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Genealogia eucaristica della Chiesa, una riscoperta conciliare alla prova. Breve itinerario critico da «Mediator Dei» a «Redemptionis Sacramentum»

di Andrea Grillo (10 marzo 2005)

Storia sono gli uomini viventi, i quali proprio quando sono morti, proprio perché la loro opera è affidata, senza difese, alla buona volontà della nostra comprensione e della nostra interpretazione, si appellano alla nostra cavalleria, pretendono che noi permettiamo loro di esprimersi con le proprie istanze, e che non li adoperiamo semplicemente come mezzo per i nostri scopi.

K. Barth1

Il contributo che propongo in queste pagine si configura come una ermeneutica su alcuni filoni portanti della riflessione circa la eucaristia, proposti dal magistero e recepiti dalla prassi celebrativa della chiesa cattolico-romana negli ultimi 60 anni. Esso mira a portare alla luce alcuni aspetti poco considerati e troppo spesso emarginati dalla attenzione comune, e che la teologia non può non reclamare a miglior fortuna. La mia piccola ricerca aspira anche a reimpostare il rapporto tra «difensori» e «nemici» della Riforma liturgica, tentando di mostrare quale sia il vero nocciolo della questione in gioco, e quali invece le questioni secondarie. Anche questa vicenda storica -- a noi molto vicina negli anni, ma non più vicina nella sensibilità -- ha bisogno di una ermeneutica «cavalleresca» -- come suggerisce K. Barth nell'epigrafe -- se non vuol essere ridotta in categorie ad essa quanto meno estranee, se non addirittura ostili.

1. L'antefatto: il senso della operazione conciliare e la ri-scoperta della «ecclesia de eucharistia»

Se davvero la teologia può trovare buone risposte solo nel caso in cui sappia ancora proporre buone domande, allora voglio cominciare proprio con una domanda (che spero possa anche risultare buona): come possiamo comprendere oggi che cosa hanno voluto dire quegli 11 numeri di Sacrosanctum Concilium dedicati alla eucaristia, quando uscirono nel 1963 ed entrarono nella testa, nel cuore e nel corpo della chiesa di allora? Per quale via possiamo recuperare almeno un poco l'impatto sorprendente che provocarono quelle parole nella «generazione» di quel tempo, tanto nei preti quanto nei laici?

Dovremmo anzitutto, schematicamente, considerare che cosa c'era al tempo di SC e quale funzione abbia assunto quel testo in tale contesto storico. Credo che per esso si sia trattato essenzialmente di una riconsiderazione delle priorità con cui la chiesa ripensava la propria essenza e tentava di esprimerla meglio: con sguardo retrospettivo Paolo VI avrebbe detto, due anni dopo, che la chiesa nel Concilio «studuit de se ipsa cogitare quo melius se cognosceret» (Paolo VI, omelia nella 9ª Sessione, 7 dicembre 1965).2

Il cuore di questa riflessione particolare appare, indubbiamente, una nuova definizione della chiesa in termini di «mistero eucaristico». Insomma, si riconosce che la chiesa vive essenzialmente «de eucharistia». Di qui cominciamo la nostra breve presentazione e qui, alla fine, torneremo, dopo un breve ma interessante tragitto, con qualche notevole conforto, ma anche -- bisognerà pur ammetterlo, se la sincerità non è ancora un peccato -- con qualche recente delusione.

Ci muoveremo dal confronto con Mediator Dei (= MD), alla analisi di Sacrosanctum Concilium (= SC) fino alla enciclica Ecclesia de Eucharistia (= EE), aggiungendo uno sguardo alla recente Istruzione della Congregazione per il Culto Divino Redemptionis Sacramentum (= RS), per finire con alcune prospettive sintetiche e sistematiche che restano aperte alla speranza, nonostante tutto.

2. La coscienza tridentina e la prospettiva di «Mediator Dei»

Per lunghi secoli la coscienza teologica ecclesiale circa l'eucaristia è rimasta per così dire bloccata dalla preoccupazione prioritaria di una contrapposizione confessionale: antiprotestantesimo cattolico e anticattolicesimo protestante facevano il paio nel comprendere se stessi quasi soltanto come valorose opposizioni ad un «nemico» pericoloso.

L'eco di tale posizione controversistica rimane ancora fortemente presente in Mediator Dei (cfr. soprattutto i nn. 53-115, sul «culto eucaristico»), per quanto ormai i frutti del Movimento Liturgico fossero quasi del tutto maturi e si imponessero già largamente sul clima riduttivo della apologetica.3 Comunque, ancora nel 1947, i tre temi fondamentali con cui MD riflette sulla eucaristia sono i seguenti:

  1. Natura del sacrificio eucaristico (nn. 53-65)
  2. Partecipazione dei fedeli al sacrificio eucaristico (nn. 66-93)
  3. Comunione eucaristica (nn. 94-106)

cui si aggiunge il tema della adorazione eucaristica (nn. 107-115)

Su ognuno di questi tre punti, le aperture si compongono con ampie riserve, con decisi distinguo e con forti chiusure. Proviamo ad esaminarne i profili più rilevanti:

  1. Il «sacrificio» è definito in filigrana rispetto alle negazioni, secondo la mens tridentina. La natura di sacrificio della eucaristia è ribadita secondo la argomentazione di Trento, cui si aggiungono nuove prospettive, maturate soprattutto con la Enciclica Mystici corporis, di cui ricorre una lunga citazione proprio in conclusione di questa sezione.
  2. La «partecipazione dei fedeli» è compresa come «intimo contatto» dell'anima con il senso della celebrazione, ma ci si premura subito di escludere una semplice parificazione tra laici e clero come anche una minore validità delle «messe che si celebrano in privato», consigliando addirittura in conclusione una sorta di «parallelismo devozionale» (per i rudes) rispetto al rito eucaristico.4
  3. Circa la comunione, poi, si mette anzitutto in luce il fatto che l'integrità del Sacrificio non è messa in questione dal fatto che solo il prete si comunichi. Una famosa espressione della Imitatio Christi come «Raccogliti in segreto e goditi il tuo Dio» (al n. 105) rimane la luce e il modello di «partecipazione» cui guardare. A ciò si deve poi aggiungere, sul piano pratico, l'effetto di «scissione» del vissuto eucaristico, spezzato in due dalla distinzione (anche temporale) del «fare la comunione» e dell'«assistere alla messa». Questa è, a grandi linee ed in estrema sintesi, la condizione da cui si parte e nella quale irrompe la nuova prospettiva di SC.

3. La nuova prospettiva di Sacrosanctum Concilium e i nuovi accenti

Il cambiamento di prospettiva introdotto da SC consiste, essenzialmente, nell'aver spostato decisamente le priorità del discorso sulla eucaristia. Sotto il titolo De sacrosancto eucharistiae mysterio essa presenta i suoi 11 numeri dedicati alla eucaristia con la seguente significativa scansione:

L'elemento più qualificante di questa novità sta nella riscoperta e rivalutazione della stretta correlazione fra tre diversi livelli del discorso e della esperienza, che nel regime precedente (e, purtroppo, anche in parte di quello successivo e attuale) sono rimasti separati e giustapposti: (a) la definizione «narrativa» di eucaristia, (b) l'esigenza non accessoria di partecipazione attiva da parte dei fedeli e (c) la forma specifica di tale partecipazione.

Oserei dire che proprio su questo ultimo punto notiamo le più grandi differenze rispetto al passato e, forse, anche rispetto ad oggi! In effetti il testo, al n. 48 riguardo al mistero eucaristico, si esprime così: «per ritus et preces id (= eucharisticum mysterium) bene intelligentes», ossia formula ufficialmente la insufficienza di una partecipazione della sola anima, con cui prima (e poi) ci si è «difesi» dal ML e dal senso della Riforma da esso promossa.

È evidente che il vero motivo della Riforma consiste dunque nella possibilità di intelligere il mistero eucaristico proprio per ritus et preces, ossia nella partecipazione consapevole, pia e attiva alla azione liturgica. È dunque la azione il modo primario della intelligenza liturgica. Con questa consapevolezza non è il significato nell'anima (actus animae) il «primum», ma è piuttosto il significante e l'atto corporeo (usus rerum exteriorum) ad essere messo in primo piano. La Riforma del rito eucaristico è perciò motivata essenzialmente dalla esigenza di recuperare appieno e per tutti questo livello rituale e orante della intelligenza eucaristica. Non si tratta, in altre parole, di una Riforma al servizio della solita comprensione intellettuale, ma abbiamo piuttosto a che fare con un mutamento prospettico e con un recupero esperienziale in vista di un nuovo e originario modo di comprendere la verità della eucaristia, in equilibrio tra sensibilità e intelletto. È la rituum forma (SC 49), la forma rituale, ad assicurare la piena efficacia pastorale del sacrificio eucaristico.

Questa prospettiva cambia anche -- diremmo quasi inevitabilmente -- il tono generale con cui si parla delle diverse questioni: l'approccio in termini di actio sacra si preoccupa di recuperare anzitutto la pienezza del gesto rituale, piuttosto che la integralità del significato. La considerazione della pienezza della partecipazione concentra la attenzione sull'atto piuttosto che sul significato e ciò modifica profondamente anche il metodo della teologia della eucaristia. Prevale il «positivo» rispetto al «negativo», il «propositivo» sul «difensivo», l'articolato sull'essenziale: in altri termini, per la nuova mentalità introdotta dal Concilio -- ma lungamente preparata dal Movimento Liturgico -- l'accidente non è irrilevante per la sostanza: potremmo dire che nell'eucaristia, grazie a queste nuove considerazioni, si «riscopre» che gli accidenti non sono accidentali.

Ciò, come abbiamo detto, modifica nello stesso tempo la teologia e la prassi eucaristica, poiché supera quella logica del «minimo necessario» rituale, che per il primato dell'anima poteva/doveva essere sufficiente, ma che nella nuova prospettiva non basta più, anzi diventa continuamente fuorviante e principio di gravi incomprensioni.

Per questa prospettiva il vero e gravissimo abuso eucaristico è costituito dalla riduzione della eucaristia al suo minimo, alla sua essenza, al suo scheletro concettuale. Di qui nasce anche il bisogno urgente di una piena articolazione spazio-temporale della azione eucaristica, che recuperi tutta la ricchezza del riferimento biblico, dell'omelia, della preghiera dei fedeli, di una lingua comprensibile, della comunione con pane e calice, dell'unità della celebrazione e della possibilità di concelebrazione. Si noti bene: non uno di questi elementi è tradizionalmente ad necessitatem, ma tutti sono ad solemnitatem. Nella vecchia prospettiva questi sono tutti aspetti dispensabili e in certo modo contingenti, accessori, accidentali rispetto al significato teologico della eucaristia. Ora, invece, poiché è l'azione liturgica -- e non semplicemente il suo significato -- il centro della relazione eucaristica, ogni sua «parte» è atto simbolico-rituale qualificante teologicamente l'eucaristia. La modificazione che questo nuovo senso delle priorità comporta sia sul piano della esperienza pastorale-esistenziale, sia sul piano della riflessione teologico-concettuale, non è ancora del tutto entrato nella consapevolezza ecclesiale.

4. Le conferme in LG e le mete della Riforma e della Formazione

Autorevole conferma di questa lettura articolata è la la famosa definizione dell'eucaristia come «fonte e apice» di tutta la vita cristiana, contenuta in LG 11 (che riprende la versione più antica, alla base anche di SC 10), dove si sottolinea come il popolo di Dio debba essere accomunato -- ben prima delle differenze interne ad esso, pure necessarie -- dalla partecipazione al sacrificio eucaristico (come oblazione e come comunione). La ritrovata unità di sacramento/sacrificio è il punto di maggiore rilevanza, che oggi dobbiamo accuratamente considerare.

In effetti, la conferma del movimento di riscoperta della eucaristia ha bisogno di una duplice attenzione: certo, deve dedicarsi alla Riforma dei riti -- e questa fu la prima conseguenza clamorosa di quegli 11 numeri -- ma soltanto perché i riti possano formare e iniziare alla fede. Ossia, non è possibile che la forma rituum possa formare, se i riti non vengono riformati; ma non basta riformare i riti, se poi i «nuovi» riti vengono pensati, gestiti e vissuti come se fossero i vecchi riti. La cosa e l'atteggiamento verso la cosa fanno parte dello stesso gesto riformatore/formatore: arrestarsi solo alla Riforma e non procedere alla Formazione è un modo meno eclatante -- ma forse molto più efficace -- di vanificare tutte le buone ragioni della Riforma.

L'esito della Riforma liturgica non può dunque essere semplicemente ridotto al fatto di avere nuovi riti e nuovi testi. Soprattutto per l'eucaristia questo rischia di essere un falso successo e il principio di una vera sconfitta: accontentarsi di nuovi testi/riti, senza mutare la funzione che l'azione liturgica ha nella coscienza ecclesiale, vorrebbe dire rimanere pericolosamente fissati ad una coscienza e ad una prassi che si colloca prima della nascita del ML, prima del riemergere della coscienza che il «mistero celebrato» è necessario alla verità originaria della Chiesa. I nuovi testi/gesti permettono una rinnovata comprensione, ma partecipare e celebrare è molto più che comprendere con la mente: la «partecipazione attiva» è anche e anzitutto partecipare con l'esperienza e celebrare col corpo. Questa è la intelligenza eucaristica «de qua» vive la chiesa e alla quale possiamo giungere attraverso una autentica esperienza di chiesa eucaristica.5

5. Un esito sorprendente (e sconcertante): una pericolosa inversione

La vicenda della nuova teologia cattolica della eucaristia aveva in sé il bisogno urgente non solo di predisporre nuovi testi/gesti, ma di darsi anche una nuova esperienza originaria e fondante della azione rituale, non accessoriamente e secondariamente, ma essenzialmente e primariamente. Il ritardo di questa traduzione in atto -- ossia il recupero non intellettualistico della sola vera liturgia authentica -- ha inevitabilmente comportato una grande tentazione: quella di salvaguardare e difendere il sacramento e la stessa Riforma di esso, ma con una teologia antiquata e inadeguata al compito, secondo la quale la «forma» non è il rito o l'azione rituale, ma il suo significato teologico, manifestato dalla sua forma verbale o dalla sua norma rubricale. Così, pur cercando lodevolmente di affermare il primato di una ecclesia de eucharistia, spesso si finisce per contribuire di fatto soltanto a costruire una eucharistia de ecclesia.

La rinnovata prevalenza del tono apologetico, controversistico, generalmente difensivo e diffidente, è tornata spesso ad imporsi, segnando e sottolineando vecchie divisioni, vecchie distinzioni, vecchie chiusure. Al sostegno della passione per la riscoperta del più autentico uso eucaristico si può talvolta preferire la denuncia dell'abuso; alla scoperta delle delicate distinzioni interne alla assemblea celebrante si contrappone il primato del ministro su una assemblea «non-celebrante»: in tal modo si rischia di erodere gravemente la base stessa della esperienza liturgica della ecclesia, ingiustamente dividendo e contrapponendo ciò che originariamente è soltanto unito e indiviso, bensì articolato e differenziato.

Così, l'ultimo dei documenti apparsi nel post-concilio è, per certi versi, esemplare sotto questo profilo. Pur contenendo diversi punti che -- oltre allo splendido titolo -- continuano saldamente la via del Concilio, l'enciclica Ecclesia de Eucharistia assume non di rado un approccio minimalista, non-liturgico e puramente giuridico circa quel sacramento, che pure riafferma essere «culmine» e «fonte» di tutta l'azione della chiesa. Torniamo così per molti versi, tanto nel contenuto quanto nella forma, a preoccupazioni e scrupoli tipicamente pre-conciliari, come nei casi che qui brevemente indichiamo:

Dobbiamo ammettere che non è affatto un segno confortante il fatto che nel 2003 un autorevole documento sulla eucaristia dica molto meno e molto più timidamente ciò che già 40 anni fa era diventato così chiaro ed evidente, tanto più se a prezzo di tante fatiche. Non è neppure lusinghiero che la chiesa non abbia il coraggio delle proprie scelte e che voglia sempre, per così dire, «la botte piena e la moglie ubriaca». Quando si sceglie giustamente di riscoprire il primato dei sacramenti della iniziazione, si perde inevitabilmente la centralità della penitenza di devozione. Quando si sceglie la centralità della eucaristia celebrata, si perde inevitabilmente il monopolio che nel rapporto con l'eucaristia aveva ottenuto l'ostia adorata o la comunione spirituale.6

Pur con tutti i limiti della Riforma, che abbiamo anche segnalato, mi pare che questi debbano essere considerati -- realisticamente e obiettivamente -- come veri e propri punti di non ritorno. Intorno ad essi si qualifica non tanto la fedeltà alla Riforma, ma la serietà della risposta alla «questione liturgica», nella sua forma più urgente di «questione eucaristica», ossia di coscienza del fatto che la Riforma Liturgica è molto meno la riforma che la Chiesa fa dei suoi riti, di quanto non sia la Riforma che i riti (e anzitutto l'eucaristia) fanno della chiesa.

6. Una conferma preoccupante: la recente Istruzione RS

La tendenza che abbiamo visto affermarsi recentemente mediante l'enciclica EE ora trova una forte conferma -- sebbene ad un livello gerarchicamente meno rilevante -- attraverso l'Istruzione RS, il cui titolo è tratto non poco significativamente dalla Oratio super oblata della messa votiva De Dei Misericordia.

Un esame adeguato del tenore del documento non può prescindere da alcune premesse necessarie:

  1. L'istruzione RS ha un intento dichiaratamente «parziale»: «non si intende esprimere [in essa] l'insieme della visione cristiana sulla eucaristia» (RS, 8). Tuttavia il testo, pur affermando questo principio a chiare lettere, non rinuncia ad offrire criteri di rilettura complessiva della celebrazione eucaristica e ciò comporta l'inevitabile emergere di una certa tensione con la tradizione conciliare del Vaticano II. Da questo punto di vista il Concilio non solo ha detto anzitutto «altre cose», ma ha detto anche le medesime cose, e tuttavia «con altro linguaggio e da un altro punto di vista». Questa coscienza sembra emergere troppo debolmente dal documento in esame, col quale in fondo si fa una operazione duplice: pur limitandosi a ribadire norme già vigenti, si propone una rilettura «regressiva» della eucaristia, ossia in linea piuttosto con MD che con SC!
  2. Tale parzialità, tuttavia, resta ad un livello di autorevolezza e di forza inferiore sia ai grandi documenti del Vat. II sia alle encicliche che lo hanno seguito. Ciò deve garantirci di non sovrastimare un documento il cui intento resta parziale e obiettivamente riduttivo.

Un esame dettagliato dello sviluppo del documento ci consentirà una comprensione più adeguata delle sue luci (poche in verità) e delle sue ombre (molte, troppe). Se poi teniamo conto del fatto che tale documento ha già subito numerosi interventi di «ridimensionamento» prima della approvazione definitiva e della conseguente pubblicazione, comprendiamo bene il tipo di impatto che pretendeva (e tuttora pretende) di avere sulla celebrazione eucaristica.

6.1 Proemio [1-13]

L'esordio contiene almeno tre elementi qualificanti:

6.2 Capitolo I: La regolamentazione della sacra Liturgia [14-18]

Sebbene si ricordi la garanzia che l'episcopato deve offrire a «quella libertà, che è prevista dalle norme dei libri liturgici» (RS 21), non mancano anche in questo capitolo riferimenti piuttosto tiepidi, se non addirittura freddi, alla attività delle commissioni liturgiche diocesane (RS 25) e soprattutto, circa i presbiteri, non si manca di annotare -- in modo quanto meno azzardato -- che soprattutto a partire dalla riforma liturgica, si sono manifestati abusi che hanno causato sofferenze al corpo ecclesiale (RS 30). Sorprende che non vi sia una riga che ricordi -- come sarebbe giusto -- che ben altri abusi impedivano prima del Concilio quasi ogni rapporto tra celebrazione rituale e esperienza ecclesiale e che la passività non creativa e incapace di adattamento resta comunque un abuso ben peggiore rispetto agli eccessi di creatività e di adattamento. In conclusione del capitolo, tuttavia, è da rilevare un numero segnato da particolare attenzione alla meraviglia e allo stupore del presbitero di fronte al mistero (RS 33), che non mancherà di colpire non solo i teologi, ma anche i poeti.

6.3 Capitolo II: La partecipazione dei fedeli laici alla celebrazione dell'Eucaristia

Questo è forse la sezione del documento dove più forti si manifestano le tensioni tra affermazioni disciplinari e convinzioni pastorali e teologiche scaturite dal Vaticano II. Anzitutto, nonostante la ripresa (in larga parte solo retorica) degli enunciati conciliari, viene riproposta una rilettura ecclesiologica segnata da profondo clericalismo, ossia da una spaccatura decisa tra chierici e fedeli laici, che viene fatta dipendere da una lettura accentuatamente e sostanzialmente sacrificale (e solo minimamente e accessoriamente conviviale) dell'eucaristia (RS 37-38). Da ciò dipende, per conseguenza, la assunzione di un criterio di «partecipazione attiva» del popolo di Dio alla celebrazione eucaristica che slitta obiettivamente -- e quasi potremmo dire ufficialmente -- dal Vat. II che lo ha reintrodotto, alla lettura riduttiva e sostanzialmente ancora tridentina di MD (RS 39-42).

In questa lettura, la partecipazione dei laici alla eucaristia è essenzialmente «altro» rispetto alla celebrazione del ministro ordinato. Il vocabolario che indirettamente vorrebbe imporsi è: i laici partecipano all'eucaristia (ma non celebrano e quindi non sono sacerdoti), invece i ministri ordinati celebrano l'eucaristia e come tali possono essere detti sacerdoti (come il documento fa dalla prima all'ultima pagina). Per questo RS 41 ripropone il parallelismo tra diverse forme di partecipazione come modello della partecipazione dei laici (mutuandolo esplicitamente da MD), mentre il numero successivo (RS 42) rilegge la tradizione conciliare della «assemblea celebrante» tendenzialmente come un «abuso», considerandone l'impatto non sul piano di una maggiore ricchezza ecclesiologica, spirituale ed esistenziale, ma soltanto sul piano della messa in discussione della distinzione tra clero e laicato: di qui l'invito alla «cautela» nell'uso della espressione.

6.4 Capitolo III: La retta celebrazione della santa Messa

Nel capitolo successivo sono raggruppate una serie di istruzioni circa diversi punti del rito eucaristico. Ci limitiamo ad indicare soltanto alcuni numeri, il cui svolgimento appare segnato da un tuziorismo assai accentuato e talvolta persino paradossale:

6.5 Capitolo IV: La santa Comunione

Già l'incipit di questo capitolo suona abbastanza sorprendente, quando venga compreso nell'orizzonte disciplinare che dovrebbe caratterizzarne il registro: il richiamo sostanzialmente individualistico all'eucaristia come «antidoto, che ci libera dalle colpe quotidiane e ci preserva dai peccati mortali» (RS 80), non risce ad adeguatamente considerare, fin dall'inizio, il senso anzitutto comunitario ed ecclesiale del fare comunione. È qui evidente una non nascosta intenzione di ritornare ad una logica tridentina, a differenza dell'orientamento aperto e coraggioso del Concilio Vaticano II (e in questo anche le note sono assai istruttive nel mostrare in modo trasparente le fonti di questa scelta).

In modo lapidario, poi, si rimanda al codice di diritto canonico per richiedere di premettere sempre alla prima comunione dei bambini la confessione sacramentale (RS 87). Forse un documento disciplinare non può fare molto più di così, ma è certo che se la disciplina non può identificarsi immediatamente con la normativa vigente, potrebbe essere meritevole di qualche maggiore considerazione il fatto che, attraverso l'impiego di questa normativa, si suggerisca pastoralmente una iniziazione cristiana costituita da 4 e non da tre sacramenti, con la collocazione del sacramento della riconciliazione come «soglia» per accedere (per la prima volta) alla eucaristia. Dovrebbe forse sorgere, nella coscienza ecclesiale, la consapevolezza che questo «uso» ecclesiale potrebbe facilmente essere considerato una forma almeno «non lineare» e «problematica» di attuazione della iniziazione cristiana, con una trasformazione del IV sacramento in III, cosa che non può non dar adito almeno a qualche perplessità.

Del tutto esemplare, per struttura e priorità suggerite, è il tenore dei numeri 92-93, dove il rapporto tra ministro della comunione e comunicando è interamente riletto secondo una logica in cui è talmente accentuata la relazione tra «diritto» e «dovere», che orienta la prassi ecclesiale ad assestarsi piuttosto su una diffidenza tra estranei, che non sull'affidamento tra fratelli, in cui distribuire sulla mano o in bocca non è soltanto una «forma», ma è sostanza di vita ecclesiale e di relazione umana, qualificata e matura. Il pericolo della profanazione, quando utilizzato come criterio di lettura generale dell'atto del comunicarsi ecclesiale, può diventare un punto di sovversione e di perversione del sano spirito ecclesiale. Ma di questo abuso nel testo non vi è alcuna traccia. E la richiesta dell'uso del piattino, indifferentemente rispetto alle forme concrete con cui la comunione viene distribuita, la dice lunga su quale atteggiamento caratterizza il criterio della stesura di tale istruzione.

Forse ancora più sorprendente è il dettato di RS 100, dedicato alla comunione sotto le due specie. Qui è utile procedere ad un breve confronto tra l'espressione del Concilio Vaticano II e questa nuova e singolare riformulazione. Mentre SC 55 raccomanda molto quella partecipazione più perfetta alla messa, nella quale i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevono il corpo del Signore con i pani consacrati in questo sacrificio, e poi, fermi restando i principi dottrinali stabiliti dal concilio di Trento, il richiamo alla comunione sotto le due specie, che si può concedere sia ai chierici, sia ai religiosi, sia ai laici..., invece il testo di RS sembra voler ridimensionare l'impatto pastorale del Vaticano II, sottolineando giustamente che il motivo della comunione sotto le due specie è di «manifestare ai fedeli con maggior chiarezza la pienezza del segno nel convivio eucaristico» (anche se la manifestazione non è «verso» i fedeli, ma nell'atto stesso dei fedeli), aggiunge subito dopo una limitazione molto più pesante e forte di quanto non facesse SC, dicendo «con il presupposto e l'incessante accompagnamento di una debita catechesi circa i principi dogmatici fissati in materia dal concilio ecumenica Tridentino». Proprio questa puntigliosa riformulazione non può non lasciare assai perplessi, visto che, in materia, l'atteggiamento di Trento è quello della «non obbligatorietà», quasi la riduzione della questione a disciplina, mentre per il Vaticano II si tratta di riscoprire la logica simbolico-rituale della liturgia, mai riducibile al suo minimo necessario. Così, obiettivamente, l'ermeneutica portante sembra essere piuttosto quella tridentina che non quella di SC.

Circa i capitoli V, VI e VII (Capitolo V: Altri aspetti riguardanti l'Eucaristia, Capitolo VI: La conservazione della Santissima Eucaristia e il suo culto fuori della Messa, Capitolo VII: I compiti straordinari dei fedeli laici) non vi sono note di rilievo così interessanti da meritare una esplicita annotazione.

6.6 Capitolo VIII: I rimedi [169-171]

Quest'ultimo capitolo, nella sua essenziale stringatezza, contiene però almeno due aspetti che meritano di essere segnalati, uno sul versante «extra-ecclesiale» e l'altro sul versante «intra-ecclesiale»:

6.7 Conclusione [185-186]

Anche i numeri conclusivi dell'Istruzione (RS 185-186) ribadiscono una comprensione accentuatamente clericale del rapporto tra clero (con doveri) e laici (con diritti) circa la celebrazione liturgica. Il che sottointende il fatto che essa è celebrata soltanto da preti e vescovi, mentre è fruita, assistita, osservata («partecipata», ma solo retoricamente) dai fedeli laici. Contro questa visione l'ultimo Concilio ha scritto una delle pagine più luminose della storia recente e sicuramente non sarà una Istruzione della Congregazione del Culto divino a poterlo ostacolare: anche se bisogna ammettere che questo tentativo obiettivamente sembra andare largamente in questa direzione. Ma possono esservi atti tentati i cui effetti sono tanto efficaci quanto quelli di atti consumati. E non è affatto escluso che questo possa rivelarsi precisamente come uno di questi atti.

7. Una articolata comprensione conclusiva

È importante, per stilare un piccolo bilancio conclusivo di questa breve rassegna storica, distinguere bene fra tre diverse dimensioni di approccio e di considerazione della eucaristia, che stanno scritte nella nostra storia comune, si influenzano a vicenda e delle quali dobbiamo saper dar conto quando affrontiamo una questione come quella della genealogia eucaristica della chiesa. Queste dimensioni sono diverse, talora alternative e spesso però si sovrappongono e prevaricano le une sulle altre. Proviamo a considerarle brevemente nella loro singolarità e in special modo per la particolare esperienza del tempo che esse ci consentono di vivere. Di fatto -- dovremo riconoscerlo -- risolvere la questione della genealogia eucaristica della chiesa comporta aver già risolto la più generale questione della consapevolezza di diversi rilievi e di diverse profondità che il tempo acquisisce in queste differenti modalità di esperienza della eucaristia.

7.1 La dimensione spirituale-personale (soggettiva)

La prima dimensione che vorrei considerare è legata alla esperienza che il soggetto ecclesiale (laico, prete o monaco) ha della eucaristia. Il tempo del soggetto -- tempo tutto suo, tempo da usare bene, da dedicare, da sacrificare -- si plasma in una adesione tendenzialmente estensibile ad libitum rispetto alla eucaristia (adorata o celebrata, partecipata sacramentalmente o spiritualmente). È chiaro, tuttavia, che qui la totalizzazione del tempo (la tensione alla adorazione perpetua o alla celebrazione ripetuta e continua) deriva sostanzialmente da un evidente fenomeno di assimilazione del tempo eucaristico al tempo soggettivo. La pretesa di una sintonia della celebrazione al tempo soggettivo (cosa mai del tutto priva di fondamento, s'intende, ma estremamemente pericolosa se assolutizzata) porta ad una inevitabile deriva che la comprende anzitutto come esercizio, ascesi, compito. È tempo «investito» e «quantitativamente calcolabile», dal quale si pretende -- sotto sotto -- una resa. Esso è piuttosto tempo del «labora» o dello «stude» che non tempo dell'«ora».

7.2 La dimensione giuridico-disciplinare (oggettiva)

Una delle ultime parole che abbiamo usato nel punto precedente -- quella di compito -- ci introduce anche alla seconda grande esperienza della eucaristia, che potremmo chiamare giuridico-disciplinare. Qui l'eucaristia è presa di mira e considerata come istituzione, come istituto giuridico, come struttura ecclesiale, che impegna oggettivamente il singolo e che si pone (o meglio si impone) con un tempo oggettivo, omogeneo, quasi inesorabile, rispetto alla temporalità del soggetto. Posta la oggettività della forma, della materia, del ministro competente, ogni condizione temporale e spaziale, ogni carattere contingente dell'azione risulta risucchiato in una atemporalità insignificante. Se nel primo modello che abbiamo considerato, la temporalità soggettiva finiva con il risucchiare ogni tempo del sacramento, ora in questo secondo caso è il tempo oggettivo del rito a ridurre ad «adiaphoron» il tempo del soggetto. In questa visione il tempo o è imposto oppure è irrilevante, ma comunque sottoposto anche in questo caso ad una «contabilità», ad una «resa».

7.3 La dimensione liturgico-sacramentale (intersoggettiva)

Tuttavia, accanto a questi due versanti -- pur così diversi tra loro e però anche così simili nelle conseguenze -- esiste anche una importantissima dimensione liturgico sacramentale della eucaristia. Essa affonda la sua verità nella irriducibilità della eucaristia allo spazio-tempo comune. Vi è dimensione celebrativa della eucaristia in quanto venga assunta la sua simbolicità rituale come una diversa esperienza dello spazio e del tempo. Questa è dovuto essenzialmente alla fuoriuscita della esperienza credente da una logica della contrapposizione tra soggetto e oggetto,7 tra tempo soggettivo-libero e tempo oggettivo-imposto, dando figura ad una dimensione dell'intersoggettivo che non può mai essere ricondotta ad un tempo come «continuum omogeneo». La rottura di questo continuum è la caratteristica di questa prospettiva di esperienza della eucaristia. Il suo «sempre» non è mai riducibile a «ripetizione quotidiana», bensì comporta una chiara assunzione dello statuto simbolico-rituale, come modalità elementare dell'esperienza di Dio e dell'uomo.

7.4 Bilancio e correlazione tra i diversi aspetti

Nessuno dei tre aspetti che abbiamo considerato è privo di qualche buon fondamento, s'intende. Ma ciò che deve sorprenderci è come, nella inevitabile sovrapposizione di queste esperienze, si siano creati scompensi, abusi e gravi sfigurazioni della esperienza integrale del sacramento:

  1. La alleanza segreta tra le prime due esperienze (soggettiva e oggettiva), quasi affermando la reciproca pretesa che l'una sia interlocutrice dell'altra, di fatto ottiene l'effetto di spiazzare la terza esperienza, fino a renderla invisibile e letteralmente invivibile. Il dramma della nostra condizione ecclesiale e sacramentale è proprio questa pericolosissima equiparazione tra invisibile e invivibile.
  2. Tuttavia, dovremmo capire che è proprio la esperienza celebrativa -- intersoggettiva e simbolico-rituale -- a costituire lo sfondo concreto su cui poi sono possibili le utili astrazioni personali e giuridiche. Ma una eucaristia ridotta a dialettica soggettiva/oggettiva (a rapporto conflittuale e normativo tra diritti e doveri) risulta sempre soggettivamente desiderata o oggettivamente obbligata proprio per non essere mai comunitariamente celebrata.
  3. Così si crea una assai strana combinazione tra un obbligo oggettivo di celebrazione continua del sacramento e l'ideale soggettivo di comunuone (soltanto) spirituale. Il soggetto non sa che farsene dell'oggetto, e, viceversa, l'oggetto, una volta posto, letteralmente prescinde dal soggetto. E questa reciproca esclusione del soggetto per l'oggetto e dell'oggetto per il soggetto sembrano alimentare le pretese minimali per una decente esperienza eucaristica.

Porre oggi la questione della forza genealogica della eucaristia per la Chiesa significa gettare lo sguardo in questo abisso di relazioni tra diverse esperienze della eucaristia e -- come credo -- con una intenzione tutt'altro che iconoclasta o antitradizionale, ma piuttosto con una vera passione per l'equilibrio della tradizione, quell'equilibrio turbato dall'obiettivo prevaricare con ragioni disciplinari e/o spirituali le ragioni squisitamente liturgico-sacramentali, che costituiscono la fonte e il culmine di tutta l'azione della Chiesa (SC 10).

Ritengo che solo mantenendo vivo questo terzo livello simbolico-rituale di approccio all'eucaristia potremo davvero restare capaci di quella «cavalleria» nel rapporto con il passato, senza la quale la storia e la tradizione perdono il loro diritto di parola, vengono strumentalizzate e si trasformano facilmente o in un tradizionalismo senza vita, o in basse tattiche di politica ecclesiastica senza alcuna ispirazione, o addirittura in pericolose forme di vero e proprio tradimento delle intenzioni del Concilio, che -- come detto sopra -- ha chiesto alla Riforma Liturgica di essere anzitutto Riforma della Chiesa attraverso i riti, piuttosto che soltanto Riforma dei riti mediante la Chiesa.

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Note

  1. K. Barth, La teologia protestante nel XIX secolo, vol. I Le Origini, Milano, Jaca Book, 1979, 72-73. Testo

  2. Questa affermazione fa il paio con quella parallela, ma previa, che Paolo VI pronunciò nel suo primo discorso al Concilio: «È venuta l'ora, a noi sembra, in cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con quelle dichiarazioni con le quali la Chiesa con più esplicito ed autorevole magistero dichiara ciò che essa pensa di sé» (Paolo VI, 29/09/1963, Apertura II Sessione Conc. Vaticano II). Proprio da questa sessione del Concilio sarebbe uscito il testo di Sacrosanctum Concilium. Testo

  3. Per una rilettura in questo senso cfr. A. Catella, Dalla Costituzione conciliare «Sacrosanctum Concilium» all'enciclica «Mediator Dei», in AA. VV., La Mediator Dei e il Centro di Azione Liturgica: 50 anni alla luce del movimento liturgico (= Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» -- Sectio Pastoralis, 18), Roma, C.L.V. -- Ed. Liturgiche, 1998, 11-43. Testo

  4. È interessante notare come il concetto di partecipazione dei fedeli sia essenzialmente legato non al rito, ma allo stato d'animo (cfr. n. 67). Così, coloro che hanno difficoltà ad entrare nella logica liturgica e non vogliano rinunciare a partecipare al sacrificio eucaristico «possono certamente farlo in altra maniera... come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere, che pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura» (n. 90). Questo consiglio esplicito di parallelismo partecipativo di fatto non riesce ancora ad immaginare la novità che SC introdurrà, rendendo inseparabile forma rituale e partecipazione attiva. In questo sta proprio la novità più significativa che il Concilio ha saputo recuperare e autorevolmente riproporre alla attenzione e alla pratica ecclesiale. Testo

  5. Cfr. G. Dossetti, Per una «chiesa eucaristica». Rilettura della portata dottrinale della Costituzione liturgica del Vaticano II. Lezioni del 1965, edd. G. Alberigo -- G. Ruggieri, Bologna, Il Mulino, 2002. Testo

  6. Questo non significa affatto che penitenza di devozione e adorazione eucaristica risultino «superate», ma piuttosto che devono essere riorientate alla centralità del mistero «celebrato». Si tratta, in sostanza, di una ripensamento delle priorità con cui la chiesa esprime meglio ciò che essa pensa di sé. Anche per questo, è il concetto di partecipazione attiva a risultare decisivo e sul quale non è teologicamente possibile deflettere, senza mettere in questione il valore stesso della proposta conciliare. Testo

  7. Cfr. G. Bonaccorso, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, Padova, EMP-Abbazia di S. Giustina, 2003, 19-26. Testo