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Lo stesso ma non il medesimo universo:
la luce della fede e l'illuminazione della scienza

di Paolo Giannoni (31 gennaio 2008)

Il dibatto recente sull'Intelligent Design rende utili alcune puntualizzazioni sulla distinzione di ambiti tra teologia e scienza, sempre troppo più confuse da una certa cattiva stampa che induce falsi problemi. L'impostazione teologica data da S. Tommaso al concetto di creazione resta illuminante.

1. Senso del titolo

Entrando nel merito del titolo, la prima cosa da chiarire quando si parla, possiamo dargli luce citando il luogo che lo ha suggerito. Si tratta della seguente affermazione di B. Snell nella introduzione a La cultura greca e le origini del pensiero europeo (Einaudi, TO 1963): "Non è possibile separare radicalmente l'illuminismo razionale dall'illuminazione religiosa, l'insegnamento dalla conversione e intendere la "scoperta dello spirito" come il semplice ritrovamento e sviluppo di idee filosofiche e scientifiche".

2. Indicazione di situazione

Anche se la esperienza religiosa e la disposizione della cultura laica verso lo spirito religioso hanno avuto notevoli trasformazioni, perché si è passati da una fase di secolarizzazione a una estesa situazione di secolarismo, riteniamo importante l'affermazione riportata. In più ci immettiamo nell'alveo della Fides et Ratio di Giovanni Paolo II e della forma particolare che il tema ha assunto nell'impegno e nella impostazione generale di papa Benedetto XVI. Più esplicitamente: partiamo dalla ferma fiducia che il dialogo tra fede e ragione, tra luce della fede e illuminazione della scienza sia valido e necessario. Anche se nella discussione recente sembra di essere ritornati a modi di incomunicabilità che sembravano ormai superati in tempi non lontani, rimane vero che la strada aperta dal Vaticano II con la Gaudium et spes (e segnatamente con i paragrafi 19-21, 44 e 92) indica una direttrice da seguire.

In particolare -- senza entrare nel contesto preciso di uno dei temi nei quali sembra accumularsi la in comunicazione, quello della creazione -- intendiamo dare un contributo di chiarificazione.

3. Indicazione di metodo

3.1 Metodo generale

Anzitutto una chiarificazione di metodo che è anche di sostanza. Occorre ricordare che, quando si parla di un tema, ogni disciplina interessata lo vede in maniera necessariamente legata al suo metodo, ai suoi strumenti, ai suoi fini. Ogni disciplina ha un "motivo formale" diverso (usando i termini della scolastica) oppure ha il suo "orizzonte". Questo è un termine forse meno arido e più suggestivo del primo e lo prendiamo da Husserl (nel senso di limite temporale in cui cade ogni esperienza) e da Jaspers («noi viviamo sempre e pensiamo in un orizzonte circoscritto») 1 e lo assumiamo nel senso ordinario2 usato «per indicare i limiti di validità di una ricerca determinata o il tipo di validità cui aspirano gli strumenti di cui si serve».3

Questa nota è importante, perché se prendiamo il termine "creazione", noi vediamo una molteplicità di significati. Anche solo prendendo in mano un dizionario della lingua italiana e precisamente il Devoto-Oli (p. 616) noi vediamo che altro è il senso filosofico ("produzione dal nulla, attribuzione dell'esistenza"), altro quello teologico ("l'universo in quanto opera di Dio" e "l'atto di Dio stesso"), altro quello estetico ("invenzione ed esecuzione di un 'opera"), altro quello della moda ("nuovo e originale modello di un capo di vestiario"), altro quello della fisica ("la formazione di una o più particelle dovuto alla trasformazione di energia in materia"). Nessuno di questi orizzonti è esauriente; ognuno ha ragione e verità nel proprio campo e proprio questo determina il concetto husserliano di "orizzonte conglobante", l'orizzonte degli orizzonti. Ma con l'avvertenza che esso non porta una totalità dei contenuti, perché l'intera ricerca umana è di natura non complementare ma supplementare. In altre parole sembra di dover dire che congiungendo orizzonte ad orizzonte non si giunge ad un orizzonte completo, ma a un aggiungersi di sguardi particolari che non formano la totalità dell'essere.

Parlare e pensare così non viene da una istanza scettica che si unisca alla molto estesa convinzione che non esista la verità, ma è la meravigliosa opera della mente che è sempre nella ricerca della verità (skepsis da skopeo = vedere) e sempre ha la gioia della verità, quando incontra uno dei molti e vari 'veri'che si incontrano nel cammino umano in ogni tipo di ragione teologica, filosofica, epistemica, politica, sociale, psicologica, storica... . e le innumerevoli specie di verità, ognuna delle quali ha una concentrazione di altre ricerche e sottospecie di ragione. È il cammino stupendo per il quale comprendiamo -- e questo soprattutto nella ricerca teologica -- che la verità è un dato asintotico, che non raggiunge mai la completezza perché è dell'Infinito e sa di infinito. Esso spinge l'eros nel gaudium de veritate, come dice Agostino e ha gioia per i molti veri che incontra.

Difatto la verità è un incontro ma anche un dramma, nel duplice senso di fare ("qui il bellissimo verbo scritturistico aletheùo usato in Ef 4, 15; in Platone significa "dire la verità", mentre nell'intenzione paolina è "fare, esercitare [Dibelius] la verità"4 per l'intensità che viene dal senso di emet ebraico che è "verità", ma anche "fedeltà"). Ma anche un dramma per la impossibilità del farsi pieno della verità nella storia della mente e del cuore umano e non perché sia assurda, ma perché essa è infinita e solo il nome di Dio dà resoconto pieno di quanto vogliamo dire dicendo questa parola, che sempre va pronunziata con pudore e rispetto, mai nella presunzione di un possesso e sempre nella fedeltà di un processo nel quale entra ogni ricerca ed ogni anelito. .

3.2 Qualche conclusione provvisoria

Da quanto si è detto occorre concludere che a) il termine "creazione" assume diversi significati secondo l'orizzonte nel quale si parla; b) è indebito e assurdo che un orizzonte neghi il significato di un orizzonte diverso; c) ogni orizzonte dà del termine un significato altro da quello usato negli altri orizzonti e quindi non è possibile una conclusione d) unitaria e unificante e nemmeno e) una egemone, tale cioè da eclissare o disistimare il significato di un altro orizzonte.

Tutto questo lungi dal fare babele, chiede che si faccia dialogo e si abbia un animo di accoglienza e una volontà di intesa. Se poi qualcuno intende che questo sia un modo di diminuire il portato della propria ragione o -- nel caso dei credenti o della chiesa -- un attenuare la propria convinzione e una svendita della fede, non solo deve rendersi conto che va contro la forma di illuminazione della ragione che abbiamo voluto indicare, ma anche toglie una delle forme grandi che alla luce della fede viene dall'incarnazione che assume tutto l'umano. Di più: dalla pentecoste iniziale (Gen 2, 7) fino al poderoso animo di eros divino che è presente nell'intera vicissitudine storica, come suo respiro di infinito (Ap 22, 17), tutto l'umano e segnatamente il cammino religioso è in una condizione di "ex- e in-tensione", di epèktasis, come afferma Fil 3, 12-16 e come -- fra tanti -- esplicita Gregorio di Nyssa nella Vita Moiysi.

3.3 Metodo specifico riguardo al tema della creazione

3.3.1 In generale

Tenendo conto della ristrettezza del tempo che ci dà una indicazione preziosa nel doverci limitare alla sostanza, diremo che la lettura della Scrittura non può essere a) né nella semplificazione di "come risuona" (questo metodo così triste e alienante delle "risonanze"!) dove il testo diventa un pretesto per esercitazioni di varia psicologia e per aprire la fiera delle manifestazioni dei propri soggettivismi; b) né nel letteralismo, cioè nel leggere la parola nelle parole e non nella sua verità tenendo conto dei generi letterari e del salutis nostrae causa a darci la forma di una veritiera lettura (la lettura dei DV 12 non può mai essere data per scontata, ma deve continuamente ritornare nell'insegnamento, nella scuola, nella vita parrocchiale, in ogni gruppo di ascolto); c) anzi più che lettura occorre parlare di ascolto, con l'animo del povero che si dispone ad accogliere quanto lo Spirito dice alle chiese e alla chiesa. Questo d) non porta al soprannaturalismo di una improvvisazione che è improvvida e sempre una forma di presunzione senza motivo. Ogni omelia e ogni expositio in sanctam scripturam (quale senso dinamico ha questa dizione tradizionale! ") devono avere la dignità di una serietà che dietro abbia lo studio esegetico del testo (un solo esempio se dietro il "ne ebbe compassione" di Lc 15, 20 non ha dietro di sé l'esplanchnìsthe che ha dietro di se il rahamin ebraico, che ha dietro di sé "rehem-utero", l'omelia rischia di diventare una banalità indegna dell'intensità del testo, indegna di chi offre l'omelia, indegna della comunità che ascolta e che viene realizzata dalla Parola come dalla Eucaristia; e qui si ricorda ancora la DV nel mirabile inizio del n. 21). L'esegesi non è solo il doveroso corredo di scienza, ma è anche e prima di tutto una condizione adorante che cerca di cogliere il senso delle parole usate dall'autore animato dallo Spirito di Dio.

3.3.2 In particolare

In particolare se cogliendo la storia dei testi della Scrittura noi ci accorgiamo che la definizione della creazione basata sull'ontologia, la dottrina dell'essere, è solo in un testo molto tardo e nato sotto l'influsso dell'ellenismo; così è del libro secondo dei Maccabei al cap 7 che riporta il martirio dei sette fratelli, quando la madre dice all'ultimo figlio: «contempla il cielo e la terra, osserva quanto è in essi e sappi che Dio li ha fatti da cose non preesistenti» (ex oùk ònton tà panta epoìesen ho Theòs"). Il testo è di circa il 120 a. C., dunque molto tardi. Di fatto la prima menzione della creazione non è nel libro della Genesi,5 ma del Deutero Isaia nato nel tempo dell'esilio. Questa non è una notazione erudita, ma come prima di un concerto tutta l'orchestra si intona sul "la" suonato dal primo violino, così ogni volta che si parla di creazione, riceviamo l'intonazione da questo apporto di Isaia. Questo infatti nell'ambito della fede imposta il tema della creazione non come un'"eziologia", un "discorso sulle origini" (semmai una "protologia" un discorso sul suo principio che è in Dio) ma come un atto della "soteriologia" del "discorso sulla salvezza".

Da questa luce notiamo una sfasatura ricorrente che svisa tutta la prospettiva della fede, ma anche il dialogo con la scienza, perché spesso si dimentica che l'orizzonte sul quale la fede pone l'universo e la creazione non è quello delle origini (questo è compito della scienza e anche della filosofia), ma quello della salvezza. Di più: quanti nella fede vedono l'universo come una "natura", mettono tra parentesi il fatto che esso è, appunto, una "creazione", una esistenza dentro il progetto di salvezza di Dio. In verità noi intendiamo in modo corretto la creazione, se la vediamo in una luce escatologica, in una luce di quella pienezza della vita, dell'uomo e dell'universo che Dio ha inteso. E infatti un credente non può parlare della creazione senza parlare del pleroma di Cristo (Rom 15, 29, paolina, e nelle deuteropaoline in Col 1, 19, in Ef 3, 19 e in 4, 13 con lo splendore che deriva alla chiesa in Ef 1, 23) cioè del fatto che tutto raggiunge pienezza in lui. Possiamo da questo dedurre un criterio di intelligenza critica e di discernimenrto veritativo: ogni testo sulla creazione che non ha queste citazioni, non è un testo cristiano. Solo quando il parto di tutta la storia avrà raggiunto la libertà dalla schiavitù della corruzione, che non riguarda solo l'uomo ma tutto il creato come proclama la gloria di Rom 8, 19-25 (qui è la base della visione della Contra Gentes di Tommaso nei capp. 15-10 del III libro), solo allora si ha la creazione.

3.3.3 Le aporie e la gloria

Quanto detto ci permette di cogliere ciò che diciamo nel momento in cui parliamo di creazione. In particolare noi possiamo leggere Gen 1 non solo alla luce della DV preceduta dalla Divino affilante Spiritu di Pio XII (30. IX, 1943) che più si specifica nella celebre risposta del segretario della P. Commissione biblica al card. Suhard (16. I. 1948) sulla formazione del Pentateuco e sulle "forme letterarie dei primi undici capitoli della genesi", che hanno bisogno "de l'etude attentive de tous les problèmes litteraires, scientifiques, historiques, culturels et religieux connexes"... «et rassembler tout le matériele des sciences paléontologique et historique, epigraphique et littéraire» (DS 3864). Proprio questo è stato fatto da un grande impegno dell'esegesi e i suoi frutti -- tuttora work in progress -- non possono essere dimenticati.

Non si richiederà ad ogni cristiano il bagaglio di questa ricchezza, ma la coscienza della ricca complessità dei testi, questa sì, e necessariamente. Diversamente non si legge la Bibbia né si fa teologia e questo va detto per le facilonerie indegne di una cultura laica spesso ignorante e tanto ignorante da essere presuntuosa, sia per le rigidità che una lettura integralistica e letteralistica -- degna non di una chiesa ma di una setta -- porta, giungendo a un utilizzo del testo biblico senza rispetto per la dignità della parola di Dio e degli ascoltatori. La chiesa non ha da fare adepti ma da aiutare cristiani coscienti e gloriosamente felici di avere la ricchezza di una parola che è insieme parola di Dio e parola umana, in una tradizione di storia e di fede.

4. La luce della fede

Potremmo rifarci a molte fonti e a tanti documenti, ma ci limiteremo alla ricchezza che ci viene dall'acutezza sapienziale di S. Tommaso, il grande teologo e mistico nel quale confluisce la tradizione -- cioè la consegna della esperienza spirituale, anche dottrinale -- fino al XIII secolo, con una lucidità critica che tuttora è preziosa.

4.1 Un testo direttivo (e purtroppo profetico)

La fede è sempre accompagnata non dalla sussiegosa presunzione, ma dalla ironia come coscienza del limite e dono della prima virtù che è uno dei cardini sui quali si apre e si muove la porta della vita, la prudenza. Questa ricchezza ha fatto dire a S. Tommaso, cosciente -- si noti la cosa (il punto zero è il cominciamento di tutto ma fuori di sperimentabilità) -- che l'inizio del mondo non è dimostrabile: [[è questa una cosa che bisogna tener presente, perché qualcuno -- presumendo di dimostrare ciò che è soltanto di fede -- non abbia a portare argomenti che non provano e offrire così materia di irrisione a coloro che non credono, facendo loro supporre che noi si credano le cose di fede per argomenti di questo genere" (ST I, 46, 2co).]]

Di conseguenza non si può isolare il detto paolino secondo il quale «ciò che è noto di Dio è loro (ai pagani) manifesto» senza tener conto della seconda parte: «Dio stesso lo ha loro manifestato» (Rom 1, 19). Questo va ricordato oggi a chi, come Mancuso, pensa che nella situazione attuale il credente ha "maggiore forza" se parla a partire dalla sola ragione (Il Foglio, 22. 1. 2008). Certamente noi guardiamo con fiducia alla ragione, perché nessun uomo è fuori della grazia, perché è dentro il processo della salvezza. E tuttavia -- senza che qui possiamo fare una storia dell'incomunicazione tra fede e scienza, tra chiesa e umanità -- certo noi possiamo ritenere la nota di Rom 1, 19b come un segno della ironia gloriosa per la quale Sir 17, 7 afferma: «Dio ha messo il suo occhio nei nostri cuori per mostrare loro la grandezza delle sue opere». Bellissimo avere il dono dell'occhio stesso di Dio, ma questo ci chiede di avere una misura oltre la ragione. Questo è dimenticato da chi toglie Rom 1, 19 dall'ambito della grazia e lo pone nel solo ambito della ragione. Esiste una rivelazione per tutti e in questo la ragione ha la sua parte, necessaria come forma della libertà dell'uomo che dialoga con la grazia di Dio. Ma resta vero che la salvezza si apre con il "sia fatto" della creazione. La specificità e l'unicità del cristianesimo fa del pleroma di Cristo non il sostitutivo ma la pienezza di ogni passo umano, di ogni cammino religioso. E proprio in ordine a questo Cristo è un puntuale storico non un assoluto extrastorico ("il verbo divenne carne", Gv 1, 14; si ricordi l'"ekènosen" di Fil 2, 7). Di Dio si ha conoscenza attraverso tanti atti di ragione e attraverso ogni passo religioso: essi vengono ad essere supplementari in relazione a quanto Dio ha detto e fatto in Cristo. Non per nulla l'"ultima passione" è in I Cor 15, 28 quando perché Dio sia tutto in tutti si ha una hypotaxis, una nuova sottomissione di Cristo e il Verbo prophorikòs ritorna nell'unità col logos endiathetos.

4.2 Concezione ontologica della creazione

S. Tommaso colloca la definizione di creazione all'interno dell'orizzonte ontologico che gli è proprio (creatio est emanatio universalis esse ex nihilo ST I, 45, 1 co). Per questo è definita productio rei ex nihilo sui et subiecti (ST I, 45, 1 ad 3). Questa definizione ha bisogno di un approfondimento discretivo che qui non è possibile fare, e tuttavia proprio nell'opera stessa di S. Tommaso togliamo alcuni indirizzi di discernimento teologico e critico.

Infatti riguardo alla productio egli esclude che sia motus vel mutatio (CG 2, 17) e offre una concezione non reificatoria come potrebbe dedursi dalla definizione sopra riportata: nam ex eo dicitur aliquod creatum quod est ens, non ex eo quod est hoc ens, cum creatio sit emanatio totius esse ab ente universali (ST I, 45, 4 ad 1); omnis res igitur a Deo producta, non tamen alia creatione creata quam ipsa creatura prima, quae per eam creata dicitur, quia accidentia et forma sicut per se non sunt, ita nec per se creantur, cum creatio sit productio entis (CG 2, 18) e con una precisione che va colta nella intensità e verità dei termini (specie di aeternitas) afferma riguardo al dire che Dio è anteriore al mondo: prius non designat prioritatem temporis sed aeternitatis (ST I, 46, 1ad 8). La creazione apre il tempo. E'una cosa spesso dimenticata, per cui è impossibile avere una "dimostrazione" della creazione come ingenuamente pretendono quelli che pensano che essa sia manifestata dalla "radiazione di fondo" del big bang, cosa teologicamente ridicola, quanto la idea che una concezione quantistica dell'universo escluda la creazione. Tutte queste osservazioni scientifiche sono al di qua della creazione e misurano quanto avviene nel tempo. Ma la creazione non avviene nel tempo; è il tempo che avviene da essa.

4.3 La raffinatezza della concezione teologica della creazione.

Il fatto che sopra S. Tommaso abbia detto che qualcosa viene detta creata non in quanto è un ente particolare (per es. lo stesso big bang o la dimensione corpuscolare o ondulatoria della luce), ma perché è ente, ci fa capire la straordinaria, semplice e decisiva concezione per la quale Dio non crea le creature, ma crea la creazione (ipsa creatio creatur CG 2, 18). Se si avesse questa raffinatezza che è non sofisticazione teoretica ma essenzialità della fede, non si avrebbe lo spettacolo stupido e indegno che si ha intorno al darwinismo e intorno alla concezione non capita di Teilhard de Chardin. Altra cosa è l'origine e altro è il principio. H. de Lubac dava una suggestiva immagine di tale diversità parlando dell'origine di un fiume nella sua sorgente, ma il suo principio è la circolazione universale e la circolazione interna che dà luogo alla sorgente. Per questo abbiamo detto che la creazione è semmai una protologia, ma certo non una eziologia.

Si comprende pertanto che la teologia della creazione è mortificata e falsificata quando è ridotta a una eziologia. L'origine corrisponde alla sperimentazione e alla sperimentabilità (che significativamente si trova davanti a un perenne infinito, non nel senso metafisico ma nel senso operativo e fenomenico di impossibilità di esaurire la conoscenza e la conoscibilità). Ma queste appartengono alla scienza e non alla teologia e alla fede. E tuttavia proprio quando l'uomo si trova a conoscere ciò che esiste, si trova davanti a un infinitamente grande, a un infinitamente piccolo e a un infinitamente profondo. Da qui nasce la conseguente concezione del megaverso e del multiverso, mentre l'infinitamente profondo apre la concezione del metaverso.

4.4 Da questo vengono alcune conseguenze grandi quanto semplici:

  1. Il concetto di creazione è liberante e apre una molteplicità di interpretazione dei modi in cui avviene l'universo, nessuno dei quali ha un privilegio o una privilegiabilità teologica, dal momento che la creazione è altro dai modi (hoc ens) nei quali avviene il mondo e che sono esclusivo dominio e competenza della ragione scientifica.
  2. Esiste una creazione in attivo e significatur media inter creatorem et creaturam (ST I, 45, 3 ad 2); possiamo esemplificarla parlando della volontà per la quale Dio vuole la creazione e le creature nella creazione.
  3. Ed esiste una creazione in passivo: tamen creatio accepta est in creatura et est creatura (ivi): qui la creazione viene vista non come attività di Dio ma come risultato del volere e dell'intenzionalità di Dio, le quali avvengono nella creatura. Pertanto -- e questo è meraviglioso e decide di ogni assurda concezione della creazione -- la creazione è una creatura! Dio ha creato non le creature, ma la creazione. Così possiamo rilevare che, in concordanza con quanto S. Tommaso ha detto (lo abbiamo prima riportato) e per la verità che Dio ha creato la creazione, la prima creatura è la creazione come processo per il quale Dio ha voluto il mondo. Da qui si capisce quanto il termine di creazione sia disponibile e autonomo nei confronti di qualsiasi interpretazione del mondo e di qualsiasi orizzonte entro il quale si guarda il mondo. Il conflitto delle interpretazioni riguarda il modo di essere dell'universo non del principio dell'universo.
  4. A questo punto emerge un dato che potrebbe essere sviluppato in senso trinitario (e c'è tutta una densità trinitaria nella concezione cristiana della creazione, che troppo spesso è rimossa e che invece è gloriosamente ricca; ma non possiamo addentrarci in questo). Dobbiamo limitarci a un breve accenno. Se la relazionalità è il modo di essere trinitario (Concilio di Firenze che riprende S. Anselmo), noi anche vediamo che per S. Tommaso la realtà profonda della creazione è la relazione (e questo va oltre ogni concezione di tipo ontologico). Egli afferma infatti ipsa dependentia ad principium. Si noti la stranezza della costruzione latina che di suo prevede l'ab e l'ablativo, non certo l'ad con l'accusativo. Ma in questa formula si esprime una bellissima logica, quella che (1) certo afferma la dipendenza della creatura, (2) e la cosa è importante se si tiene davanti Gaudium et Spes 36 che parla dell'autonomia delle creature, e questa apre la secolarizzazione, ma esclude giustamente la loro indipendenza, che segna il criterio del secolarismo, che è lo strato culturale di base del mondo attuale. Ma (3) la dipendenza delle creature verso il creatore non è tanto per origine o causalità, quanto per relazione e per orientamento al creatore. Ma Tommaso completa: "dependentia ad principium a quo (ecco il termine che indica l'operatività del principio) instituitur et sic est de genere relationis (CG 2, 18). La sostanza della creazione è "essere verso", "essere in relazione". Ognuno ben capisce quanta bellezza e quanta ampiezza questo termine da all'odegetica e quanta liberazione personalistica e intimità conferisce al nostro rapporto con Dio. Qui brilla una concezione di creazione liberante di tutta la virtualità creaturale, la ricchezza di ogni creatura.

5. Risoluzione dei falsi problemi

Molta parte del contenzioso intorno alla creazione è costituito da falsi problemi che sono diventati importanti solo per una mancanza di dottrina e di rigore. Non ci siamo addentrati nel comparto biblico, che abbiamo solo accennato e che porterebbe molta più luce e luce necessaria, specie con la visione cristologica e quindi trinitaria della creazione stessa. Ci siamo limitati a questo perché l'economia del nostro discorso, già molto lungo, chiedeva di avere una testimonianza teologica e di storia della teologia, che avrebbe dotato di molto acume e di grande, liberante intelligenza una situazione che è poi finita nel doloroso stato di in comunicazione. Questa sembrava ormai superata, ma l'irrigidimento degli ultimi trent'anni ha riportato la mentalità di troppi cristiani in un periodo di senso obsidionale, di paura e quindi di chiusura e di rifiuto dell'altro. Tra l'altro il metodo della contrapposizione mortifica la ricchezza del dato teologico, il quale si riproduce non nella propria ricchezza, ma secondo la cornice ("frame") e l'ordine del giorno dati da ciò a cui la teologia viene portata a contrapporsi.

Pertanto a modo di conclusione precisiamo schematicamente:

  1. Tempo e creazione. Abbiamo già detto che la creazione apre il tempo e quindi non ne viene misurata ed è fuori del tempo. Da questo vengono risolti molti falsi problemi: la misurazione dei tempi dell'universo non dice il tempo della creazione; non esiste l'eternità del mondo, perché eternità è un dato metafisico e non corrisponde ad alcuna fisicità temporale; il tempo è poi un problema grande (e non si è andati molto oltre la profonda riflessione di S. Agostino) ma non ha niente a che fare con la creazione, con Dio creatore.
  2. La novitas mundi e la aeternitas mundi non possono ricevere dimostrazione dal mondo stesso (ST I, 46 1c e 2c). Se la idea di un universo eterno o meglio un universo senza inizio (dilatazione e contrazione; formula quantistica dell'universo) può essere per qualcuno un argomento contro l'esistenza di Dio o la creazione, è perché non si ha -anche da parte di noi credenti -- una concezione giusta di creazione. Per quanto abbiamo detto, un mondo eterno è creatura e da sempre è in relazione con Dio.
  3. L'infinità della materia (abbiamo già accennato alla diversità tra infinità descrittiva e infinità metafisica; è sempre la premura per la diversità di orizzonte che qui ha da giocare). L'infinità descrittiva non solo possibile, ma anche plausibile per la concezione di creazione che abbiamo denotato e non fa affatto problema, anzi è una gloria del concetto di creazione accogliere accanto al concetto di universo, quella di megaverso, di multiverso, di metaverso. Senza contare che dal punto di vista metafisico ciò che è "materia" non è la materia dei bottegai (come diceva Engels), perché è l'hypokeimenon, il soggiacente a tutto, una entità informe che diventa tutto per la forma che riceve. Il concetto attuale di virtualità è molto adatto per indicare che la materia è una delle forme della causalità, cioè non della produzione materiale ma della realizzazione di ogni ente. La materia è capace di un numero infinito di modificazioni (ST I, 47, 3 ad 2) e necessariamente aperta a una serie senza numero di modificazione dell'essere (CG 2, 18).
  4. Pertanto l'idea di creazione è completamente al di fuori di ogni qualificazione di determinismo, quasi che Dio faccia ogni creatura, mentre invece abbiamo visto che crea la creazione. Di fatto il principio di causalità è cosa ben diversa dalla determinazione causale. Dio non è il vasaio e nemmeno l'orologiaio, il dio del meccanicismo (l'universo è un complesso di determinazioni meccaniche) con buona pace delle volgarità nelle quali cade una apologetica fasulla, che difende un tipo di creazione inesistente.
  5. La finalità non è una realtà che ha da essere presente nella determinazione scientifica del mondo, che guarda ciò che è e non al dover essere e alla finalità di ogni esistenza. Il concetto di creazione ha dentro di sé una concezione della finalità escatologica in forza dell'intenzione di Dio, ma se la scienza non si cura -- diversamente quando esclude, allora è ideologica -- del principio di finalità è nella sua verità.
  6. Da qui viene ciò che abbiamo già notato: il modo nel quale l'universo e i suoi componenti avviene è deciso dalla osservazione e quindi appartiene alla scienza. Non è che la fede sia indifferente a qualsiasi impostazione venga dalla scienza. Ma resta vero che qualsiasi maniera di concepire il mondo avrà una criticabilità epistemologica, ma non teologica, perché la creazione è ben altra cosa che il suo modo di farsi e di avvenire (ipsa creatio creatur, abbiamo già notato). Anzi a volte proprio le concezioni che appaiono sospette sono quelle più belle e quindi più capaci di cogliere la bellezza del mondo e quindi di accrescere la gioia del credere. Così è dell'evoluzionismo e così è anche della concezione quantistica del mondo, che anzi appare quella più vicina al modo raffinato sulla scia di S. Tommaso, che abbiamo qui voluto indicare. Certo è comunque che tutta la scienza ci porta nel cuore e nella vita una descrizione sempre più gloriosa dell'universo. Per un credente è una crescita di contemplazione e di lode. Il crescere della scienza permette di far crescere il grido ammirato del salmista. «Signore quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!». Ma nello stesso tempo viviamo la convinzione espressa da L. Wittgenstein nel suo Tractatus: "Noi sentiamo che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta... vi è dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico". Qui si apre un discorso grande, perché si apre il metaverso.

[Relazione tenuta in occasione dell'inaugurazione dell'A.A. 2007-2008 alla Scuola Teologica della Diocesi di Fabriano.]

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Note

  1. Cfr. Vernunft und Existenz, 1935, 29. Testo

  2. Cfr. C.D. Burns, The Orizon of the experience, 1934; N. Abbagnano, Possibilità e libertà, 1956, 95ss. Testo

  3. Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET TO 1971, 643-644. Testo

  4. R. Bultmann, GLNT, 1, 674. Testo

  5. I primi testi del Pentateuco risalgono al tempo di Salomone 970-931; la discussa tradizione eloista nascerebbe tra la fine del secolo X e l'inizio del IX; la redazione sacerdotale - a questa appartiene Gen 1 - durante l'esilio tra 586 e 538; il completamento del Pentateuco al tempo del ritorno 444-398. Testo