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Il destino del sublime dallo Ps-Longino ad oggi:
una visione spirituale, etica ed estetica

di Paolo Giannoni (3 agosto 2009)

«Sublime» è una parola che inganna. In psicanalisi significa trasformare i propri impulsi primitivi rivolgendoli a fini più elevati. Sul piano spirituale quando si crede di sublimare senza grazia o si intende la grazia come fattore sublimante, si disloca una potenza, negandole verità e rifiutando di disporre delle sue energie. In una cultura che rinunzia ad avere e a stabilire criteri universali di bellezza il sublime viene a perdere il suo connotato di trascendenza positiva e non comporta più la tensione verso le cose grandi o comunque ulteriori. La storia del sublime è la storia di una ferita che è un appuntamento ineludibile, perché la bellezza merita di essere commisurata con la realtà e questa può anche essere molto brutta. La via che attraversa il brutto ha la possibilità di vivere il cammino della penitenza promuovendo la responsabilità personale come un coraggio della libertà che incontrando il brutto al posto del bello si apre alla speranza e alla volontà di ricostruzione. È l'estetica della redenzione.

Quando diciamo «sublime», abbiamo una immediata sensazione di bene e di grandezza. Il Devoto-Oli recita «eccelso (in senso spirituale, intellettuale, morale, estetico; «la manifestazione della bellezza e della grandezza nel loro grado più alto». Sublimare è «esaltare (con un senso di elevazione morale, di conquista spirituale»). In psicanalisi, trasformare i propri impulsi primitivi rivolgendoli a fini più elevati». È chiara l'intonazione positiva, condivisa nel linguaggio ordinario.

Tutto questo è anche troppo semplice, perché «sublime» è una parola che inganna. Sembra essere attinente a un movimento che innalza l'anima e la vita, ed è vero. Ma lo svolgersi della sua storia mette a tema un lato negativo, addirittura sinistro, manifestando il veleno sottile che in esso sta nascosto. Per questo la parola contiene una verità, ma è anche una domanda, apre una questione.

1. La sublimazione nella prospettiva teologico-spirituale

È doveroso rispettare la specificità che il termine assume nelle scienze psicologiche. Queste aprono un orizzonte diverso e autonomo nei confronti di quello teologico e costituiscono per noi un riferimento dal quale abbiamo da imparare, perché rappresentano un campo dove abbiamo da cogliere novae viae ad veritatem (GS 44). Pertanto non intendiamo imporre significati e metodi di valore teologico in campo psicologico. Tuttavia quando dalle scienze psicologiche passiamo a quelle teologiche il salto è forte e nessuno può portare nell'orizzonte tipico teologico forme e idee tali quali sono nel comparto della psicologia e di ogni altra scienza. Infatti, dal punto di vista del cammino e della formazione spirituale, il tentativo di «sublimare» non va trasferito e accolto come un fattore positivo, perché in verità questo procedimento, visto in una intelligenza teologica attenta, manifesta la coscienza di una impotenza che opera una ingannatrice traslocazione. Allargando, ma consentendo alla definizione avuta dal Devoto-Oli, se ci accostiamo a un dizionario specifico troviamo che «sublimazione secondo la psicanalisi designa un meccanismo di difesa contro gli impulsi degli istinti. Gli impulsi sessuali o aggressivi vengono indirizzati verso scopi superiori, che presentano un valore sociale».1

Al primo sguardo ciò sembra una cosa buona, da favorire nel cammino spirituale. Ma nei fatti una simile operazione opera una falsificazione di un dato costitutivo della persona. La persona è anche sesso e desiderio; è anche aggressività e ripulsa. È quel composto di concupiscibile e di irascibile che dalle introspezioni medioevali sulla base aristotelica e platonica tuttora ha corso nelle analisi che riguardano la persona umana. Dinanzi a questa verità occorre tenere conto che:

  1. non è giusto secondo verità. e non è efficace dal punto di vista della realizzazione umana. avere un concetto di inferiorità (proveniente dal giudizio greco) di forze costitutive a pieno titolo della persona.
  2. Di più: nella vita di tutti, queste forze interiori hanno una virtualità benefica e comunque sono dati reali, ineliminabili.

In verità e con una certa durezza possiamo dire che attuando l'operazione della sublimazione si dichiara l'impotenza di una volontà senza grazia, ma anche si professa una implicita sfiducia verso la grazia. Così oggi assistiamo al fatto che il sublimare appartiene al comparto repressivo e come tale va visto in maniera negativa. Comunque all'interno di un orizzonte teologico-spirituale gli educatori e gli animatori che credono giusto suggerire vie di sublimazione, devono tener in conto che questa è una via psicologica, non spirituale. I discorsi attinenti alla sublimazione hanno valore, un valore nell'orizzonte psicologico: un suggerimento da guardare con attenzione dal versante teologico. Ma in quanto falsificano l'essere umano, con una sfiducia dei movimenti sessuali e aggressivi -- che invece sono cosa buona -- non possono essere accolti semplicemente nella visione spirituale dell'uomo. Certamente essi vivono in una umanità segnata dal peccato, e da qui ricordiamo quanto la tradizione dice sulla «concupiscenza», anche se molte cose vanno riviste in questa dottrina teologica. Ma la via di una chiesa che non intende decadere dalla grazia (Gal 5, 4), è la via che non solo ha la certezza benefica che «dove ha abbondato il peccato, lì sovrabbonda la grazia» (Rom 5, 20), ma anche offre allo Spirito di Dio, medico («sana ciò che sanguina, drizza ciò che è sviato» così canta il Veni Sancte Spiritus) la piaga umana, affinché la sua carne diventi fonte di energia, come essa è per disposizione divina.

Certo la psicologia, vera via verso la verità, è una giustificata via laicamente intesa, ma nella vita spirituale dirimente è il criterio della grazia, che vive in un orizzonte diverso. In concreto, sul piano spirituale una volontà che intende sublimare senza grazia o intende la grazia come fattore sublimante disloca e cerca di alienare una potenza, negando il riconoscimento della sua verità e rifiutando di disporre delle sue energie. Nel tentativo di sublimazione infatti si dichiara la frustrazione che deriva dal non poter o non voler affrontare una forza e si cerca di risolvere la frustrazione dislocando la direzione della forza stessa. Ma è possibile -- ed è giusto sia radicalmente che funzionalmente -- falsificare una potenza? Non si priva la persona di una sua divina energia, che resta offesa e la si ritiene estranea mentre è una sua dinamica? E quanto questo viene a costare in termini di spreco di energie e di riduzione-falsificazione della persona umana? Non è infatti vero che la sua forza permane e inutilmente si cerca di ingannarla? Non è forse vero che essa, una volta rimossa, agisce dalla «cantina» della persona e influisce con una forza che è fuori controllo? Si ottiene così non solo la falsificazione della potenza e della persona, ma anche la falsificazione degli «scopi superiori», che vengono alienati. Ma essi sopportano questa alienazione? Non subiscono un processo velenoso di falsificazione, ridotti come sono solo ad essere sostituivi?

Queste domande hanno già una risposta: la formazione, di scissione dei sentimenti e della persona, che troppe volte segna la formazione cosiddetta «spirituale», nei fatti opera una scissione dell'anima dalla sua verità e la priva di energie preziose, che hanno bisogno di una diòrthosis, di una rettificazione, mediante la collocazione dentro l'intero armonico della vita e del singolo essere.

Gli interrogativi fatti portano a considerare la sottigliezza di una insospettata repressione magnificata perché nella pratica sublimante si stravolge un reale umano, il quale però mai si inganna e non può essere ingannato. Nasce una maschera, non una sussistenza o una persona.

Ma il veleno sottile presente in questa operazione emerge anche se si entra nella storia della dimensione estetica che le è coerente.

2. Il sublime estetico

Anche sul piano estetico la parola sembra indicare un fatto positivo, in quanto è vista come «la manifestazione della bellezza e della grandezza nel loro grado più alto». In verità anche in questo caso la cosa va vista con minore semplicità, perché contiene una duplicità che apre un equivoco (ci mettiamo nel percorso fatto da R. Bodei).2

2.1. La duplicità del sublime

Da una parte, c'è il fatto che dal punto di vista estetico il sublime «dall'antichità si oppone all'idea che il mondo possa appagare interamente l'uomo e che costituisca perciò un modello assoluto da imitare».3

Questa affermazione contiene una grande verità, basata sulla finitudine creaturale che porta il senso di un oltrepassamento del reale finito verso ciò che è più alto dell'uomo. Per questo il sublime «è l'eco della grandezza d'animo»4 (è la definizione dello PseudoLongino o «Anonimo del sublime»). Di fatto questa prospettiva induce ad una considerazione teologica o almeno trascendente all'interno dell'orizzonte estetico. Può essere anche una operazione fattibile, ma occorre renderci conto del gioco linguistico e di contenuti che in tal modo viene messo in atto. La cosa non è senza effetti.

Il problema teologico e comunque ogni riferimento al trascendente ha sempre necessariamente una ulteriorità e ogni riferimento teologico ed ogni induzione del senso del trascendente ha con sé una conseguenza di «oltraggio». L'esito di questo termine, dall'uso dantesco in poi, manifesta la virtualità che il procedimento dell'ulteriorità comprende (fino alla «différance» derridiana). Di fatto, nel comparto estetico, la cosa implica una deriva semantica, perché reintroduce l'antico choc del bello sotto forma di contrasto o di conflitto, che impedisce il godimento di una armonia «visibile», rinviando all'infinito la piena conciliazione.5 Ora se questo in campo teologico e spirituale ha la sua convenienza e la sua necessità, va anche fatto notare che all'interno di un orizzonte umano e di una considerazione antropologica la cosa può contenere e contiene effettivamente una alterazione molteplice. Può deviare verso una valorizzazione di tutto quanto è sconcertante (non diciamo «brutto», perché il criterio di bellezza è il meno definibile che esista); può assumere la forma di rinunzia come una deriva dal coraggio di vivere, rassegnandosi a quanto è mostruoso o, nel grado minore, un ricorso alla provocazione che dice esiguità di proposta (si contrappone scandalizzando e non si va oltre); oppure esprime una volontà di potenza, perché sembra voler superare la limitatezza, assumendo una forma titanica.

Come si vede la cosa è complessa e interessa diversi orizzonti.

Va anche detto che quando il concetto di sublime si dà in una cultura che si assesta sul puro esistente, che «non fingendo ipotesi» rinunzia ad avere e a stabilire criteri universali della bellezza -- tanto per un rigore idiografico che per opzioni scettiche o per un'etica che non pone nel proprio orizzonte Dio come bene assoluto -- allora esso viene a perdere il suo connotato di trascendenza positiva e non comporta più la tensione verso le cose grandi o comunque ulteriori. Da ciò consegue la coscienza dell'impossibilità umana di una relazione verso un ordine universale. Si può cogliere qui una ragione del giudizio pessimistico, come quello di Galimberti, verso la tecnica che -- se abbandonata a se stessa perché assolutizzata -- sembra possedere una potenza che blocca ogni conato spirituale. Di fatto una opzione secolaristica esclude ogni orizzonte religioso e l'uomo si trova alla periferia di tutto, all'insignificanza dentro l'universo, perché viene in evidenza la concezione di un «multiverso» senza centro. Nasce la conseguenza dell'abbandono di ogni possibilità di un «megaverso», che è collegato strettamente al sublime, almeno nella sua fase originaria. Va detto che la cosa ha le sue ragioni, ma deve essere anche chiaro che da questa visione consegue anche una frammentazione nella quale l'uomo rischia di diventare una passione inutile, perché senza una radice e senza un progetto, non ha possibilità di identità, cioè non può dire «io» se non congetturalmente e il «tu» diventa probabilmente passibile di strumentalizzazione. Al posto del vero viene l'utile e il funzionale, in un restringimento dell'umano dentro l'orizzonte del pragmatismo.

3. Universo, megaverso e multiverso

Ritorniamo al concetto di multiverso che abbiamo ricordato. Ogni parola essendo una Lebensform ha dietro di sé una storia e si imposta in una vita. Ha ragione di esistere per il fatto che esiste e spetta a noi non stabilire né preclusione né favoreggiamento, ma solo la intuslegentia della sua entità. Se pertanto operiamo questa lettura dentro il concetto di multiverso, ne cogliamo lo spettro semantico come quando la luce passata attraverso un prisma manifesta l'iride che la compone. Così noi vediamo che accanto al concetto di universo, la cultura contemporanea porta il concetto di multiverso,

  1. come una conseguenza del realismo che considera la debolezza dell'uomo-canna;
  2. in questa situazione rimane tuttavia vero che la sua è (ricorda Pascal) la debolezza di una canna pensante e da qui emerge la sua capacità demiurgica nel pensiero, nella scienza, nella tecnica;
  3. in questo e per conseguenza si esprime la forza di uno «scatto di orgoglio, questo moderno revanscismo del pensiero e dell'umanità contro la natura tutta, che suscita il sentimento del sublime».6 Vogliamo in proposito ricordare la domanda «se posso fare, perché non posso fare?» alla cui volontà di potere si è già risposto con un'altra domanda: «se posso fare, anche devo fare?» Ma nello stesso tempo
  4. avviene il paradosso che l'esperienza porta alla considerazione di un non-finitamente piccolo, di un non-finitamente grande e di un non-finitamente profondo (diciamo «non-finito» al posto di «infinito» per rimanere dentro la temperie dell'orizzonte che nasce in questa prospettiva che abbandona il senso della trascendenza originaria per una condizione solo descrittiva: in questa non si dà infinito, ma solo un non-finito), sicché il demiurgo non può essere il centro e non è più il centro dell'universo. Da qui
  5. viene anche non solo il revanscismo sulla natura, ma anche il senso della grandezza umana che si apre all'oltre ma nella fraternità cosmica che può aprire la relazione multiversa (una forma moderna, sostitutiva dell'antico sublime). Per conseguenza risulta chiaro che è per noi necessario renderci conto che diversi sono gli atteggiamenti della ragione quando si pone davanti all'universo e quando si pone di fronte al multiverso.

Nel primo -- riprendendo l'antica visione patristica desunta dalla sapienza greca -- l'uomo è un (anzi «il») microcosmo nel macrocosmo. Ma anche in questo abbiamo da cogliere le derive possibili e realizzate. Infatti proprio nel cogliere se sesso come realtà sintetica dell'universo, l'uomo può vivere la propria dignità, riconoscendola in ogni creatura dell'universo. Oltre alla sua specificità (oggi geneticamente contestata) si aggiunge il criterio di una primazialità e questa può assumere la forma del servizio nel compito demiurgico (è il modello del «re giusto» del Salmo 71) ma può anche portare a disconoscere l'autonomia e la preziosità di ogni altra creatura e a sfruttarle pragmatisticamente secondo un criterio di utilità che isola dall'universo (è il problema ecologico).

Nel secondo non si aderisce ad una totalità con un centro, ma si è davanti a una somma di tutti gli elementi che sono presenti nell'universo: non si ha un orizzonte di infinito ma la relazione con molti non-finiti. Nella visione che guarda e classifica gli elementi nasce una visione che non può avere il criterio della complementarietà ma vive solo l'umiltà del criterio di supplementarietà (e in questo si ha una convergenza con la coscienza dell'infinito; qui sta il punto di congiunzione tra universo e multiverso): in questa hanno ragione e verità le parti e i frammenti.

4. Una messa tra parentesi del peccato originale?

A questo punto sorge la necessità di chiarire un assunto di fondo, perché sembra che sul piano spirituale si accetti un impianto di tipo laico che non guarda al rapporto con la grazia e sembra mettere in sottordine quanto la tradizione della chiesa chiama «peccato originale». Ora sopra abbiamo già protestato circa una visione senza grazia e la ripetiamo.

Quanto al peccato originale, occorre uscire dalla situazione mitica per asseverare nel trasferimento della ragione sapienziale il suo contenuto. Diversamente si viene a perdere un contenuto rilevante dell'antropologia cristiana. Su questo punto la ricerca della ragione in condizione di fede è proficua.7 Essa è attenta alla verità dell'esegesi, asseverata dal magistero, e alla sensibilità moderna, che è ben diversa -- occorre dirlo -- dalle inani definizioni che tuttora circolano nella chiesa. La visione sul peccato originale si fa anche ben diversa per il superamento della separazione della sua trattazione da quella della cristologia che sulla base di Rom 5 necessariamente la include. Proprio cogliendo il profondo della riflessione sapienziale di Gen 3-11 e di quella apostolica, viene una visione pensosa, ma anche piena della positività cristologia che anima necessariamente la fede cristiana. Il peccato non viene diminuito della sua serietà ma viene impostato secondo la serietà gloriosa della morte e della resurrezione di Cristo, che nella fede è il vero criterio (non dunque una semplice visione «naturale») per il quale si guarda all'esistenza dell'universo.

Proprio questa ricchezza ci fa cogliere con chiarezza che la scelta dell'immediato senza il senso dell'intero (che sintetizziamo in Gen 3, 6) ha aperto non solo un processo di disordine, ma anche e difatto un ordine diverso.

5. Universo e disordinamento: la cultura del congiuntivo e la cultura dell'indicativo

Data questa differenza viene il problema dell'armonia e della disarmonia, che è un dato determinante nell'estetica e nel senso estetico.

Dentro una cultura che permane dentro il senso dell'universo, il criterio e la fiducia nell'armonia sono costitutive. Esiste un ordinamento (e quindi un criterio nomotetico e non solo idiografico) con una finalità (dunque una teleologia e non solo una teleonomia o addirittura il senso del frammento senza fine). Per conseguenza è possibile, facile e normativo stabilire un criterio per il quale si mettono in evidenza la sproporzione e la disarmonia, in forza di un rimando all'ordine universale (è il caso del barocco). Con questo non si pensa solo a una impostazione di tipo apollineo, dove la proporzione regna sovrana (in questo è maestro il rinascimento fiorentino), ma anche a una soluzione di tipo dionisiaco, nella quale ogni sproporzione ha un senso (in questo è stato maestro il barocco, ma ne è testimone anche la scuola veneziana).

Nel tempo del multiverso, viene in evidenza l'esistenza di una intenzionalità verso un ordine diverso. La dizione sa di paradosso, ma nonostante tutto non è possibile vivere senza una intenzionalità e quindi occorre cogliere la permanenza di un concetto di «ordine». Questo non è inteso come «disposizione funzionale e conveniente» di un insieme, ma come «assetto» multiverso, che nonostante tutto contiene (invincibile?) un surrettizio senso dell'insieme.

In verità il disordinamento verifica un ordine diverso, quello della frammentarietà. L'esperienza mitteleuropea ha fatto di tutto questo una professione esplicita.8 Essa in una delle sue icone più seguite, R. Musil, determina un'esistenza senza qualità, perché senza centro e come somma di singole qualità prive di un nucleo significante; la trama della vita è una «azione parallela», puro e semplice vuoto nel quale ruota la narrazione, che necessariamente resta incompiuta e illimitabile.9

Possiamo dire, con una immagine di grammatica, che siamo in una realtà al congiuntivo che esclude quella all'indicativo: l'ipoteticità diventa una inconclusione che a suo modo è sempre un segno dell'infinito nei termini del non-finito, non-finibile. Tutto questo assume la grandiosità di una descrizione tragica, che diventa forma destinale di un movimento che pure intende escludere la destinalità di un ordine universale. Ora la libertà si trova doppiamente condizionata.10 Se si vuole, si può averne un segno nel fatto che la possibilità della tecnica sopra la natura, ridotta a strumento e cava di mezzi (da qui nasce il problema ecologico, già ricordato), fa sì che l'antico intento di dominio sulla natura si trovi ad essere dominato dagli interessi frammentati dai poteri individuali o di un oscuro destinamento globalizzato. È il destino attuale della forma capitalistica, che non a caso si unisce al dirigismo di stampo marxista senza rispetto della dignità umana nella emergente Cina, che ha la progressiva capacità di comprare il mondo. È la vittoria ultima capitalistica sul marxismo che è ridotto a valorizzare l'unica dignità umana in termini di affluenza economica.

Le libertà non sono libere, perché obbediscono al dio mercato, che ha portato l'enoteismo nel tentativo moderno del politeismo. Gran guadagno! L'intento di egemonia che usa le forze della terra come veniva espresso in Gen 1-2 (da qui nasce l'accusa della deep echology alla corrente ebraico-cristiana accusata di essere la causa prima del disastro ecologico) non si trova più sotto la luce di Dio e delle sue «dieci parole», che vivono come un segno dell'ordine armonico e che portano la necessità del rispetto per ogni frammento (e il senso del peccato, ogni volta che un frammento diventi oggetto di sfruttamento). Eppure in tutto questo appare la luce di una paradossale indicazione del fatto che l'uomo è ben più di quanto può e di quanto è materialmente misurabile. È il segnale di un «oltraggio», ma di un oltraggio disperato.

6. Il sublime come piacere negativo

Da questo momento il sublime non è più il presentimento dell'oltre, ma di «quanto nell'immaginazione minaccia la nostra selfpreservation, in particolare la morte, regina di tutti i terrori»11 e contiene un dilettoso orrore, un piacere negativo. La sproporzione umana invece che animare la contemplazione ma anche l'impegno demiurgico all'interno di una proporzione armonica e di una interrelazione rispettosa e provocatrice delle autonomie e delle libertà, ora determina la paura o lo sgomento o l'assenza o la pura ipoteticità, nello stesso momento in cui determina l'uomo a un senso di indipendente superiorità, impossibile (lo dice la paura, lo conferma l'ipoteticità del congiuntivo). Il bello non ha più la verticalità, perché l'immaginazione cerca di esibire sensibilmente l'idea razionale di totalità, senza riuscirci, ma accentuando una volontà di potenza che vuole rappresentare l'assoluto, che è e resta irrappresentabile nella forma sensibile.

Da qui l'impossibilità dell'indicativo e l'imperio del congiuntivo. Una tale indipendenza vuole dare qualcosa di più grande del bello e in questo modo il sublime diventa «una esperienza di maestà alienata»,12 perché si richiama il caos. Così il sublime viene ad albergare dentro di sé il tradizionale nemico del bello: il brutto. Grandiosamente tragico! L'antiepico diventa epico.

Nella fede si riconosce il brutto nel lato oscuro dell'ombra presente nell'immagine che ogni creatura è di Dio: ogni forma di Dio ha dietro di sé anche l'ombra del niente. Ma Dio non abbandona il caos alla sua inane disperazione: sul caos aleggia lo Spirito di Dio (Gen 1,2) fino all'ultima pentecoste, la vittoria sulla morte (Rom 8,11). La fede dà il coraggio di cogliere questa presenza che non è solo sullo sfondo, ma nella sostanza di ogni esistenza anche quando si trova nella realtà mortifera del peccato. Con coraggio la speranza, virtù difficile, accetta di essere smentita e straziata dall'equazione «deformitas-deiformitas». Ma proprio da qui nasce la ascetica: è la grande ragione di Macrina dinanzi alle ragioni del fratello Gregorio di Nissa, ne L'anima e la resurrezione, e un moderno la sente tanto vicino.

7. Non trasfigurazione del reale ma metabolizzazione del brutto

Se si perde e si lascia questa prospettiva che la fede offre e nella quale il reale trova pienezza in una metamorfosi che non è induzione di un divino parassita e alienante, ma l'emergere della forma divina presente nella creatura, il brutto viene metabolizzato, perde la sua minacciosità: «da mero ingrediente il brutto diventa un fattore di negazione diametrale del bello, un malfattore estetico... . Il bello coincide con la mobile ricerca e cattura del brutto»13 e alla fine non è più distinguibile dal bello. Qui è il tragico, davvero sublime, dell'arte, della letteratura e della cinematografia moderna, che esprimono involontariamente una presenza dell'infinito nel loro non-finito, nel loro infinibile, nella loro un-happy end, e nella alienazione di ogni happy-go-lucky. O nel darsi dei «virtuosi dell'astinenza».14

Nell'etica avviene un fatto parallelo: l'assenza di un riferimento a un ordine universale determina la trasformazione del bene nell'utile particolare. Ciò impedisce di distinguere il bene dal male, che diventano grandezze solo individuali e soggettive, calibrate secondo utilità, il nuovo nome della verità.

Ora non è più tempo di redenzione, perché si intende redimere il brutto accettandolo e «innalzando a livello di oggetto estetico i vari aspetti della patologia individuale e collettiva».15 Si ha «la transustanziazione del brutto naturale nel bello artistico»,16 un fenomeno altro da quello che invece trascura ciò che ha comportato nella cultura la prima concezione di transustanziazione, quella eucaristica17: «l'Annunciazione di Lotto dove Maria fugge spaventata dal messaggio divino alle sue spalle, è forse l'espressione più incisiva che abbiamo del tentativo dell'estetico di liberarsi dall'incarnazione».18 Ma ora e così non è più possibile cogliere e vivere il particolare dentro l'universale. L'armonia dell'insieme è perduta e non può essere diversamente, perché in un orizzonte secolaristico essa non può essere, perché essa si dà, soltanto se c'è un senso, ma un senso -- posta l'esistenza della morte -- è possibile solo se si dà un Dio vincitore della morte. In questa necessità della vita sta il profondo senso e il bisogno dell'armonia, che -- come si vede -- non è un semplice dato di estetica, ma (diciamola ancora la parola!) di ontologia, di forma dell'essere. Sta anche la ragione della deriva moderna del sublime nell'orrido e la deriva della perennità dell'opera d'arte nella installazione e nella performance effimera.

Così si rende manifesto che il sublime come rimando all'infinito non c'è più, perché viene a mancare il rapporto trascendente che coinvolge il nesso di essere-vero-bello-buono. Emerge così un segno della patologia nella quale si muta la finitudine umana. Ad essa la fede risponde con una offerta e una apertura di speranza: l'umanità si salva, se si apre nella povertà al go'el, al redentore, a Dio che, come consanguineo delle sue forme, se ne fa garante. Dentro un quadro di secolarismo la speranza di Giobbe (19, 25: «so che il mio go'el è vivo e alla fine si alzerà sulla polvere») non è più, perché resta l'ombra del niente, senza più il tutto di Dio.

Un segno di questa miseria è il venir meno della ascesi, che non ha più senso né ragione. Certo riconosciamo l'eroismo di quanti anche atei intendono corrispondere alla dignità umana, attenendosi a quanto la realizza e la magnifica. Spesso incontriamo fra atei persone di grande dignità morale e la cosa ci colpisce, fino a considerarli come atei lucidi e nonostante tutto illuminati dal mistero che pure ad essi rimane sconosciuto. Perché nella rettitudine etica e ascetica ed estetica dell'ateo emerge una alternativa pratica e inconscia a quell'«ordine» che viene dalla finale nella morte, come conseguenza della assenza di Dio. Nella bellezza delle ragioni etiche dell'ateo emerge una volontà che intende superare l'angoscia sottesa al vivere umano dall'«essere-per-la-morte», un'angoscia ineliminabile per coloro che non hanno speranza, perché senza Dio non esiste possibilità di sperare ed esiste «la possibilità dell'impossibilità» (su questo tuttavia si può argomentare teologicamente, come fa D. Tracy). Sì, davvero beato è il popolo che non ha bisogno di eroi e felice è la necessità della speranza che emerge nell'ateo, che pratica le teoretica Sorge heidggeriana (lo stesso Sartre ha concluso la sua vita con una intervista il cui tema è la speranza).

8. Precarietà nella storia e bellezza dell'«anticipo» parziale e vero del tutto.

Se parliamo in questo modo non è per un intento di alternativa della fede alla storia o per la presuntuosità di un integralismo della speranza. Sarebbe solo superbia. La speranza è una virtù difficile e il realismo della fede, che ha il senso anche tragico del peccato, sa bene che in determinate situazioni parlare di bellezza è irrisorio (qui dobbiamo registrare le equivocazioni che traggono l'aforisma «la bellezza salverà il mondo» fuori dalla tragicità dell' «Idiota» dostoevskiano). . Per questo il realismo della fede rifiuta la mascheratura del bello nel sublime e chiede una verifica della bellezza. E vede le vicissitudini del bello anche nella storia del cambiamento di senso del sublime come una sua verità nel paradosso. Occorre saper leggere il profondo della verità difficile dentro le situazioni che sconvolgono senza cercare «confortevoli nicchie» .19

La bellezza infatti rischia di essere posta in una utopia incapace di fare storia, e pertanto è necessario che essa non venga tratta fuori dalla realtà. Qui ha ragione l'umiltà paradossale con l'inconscia grandezza presente nell'attuale momento umano. Abbiamo perciò accolto la storia del sublime, come storia di una ferita che è un appuntamento ineludibile, perché la bellezza merita ed ha necessità di essere commisurata con la realtà e questa può anche essere molto brutta. In questo noi troviamo le ragioni della parabola del sublime che abbiamo accennato e alla quale non diamo ragione, perché non a caso abbiamo insistito sul tema della redenzione, come segno che il realismo nella fede non viene lasciato nella sua solitudine, perché viene unito alla speranza, ma a una speranza come virtualità difficile che pone lo sguardo non sul roseo degli idilli e nemmeno sull'epica dell'abisso (qui ha ragione J.B. Metz a opporsi alle deteriori estetizzazioni che talvolta emergono nella teologia contemporanea), ma accetta di vivere senza vedere (Rom 8, 24), animando la resistenza-perseveranza (Rom 8, 25). Pertanto la verità della bellezza vuole il realismo dinanzi alla storia delle ferite, ma le è data la speranza, perché dinanzi alla ferita esiste un'ulteriore possibilità non solo di guarigione, ma anche della possibilità-potenza che la piaga da fonte di dolore diventi sorgente di energia. Così la speranza si apre sulla redenzione (va detto che con Adorno e la Scuola di Francoforte esiste una specie di redenzione laica; a questa anche si riferiva Marx) e la offre perché la persona vi collabori con la sua metanoia, la trasformazione della propria realtà. A questo chiama l'invito della via ascetica.

Infatti la via che attraversa il brutto ha la possibilità di vivere il cammino della penitenza, promuovendo la responsabilità personale e generale, come un coraggio della libertà che incontrando il brutto al posto del bello, non apre il metodo della rinunzia o del lamento, né quello orgoglioso di una presunzione di indennità che secondo la visione integralista sarebbe il vanto dei credenti, né quello del rifugio in una prassi dove la «disseminazione» si corrompe in un ghetto. No. Anche queste sono figure del congiuntivo. La speranza si apre nell'indicativo della ricostruzione o almeno nella fiducia che si mostra nella volontà di ricostruzione oltre che nella intenzione della costruzione.

Così interviene l'ascetica che apre la via della purificazione e della riconciliazione, insieme alla via positiva che collega ogni frammento con l'intero ed ogni parte col tutto e in questa maniera l'ascetica è sostanza della carità che sovviene ad ogni miseria e cura ogni ferita. La cosa non si svolge solo nell'intimo delle anime o nell'ambito religioso, ma ha conseguenze sociali serie.20 E così si fa manifesto che l'ambito della fede può aprire una sinfonia di forme che porta armonia anche là dove l'armonia è stata infranta. È la estetica della redenzione che nella morte e resurrezione di Cristo porta una mirabile bellezza di amore e di giustizia, di realismo del peccato e di realtà della grazia, di opera divina e partecipazione umana. Questo è forse il più alto momento del teandrismo cristiano.

Per questo la via del vangelo non imposta una utopia, perché il criterio dell'incarnazione porta Dio nella storia, sicché l'umanità e il creato sono il luogo di Dio e per Cristo l'uomo trova il proprio luogo in Dio (»rimanete in me»). Ma Dio non si limita a farsi compagnia della precarietà, perché con la Pasqua apre e porta l'escatologia, la via che apre ma insieme dona la pienezza della vita. Questa certamente sarà data nel compiersi della storia, ma viene anche realizzata, anticipata nel corso della storia, dove ogni atto di bellezza, di bontà, di verità, di essere, pur in limitatezza e in precarietà realizza una verace caparra della pienezza. Tutto è grazia, tutto è dono, ma anche l'opera umana corrisponde ed ha da corrispondere, perché mai la salvezza di Dio può essere senza l'uomo e la sua libertà. Dio si fa onnipotenza immolata, perché si offre ma non si impone alla potenza della libertà umana, che può negarsi al suo amore. Ma allora fallisce la bellezza, la redenzione e l'estetica. Dio si fa anche compiacenza, quando la libertà umana corrisponde al progetto di pienezza che l'amore divino gli ha proposto e nella sua misura lo realizza insieme alla grazia. È il sommo della bellezza.

9. Conclusione

Dice e canta bene T. Eliot: «Il presente e il passato -- sono forse entrambi presenti nel futuro, -- e il futuro racchiuso nel passato. -- Se ogni tempo è eternamente presente -- nessun tempo offre scampo -- Ogni cosa possibile o avvenuta -- tende a un sol fine, eternamente presente ... Nell'immobile punto del rotante universo. Dove la carne non è presente né assente -- e avvicinamento non esiste né fuga, nell'immobile punto, ivi è la danza» (Quattro quartetti, 1).

Dio è danza (perichoresis, dice la teologia trinitaria) di vita e noi siamo congiunti a questa danza: «niente può essere che da Dio non abbia l'essere. Tutto dunque è ordinato in («in» non «a») Dio come nel suo fine... tutte le cose pertanto sono ordinate in Dio come loro fine, non per ricevere da lui un qualcosa, ma perché da lui conseguano lui in lui stesso ognuna alla propria maniera, dal momento che lui in se stesso è loro fine... ... La forma di chi è generato è il fine della sua generazione. Dio è fine delle creature perché egli le ha formate come loro principio. Tutte dunque tendono, come al proprio ultimo fine, ad essere assimilate a Dio... e tutto partecipa del bene [del bello, del vero] in quanto viene assimilato alla prima bontà (e alla prima bellezza, alla prima verità) ... ma non conseguono la bontà [la bellezza, la verità] come è in Dio, anche se ogni creatura imita la divina bontà [bellezza, verità] secondo il suo proprio modo... Colui che genera come fine della generazione intende formare il generato. Questo non è il suo fine ultimo, perché il fine immediato è altro, dal momento che intende che si realizzi la similitudine con l'essere divino nella generazione della specie e nella diffusione della sua bontà (bellezza, verità), proprio attraverso la consegna della propria forma ad altri, come loro causa. Così che le creature tendono alla divina similitudine come loro fine ultimo, in quanto sono causa di altre creature». Questa mirabile sinfonia che abbiamo tratto dai capitoli 17-22 del terzo libro della Contra gentes di s. Tommaso esprime il senso e il modo della danza divina (chorea sive ludus chorealis... erit actus virtutis si gratia informetur, si tempore laetitiae vel liberationis gratia cum honestis personis et honestu cantu fiat, è sempre s. Tommaso In expositione super Isaiam 3). In essa siamo chiamati ad essere e a vivere, portando la capacità divina che è in noi e accogliendo con gioia che la grazia insieme alla nostra libertà la realizzi come attuazione della nostra forma e della nostra potenziale virtualità. L'asceta danza con Dio attraverso i frammenti verso la totalità che è già posta in lui, sicché nello stesso momento imita Dio e imita se stesso come forma di Dio. Vivere l'ascetica è verificare la divina forma formans nella povertà gloriosa della virtualità della libertà che ama la grazia. Gen 1 è il germe che contiene Apc 21.

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Note

  1. M. e F. Gauquelin (edd.) , La psicologia moderna, Sansoni, FI 1968, 586. Testo

  2. Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995. Testo

  3. Ib. 81. Testo

  4. Ib. 82. Testo

  5. Cfr. ib. 83. Testo

  6. Ib. 84. Testo

  7. Indichiamo alcune testimonianze: G. Martelet, Libera risposta ad uno scandalo. La colpa originale, la sofferenza e la morte, Queriniana, BS 1987; e i preziosi contributi della riflessione dell'Associazione teologica italiana con P. Giannoni (ed.), La creazione. Oltre l'antropocentrismo, Messaggero, PD 1993; G. Colzani (ed.), Creazione e male del cosmo. Scandalo per l'uomo e sfida per il presente, Messaggero, PD 1995; S. Muratore (ed.), Futuro del cosmo futuro dell'uomo, Messaggero, PD 1997; I. Sanna (ed.), Questioni sul peccato originale, Messaggero, PD 1996. Testo

  8. Cfr. C. Magris, L'anello di Clarisse, Einaudi, TO 1984. Testo

  9. Anche la scrittura di Svevo è «infinibile"; «La cognizione del dolore» di Gadda resta incompiuta. Testo

  10. Lucido è Gadda: «Quer pasticciaccio» lega insieme liberazione e nodo-groppo-groviglio. Testo

  11. Bodei, Le forme del bello, 86. Testo

  12. H. Bloom cit. ib., 89. Testo

  13. Bodei, Le forme del bello, 99. Testo

  14. Bellissima espressione di G. Steiner in Grammatiche della creazione, Garzanti, Milano 2003, 31 che cita Beckett e Giacometti. Testo

  15. Bodei, Le forme del bello, 100. Testo

  16. Ib., 102. Testo

  17. Lo diciamo seguendo la sorprendente nota che la profondità di G. Steiner porta in Grammatiche della creazione, 65-69. Testo

  18. G. Steiner, ib. 67. Testo

  19. Cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Einaudi, TO 1987 una grande meditazione su uno straordinario frammento hegeliano. Testo

  20. Lo vediamo da E. Wiesnet, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena, Giuffrè, Milano 1987. Testo