene! Ma attraverso quali scelte? Come? Analizziamo virtù, capacità, inclinazioni... E poi? Ancora confusione. Si conosce solo la meta ultima, generica, ma come raggiungerla? Abbi fede e qualche segno divino ti indicherà la strada... Ma il segno dev'essere poi interpretato... e bisogna avere fiducia che il segno sia divino. Mi sembra che non se esca, a meno appunto di un atteggiamento di fiducia e fede che però io considero grazia, dono: chi non la ha non può farsela venire attraverso un puro ragionamento.

A meno che sospendiamo il giudizio e almeno per un attimo, assumiamo che vi sia un senso, e attraverso un'analisi a posteriori si capisca perché ci si trova in un certo punto. È come accendere la luce e scoprire che sono in camera da letto: come ci sono finito non lo so, ma ora che so di essere qui assumo che vi sia un senso, e attraverso l'interpretazione di senso ripercorro le tappe, a volte accidentali, che mi hanno portato in camera da letto, e così capisco che la mia vocazione è fare questo e quello. E forte di questo senso cerco di realizzare la mia vocazione. O magari riconosco che non volevo stare in camera da letto e allora entro in crisi... e scopro che il senso lo decido sempre e solo io. Sono talmente libero che posso scegliere sempre il senso a mio piacimento, e quindi la mia paura è che la dinamica della fede sia molto bella e lucida, ma che in definitiva occorra una grazia per averla. E per quanto riguarda il realizzare la propria essenza, se si ha fede è tutto molto più facile, ma se non si ha questa fortuna si rischia di trovare solo comunque e sempre una spiegazione del mio esserci o del mio non esserci. E l'angoscia regna sovrana.