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La scommessa di Dio.
La fede come dinamica della realizzazione personale

di Raffaele Iannuzzi (25 gennaio 2004)

L'unica cosa nel mondo dei valori è l'anima attiva, l'anima libera, sovrana, attiva. Questo compete a ogni uomo, questo ogni uomo contiene dentro di sé, anche se in quasi tutti è ancora impedito, quasi ancora non nato. L'anima attiva vede verità assoluta ed esprime o crea, verità. Agendo così l'anima è genio: non il privilegio di qualcuno qua o là favorito dalla sorte, ma il solido patrimonio di ogni uomo. (Ralph Waldo Emerson)

1. Più arditi di Pascal

Pascal era un uomo ardito, come ogni grande genio. La sua sfrontatezza giunse fino al punto di ipotizzare e proporre la celeberrima pari, la scommessa decisiva sull'esistenza: scommetti su Dio, abbi fede come se Dio esistesse e provvedesse a te in ogni istante, vivi, lavora e prega come se Dio operasse ora nella tua vita e vedrai che, nel tempo, otterrai la fede.

È una sorta di filosofia dell'als ob, del «come se», che Vahininger proporrà in altro ambito per fuoriuscire dalle secche razionalistiche del kantismo. Ipotizzare ora di vivere come se un'altra realtà operasse concretamente significa lavorare sul versante dei possibili estremi, vuol dire esporsi positivamente alla malìa intrigante del «pensiero laterale», che non rimane mai impigliato nella panìa del principio di non contraddizione e di quello del terzo escluso, ma rovescia sul terreno della vita, in un magistrale coup di brainstorming, la possibilità inedita, imprevista, inavvertita prima facie ma non per questo inattendibile, anzi ben più feconda delle solite produzioni logiche. Dyer parla a questo riguardo di «ispirazione»:

Concentratevi su quello che vorreste diventare: un artista, un musicista, un programmatore informatico, un dentista o qualsiasi altra cosa. Immaginate di disporre delle capacità necessarie. Nessun dubbio solo consapevolezza. Cominciate poi a comportarvi come se aveste già esaudito il vostro desiderio. In quanto artisti, la vostra visione vi consentirà di disegnare, di visitare musei, di parlare con personaggi famosi e di immergervi nel mondo dell'arte. In altre parole, cominciate a comportarvi da artista in ogni aspetto della vita. In questo modo uscirete da voi stessi ed assumerete il controllo del vostro destino mentre contemporaneamente coltivate l'ispirazione. Più vi vedete come vorreste essere, più vi sentirete ispirati (Dieci segreti per il successo e l'armonia, Corbaccio, Milano, 2003, p. 135).

È quanto aveva già intuito Pascal. Il grande filosofo francese era un uomo ardito e visualizzava già il pensiero laterale, il «come se», il possibile esistenziale inedito curvato dalla fantasia e dalla creatività personale: credere in Dio «come se» fosse già da sempre operante nella mia vita significa concepire la vita come un campo infinito di possibilità. La categoria della possibilità, in questa visione, è la protagonista assoluta della vita. La scommessa di Pascal può certamente funzionare a patto di non depotenziarla fin dall'inizio con una sequela rovinosa di «ma, se, però...», avversative sempre dure a morire che imbevono l'inconscio di comandi negativi assoluti: non potrà mai funzionare alcuna scommessa, stop. Ecco come l'inconscio reagisce a questa aggressione di avversative; non conoscendo sfumature semantiche, l'inconscio è portato ad assumere seccamente l'alternativa negativa in risposta ad un dubbio avanzato. La grande scommessa di Pascal, in questo caso, non funzionerà mai. E questo sancisce lo scacco della libertà della persona. Ma non voglio indugiare più di tanto su questa eventualità. L'ho menzionata solo per non farla operare nel caso di un'apertura ancora più ardita del pensiero, l'apertura che intendo avanzare ora. Sarò più ardito di Pascal. Lui ha fatto riferimento alla libertà dell'uomo ed alla possibilità di scommettere, possibilità sempre umana; io voglio fare un ulteriore passo avanti, anzi voglio far agire il pensiero laterale ed introdurre sulla scena un soggetto imprevisto, eccezionale: Dio. Che l'uomo possa scommettere su Dio e sulla possibilità di avere la fede «come se» Dio operasse è cosa ardita ma ancora inquadrabile in una cornice manipolabile. Ben altra questione è, invece, il fatto che Dio stesso possa e voglia scommettere sull'uomo, sulla persona, su me, ora, in questo istante, come se tutto dipendesse da me. Ecco l'elemento di novità: Dio scommette su di me come se tutto dipendesse da me. Si tratta di un enorme salto di qualità, un vero paradosso logico: come può, infatti, Dio dare credito alle mie forze come se da esse dipendesse il mio personale destino? Già sant'Ignazio di Loyola aveva in qualche modo intuito almeno qualcosa di questo paradosso quando affermava di fare come se tutto dipendesse da Dio e, nello stesso tempo, agire come se tutto dipendesse da me. Tuttavia, io aggiungo molto altro: io affermo che Dio assume interamente la mia esistenza donandole la capacità del tutto speciale di autodefinirsi. Sono io la forma del mio destino: così vuole Dio. È, questa, affermazione ben più ardita di quella pascaliana, poiché investe interamente l'azione di Dio che di per sé è del tutto imprescrutabile andando a collocarla proprio all'interno dell'azione umana che si trova così investita di un'autorevolezza e di un'efficacia altrimenti assolutamente impensabili. Dio vuole proprio che io decida del mio destino, della mia vita, della mia personale realizzazione. Dio vuole che io sia l'unico arbitro della mia vita, l'ago della bilancia di ogni mia azione, il baricentro dei miei progetti. Il pari di Dio è un paradosso assoluto: il Divino discende non solo per incarnarsi, ma anche per rendere l'uomo veramente libero, soggetto in grado di autodeterminarsi ed autorealizzarsi. Ciò che tradizionalmente si definisce «volontà di Dio», in realtà, è frutto di questa implicazione paradossale di Dio con la persona, di questo mandato divino all'uomo che non può più sottrarsi al compito imprescindibile di realizzarsi secondo i propri personali parametri e le proprie inclinazioni dominanti. La natura dell'uomo diventa così il fulcro ed il campo di tensione della realizzazione della vocazione individuale. La grazia, presupponendo la natura, non può che seguire il flusso individuale dell'agire della persona. Gratia supponit naturam et perficit eam, la grazia presuppone la natura e la conduce a compimento.

Dio non vuole sottrarre alcunché all'uomo, è una falsa credenza, che produce effetti perversi nell'ambito della fede personale, pensare che, ogniqualvolta il potere divino intervenga nel dominio della persona, quest'ultima si trovi depauperata radicalmente delle sue potenzialità: non esiste l'aut-aut o Dio o l'uomo. Esiste, per contro, la correlazione positiva et-et: e Dio e l'uomo. Tanto Dio, tanto l'uomo: Dio vuole l'uomo nel Suo ambito, desidera che la persona si potenzi a contatto con la Sua grazia. Una buona e vera teologia potenzia l'azione umana e, per converso, una cattiva e fallace teologia svuota di senso e di efficacia l'agire umano. Dio osa raggiungere l'uomo sul suo terreno privilegiato, l'esistenza storica, concreta: e perché l'uomo non dovrebbe osare altrettanto nei confronti di Dio? Come? Semplicemente portando a compimento quanto Dio ritiene fondamentale: la realizzazione personale.

Anticipo l'obiezione teologica corrente: se l'uomo si realizza secondo parametri personali, l'azione di Dio, che detterebbe la Sua volontà sull'uomo, si rivelerebbe una finzione, un non-senso. Obiezione alquanto rozza, direi. Intanto, perché Dio non è mai, come ho già affermato, contro l'uomo. E poi perché Dio ha creato l'uomo libero ed autonomo ben sapendo, da sempre, che egli avrebbe adoperato ogni sua facoltà e potere per compiere interamente il percorso di autorealizzazione. È, questa, per dirla in sintesi, la visione di Dio: l'uomo che si autorealizza. Non contro di Lui, ma in forza di quanto Lui stesso gli ha liberamente e gratuitamente donato. Dopo il dono di Dio, in primis la libertà, la persona non può che giocarsi interamente nel compito di realizzare la propria vocazione. Vocazione e missione, in questo specifico contesto, sono i due corni della medesima, dinamica realtà: la vita stessa. Io sono veramente vivo allorquando realizzo la mia vocazione aderendo ad una missione specifica che io e soltanto io sono in grado di scoprire, conoscere e realizzare pienamente (senza evidentemente cedere a tentazioni deliranti di perfettismo: il meglio è sempre nemico del bene).

2. La vocazione individuale

Io sono la mia vocazione. Dunque, per vivere pienamente la mia vita, non posso che realizzare la mia vocazione. Ognuno di noi ha una personale vocazione da realizzare. Si tratta di un compito, anzi direi, ancor più radicalmente, di una missione urgente, imprescindibile. Emerge, a questo livello, un'alta componente di rischio, inevitabile quando si metta in gioco la libertà individuale all'interno di circostanze di per sé mai completamente dominabili. La variabile impazzita è sempre in agguato, guai a censurarla o a porla in un angolo come se tutto potesse essere sempre completamente trasparente, governabile. Così non è, mai.

La vita è sempre rischio, dramma, movimento ondulatorio, a spirale, gonfiato costantemente dai rèfoli improvvisi del destino. L'uomo è sempre in cammino, homo viator; la strada spesso non è illuminata e le risorse sulle quali fare affidamento sono il più delle volte scarse. Rischiare, nella vita, è come respirare, un esercizio vitale che, nel tempo, non può che diventare connaturale, essenziale. Io rischio dalla mattina alla sera sul palcoscenico della vita: rischio per guadagnarmi da vivere, rischio per avere un amore all'altezza del mio destino, rischio per governare i sentimenti, le emozioni e la razionalità, rischio in ogni decisione, rischio nei rapporti personali... rischio sempre, in ogni istante, rischio per vivere, il mio habitat naturale è il rischio. Schumpeter aveva giustamente individuato nella figura concreta dell'imprenditore il catalizzatore individuale del rischio: chi rischia più di un imprenditore? L'imprenditore deve tenere d'occhio costantemente gli slittamenti frequenti del mercato, programmare una adeguata strategia commerciale, limare gli strumenti giusti per assicurarsi il successo in termini di profitto e di autorevolezza industriale; dopo l'eroe, è l'imprenditore la figura drammatica che rischia il tutto per tutto, sempre, a lui non è concessa pausa né attenuante di sorta, tutto è in mano sua e tutto può continuamente sfuggirgli dalle mani. Ma, a ben guardare, la condizione dell'imprenditore, di fatto idealtipica, è poi omologa a quella di ogni essere umano che voglia realmente vivere all'altezza della propria vocazione. C'è una forma già prefigurata di esistenza alla quale dare corpo con ogni movimento dell'intelligenza e della volontà: la vocazione. Tutto è già da sempre consegnato nelle mani del destino e tutto, nel contempo, è sempre da realizzare e configurare originalmente ora, con uno scatto esistenziale acuto e spiazzante. L'io vive sempre a contatto con il destino già da sempre prefigurato e con l'ardita operazione di artigianato dell'esistenza, sana manipolazione della fattura primigenia della vita. Destino e libertà si incrociano sempre senza scontrarsi mai, l'equilibrio, nella vita, è sempre dato dalla originale miscelazione dei due fattori, che non devono mai cortocircuitarsi, ma piuttosto contaminarsi in una sorta di divina osmosi. La mia vocazione arde all'interno del dramma storico e destinale della mia vita: io sono così e così già da sempre, ma, insieme, sono sempre da configurare nuovamente con plasticità e flessibilità. La persona razionale ed emotivamente matura plasma con flessibilità e decisione ogni componente della vita, andando a verificare con acutezza l'esito dell'incrocio della Gestalt (forma) della vita con le apparentemente accidentali contingenze dell'esistenza. Tutto si plasma così dentro un magma divino fatto di destino e storia, eterno e contingenza. Guitton vide bene questa coincidenza di apparenti opposti e la classificò assai correttamente come forma permanente della vita: destino e storia sono fratelli gemelli, non esiste l'uno senza l'altra. Apparenti opposizioni polari, per dirla con Guardini. Il mio destino ha sempre una forma storica; la mia storia si nutre sin dall'origine di dati permanenti e strutturali, appunto destinali. Il fatto contingente che stringe ora la mia vita, lo sguardo di quella donna al bar, risuona potentemente nella sinfonia del destino che, al pari della verità, è proprio musica sinfonica; due occhi incrociano un altro mondo umano, con un carico disperso eppure prossimo di domanda, due mondi si incontrano, si sfiorano, chissà mai perché, due alambicchi di ragione e di emozioni si strofinano sapidamente, tutto balza fin sopra la misura dell'origine, ecco l'azione del destino che scortica il manto della storicità: un incontro!

Guardini riconobbe acutamente nell'incontro il paradigma più affascinante della conoscenza: come conoscere te senza incontrarti? Voglio davvero conoscerti! Allora non posso che incontrarti. Incontrare te, che mi guardi e forse mi desideri, ma anche incontrare la realtà che vive e palpita di fronte a me: tutto è occasione di incontro. Il flusso arcano ed alchemico della vita è dettato dal susseguirsi di incontri belli, pesanti, stranianti, ribollenti, incontri, sapidi incontri, velenosi incontri, contatti, tumultuosi incroci... la vita stessa è incontro, anzi, di più, una fitta ed incandescente trama di incontri, un crocevia magico di percorsi spuntati e ripresi, crocicchi insoliti ed imprevisti... vivere è incontrare l'altro nella piena coscienza di sé. La mia vocazione si gioca interamente dentro questo arazzo rovesciato, che dilata sapientemente le onde dell'imprevisto, la «nostra sola speranza» (Montale). Realizzarsi nella propria vocazione significa appunto distendersi su questo stuolo di frammenti destinali e contingenti, alla ricerca quasi spasmodica dell'incontro definitivo, che sfonderà la parete ultima delle cose solo nell'ultimo giorno, di fronte all'Eterno mare di salvezza.

3. La libertà della persona

Io sono libero e, nello stesso tempo, mi trovo inserito in una trama oggettiva di circostanze, che sembrano non lasciarmi respiro. L'io e le circostanze, affermava Ortega e, in effetti, le cose stanno così: il mio essere concreto è definito e definibile solo dentro il mare magnum delle circostanze, solo all'interno del groviglio, spesso magmatico, delle cose; eppure, occorre precisare, l'io non è mai interamente determinato dalle cose e dalle circostanze, poiché è libero, anzi proprio la libertà rappresenta la realtà originaria del suo essere, l'ubi consistam della sua esistenza. Si tratta, quindi, di una irriducibile libertà, non priva certo di condizionamenti, ma sempre attiva e permanentemente in gioco, alimentatrice del rischio del vivere, così altamente drammatico e, insieme, così squisitamente fecondo. La vocazione della persona è sempre rischio, perché essa si intreccia e si immedesima, come in ideale osmosi, con la libertà matura dell'io: solo un uomo libero può realizzare la propria vocazione. La libertà, così, non è affatto una condanna, come voleva far credere certo acido e corrosivo pensiero sartriano e nichilista-esistenzialista; al contrario: la libertà è l'estrema, aguzza possibilità di porre in essere, per intero, la forma della vita, la declinazione stringente dell'umano esistere. Questa estrema possibilità, che mette in campo assai massicciamente la drammaticità della vocazione, squaderna con grande evidenza la lotta permanente che la persona è chiamata a sostenere nella vicenda storica: l'uomo lotta per realizzare se stesso facendo ricorso ad ogni suo personale talento e scoprendone di nuovi. La lotta favorisce sempre la scoperta del nuovo. Così operando, l'uomo scopre e riscopre se stesso, amplia il reticolo delle sue possibilità, gioca quasi con il Dio cercato che lo chiama a sempre nuovi compiti.

La comprensione della libertà -- osserva Abbagnano -- è così la stessa intelligenza che l'uomo ha di sé e del suo compito nel mondo. Solo quando si identifica con un compito che lo trascende, solo quando si impegna e lotta, l'uomo è veramente libero. Tale è l'ultimo significato della considerazione filosofica della libertà (Introduzione all'esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano, 2001, p. 104).

L'uomo è originariamente e si scopre sempre nuovamente libero nella lotta. Eliminare la competizione dalla vita significa semplicemente espungere ogni dinamica di realizzazione concreta della libertà. In questo senso, l'Occidente è la terra della realizzazione della libertà, in quanto l'uomo occidentale, da sempre, si è spinto fin oltre la soglia del già-noto per sondare e conoscere l'orizzonte ultimo della storia, l'ultima Thule della vicenda umana. Il solco del destino dell'uomo occidentale è essenzialmente religioso e la fede in Cristo ha sancito oggettivamente il significato del sacrificio di questo particolare tipo umano, così altro da ogni suo simile appartenente ad altri emisferi e ad altre culture. Lo specifico dell'uomo occidentale è totalmente inscritto nel suo percorso, ad un tempo drammatico e liberante, di scoperta di sé e, dunque, della propria vocazione. La libertà di questo uomo riveste, così, un ruolo propulsivo decisivo in ordine al destino individuale: libero è solo colui che gioca a dadi con il suo destino, ignorando l'esito della disputa.

Questo gioco, così affascinante ed esaltante, non è mai votato allo svuotamento della realtà dell'uomo, cioè non mira mai a renderlo semplice comparsa in uno spettacolo ideato da un altro; qui si gioca il livello più intenso della competizione e della lotta, poiché l'uomo -- in quanto essere storico e ad un tempo capace di autotrascendenza in vista della scoperta del significato della vita -- non può mai essere teso a «sfondare» la parete dura delle circostanze che gli si oppongono con impeto per così dire eroico, no, l'uomo compete prima di tutto con se stesso, anela alla realizzazione di se stesso, ad autoperfezionarsi. Ecco in campo ancora una volta l'aretè, la virtus, la virtù umana che distende la proiezione delle umane facoltà in maniera asintotica, tendente quindi all'infinito. L'uomo ha successo innanzitutto quando si realizza come essere capace di autotrascendenza, simbolico e creatore di ricchezza culturale, simbolica, spirituale e materiale. La libertà personale ha una dimensione religiosa e, insieme, simbolica; l'uomo, dunque, realizza se stesso ed arriva al successo solo all'interno di questo plastico paradigma esistenziale. Ma vi è dell'altro: l'uomo, in quanto essere storico, simbolico e spirituale, aperto alla vita (Gehlen), è sempre spinto a mutare il paradigma, a realizzare nuove scoperte, a farsi alchimista del proprio successo personale. Kuhn direbbe: la scoperta di un nuovo livello di vita comporta necessariamente un «salto» di paradigma. Ebbene, questo «salto» l'uomo lo compie, spesso vorticosamente, lasciandosi plasmare dal suo proprio valore individuale fatto di fede, simboli vitali, cultura, lotta: è un abbandono attivo, un calarsi flessibile nel gorgo magmatico della vita per trarne fuori «tesori antichi e nuovi», strumenti, valori, insegnamenti utili alla fuoriuscita dalle false e depotenzianti convinzioni.

Questa è la vera lotta, condotta liberamente dall'uomo, che si accorge veramente di essere libero, come ci ha insegnato Blondel, solo in azione. E l'azione, ricorda sempre Blondel, ha bisogno di fede. Chi non ha fede non può agire, mai. Bisogna credere per essere e per fare. Bien penser pour bien agir ovvero, per citare il famoso detto di Emerson: il pensiero è l'antenato dell'azione. Colui che pensa rettamente il successo nei corretti e salutari termini sopra descritti può decisamente agire bene conseguentemente a questo retto pensiero. Dal pensiero all'azione e dall'azione al pensiero: questo è il flusso dominante che muove la razionalità performativa. Questo tipo di razionalità non consegna il pensiero allo sterile peregrinare da un'idea all'altra in un processo monoideativo del tutto autoreferenziale. Al contrario, la razionalità è performativa proprio perché costruisce un nuovo paradigma conoscitivo, in cui l'intuizione della verità, la definizione delle categorie per conoscere la realtà e la pratica dotata di consapevolezza operativa si muovono parallelamente, senza ostacolarsi bensì nutrendosi vicendevolmente. Questo paradigma di razionalità è perfettamente corrispondente all'esperienza di un uomo libero, di un uomo cioè che sperimenti in primo luogo la sua libertà d'azione (Ayn Rand); questo tipo umano scoprirà infatti da sé che ragionare in maniera calibrata su un problema facendo perno prima di tutto sulle risorse anziché sulle difficoltà significa destrutturare la realtà ri-creandola in un certo qual senso, cioè riorientandola verso un significato positivo utile alla perfomance di successo. Pensare significa intuire ed immaginare; agire significa pianificare e mantenersi flessibili circa le strategie operative. Per far tutto questo, occorre poi la consapevolezza operativa, ovvero la capacità, direi quasi l'arte di «addomesticare» le circostanze rendendole risorse per la realizzazione del progetto ideato. La libertà individuale, come libertà originaria d'azione, esalta il suo slancio pratico ed operativo proprio in vista dell'obiettivo immaginato, pianificato e quindi realizzato. Non esiste libertà d'azione senza immaginazione, pianificazione, consapevolezza operativa e ultimamente successo. La libertà è l'aquila reale che sorvola l'universo del sogno in cerca di felicità: finché non l'ha trovata, la sua missione rimane incompiuta. Felicità ho detto, usando una parola forte, dunque intendo parlare di compimento dell'esistenza, di pienezza, plèroma nel linguaggio mistico, definizione concreta e totale del significato ultimo della vita: l'uomo è un essere affamato di senso, togligli il senso e lo ridurrai ad una carcassa vuota. Colui che agisce con scienza e coscienza operativa è solo un uomo carico di significati e simboli, un creatore di domande e risposte, un alchimista della vita, direi forzando un pò la mano, uno sciamano gonfio di religiosità e pragmatismo; sto parlando di un mistico operativo, un uomo assolutamente geniale che lavora indefessamente per costruire simboli adeguati alla vita dell'uomo e ricchezze durature. L'imprenditore, già nella visione schumpeteriana, è assai simile a questa descrizione. Non finisce, con il capitalismo, la visione eroica dell'esistenza; si disloca piuttosto sul terreno dell'edificazione complessiva della vita dell'uomo, in uno spazio simbolico ancora più estensivo rispetto a quello veicolato dal mito. L'uomo libero è un essere simbolico, homo religiosus e viator, faber e sognatore pragmatico. L'uomo occidentale, in una tipologia che la PNL chiamerebbe di modeling, cioè di «modelli» realmente operanti ed esistenti, è proprio così: basti porre attenzione all'attività di alcuni grandi imprenditori italiani e stranieri, ad alcuni pubblicitari, ad alcuni grandi «sciamani» del marketing. È il dominio reale delle idee, altro che materialismo grezzo! Assimilare questa lezione di genio ed operatività significa rimodellare la propria esistenza in consonanza con una razionalità performativa, la razionalità dell'uomo libero, occidentale.

4. L'energia del significato

Tutto è energia. La fisica ha scoperto che l'universo è piatto, cioè infinito, senza inizio né fine, e che questo universo è stracarico di energia, è fatto di energia. Noi siamo energia. Abitiamo l'universo con addosso questo carico poderoso di energia, che traslochiamo ora a destra ora a sinistra, di qua e di là: l'azione mia e tua è fatta di energia, è energia che esplode e realizza materialmente il sogno albergante nel cuore. La libertà, nel contatto con questa energia, diventa convergenza pura verso l'Assoluto, nel senso che declina fantasticamente lo scarico immenso dell'energia della persona depositandolo sul terreno concreto delle circostanze storiche. La vocazione personale si raggruma, per così dire, nell'involucro energetico e da esso muove per definirsi e farsi materia vivente, forma reale. Io realizzo la mia personale vocazione in quanto energia che si aziona storicamente, effettualmente, ed in quanto soggettività che prorompe in un guizzo quasi estatico verso la realtà; l'elemento soggettivo si compone con quello oggettivo, e tutto ciò all'interno della prassi. Il significato della vita, il suo scopo, è percepibile solo dentro la fatica costante del muoversi e del porsi di fronte alla realtà.

Eliot, in alcuni suoi versi, dipinge accuratamente l'«infinita fatica di essere uomini», ovvero il lavoro necessario all'edificazione della vita, che è sempre, in uno, dono e compito. L'energia che tutto attraversa e che focalizza sempre radicalmente la nostra azione giunge proprio a trapassare le resistenze soggettive che ognuno di noi trattiene dentro sé; con questa benefica azione, l'energia conduce l'io alla riscoperta degli orizzonti di significato o di senso, direbbe Frankl, più avanzati, gli avamposti costituiti esattamente per rilanciare il moto creativo della persona. Ogni ostacolo diventa, a questo punto, un'occasione di crescita; ogni problema si fa veicolo di produzione della genialità pratica e pragmatica. Arturo Paoli ha parlato di «impegno come contemplazione», andando ad attingere al nucleo dell'engagement onde rilanciare la mistica nell'azione, l'abbordo vivo della realtà come espansione dello spazio della liberazione personale e sociale. Il punto focale di questo paradigma è Lévinas, l'esito di questo itinerario di pensiero è la «contemplazione attiva». Siamo responsabili dell'altro, afferma Paoli, e questa assoluta responsabilità è il segno dell'infinito intrattenimento con il Dio che si fa carne: l'impegno costituisce, dunque, il risvolto teologico e filosofico più acuto dell'Incarnazione. Questa prospettiva teologico-pseudomistica risucchia l'azione all'interno del tunnel dell'impegno sociale e solidaristico, inchioda l'atto dell'io alla croce del dolore degli «oppressi», degli «ultimi» e, così, viene innalzato l'ennesimo muro ideologico pronto al consumo propagandistico dei prossimi anni. Qui la praxis è la longa manus di Dio, una sorta di fondamentalismo immanente alla fede nell'Incarnazione: tutto è «impegno» per gli «ultimi», ogni frammento della realtà è risucchiato nell'imbuto del divenire storico, incunabolo della futura Liberazione Totale. Da un sano presupposto, l'azione germinante all'interno di un nucleo mistico, Paoli ha fatto scaturire un complesso ideologico ed ideocratico fatto ad immagine e somiglianza dell'antica e nefasta Cultura del Progetto. Mutano gli attori, muta il paradigma culturale di riferimento, ma non muta assolutamente l'intenzionalità depositata nelle pieghe di questa ampia ed a tratti suggestiva riflessione. Ecco, l'energia vitale immanente alla vita della persona risolleva il punto dell'azione e dell'impegno scaricandolo dal dominio ideologico e facendolo ricadere lievemente nell'ambito dello scopo e della vocazione, vettori fondamentali della realizzazione dell'io.

L'archetipo divino presente nell'anima della persona si incontra con il flusso energetico vitale ad essa immanente e disloca, in modo del tutto gratuito e non pianificabile, l'onda d'urto della vita, rende creativa l'esistenza individuale, non più soggiogata dalla pesantezza della matrice progettualistica. Non esiste alcun apriori legato ad un progetto, tutto viene disegnato in base all'archetipo divino presente nell'anima ed all'energia promanante dalla persona; il rischio della libertà, così, si fa sempre più imponente rendendo affascinante ed a tratti visceralmente vibrante la vita. L'io, impastato di energia, in contatto con la grande ed inesauribile energia dell'Universo, dipinge il proprio futuro responsabilemente e, quindi, liberamente, al di fuori di ogni calcolo e di ogni accomodamento. Questa è la fibra mistica della vocazione individuale, riscoprendo la quale si ridefinisce globalmente lo spirito squisitamente libertario del credente, dell'uomo di fede, che non cerca mai di possedere la verità come un bruto fatto da manipolare, ma piuttosto si lascia possedere dalla stessa, in un coinvolgimento potente al pari di quello di Giacobbe che lotta con l'angelo, rimanendo ferito all'anca. La fede, contrariamente a quanto moralisticamente si tende a sostenere, affranca lo spirito del credente fino al punto estremo di renderlo libertario, cioè individualmente teso all'espansione della propria libertà e di quella degli altri nelle modalità più affrancanti possibili. Libertario è colui che privilegia sempre, costi quello che costi, la responsabilità, talvolta veramente drammatica, della propria azione alla falsa sicurezza di qualsiasi istituzione e/o ideologia. È sempre l'individuo il soggetto responsabile e costantemente teso all'affrancamento di se stesso; è sempre la realtà il teatro di quest'azione, che provvede ad aprire spazi inediti di pensiero e di intervento. La libertà, per il libertario, è la sposa che non si lascia pregare quando c'è da fare l'amore, quando cioè c'è da giocare con l'eros disciolto nelle pieghe dell'esistenza. È quasi febbricitante questa visione della libertà, abissale, quasi schellinghiana e degna dell'ultimo Pareyson, una visione, questa, colma di rappresentazione ideale e di paragone con il nulla, in bilico permanentemente tra l'essere ed il nulla. Il bene della persona si realizza sempre come apertura alla verità costantemente giocata nell'affronto libero della realtà. In questo crocevia metafisico e teologico si muove lo spirito libertario, con tutto il carico di energia individuale, raccordata con la potenza espansiva dell'Universo.

5. Lo spirito libertario del credente: la ricerca della verità

Nella vita noi siamo marinai che viaggiano sulla nave, in mezzo alla tempesta, e che, non potendo scendere a riparare le falle dello scafo, affrontano le difficoltà in mare aperto, procedendo per tentativi ed errori, con umiltà e, insieme, decisione. La realizzazione dell'esistenza individuale è sempre una cartina di tornasole che registra gli spostamenti della nostra libertà durante le tempeste della vita; Maslow affermava che l'autorealizzazione fosse l'unico obiettivo dell'esistenza umana ed aveva ragioni da vendere, ma occorre aggiungere ancora che questo obiettivo può essere adeguatamente raggiunto solo all'interno di un orizzonte di senso donato dalla fede. Prolunghiamo così in ambito religioso e teologico l'intuizione di Frankl circa la necessità di avere un senso stabile nella vita, al fine di evitare la nevrosi. Qui non si tratta semplicemente di evitare qualcosa, nella fattispecie la nevrosi, ma, ben più radicalmente, di realizzare qualcosa, la vita intera. Senza una fede robusta ed attrezzata alla costituzione di un universo di senso capace di contenere la performance della persona, non può darsi alcuna azione efficace, alcuna autorealizzazione individuale. È l'archetipo divino presente in noi a dettare la cifra trascendente dell'azione; noi agiamo in quanto individui vocati, cioè chiamati all'autorealizzazione ad maiorem Dei gloriam, diceva il grande Ignazio di Loyola. Questo è il passaggio più autenticamente laico della prospettiva teorica dedicata all'autorealizzazione. Perché? Ma perché il vero laico non è colui che accetti passivamente le visioni relativistiche della vita, bensì, con ben altro sguardo, è la persona desiderosa di cogliere la verità nella cifra concreta dell'esperienza. Si può certamente discutere, e lungamente, se la verità sia la fede anziché altro, magari un valore come la felicità; ma ciò che mi pare indubbio è che, senza verità, l'uomo è destinato a cadere in balìa dei poteri dominanti, dei propri istinti, delle molteplici manipolazioni della società. Tony Buzan afferma con chiarezza: «Il nostro cervello in realtà è un meccanismo che persegue la verità». E ancora: «Abbiamo bisogno di conoscere la verità per sopravvivere». Si tratta di un bisogno fisiologico, non di una pulsione accidentale e, perciò, trascurabile. Come posso io vivere da uomo senza sapere la verità circa la donna che vive insieme a me? La verità dei suoi sentimenti, delle sue azioni, della sua vita? E, ancora: come posso io lavorare con un socio di cui non conosco alcun aspetto, di cui non so la verità umana, la qualità del suo rapporto con le cose e la vita? Questi sono tutti aspetti oggettivi della verità, dell'unica verità, che, nella fede, viene declinata secondo le parole di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita». Verità e vita; vita e verità; vita con verità... tutte declinazioni necessarie alla realizzazione individuale. Il cosiddetto «successo» -- un'immagine assolutamente artificiale! -- semplicemente non esiste al di fuori di questa fondamentale liaison con la verità.

E chi è il soggetto che persegue, senza sosta, l'obiettivo di vivere con verità? È lo stesso soggetto che àncora la propria vita alla fede e lo fa con assoluta libertà; è il medesimo individuo che espande la propria libertà e creatività giocando con il Divino nella realtà, come accenna Jaoui parlando di creatività: è l'individuo coscientemente libertario, l'unico in grado di legarsi alla tradizione della verità senza farla assurgere a camicia di forza. La tensione costante al raggiungimento della verità richiede alta consapevolezza: sii consapevole di ciò che stai facendo, dicendo e pensando, raccomandava Krishnamurti, ed è vero. Questa è la consapevolezza che attraversa fisiologicamente la realtà concreta della persona. Con questa consapevolezza, il libertario affronta il rischio della verità, scomponendo ogni individuale luogo comune, pur di non perdere l'appuntamento decisivo con essa. Pare immediatamente paradossale, ma così non è; dire «libertario» non significa affatto dire «relativista» o «anarchico», ma significa affermare interamente la carica propulsiva della ricerca, la stessa ricerca degli individui creativi costruttori di ricchezza e di benessere, gli imprenditori. La creatività domanda sempre un nucleo inossidabile di libertà e con la libertà non si può scherzare; con essa si può giocare, ma il gioco è sempre una cosa seria, serissima (i bambini insegnano a riguardo). Giocare la vita fino in fondo significa ammettere con semplicità ed anche umiltà che la vita è un'avventura e che noi non possiamo imbrigliarla violentemente dentro canoni rigidi e/o strettoie ideologiche ed ideocratiche, culture del progetto e simili accessori totalitari. Ogni avventura decide di sé nel suo porsi concreto: sono io ad essere in gioco nell'istante, sono io l'individuo consapevole, qui e ora. Spirito libertario e ricerca della verità sono congiunzioni direi addirittura oggettive: l'unica realtà della vita declinata ora in termini individuali-soggettivi ora in termini spirituali, esperienziali e cognitivi (la verità è tutto questo, caleidoscopicamente).

6. La sapienza della fede ovvero la realizzazione del Sé

L'etica è saggezza che si realizza all'interno della trama oggettiva delle circostanze, costituendo un know-how determinato a seconda della concreta situazione storica emergente (Varela). Ciò vale, per larga analogia, anche per la fede. Essa realizza una saggezza o, meglio, una sapienza (ovvero un sàpere, un gusto specifico che racchiude conoscenza specifica) in grado di affrontare la conoscenza della realtà e capace di realizzare il Sè personale. Con la fede, l'ego viene sconfitto: questa la lezione dei Padri della Chiesa -- penso, in primo luogo, a Gregorio di Nissa, La vita di Mosè, ed a Cassiano, con i suoi esercizi ascetici -- e la scuola di grandi santi come Ignazio di Loyola, sempre interessati a cogliere lo specifico concreto della soggettività in azione, con tutta la sua libertà, equilibrando questo aspetto con l'oggettività della verità della fede (si leggano, ad esempio, le Regole per il discernimento degli spiriti, ultima parte degli Esercizi spirituali). L'ego deturpa l'azione umana e stravolge l'orientamento certo e sicuro della vita dell'uomo, attaccando al cuore una scia di desideri lontani dal realizzare autenticamente la persona. Krishnamurti direbbe: si tratta di un'azione dettata unicamente dal desiderio, dunque profondamente egocentrica, contro l'azione dettata dall'intelligenza, carica di amore e di compassione. Il desiderio bruciante non è affatto contrario alla realizzazione della persona, anzi, direi che è il motore dell'azione consapevole; il punto è un altro: quando il cuore è affollato di desideri contrastanti, l'uno in lotta contro l'altro per conquistare l'egemonia dello spirito della persona, allora si fa avanti un grande e cruciale problema, perché la performance della persona non è più consapevole, ma è ondeggiante e malcerta, senza criteri veri di orientamento. Il criterio oggi dominante nel personal coaching riflette, a suo modo, questa verità, quando assume la portata del desiderio insito nella volontà solo all'interno di una marcata consapevolezza individuale, portato soggettivo di una piena responsabilità. Solo così l'uomo può essere veramente proattivo, anziché re-attivo, cioè permanentemente in balìa delle circostanze e degli eventi esterni. La fede, al pari dell'etica come saggezza e responsabilità consapevole, qui giocano un duplice ruolo correlato: là dove si realizza la fede, si gioca anche l'azione eticamente equilibrata, responsabile e consapevole. Fede, etica, consapevolezza e volontà individuale si rischiarano reciprocamente in questa costellazione di pensiero e di azione.

Il Sé individuale è proprio la punta emergente della persona, la sua autocoscienza luminosa, che richiede non solo un'analisi appropriata, ma anche una vera e propria mistica, occorre, in altre parole una mistica dell'autocoscienza per illuminare i profondi recessi del Sé individuale. È, questo, il «fondo dell'anima» di cui parlava il grande mistico renano Taulero; è l'archetipo divino perfettamente inserito nell'anima individuale di cui diceva Meister Eckhart; è insomma la punta dell'iceberg-anima che costeggia sempre i fondali luminosi della grazia, andando a riscoprire ogni volta le sue infinite potenzialità.

Il nesso Sé individuale-grazia è interamente da sondare e da riscoprire, è un tesoro mistico che comporta la ristrutturazione globale del concetto di «autorealizzazione individuale», dal momento che lo sottrae al totale dominio delle forze esclusivamente personali per reinserirlo in un dominio mistico, fatto di accoglimento della grazia e, insieme, di mistica dell'azione (si veda la linea che da Ignazio di Loyola va a sfociare nel pensiero di Blondel).

Gratia supponit naturam et perficit eam. La grazia scava all'interno della forma naturale individuale e getta fuori da essa la vera forza divina; la persona ha un'impronta divina, una scintilla divina che accende ogni sua azione, ogni suo moto di autorealizzazione. Tutto accade per fede, nella vita, tutto. E la fede comporta un'azione precedente rispetto alla realizzazione, poiché, una volta realizzato l'obiettivo, quella è constatazione, non più fede. La fede anticipa la realizzazione dell'obiettivo, questa la sua impronta di efficacia e di previsione. Fede in Dio e fede in se stessi: questa la costellazione ideale per l'autorealizzazione personale. Emerson su questo punto ha scritto pagine indimenticabili nel celeberrimo saggio Fiducia in se stessi, una summula della filosofia dell'autorealizzazione individuale.

Il livello soprannaturale ricolma, per così dire, la realtà puramente naturale della persona, fatta di virtù e talenti; non si dà autentico compimento di questi al di fuori dell'azione della grazia soprannaturale. Così la Tradizione Cattolica definisce, con grande realismo, la linea dell'autorealizzazione individuale, fuori da ogni vano egocentrismo. È la vittoria del Sé personale, che trova radicamento nella realtà attraverso lo sforzo individuale come il moto soprannaturale della grazia. L'intreccio quasi magnetico dei due fattori costituisce l'asse per così dire vincente dell'autorealizzazione individuale.

La stessa azione si muove nella trama delle circostanze colma di credenze e di fede, altrimenti non si potrebbe neppure parlare di autentica azione responsabile. Già per un laico di pura razza come Max Weber, l'azione umana è definita finemente da un'etica specifica, l'etica della responsabilità, la quale, a sua volta, prevede la stretta connessione con l'etica della convinzione, sostanziata essenzialmente di fede. Senza una fede, perfino per Weber, l'azione non va molto lontano, perché parte priva di un humus non soggetto alla continua ridefinizione dei criteri logici. L'azione spinge alla trascendenza, continuamente spinta nella storia dalla fede (Jolana Polàkovà). Sono queste le «possibilità della trascendenza», come osserva finemente la Polàkovà.

L'azione umana -- osserva il teologo Leonardo Rodriguez Duplà -- si sostiene sempre su un terreno di convinzioni acquisite in precedenza senza le quali la stessa non potrebbe esistere. Si tratta sempre di credenze relative alla situazione nella quale si trova l'agente, all'efficacia dei mezzi dei quali dispone, ai fini che si auspica siano accessibili attraverso questi mezzi. Privata di queste credenze, la volontà rimarrebbe paralizzata, o, per lo meno, risulterebbe impossibile imputarle gli atti che, in modo cieco o istintivo, verrebbero fuori dalla stessa. Sembra giustificato affermare, pertanto, che l'azione umana è costitutivamente riferita alla verità. Ma spesso questa verità della quale si alimenta l'azione è solo una verità presunta, una verità i cui presupposti fattuali e normativi non sono stati sottoposti ad un esame rigoroso (Fenomenologia dell'azione e ricerca della verità, in AA.VV., (a cura di Livio Melina e Juan Larrú), Verità e libertà nella teologia morale, PUL, Roma, 2001, p. 47).

Per agire, occorre fede, e fede forte ed ardente, come già sapeva Blondel. Questa è la grande lezione del pensiero occidentale e della Tradizione Cattolica, che, in questo come in altri ambiti, si correlano strettamente e strutturalmente, essendo, di fatto, l'uno coestensivo dell'altra.

7. La fede come mistica della vita

Il grande Wittgenstein chiudeva gloriosamente il suo Tractatus logico-philosophicus con le tese parole che mille volte abbiamo letto: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». È, questo, il Mistico, das Mystiche, la sfera del Non-Detto, dell'Indicibile, teologia apofatica, quasi esemplata su quella orientale ortodossa, che vede in Gregorio Palamas il vertice quasi irraggiungibile: Dio è il Mistero che spalanca l'abisso di fronte alla coscienza del singolo che tenta di cogliere almeno un frammento del Divino, esperienza, questa, tanto necessaria, quanto inesplicabile. La ragione calcolante, limitata e bottegaia, non riesce neppure ad avvicinarsi a questa densità luminosa che si frange solo a contatto con l'Oggetto Immenso (Hegel). L'uomo, allora, scopre, intero e nudo, il suo limite costitutivo; Agostino ha celebrato, con incanto poetante, questa finitudine, ma non con l'amaro in bocca, poiché il limite umano è la custodia della vita, la possibilità di attraversare la vita carichi della domanda di Dio, della redenzione, al di fuori di qualsivoglia progetto di autosoterìa: l'uomo ha bisogno della salvezza di Dio, in ogni istante. Domandare ai margini del minimo esistenziale, secondo l'efficace espressione di Benjamin, comporta apertura del limite, oscillazione positiva fino al contatto con l'Assoluto: l'uomo è un essere che si nutre della domanda di salvezza, è l'essere affamato di Dio. Il bisogno di credere, che Fromm ha colto sapientemente e che anche un cattolico liberale come Antiseri ha descritto in alcune dense pagine, non deve mai essere censurato, fa parte della costituzione ontologica dell'essere umano, al pari dei suoi reni e del cuore. L'uomo non desidera affatto dire no alla vita, come Nietzsche e Lagerkvist hanno ritenuto, ma vuole ancorare le dinamiche vitali, espansive, della sua vita al Fondamento Inconcusso dell'esistenza, Dio. L'autorealizzazione, osserva Maslow, include esplicitamente un fondamento oggettivo di senso stabile, e questo nucleo vitale non può essere inventato dall'uomo, ma l'uomo può soltanto riconoscerlo. Frankl ha intravisto lucidamente la medesima verità: i significati essenziali dell'esistenza vanno accolti, non possono essere inventati di sana pianta, l'uomo ha bisogno della forte realtà oggettiva del significato.

Questo percorso, concepito nella sua interezza, è chiaramente mistico, dato che la mistica è l'apertura totale al Divino, fondata sul riconoscimento dell'archetipo divino immanente all'anima individuale.

Dell'anima, come ha acutamente osservato Baget Bozzo, oggi non si parla più, ma questo è una lacuna pericolosa, poiché, come insegnava Tommaso d'Aquino e la Seconda Scolastica, l'anima è forma corporis, cioè delinea l'azione della persona nelle sue modalità concretamente storiche ed oggettive. L'uomo, la persona, senza anima, non sono neppure individuabili: simul stabunt, simul cadent. La de-personalizzazione furibonda prodotta dal nichilismo contemporaneo può essere attraversata e sconfitta solo ricongiungendo la persona al suo terminale metafisico, teologico e mistico. La persona si autorealizza solo nell'alveo di una coscienza dell'archetipo divino ad essa immanente, nell'anima, e nella percezione della verità della sua azione come espansione vitale della fede. Ogniqualvolta la persona si trova di fronte alle situazioni-limite, osserva Jolana Polàkovà, egli riscopre se stesso e riscopre, interamente, la sua fede, la sottopone a verifica cogente e stringente, fino a renderla nuovamente, vitalmente, nucleo operante di verità e forma dell'azione. Questa è la condizione dell'autotrascendenza dell'uomo: la fede. Sbagliava, dunque, Italo Mancini, quando ragionava di «doppi pensieri» all'interno della coscienza personale, cartine di tornasole della potenza drammatica della fede; visione suggestiva, dostoevskjiana, questa, ma non capace di cogliere nel profondo la tessitura vitale dell'azione della persona, che si espande sempre credendo in qualcosa/qualcuno. Le contraddizioni immanenti all'azione umana sono da includere nella creaturalità imperfetta dell'uomo, ma, di per sé, non punteggiano la trama attuale dell'azione. L'azione umana è sempre un prodotto, imperfetto quanto si voglia, della fede. Fede e fiducia hanno la medesima radice etimologica e la medesima costituzione esistenziale, così da far ipotizzare che credere sia fondamentale tanto in ambito religioso-personale, tanto in ambito sociale. Avere fede serve tanto ad espandersi esistenzialmente, tanto a dar credito alle istituzioni ed alle persone che guidano le stesse. L'etica, infatti, nella Tradizione cattolica come nel sano pensiero liberale, è sempre l'esito cosciente della fede. Lo spirito libertario del laico coglie vitalmente questa endiadi e la fa propria nel tentativo di creare una vera novità nelle forme di vita socialmente condivise. La mistica, insomma, è sempre profondamente libertaria. Solo la fede, nutrita di mistica, dunque di archetipo divino e di coscienza cristologica, libera la persona da tutti i condizionamenti sociali, totalizzanti, olistici (spacciati per condizioni naturali della società), sistemici, ideologici... Questa serie di condizionamenti nutrono la sfera della decadenza della civiltà occidentale e abbrutiscono l'uomo fino al punto di renderlo un automa irresponsabile, schiavo dei propri istinti e della volontà di potenza altrui. Contro questa deriva nichilistica e totalitaria della civiltà mi batto oggi e mi batterò finché avrò forza e vita, perché costituisce l'abbrutimento dell'esistenza, il vero lager che il Potere costruisce per annientare la luminosità divina e la creatività infinita della persona. Che l'uomo sia una creatura divina e, quindi, libera è un dettato divino, direttamente sancito da Dio, non una bagattella aleatoria da gettare, di volta in volta, nelle campagne elettorali di turno.

La vita dell'uomo attende una mistica autenticamente fondata, una vis pura capace di sradicare dal suo terreno la gramigna velenosa del «no», la temperie disastrosa che induce, volens nolens, la persona a soffermare lo sguardo sempre sulle ombre e mai sulla luce, rinunciando così in partenza alla grandezza alla quale, invece, fin dalla nascita è destinata.

La fede è una mistica della vita, un circuito immaginativo-esperienziale che si dilata ogni volta a contatto con la realtà; niente a che vedere, dunque, con l'oscurità novecentesca sempre tesa ad annullare il positivo di ogni cosa. Se leggiamo un autore importante come il premio Nobel Lagerkvist, cogliamo immediatamente l'atmosfera nichilistica che anche oggi ammorba la nostra civiltà occidentale:

Io non voglio la vita. Voglio liberarmi dalla vita, vincere su di lei. Quando attraverso le sbarre il prigioniero vede l'albero rinverdire, vede il cielo risplendere di una lontana primavera, è allora che la sua prigione gli appare angusta e terribile e preme il volto contro le sbarre e le dita gli si irrigidiscono intorno al ferro. Conciliazione! Dovremmo conciliarci con i muri della prigione perché fuori ha cominciato a verdeggiare, perché l'aria profuma di fiori? Dovremmo saziarci di quella nostalgia che la vita terrena chiama felicità? È la nostra fame, dunque, che dovrebbe saziarci? Nulla placa la nostalgia dell'anima. Né il dolore, né la gioia più profonda. Perché essere uomo è avere fame. Solo avere fame, fame -- di qualcosa che non si può raggiungere. Di qualcosa che non esiste (corsivo dell'Autore) (La mia parola è no, Iperborea, Milano, 1998, p. 16).

È verissimo: essere uomo è avere fame, ma non di qualcosa che non esiste, bensì, al contrario, di qualcosa che esiste assolutamente, cioè indipendentemente dai capricci umani. La fame è la molla della domanda, la quintessenza dell'azione fisiologica, nuda, possente, del domandare, che scatena, ipso facto, la dinamica della ricerca di ciò che già esiste e che può porsi come fondamento stabile dell'esistenza. La libertà è totalmente tesa e compresa in questa ricerca e, insieme, si placa nell'attesa dolce e consenziente del Dio che viene. Tutto ciò che è importante, nella vita, deve essere atteso, non furiosamente cercato. Tutto accade per fede, nella vita, cioè per pura grazia, inclusa la grandezza e la realizzazione individuale, come ben espresse Camus in una celebre e formidabile frase. La fede, così, si tende tra lo spazio della libertà e l'invito costante della grazia, permanentemente a ridosso del Dio della vita. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). Michel Henry comprese assai acutamente che l'intera «epistemologia» di Gesù, per così dire, riposava su questo assunto esistenziale e che il pensiero cosiddetto cristiano aveva costitutivamente a che fare con una filosofia della vita, una sorta di meta-filosofia di impianto cristologico, esprimibile solo in categorie puramente fenomenologiche. Straordinaria intuizione che io raccolgo raccordandola a quanto sto esprimendo in questo contesto: se la fede in Gesù fonda una meta-filosofia della vita, allora, per coglierne interamente lo spessore, è necessario dilatare lo spazio espressivo facendo entrare in gioco la mistica, ovvero l'intuizione diretta del Divino ricompresa nell'esperienza personale. Il pensiero cristiano non è un «altro» pensiero rispetto a quello «laico»; questa dicotomia è un catastrofico artificio già smontato da Merleau-Ponty a più riprese (importanti le sue riflessioni sullo statuto filosofico del cosiddetto «pensiero cristiano»); la dimensione specifica del pensiero germinante all'interno dell'avvenimento cristiano è espressa sinteticamente nella mistica, nel passaggio cruciale dal sacro al mistico (Baget Bozzo), cioè dal punto naturale-sociale della religione al vertice dell'azione della grazia nel centro dell'anima individuale. Il Cristianesimo, ha ben osservato Baget Bozzo, «è una ontologia mistica ed escatologica e non una religione» e l'anima ha una sua specifica «dignità mistica», continua Baget Bozzo, proprio in relazione all'azione creatrice di Dio, da un lato, e, dall'altro, alla ricerca del Fondamento dell'essere che qust'ultima compie, ogni volta che si pone di fronte alla sua stessa origine. L'alba mistica del Cristianesimo oggi può tornare ad accendersi solo riapprodando all'origine mistica dell'anima ed alla scaturigine, sempre mistica, della vita, concepita come puro dono e continuo imprevisto, flusso continuo non manipolabile né progettabile a priori. Come incontrare oggi il Cristianesimo se non sotto le specie della singolarità dell'anima che cerca la verità mistica di se stessa?

8. Dalla persona alla Persona

«Se Dio non esiste tutto è permesso? No. Se Dio non esiste nulla ha importanza. I permessi sono risibili quando i significati si annullano» -- così Nicolas Gomez Davila, nella geniale opera In margine a un testo implicito. Dostoevskji aveva affermato: se Dio non esiste, tutto è permesso, ma, in realtà, non può darsi alcuna possibilità di azione senza la base oggettiva e trascendente di un significato. Dio è la forma trascendente del Senso; in questa accezione teologica, l'azione dell'uomo si snoda e va a confluire nel giusto e pacificante alveo della verità e dell'efficacia (ogni efficace performance -- oggi il personal coaching lo afferma esplicitamente -- affonda le sue radici nella stabilità di un senso condivisibile). In termini strettamente teologici, la possibilità da parte dell'uomo di leggere il Senso inscritto nella stessa Realtà di Dio riposa nel fatto che Dio, fin dall'origine della creazione, abbia ammesso la presenza del finito accanto a quella dell'Infinito. Dobbiamo a Guardini la geniale posizione del problema esattamente in questi termini. Dio, afferma Guardini, ha ammesso in linea di fatto che potesse esserci anche il finito accanto a Lui, come se non «bastasse» solo Lui, un radicale ed abissale paradosso, che fonda, a ben guardare, qualsiasi possibilità di essere e di agire da parte dell'uomo in quanto creatura finita. Se la finitudine umana e personale non è stata risucchiata nel gorgo dell'abisso del nulla, lo dobbiamo esclusivamente al gratuito e libero intervento di Dio che, assumendosi donatore di spazio in favore della realtà finita e creaturale, ha totalmente aperto all'uomo uno spazio assolutamente inedito di autorealizzazione. Se il finito non potesse sussistere accanto a Dio, e legittimamente, non si potrebbe neppure nominare qualcosa come l'«autorealizzazione» personale (Maslow): come si potrebbe, infatti, soddisfare la catena di bisogni essenziali e più raffinati descritta da Maslow, senza sussistere legittimamente accanto ad una Realtà che gratuitamente ci pone in essere? Il tema fondamentale dell'autorealizzazione personale è legato strettamente al mistero teologico della creazione e della redenzione, a questo duplice livello voluto da Dio a tutto vantaggio della Sua creatura. Non ci si può realizzare, nella vita, senza sentirci pienamente figli di Qualcuno che ci vuole e ci ama incondizionatamente. L'autostima, fonte di ogni sana ed efficace azione oltre che della luminosa percezione di sé, nasce da questa base teologica e poi si dirama in direzione della consapevolezza nel qui e ora. Ma torniamo alla problematica del finito accanto a Dio. Alcuni accenni di Guardini: «In realtà, la problematica sta, secondo me, nell'uomo, nel finito: non "basta" che ci sia Dio? Ci può essere un finito "accanto" a Lui, se Lui e Lui solo è "Dio"?» (Sul limite della vita. Lettere teologiche a un amico, Vita e Pensiero, Milano, 1994, p. 12). Continua, incalzando, il filosofo italo-tedesco: «Dio è, semplicemente. [...] Egli basta a se stesso completamente e perfettamente. Che cosa può significare per Lui creare un finito, il quale finito -- per quanto ci riguarda direttamente -- culmina nell'uomo?» (Op. cit., p. 13). Certamente, «la bontà ha indotto Dio a creare il mondo e chiamare gli uomini all'essere» (ibidem). Splendida e perfetta affermazione: Dio ha chiamato gli uomini all'essere. La chiamata all'essere, e la risposta conseguente dell'uomo all'essere, è, di fatto, «vocazione»: «chiamata» significa appunto «vocazione», i due termini sono polarmente traducibili ed interscambiabili. La «vocazione» implica sempre l'iniziativa del soggetto, una ripresa cosciente dell'iniziativa sua di essere, crescere, espandersi (Giacomo B. Contri). Anche Guardini colloca l'azione gratuita ed assolutamente libera di Dio in questo spazio teorico: la Realtà di Dio, egli dice, «può essere una risposta alla mia esigenza di essere, vivere, creare, trovare la salvezza» (Op. cit., p. 14).

Ecco allora che la persona, con la sua individuale vocazione, che è, ormai lo sappiamo, risposta e ripresa libera e consapevole dell'iniziativa di essere ed espandersi, si trova a desiderare l'infinito nella cifra del finito; il suo cuore anela costantemente all'infinito, pur rimanendo per così dire vincolato al finito creaturale. È la tensione metafisica più radicale che ci sia, si tratta dello iato ontologico tra la dimensione limitata e finita della creatura-uomo ed il suo consustanziale anelito all'infinito, all'Assoluto, al Tutto, che egli non può che rinvenire in Dio. È questa apertura di domanda, questo slargo metafisico, che dilata la dimensione dell'autorealizzazione personale, conferendole un peso ontologico altrimenti inconcepibile. «O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di Te ha sete l'anima mia, a Te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua», così canta mirabilmente il Salmo 62. Tutto è depositato in Dio, ogni nostra domanda ed ogni nostra pulsione di essere e di espandere la misura della nostra vita, tutto, proprio tutto, riposa nel seno di Dio: la persona, allora, è lanciata oltre se stessa. Ogni sana antropologia è una teo-antropologia, osservava Clément nel suo splendido saggio Riflessioni sull'uomo. L'uomo è, in sé, tutto perché Dio lo vuole così; ma, di fronte a Dio, è limite costitutivo e creatura radicalmente finita, e ciò proprio per il suo bene e la sua realizzazione. Solo uno sguardo compiutamente religioso può cogliere nella sua interezza il senso ultimo, abissale, della realizzazione compiuta della persona. La persona si realizza, in realtà, solo nella Persona, nella Divina Personalità Compiuta, Gesù. È solo nella Divinoumanità di Gesù, per usare la formidabile espressione di Solov'ev, che la persona, con la sua anima e la sua vocazione individuali, può trovare un vero respiro esistenziale ed una vera realizzazione. Ogni mezzo capace di guidare in questa direzione è frutto della libera iniziativa dell'uomo, sostenuta dalla grazia, alimentata dalla crescente consapevolezza. Ecco la dimensione mistica dell'autorealizzazione personale. Dalla persona alla Persona. Questo itinerario scandisce le tappe essenziali della vita della persona, nutrendola di un fine che non teme le alterne fortune della storia.

9. Il Senso ritrovato nella Persona

Baget Bozzo ha osservato acutamente: «Il ritorno al Cristianesimo è un fenomeno individuale, nasce in chi avverte il peso del non senso nella cultura dominante» (Il futuro del Cattolicesimo, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1997, p. 192). È una considerazione assai preziosa perché riconosce quanto di meglio la tarda modernità (che non è solo nichilismo e decadénce) abbia fatto emergere, vale a dire il peso della coscienza individuale nelle scelte di carattere fondamentale, prima fra tutte la scelta della fede. Tornare al Cristianesimo oggi significa sempre partire dalle domande di senso per approdare infine all'incontro vivo con Gesù Divina Personalità. È, questo, del resto, la dinamica mistica, sempre individuale e mossa dall'impulso cosciente e consapevole della libertà. Questo impulso, che potremmo ribattezzare «libido essendi», suscitato dall'attrattiva mistica nei confronti di Gesù, si accosta poi, in un secondo tempo, ad un processo di assimilazione individuale dei contenuti della fede, alla cosiddetta «formazione», intesa nel senso classico della paideia e nel senso della parola tedesca Bildung, derivato del verbo bilden, costruire, dare forma a qualcosa, da cui Bild, immagine. La persona viene così coinvolta in una dinamica di assimilazione delle verità della fede, ferma restando la tensione mistica originaria che, sola, può condurre l'io a muovere i primi passi in direzione di Gesù.

Ogni persona -- osserva Gerardo Luigi Cardaropoli -- vuole essere coinvolta nel processo di assimilazione; non è disposta ad accettare niente che non sia compreso e voluto liberamente. Questa dimensione è ben presente nella rivelazione. La manifestazione del disegno di Dio è coinvolgente. Le persone che ne fanno diretta esperienza, si lasciano coinvolgere dal rapporto con Dio, al punto tale da contagiare altri uomini (Essere cristiano nel terzo millennio, Cittadella Editrice, Assisi, 2002, p. 197).

Se pensiamo alla posizione di Newman, alla sua costante esaltazione delle facoltà della ragione e della libertà umane, alla capacità di "assenso" razionale di fronte alla fede che lui teorizzava, ci rendiamo conto della linea di continuità con quanto di meglio il pensiero occidentale abbia saputo produrre nell'ambito della mistica e della filosofia religiosa (ma, invero, può mai darsi filosofia senza religione?). Il Senso viene reperito dalla persona soltanto dentro una penetrazione consapevole del Mistero più grande che la fede abbia mai affermato: l'Incarnazione. Così si ritrova oggi il Cristianesimo: incontrando la Divina Personalità di Gesù, vero Dio fatto Uomo.

La libertà viene così provocata fino allo spasimo, fino al dolore e, insieme, alla letizia sovrannaturale; libero è quell'uomo che incontra la redenzione scartando dalle consuetudini limacciose e dalle sovrastrutture violente, quelle che noi abbiamo addosso fin dalla nascita: la libertà è risveglio dell'anima. L'incontro con Gesù esalta fin quasi alla follia la libertà e ciò rende possibile incontrare carnalmente la felicità; è, questo, un senso estatico del vivere ed un'espansività a spirale delle sensazioni e dell'immaginazione, veramente inimmaginabile, solo chi ha provato un'esperienza del genere può credere tutto ciò possibile. La felicità è l'altro fattore qui in gioco, poiché la verità, se non rende felice l'uomo nel qui e ora, altro non è che una brutale macchina da tortura. «Invece, la felicità non è una cosa superflua, non è un lusso, e ciò per la buona ragione che è necessaria per vivere» -- così Guido Morselli, quasi uno sfogo, prima di andare incontro alla morte, suicida. Il punto, toccato fino all'estremo del nulla esistenziale, è duro e sodo come il ponte che unisce il mare all'orizzonte, nella mia terra, solcata da mille coste -- la felicità è il sapore esistenziale della verità. La fede non è un superadditum che storna malignamente dalla vita per quel che è, credere significa vivere all'interno della forza dirompente del Mistero della vita, null'altro che questo. Ecco cosa libera la vita della persona: la fede in Gesù, riconosciuta dentro l'espansione vitale della libertà. Questo accadere imprevisto procura gioia permanente alla persona. Come giustamente osserva Ratzinger:

La fede dà la gioia. Se Dio non è qui, il mondo è una desolazione, e tutto diventa noioso, ogni cosa è del tutto insufficiente. Oggi si può vedere bene che un mondo privo di Dio si logora sempre di più, ed è divenuto un mondo senza gioia. C'è grande gioia quando c'è un grande amore ed è questa l'affermazione essenziale della fede: tu sei un amante fedele (Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1997, pp. 30-31).

L'acre deposito della «nostalgia dell'assoluto» (Steiner) rigonfia le viscere della storia contemporanea rendendola terra arida, sì, ma anche incunabolo di nuova e feconda speranza, tanto che questo nostro tempo può a buon diritto affermarsi transitorio rispetto ai Grandi Modelli Assoluti, ma non per questo incapace di accogliere la verità della Rivelazione, in modo nuovo e direi anche creativo. La litanìa disfattista cantata ad ogni piè sospinto da uomini di Chiesa che tambureggiano su temi quali la «fine della cristianità» e simili, oltre che, naturalmente, sul dominio egotico del capitalismo, macchina infernale, tutto questo ciarpame clericale rende francamente insopportabile il fresco e gioioso annuncio cristiano. La fede libera la creatività umana, la rende capace di affrontare le sfide della tecnologia, dei mercati, della produzione su scala mondiale; fu Schumpeter ad immaginare l'imprenditore nei panni del genio creatore di ricchezza, sì, ma anche, nel contempo, di civiltà e cultura, poiché il marketing, che oggi si fa nei monasteri benedettini, è pura e gioiosa espansione di energia, ben sapendo che tutto è energia, e che la fede è anch'essa energia, forza, divenire edificante civiltà nuova. «Pensare è presentire», affermava Jabés, ed è assolutamente vero, ciò è tanto più vero nel dominio della fede, dato che il pre-sentimento accompagna l'immaginazione, facoltà essenziale per la prefigurazione sostanziale della fede: credere non è solo pensare la verità oggettiva della fede, ma anche immaginare scenari nuovi dilatati dalla speranza e dalla virtù della pazienza che si considera certa dell'esito positivo della vita. In questo senso propriamente mistico, la felicità accade senza causa alcuna, dirompendo selvaggiamente, priva di pre-avviso, senza calcoli né pre-giudizio di sorta: io sono felice qui e ora, punto. Analogamente alla consolazione senza causa di cui parla Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi spirituali, che culminano nell'istante così, senza alcun preavviso, né causa apparente, così la felicità irrompe e spacca le vetrate delle false e facili apparenze rendendo appetibile l'esistenza, rigonfiandola di nuove possibilità e chances. La libertà individuale, giocando apertamente e coraggiosamente la propria forma vocazionale, dettata ad essa dall'archetipo divino, si ritrova ad esperire una realtà nuova, assolutamente inedita, un mixtum compositum di natura mistica: la vita è mistica in atto. Questa non è una questione religiosa, ma soltanto esistenziale, puramente e limpidamente sacramentale; il Cristianesimo non ha bisogno di depurarsi dalla religione, come voleva Bonhoeffer ed oggi vorrebbe stolidamente Vattimo, semplicemente perché non è una religione, esso desacralizza tutto, fin dall'origine, fin dall'evento della creazione (l'ebraismo è interamente desacralizzante, non riconosce più i miti dell'origine né quelli fondazionali e dall'ebraismo arcaico nasce evidentemente la figura storica del Cristianesimo). Oltre la religione, ben al di là della sua forma storica e del suo sacralizzante porsi nella realtà effettuale, il Cristianesimo riempie di sapore mistico la vita e la storia, tutto sa di mistica dopo il Cristianesimo.

10. Ancora sulla fede e sulla libertà

Tutto, dunque, è misticamente compreso nella figura concreta del Cristianesimo; l'Occidente intero è permeato di questa energia soprannaturale e poi il fatto di sapere che tutto, nell'universo, è energia contribuisce ulteriormente a decifrare positivamente questa verità: energia di che tipo? Certamente energia fisica, ma non solo fisica, anche soprannaturale, poiché l'Universo è creazione di Dio. Questo spazio mistico spalanca orizzonti prospettici inediti, del tutto originali, nuovi: se tutto è energia, e l'energia non è soltanto forza fisica, ma anche forza di Dio, allora ogni azione dell'uomo scaturisce dalla mistica della vita, dalla fede in questa energia duplice che si muove nello spazio dell'Universo e disloca cose, persone, azioni, eventi, tutto.

In questa affascinante realtà dell'Universo, esiste solo l'individuo, la persona, l'io, che realizza il suo Sé attraendo positivamente le forze magnetiche che circolano in quella realtà, tutto congiura, per così dire, verso la realizzazione della persona, basta solo lasciarsi andare e lasciar fluire con consapevolezza l'energia positiva. La fede, in questo processo, pone le condizioni affinché le cose accadano, secondo la volontà di Dio, che -- evitiamo il moralismo anti-umano -- non è mai contro la volontà della persona. La fede libera le forze individuali, raccoglie le acque della riscossa individuale, qualunque sia la condizione oggettiva nella quale esso possa trovarsi; la libertà, vettore coimplicato nella figura concreta della fede, si realizza perfino in un carcere vietnamita, come è capitato al famoso vescovo di cui molto si è parlato. Mandela ha fatto più di trent'anni di carcere, eppure si considerava un uomo libero; così S. Paolo...

L'io è libero quando il suo cuore dilata lo spazio dell'incontro con Gesù e con le forze positive dell'Universo, la culla del Dio Incarnato.

Leggiamo una bella e densa pagina del teologo gesuita Lonergan:

Senza la fede, senza gli occhi dell'amore, il mondo è troppo cattivo perché Dio sia buono, perché un Dio buono esista. Ma la fede riconosce che Dio lascia agli uomini la loro libertà, vuole che siano persone e non semplicemente suoi automi, li chiama a quell'autenticità superiore la quale vince il male col bene. Perciò la fede è connessa col progresso umano e deve affrontare la sfida della decadenza umana. Infatti la fede e il progresso hanno la loro radice comune nell'autotrascendenza conoscitiva e morale dell'uomo. Promuovere uno dei due è promuovere indirettamente l'altro. La fede colloca gli sforzi dell'uomo in un universo amico; rivela un senso ultimo nelle conquiste umane; dà la forza per nuove imprese mediante la confidenza. D'altra parte, il progresso attua le potenzialità dell'uomo e della natura; rivela che l'uomo esiste perché realizzi conquiste sempre più piene in questo mondo; e tali imprese essendo il bene dell'uomo sono anche la gloria di Dio. Soprattutto, la fede ha il potere di annullare il decadimento. Il decadimento rompe una cultura con ideologie in lotta tra di loro. Esso impone ai singoli le pressioni sociali, economiche e psicologiche le quali, a motivo dell'umana fragilità, equivalgono a determinismi. Moltiplica e accumula gli abusi e le assurdità che generano risentimento, odio, collera, violenza. Non è la propaganda, né la discussione, bensì è la fede religiosa che affrancherà la ragionevolezza umana dalle sue prigioni ideologiche. Non sono le promesse degli uomini, ma è la speranza religiosa che rende gli uomini capaci di resistere alle molteplici pressioni del deterioramento sociale (Il metodo in teologia, Città Nuova, Roma, 2001, p. 150).

Questa pagina è un vero affresco, e quanto nobile ed espressivo, della fede come condizione della libertà della persona, del progresso, della crescita della civiltà occidentale, di tutto quel che sto dicendo da molte pagine ormai. «La fede ha il potere di annullare il decadimento», ecco il nodo sodo, duro, vero e possente, quel che regge l'impianto mistico della fede, vera forza, energia magnetica che struttura interamente la vita della persona ed il suo destino. Non c'è fede senza libertà, non c'è autentica libertà senza fede. La fede illumina il sentiero della realizzazione personale, vale a dire il sentiero della libertà.

11. Intermezzo sulla libertà

La fede ed il progresso hanno una comune radice: l'autotrascendenza dell'uomo, la sua tensione costante al miglioramento ed al perfezionamento. Non esiste veramente fede se l'uomo non dilata i suoi orizzonti, con l'immaginazione e l'azione, e se non attinge al suo bagaglio interiore di risorse spirituali, morali e psichiche. Anche la psicologia umanistica è giunta a questa conclusione: l'uomo ha, fin dalla nascita, un patrimonio di risorse che spetta poi alla vita far fuoriuscire produttivamente e creativamente. Su questa stessa linea, troviamo autori come il filosofo ebreo Heschel, la filosofa ceca Polàkovà, il fondatore della logoterapia, Viktor Frankl. Se poi andiamo a rimestare nel deposito culturale dell'Occidente, secondo una dinamica a zig-zag, possiamo includere, senza problemi, autori molto diversi fra loro come Ortega y Gasset, Simone Weil ed Hanna Arendt. È, questo, il luminoso percorso dell'Occidente, sempre, ad un tempo, laico e cristiano. È la strada accidentata, certo, ma insieme anche affascinante del progresso e della libertà; il progresso, in primis, accosta il territorio della fede con grande urgenza. Cos'è, infatti, il progresso? È certamente -- cosa niente affatto scontata -- «l'estensione del rischio» (Denis de Rougemont). Vale a dire, il corno maschio della decisiva polarità femmina, la libertà. La libertà implica, non v'è dubbio alcuno, strutturalmente, il rischio, ed in non piccole dosi. Ogni angolo della vita è occupato dal rischio, e così dalla libertà. Letta con queste lenti, la libertà cessa immediatamente di essere un mero concetto ed assurge legittimamente al rango nobile di esperienza-cardine, di fil rouge della vita, di segnavia della sanità di un percorso esistenziale, è la cartina di tornasole, anche psichica, della verità e sanità di una vita. Chi non vive la propria vita con libertà, alla fine, poco o tanto, si impantana nella nevrosi e nel reticolo d'acciaio delle molteplici distorsioni cognitive.

La libertà, dunque, come esperienza, canto sublime della vita... un giovane e talentuoso filosofo, Fabrizio Gualco, ha scritto una pagina magistrale su questo snodo decisivo; leggiamo con attenzione:

La libertà non è un concetto. La libertà è un'esperienza: sia esteriore che interiore. I concetti tendono a perimetrarla, ma non possono penetrarla. Non si può racchiudere la cifra della libertà all'interno di una formulazione concettuale esaustiva. Ogni definizione concettuale formulata nei riguardi della libertà risulta, in un modo o nell'altro, incompleta e parziale. Ciò che noi chiamiamo facoltà logico-razionale è utile, ma fino ad un certo punto. Voce a cui non si può non dar voce, la libertà sfugge ad ogni chiusura, così come ad una enumerazione precisa delle persone che di essa hanno fatto esperienza. Sotto questo profilo, non esiste una formula finale della libertà, né un elenco completo dei suoi testimoni. Del resto, vero è che l'indefinibilità che le appartiene non la costringe ad essere un qualcosa di impalpabile, come un'astrazione perennemente accasata sulle nuvole. Sia interiore che esteriore, sia essa nata in sede teorica oppure emersa per via pratica, la libertà è our sempre coinvolta nella concretezza, e trova nella realtà -- e non altrove -- il luogo delle sue rappresentazioni. [...] La libertà invoca la pluralità, la sinfonia: non l'unicità o l'unisono. Indefiniti sono i modi di viverla, teorizzarla, provarla. La libertà è e resterà un discorso aperto, un sentiero ininterrotto. Parte integrante della natura umana, linfa vitale del pensiero e dell'azione, la libertà si rappresenta nella realtà ed infigge le proprie radici oltre l'umano. Esperienza che appartiene ad ogni singola persona, la cui possibilità è donata a tutti, essa esiste perché esiste qualcuno in grado di esercitarla e comunicarla. La libertà coinvolge la persona nella globalità del suo essere e del suo fare, anche quando la persona vuole o può comunicare di essa solo in parte: si concretizza nella vita della mente, nell'attività economica, nella dinamica sociale, nella pratica politica. Emerge in tutto il suo nitore nella ricerca del senso della vita. Anche sotto questo profilo non esiste un tempo ed uno spazio della libertà, ma una pluralità di esperienze che si attuano nel tempo e nello spazio alla luce di una prospettiva infinita (I percorsi della libertà. La ricerca del bene, Marietti, Genova-Milano, 2003, pp. 4-5).

Dopo questa luminosissima pagina, la questione della libertà viene rilanciata sul terreno a lei più proprio, l'infinito, la sommità dell'esperienza umana che si concretizza nell'istante ed esattamente quando un singolo uomo si accorge di essere libero; io sono libero solo quando mi accorgo di essere libero, ne sono pienamente consapevole, in carcere come alla direzione di un'azienda. L'istante che sigla immediatamente la mia consapevolezza, ecco, questo rilancia positivamente la mia vita. La libertà è irrimediabilmente «compromessa», fin dall'origine con il desiderio bruciante che tutto raccoglie, nella vita, per poi innalzarlo fino al cielo. Molte pagine di un teologo ortodosso, Christos Yannaras, si muovono su questo duplice registro, libertà-desiderio, e vanno ad alimentare il movimento dell'eros, la prima pietra depositata sul fondo dell'anima, la linfa primigenia della conoscenza: senza eros, né si conosce, né si fa l'amore, ovvero non si vive, stop. La libertà incrocia densamente tutte queste felici diramazioni della vita e le prolunga sul terreno inedito della conversione all'Amore (Grygiel). È, questa, la terra del risveglio della persona, la dimora calda della spiritualità, l'intera Tradizione Cattolica documenta ciò; si leggano le pagine sapide e quasi erotiche delle Confessioni di Agostino oppure la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, per non parlare di Meister Eckhart e di Taulero: la mistica è sempre conversione individuale all'Amore e, ad un tempo, risveglio della consapevolezza, spiritualità pura e verace. Solo dentro questa prospettiva, libertaria e carica di spiritualità, la libertà può, per così dire, mettersi in moto agevolmente, con forza ed efficacia (ricordiamo sempre il personal coaching e la performance guidata dalla consapevolezza: le due prospettive si tengono insieme). La libertà, come ogni spinta umana, anche forgiata nella più pura metafisica, è ambigua, e con l'ambiguità strutturale dell'uomo dobbiamo sempre far i conti, è inevitabile; il grande Pareyson aveva colto con grande lucidità e rigore questo aspetto abissalmente ambiguo della libertà, sulla scia di san Paolo («non faccio il bene che voglio, ma faccio invece il male che non voglio») e di Schelling, enorme pensatore della modernità che guarda sapientemente alla Rivelazione. Jung poi investì la libertà del carico originario del simbolo metafisico della Nascita e della Rinascita: l'io raggiunge il Sé individuale, cioè si individua realmente, solo a contatto con la realtà contraddittoria della libertà; l'ombra ricoverata nell'anima di ciascuno di noi preme in ogni istante per deviare la rettitudine dell'azione, per spremere diabolicamente le risorse del bene fino a farlo squagliare sul terreno della storia. Ma tutta la modernità è afflitta da questa aporia: l'io è libero, produttore di senso, sì, ma fino a che punto può dominare le infinite limitazioni della sua natura? La teologia di Lutero fa scoppiare l'individuo nella palude dei sensi di colpa, negando la possibilità del riscatto e della redenzione se non che per mezzo della pura fede soggettiva; il Cattolicesimo, di contro, tiene conto di entrambi le aporie e risolve la questione della libertà umana espandendone le condizioni e le possibilità, ma nell'alveo dell'aiuto costante di Dio, la grazia: solo la grazia di Dio può veramente realizzare la libertà umana, anche in presenza del peccato originale (il Concilio di Trento ha affermato ciò con il portentoso Decreto sulla Giustificazione, ancora insuperato). La libertà è avvinta dalla pressione del peccato originale, ma non per questo è totalmente depotenziata, anzi, proprio in forza del suo limite, può avanzare sul terreno storico e far agire efficacemente l'uomo, perché quel che si conosce può sempre essere evitato, ancora una volta è una questione di limpida consapevolezza (accendere la luce per non sbattere contro il muro e le sedie attorno al tavolo).

Dunque: la libertà è costitutivamente ambigua, ma non per questo inefficace e depotenziata strutturalmente; la consapevolezza può dilatare gli orizzonti della conoscenza della realtà concreta della libertà-in-atto e dell'azione individuale. Questa costellazione teorica è quella che sottende al vero pensiero libertario -- che non è puro delirio di onnipotenza, ma sano indivualismo consapevole e dotato di carica religiosa -- ed anche alla Tradizione Cattolica: si può essere, ad un tempo, libertari, apologeti dell'iniziativa individuale e, insieme, cattolici tradizionali: io lo sono, non v'è dubbio alcuno. È una novità quasi ereticale nell'ambito del cattolicesimo terzomondista, no-global, collettivista ed anti-mistico di questo nostro tempo, ma proprio per questo può aprire ulteriori spazi di riflessione e di azione.

Con la fede, l'uomo agisce nella storia, nella vita, propria ed altrui, e realizza grandi opere, crea ricchezza e benessere, apre nuove piste di ricerca e di innovazione, espande la civiltà occidentale, entusiasma le nuove generazioni: il personal coaching, oggi, ripeto, è fondato essenzialmente su questo paradigma, anche quando non ne è pienamente cosciente (in troppi casi, a mio avviso). La fede è utile, tanto sul piano della realizzazione personale, tanto su quello della creazione di ricchezza e di civiltà. Sul fondamento stabile ed oggettivo della Rivelazione, in realtà, si è costituita non solo evidentemente la grande cultura cristiana, ma anche la cultura liberal-libertaria, che trova, ben scavando, progenitori come Rosmini, Newman e Sturzo.

12. L'etica individuale come esito della fede e della mistica

La grande «scoperta» di un pamphlettista giacobino e profondamente illiberale, Paolo Flores D'Arcais, fu questa: può esistere anche un'«etica senza fede». Però, niente male come costrutto mentale! Che possa anche esistere un'etica senza la fede è cosa risaputa da almeno tre millenni: l'intera romanità e grecità hanno partorito morali solide e stabili senza un briciolo di fede cristiana. E allora? Il punto è un altro: che cos'è l'etica? Perché se l'etica è qualcosa che serve, come suppone Flores D'Arcais, a regolare il tasso di coerenza individuale rispetto ad un principio in particolare, la legalità, ebbene, in questo caso, l'etica è qualcosa che si avvicina più ad un'«etichetta» (si passi il gioco di parole) che ad un corredo di princìpi capaci di orientare verso il bene condiviso l'azione umana. La responsabilità individuale, secondo Weber, ovvero il fondamento soggettivo di ogni etica, abbisogna costantemente di una fede; e Weber documenta efficacemente questo argomento proprio partendo dallo spazio politico del potere, quello in cui massimamente è necessario rigore morale, senso di responsabilità, etica individuale. Leggiamo Weber: «Quale debba essere la causa per i cui fini l'uomo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede» (La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1966, p. 104). Ad analoghe conclusioni giungeva Guardini nel saggio dedicato appunto al potere contenuto nell'opera sulla modernità. Ciò vale a dire: l'etica senza fede, in astratto, può anche sussistere, in concreto, poi, i nessi che regolano il legame tra etica individuale e limite dell'agire in funzione del bene comune, necessitano costantemente di una fede in qualcosa di trascendente i princìpi stessi dell'etica. Ciò che trascende l'etica, in sostanza, la fonda. Si potrebbe discutere se questo genere di fede debba per forza essere fede cristiana, d'accordo, ma è anche assolutamente ovvio che, in Occidente, la fede si sostanzi, di fatto, nell'adesione al Cristianesimo, anche quando si tratti di un individuo con un'anima naturaliter christiana, come direbbe Tertulliano, e non esplicitamente praticante. È del tutto evidente che non sto proponendo in alcun modo un confessionalismo di ritorno.

Venendo poi ad un altro snodo avanzato sempre dal nostro Flores D'Arcais, vale a dire, la realtà storicamente determinata del cosiddetto «individuo libertario», anche qui si naviga nel mare magnum dell'equivoco. Secondo il noto pamphlettista, l'individuo, nella tarda modernità, naviga in acque del tutto estranee al Senso ed al Fondamento, di qualunque natura essi siano. L'individuo è proprio una sorta di atomo al di là del bene e del male, il quale, deprivato di qualsiasi nesso con la verità, prova a sostenere la sua grama esistenza immergendosi, non si capisce poi bene perché, in questioni guarda caso etiche, dato che, ovviamente, quelle ontologiche sono ormai del tutto prive di ragion d'essere (ciò affermato senza alcuna dimostrazione logica, va da sé). Dunque, l'individuo si dice «libertario» perché spoglio di tutto: ragion d'essere, verità, gioia di vivere, non ha più niente, è la metafisica della «sfiga», soltanto senza più fondamento ontologico. Rimane soltanto quello che Bianciardi chiamava il «mugugno globale»: contro i cosiddetti «ladri» della politica, contro i preti, contro il Papa, e via discorrendo. Il nulla assoluto, l'assenza di qualsivoglia prospettiva esistenziale, teorica, finanche etica (contrariamente alle intenzioni di Flores). E questo sarebbe un individuo libertario? Cioè, in altri termini, un uomo che fa della libertà d'azione (Ayn Rand) e della libertà di pensiero la costellazione teorica e simbolica della sua vita? In realtà, il Flores identifica il libertarismo con l'annullamento sistematico di ogni fondamento, per poi introdurre sulla scena un individuo così «leggero», ma così «leggero», da somigliare più ad un fantasma che ad una persona. Errore capitale derivato da una distorsione morale e cognitiva molto grave, una vera malattia dello spirito: il manicheismo. Chi è, per contro, l'individuo autenticamente libertario? Colui che sceglie la strada della libertà assumendosi responsabilmente la quota di rischio allegata e giocando le carte personali di intelligenza, moralità e creatività nel paragone con la realtà storica determinata. Senza la fede, tutto questo è assolutamente impossibile: provare per credere.

Questo cappello, apparentemente incongruente, dedicato alla presunta etica senza fede ed al presunto individuo libertario, serve in realtà a squadernare un ulteriore spazio problematico, con una chiarezza di presupposti più elevata. Il punto da affrontare è questo: affermato tutto ciò, ovvero la necessità della fede in quanto condizione oggettiva e soggettiva di realizzazione personale e scoperto che la libertà si muove su un terreno di trascendenza mistica, a questo punto, come può la persona agire efficacemente e moralmente? In altri termini: l'etica individuale vale quanto la fede e può accompagnare la fede nel percorso di realizzazione personale oppure è solo un pendant quasi inutile e forse addirittura un fattore ostativo alla realizzazione individuale?

Chiariamo subito un passaggio: l'etica individuale, nell'esperienza cristiana e nella civiltà occidentale, è sempre stata un esito della fede e della mistica. L'abbiamo già affermato a più riprese: il Cristianesimo non è una religione, ma è essenzialmente una mistica (ed una escatologia a fondamento ontologico). Ciò premesso, tutto quel che deriva dalla fede cristiana non può costituirne il fondamento, la carne vitale per così dire, ma sarà solo una conseguenza. Così è per l'etica individuale: essa è l'esito della fede in Gesù riconosciuta come percorso di conversione dell'anima, dunque come percorso squisitamente mistico. La scintilla di Dio presente ed operante in noi costituisce l'Archetipo Divino, dunque la forma originaria in cui Dio imprime il Suo sigillo, in maniera del tutto unica ed irriducibile, sulla mia anima. Questo passaggio fondamentale, voluto ed attuato dalla grazia di Dio, costituisce il background mistico della mia vita, l'asse unico e singolarissimo della mia personalissima vocazione. Noi tutti siamo assolutamente unici ed irriducibili l'uno all'altro. L'agire individuale, allora, improntato alla saggezza, è sostanziato di fede, vissuta con originalità e singolarità mistiche, e fa emergere un paradigma di azione che si muove nelle determinate circostanze della vita secondo criteri paragonabili allo know-how, direbbe Varela, caso per caso, facendo attenzione all'emergere della novità singola e dei singoli casi umani. Ecco l'etica individuale libertaria improntata alla fede cristiana: una saggezza scaturente da una visione mistica della vita (la vita è mistero) ed improntata ad un sapiente e misurato know-how. All'interno di questa figura mistica e sapienziale, il desiderio acquista uno spazio assolutamente rilevante, diventa un pò come il battistrada dell'azione, la molla tesa che fa scattare in avanti la vita.

La forza della mistica -- annota Baget Bozzo -- sta nel fatto che il desiderio infonde nello stesso io la propria infinità e gli consente quindi di vivere il reale a partire appunto dall'infinito desiderio. [...] Il mistico vive il desiderio non come una scelta ma come un evento che la sua coscienza registra. Egli sa di non aver prodotto il desiderio, ma che il desiderio ha invece prodotto lui (Prima del bene e del male, Rizzoli, Milano, 1987, p. 110, corsivo mio).

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