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La maternalità nella chiesa attuale

di Paolo Giannoni (10 settembre 2005)

1. La contestazione della maternità

In questi tempi è nata una tempesta in ordine alla maternità e lo vediamo da due determinazioni. Da una parte sta una linea femminista che parteggia per la riduzione della sua importanza, perché è stata una qualificazione massificante della donna, sulla base della riduzione della sessualità alla funzione di fecondità per la vita. Ora questo è un dato ineliminabile e basilare per la sessualità: il complesso delle istintività e del piacere (che una visione provvidenziale attribuisce alla bontà e positività di Dio in favore delle creature, affinché possano realizzare volentieri quanto è di suo per necessità) nel campo della sessualità è per l'incontro fra maschio e femmina in ordine alla fecondità per la vita. Ma questo non può assumere una determinatezza tale che l'aspetto biologico finisca per determinare l'intero modo di essere, la vera qualificazione e la base della giustificazione morale del rapporto uomo-donna. Nei fatti questa dicitura di uomo-donna, che non è sinonima di maschio-femmina, avrebbe dovuto sempre avvertire che la cosa andava oltre la pura biologia. Di fatto:

  1. la cosa non è biologica neppure negli animali, anche se la qualificazione di «bestialità» non lo riconosce;
  2. l'aggiunta della categoria «genere» dà una qualifica particolare alla sessualità (e per questo i due termini sono comprensivi l'uno dell'altro);
  3. in analogia agli altri istinti va detto che come riguardo all'appetito non si reputa negativamente il piacere del mangiare (c'è stata tutta una fioritura di ricette provenienti dalla vita monastica) e se non si reputa male il mangiare oltre la necessità biologica del mantenimento in vita che è il dato ineliminabile e basilare per l'appetito, una considerazione analoga va fatta per la sessualità, come per gli altri istinti (aggressività, egotropismo, gaudio dalla verità, gusto della bellezza...). A meno che non si voglia insistere nel demonizzare tutta la istintualità umana, come si è fatto per secoli (basta vedere che cosa è diventata la Regola benedettina nei commenti barocchi o anche nel complesso antifonario delle Lodi della festa di S. Benedetto nelle prime tre antifone).

Avendo davanti questo allora si capisce perché una delle cose grandi del Vaticano II sia stata proprio la visione alta e comprensiva della sessualità. Si rileggerà sempre con frutto contro ogni deriva il bellissimo paragrafo 49 della Gaudium et spes, che pur non appartenendo alla parte fondativa (1-45), resta come dichiarazione fortemente autoritativa. Il resto è certamente segnato da una validità che corrisponde ad una interpretazione epocale (che la segna in modo più o meno accentuato; questo secondo caso, mi pare, riguarda il n. 47). Certamente sarebbe stato meglio porre a base della questione della «paternità-maternità responsabile» (un modo ecclesiastico bello e personalistico ben diverso da quello biologico e sociale di «controllo delle nascite», se si fosse stati alla significativa essenzialità del n. 50: «i coniugi sappiano di essere cooperatori dell'amore di Dio creatore e quasi suoi interpreti nell'ufficio di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerata missione loro propria». C'era tutto!). Il merito del Concilio fu di collocarsi dentro la luce della Rivelazione e nel quadro generale antropologico. Per questo non è caduto nella deriva di accentuare talmente la parte sessuale (un dato che ha sempre un segno patologico) da isolarla.

2. Accentuazione del diritto alla maternità

Con questa forza di convinzione ci poniamo dinanzi alla turbativa avvenuta qui in Italia in occasione del recente referendum, che ha visto da parte laica affermare il diritto alla maternità, un movimento che contrasta chiaramente con la linea indicata prima, proponendo l'affermazione da essa divergente, che una persona femminile sembra non essere donna, se gli è impedito il diritto di diventare madre.

Se guardiamo bene, ci accorgiamo che in pratica è emersa una prevalenza del privato e dell'individuale, che mette in evidenza il diritto della donna posponendo ogni altro diritto personale (i figli, ma anche il coniuge) e vitale (l'embrione). Contro la determinazione individualistica, propria della cultura radicale, occorre una opzione di tenore relazionale. Diversamente si devia dalla visione della singolarità umana e, nel caso, femminile, la quale contiene e propone la verità del fatto che la donna è un valore in se stessa, prescindendo da ogni caratterizzazione ulteriore, pur importante e determinante, come la sponsalità e la maternità. Questo va detto fortemente anche nel campo spirituale, perché un malintesa qualificazione di obbedienza potrebbe portare -- sulla scorta del documento di alcuni mesi fa sulla donna -- a rendere determinante nella formazione femminile la insistenza magisteriale sulla complementarietà, la quale non solo a) ovvia al testo ebraico che parla di «aiuto che gli sta davanti» (Gen 2,18) e non solo b) sfasa il dato teo-antropologico radicale che per la teologia non è dato da Gen 1,26-27 ma da 1Cor 15,45, dove si parla di «èschatos Adàm», ma si trova anche c) davanti alla obiezione che -- partendo dalla accentuazione posta sulla complementarietà -- viene la conseguenza di non sapere che qualificazione si può dare alla verginità e al nubilato (e al celibato; non si parli poi della vita eremitica. E sulla vita cenobitica a sessi separati? Davvero la gatta frettolosa fa i gattini ciechi). Di fatto centrare su Genesi anziché su S. Paolo porta come forma tipica la dimensione umana, che invece consegue alla forma archetipica divina (trinitaria) che si esprime nella forma sacramentale di Cristo («questo mistero è grande; lo dico riguardo a Cristo e riguardo alla chiesa» Ef 5,32). Arrovesciare i termini è porre una crepa non solo nella antropologia ma anche nella stessa teologia.

3. Maternalità senza maternità?

Qui si può e si intende impostare una riflessione che tenta di accreditare la possibilità che una donna possa trovare un connotato forte nel fatto di assumere una dimensione maternale,1 senza la realizzazione e la verifica della maternità fisica e della maternità personalistica, per un senso analogo e traslato della condizione di madre.

In verità la maternità biologica e quella biologico-personale possono diventare la riduzione (a volte perfino la autodistruzione) della stessa maternità. Ne fa fede la critica che su questo punto si è fatta presente nella nostra cultura, con variazione importanti sul tema della famiglia (anche senza tener conto del dato edipico al quale la stessa psicoanalisi sembra oggi dare meno valore): non è forse vero che la madre con la sua superprotezione può impedire di crescere ai propri figli? che talora la madre biologica non sa essere madre personalistica? Anche su questo tema la coscienza ironica della fede -- che ha chiara la dimensione kenotica di tutto -- può dare un apporto alla ricollocazione della maternità (e della paternità) per il fatto che non esiste niente di eschaton-adempiuto nella storia, ma tutto è nella condizione di kenosi-svuotamento anche se questo non diminuisce il valore del percorso storico, che anzi viene accentuato nel suo valore, perché gli viene connessa una dinamica di prolessi: cioè la storia assume la forma di anticipazione parziale ma verace della pienezza finale (ogni madre è anticipo della pienezza maternale di Dio).

Per questo si usa il termine «maternalità» per indicare una singolare premura e dedizione, corrispondente ad un impulso generatore di vita, ma non legato ad una effettiva, fisica maternità. L'aggettivo intende dire la dimensione «formale» della maternità, in quanto comprende la dimensione ontologica relativa all'essere madre; la dimensione estetica relativa alla verità di bellezza di questa funzione della donna; la dimensione operativa nella capacità di fare vita.

Tutto questo si esprime nella dimensione sacramentale2 della maternità fisica, ma anche in quella, altrettanto sacramentale, della generazione nello Spirito, che trapassa dal genere femminile a quello maschile in Paolo; i testi tenerissimi di Gal 4,19; 1Cor 4,15 presentano una colonizzazione femminile del maschio, una cosa che desta uno stupore analogo a quello che viene dinanzi alla forma femminile che anche il maschio assume nella comunione mistica. Possiamo cogliere questa forma nel «lahab», il cuore-essere profondo, che è la radice della relazionalità, di quell'essere-verso-l'altro che è l'istinto ad abbracciare tutto. Spesso la qualificazione di questa condizione ne mette in evidenza l'aspetto pulsionale, mentre essa si dimostra essere una forma dinamica di quella «potenza del tutto» (J.B. Metz) che è la libertà, quando è colta teologicamente e non solo razionalmente (in senso filosofico la libertà viene ordinariamente ridotta al «libero arbitrio»). Questa condizione trova forma espressiva nella «comunicazione delle proprietà», della incarnazione come assunzione dell'altro, diventandolo («ho logos sarx egèneto»). Modello di questo è la «symbállousa», la vergine Maria (Lc 2,19) che in Gesù mette insieme con la sua fede, oltre che col suo corpo materno, l'umanità e la divinità di Cristo.

In questa luce, il lato maternale dell'opera della salvezza si fa presente con una funzione unificante, che nello stesso tempo è anche una funzione universale, rivolta verso tutto quanto è «altro», con una volontà di incontro, di accoglienza e di complementarità, fino ad assumere una reale forma del proprio essere (ciò corrisponde al ricco contenuto semantico, complesso fino ad essere intraducibile, e teologico del concetto ortodosso russo di «sobornost»).

Da qui promana anche una caritas senza limiti, una espressione di quella virtualità senza limiti che, appunto, è la potentia ricca del «lahab», una potenza che è la fonte della gioia ma anche della non soddisfacibilità dell'impeto relazionale umano che dimostra così la propria infinità.

Questa prospettiva dona una luce particolare alla castità monastica, che risulta essere una forma «obbedienziale», in quanto assume la forma di una corrispondenza a questa virtualità infinita del «cuore». Questa virtualità di infinito è forse la ragione della forma ontologicamente parziale del cuore degli amanti, i quali sperimentano la possibilità di eternità nella ékstasis da sé, ma nella forma dell'istante, sublime come cifra dell'eterno ma nella limitatezza dell'istante, che è la forma del tempo più vicina al nulla. Parliamo di «parzialità» -- e la cosa può destare meraviglia quasi che abbia un'intenzione peggiorativa, mentre vuole essere solo descrittiva e analitica -- per riprendere il fondo profondo, di natura escatologica e non etica, entro il quale S. Paolo in 1Cor 7,33 parla della vita sponsale. Il termine usato dall'apostolo è infatti semplificato in «divisione» (traduzione Vulgata e CEI), lasciando da parte la «parzialità» («meméristai» di 1Cor 7,33 viene da «merís», «parte»). In questa prospettiva escatologica occorre allargare questo criterio ad ogni forma di vita cristiana. L'inerzia di una tradizione vissuta non come consegna («parádosis») dell'esperienza spirituale, mai definita, mai definibile (Gv 3,8), ma come atto ripetitivo di formule culturali assolutizzate, ha determinato frequentemente nella teologia spirituale un corso che è tutto da rivedere non solo nelle interpretazioni (e qui l'esegesi biblica è determinante; si pensi alla distinzione tra precetti e consigli, al dualismo pessimistico sulla corporeità) ma nelle premesse che hanno determinato una data ermeneutica. In questo caso accentuare la divisione manifesta una intenzione che semplifica la densità dell'intenzione paolina in una notazione psicologica inadeguata («la salvezza cristiana mira all'unità, alla coerenza, alla pienezza e alla esclusività»; così commenta G. Nebe in Dizionario esegetico del NT 1,334). Per questo si è detto che nella notazione paolina entra tutto ciò che è parziale e tutto lo è a fronte delle pienezza escatologica la quale apre una espressione della libertà come «potenza del tutto», con una latitudine che apre sulla universalità, con un intento che non è la dilapidazione delle energie senza una direzione, ma attua la potenza della libertà nella sua capacità di accoglienza unificante.

Da qui nasce la prospettiva di una caritas che vivendo la propria orientazione alla totalità non si limita in un concreto parziale (un poco che è tanto, è molto, ma il tutto è altro e il poco non basta, perché in esso «si indovina il piacere»; occorreva un intuito femminile -- quello di Clarice Lispector portata a noi da Luisa Muraro -- per cogliere e dire questa verità), risultando perciò una forma della povertà, che nell'oggi culturale abbia un valore «conveniente»3 in modo significativo.

La significatività attuale della povertà è legata a uno dei sintomi della condizione precaria di un tempo segnato da molto eccesso: eccesso di cose (consumo), di agitazione (non basta la mania di azione e di presenza, esiste la strana coazione a «creare eventi»), di comunicazione (l'esibizione, la moltiplicazione delle «pierre», con una crescita delle obbligazioni ad «esserci»), di velocità (accelerazione, assenza di sostanza e di approfondimento e di dotazioni adeguata e quindi volgarità) e di debolezza mascherata da forza (l'uso del potere, l'obbligo della dotazione di ricchezza, l'accentuazione dei diritti propri). Per una tale quantità di eccessività il tempo, o meglio la corrente vitale che in esso scorre, sembra diventare incapace, insufficiente; sembra insabbiarsi e di fatto si insabbia: mai forse è stato chiaro come oggi il tasso di inconcludenza, proprio mentre è straordinariamente cresciuta la potenza attiva, moltiplicata dalle «pròtesi» fornite dalla tecnica.

4. Fuga dalla vita

Tutto questo può portare a un fastidio della vita e a una fuga. Molti oggi chiedono di essere liberati dalla vita, una cosa impossibile prima che ingiusta: Gesù è venuto a liberare la vita non a liberare dalla vita, tant'è vero che l'ha assunta, l'ha fatta sua. Proprio in questa situazione può farsi presente e appare la convenienza di quel senso maternale che sa accettare la vita e si dispone al difficile impegno di liberarla. Proprio nel sapere accettare il concreto del vivere, anche e soprattutto nei moduli di per sé distruttivi (come quelli prima elencati sotto l'ottica dell'eccesso), impegnandosi a redimerli, consiste uno dei tratti della maternalità. L'impossibile Rut qui sta come un modello biblico significativo: ava di David è colei che, come moabita, nemmeno dopo dieci generazioni poteva essere annoverata nell'assemblea di Israele (Dt 23,4). La maternalità si dà solo se ci si dispone a caricarsi dell'invalidità e del peccato, con quella compassione di Dio e di Gesù che significativamente la Scrittura qualifica con quel termine («rahamin-splánchna-visceri») che nella sua base etimologica si riferisce all'utero e ci porta quindi nella matrice della maternità. Si ha qui un'altra voltura biblico-antropologica al femminile e verificata precisamente in termini maternali. Essa investe il maschile e il maschile teologico, che si pretende «definitivo» come contrassegno sacerdotale e cristologico. Nella considerazione ufficiale (magisteriale) ordinaria le possibilità femminili sono tutte poste in relazione al Cristo, che appare così conclusivamente come maschio, tanto da non lasciare spazio a prospettive meno sessizzate. Ognuno può notare la stranezza di questo comportamento (ideologico e non teologico, anche se sacralizza una visione antropologica annettendole i segni di una qualificazione divina) e non solo in forza della sensibilità culturale odierna, ma prima di tutto perché la cosa è teologicamente strana, perché la rivelazione biblica fra le sue gelosie teologiche ha quella di escludere la sessizzazione di Dio. È un dato primigenio teologico e un dato consequenziale alla presenza di Cristo (Col 3,11: «non c'è più maschio né femmina, ma voi siete una persona -- heis» -- in Cristo»).

Se vogliamo passare ad alcune caratterizzazioni sessuali, allora la cose ha fra le sue conseguenze la opportunità di completare la maschilità del diritto e della giustizia con la femminilità dell'epieikeia (quel grande criterio aristotelico, fatto proprio nel passato dalla dottrina etica cattolica e secondo il quale nel caso particolare ci si può ritenere esenti dall'obbligo della legge, che inevitabilmente è fatta in una prospettiva generale che non ha la possibilità di considerare i casi particolari) e della misericordia, che astraggono dalla necessaria generalità massificante della legge per riconoscere la preziosa irripetibilità della singolarità personale. Certamente ad esse si può connettere la deriva che usa un intento universalistico con spirito individualistico invece che con una attenzione intelligente al singolare e può così diventare un fattore di scardinamento delle relazioni (questo fa capire la necessità di una ascesi che sappia fare architettura fra la dimensione relazionale e la dimensione della singolarità). Ma se -- come è nella sua autenticità -- viene vissuto nella sua verità colloca la preziosità della singolarità nella ricchezza della relazionalità.

In questo la capacità femminile esprime una potenza di cui si ha un grande bisogno. È necessario assumere il coraggio di caricarsi del «peccato», non morale ma essenziale, della esistenza divisa e ferita, in ogni forma «disonorevole» umana, quando la vita è così difficile che si desidera esserne liberati, con un intento che porta Is 25,8 alla voce della speranza cristiana in una vita eterna in 1Cor 5,54 e in Ap 21,4 (O. Kaiser, Isaia, Brescia 2002, 248). Un termine come «redenzione», talora oggi inspiegabilmente inviso in teologia (e da una donna come la Soelle) in una ricezione marcata dalla forma maternale diventa luminoso di necessità vitale; un termine difficile per la spietatezza del suo contenuto come «assunzione» diventa una forma convinta e convincente di presenza e di partecipazione.

5. Ontologia pneumatologica come forma storica della ontologia trinitaria

Nel fondo di tutto questo, si manifesta la necessità della carità, come forma di esistenza, coerente con la «ontologia pneumatologica», cioè con quel modo di vivere che è contrassegnato divinamente dallo Spirito di Dio. Infatti la carità -- fornace e matrice dell'essere trinitario (cfr la Divinum illud di Leone XIII che dopo tre secoli e mezzo è il documento magisteriale che riprende in forma tematica il mistero trinitario, rompendo un silenzio che durava dal concilio di Firenze; in DS 3326) -- è delineata in Rom 8,5-18 nella contrapposizione tra l'«éinai katá sárka» e l'«éinai katá pnéuma»: si dice «éinai-essere» e non si indica dunque e semplicemente un comportamento (solo una lettura mistagogica permette di cogliere l'essenzialità profonda e qualificante dell'espressione paolina). La carità è il movente essenziale dell'esistenza trinitaria (ancora il documento leoniano citato) ed è anche il modulo essenziale prima che dinamico che conviene ai cristiani.

Da qui la possibilità e la potenza di accogliere quel povero e ultimo contemporaneo che è la persona «insabbiata», per aiutarla a riprendere la strada e a camminare nell'esodo verso la patria. Modello di questa presenza non è la sponsalità, ma l'essere fratelli del figlio perduto e ritrovato. Questa è la tipicità nativa di Cristo, venuto come perdono per i peccatori e medico per i malati: in questo è «splanchnisthéis» (Mc 6,34; Mt 15,32 e 20,34), uno preso dalla compassione come figlio che «padreggia» il Padre segnato dalla stessa gloria dei visceri della misericordia (Lc 15,20). Solo in questa capacità di accoglienza universale che unifica dentro la carità sta la forma di una capacità assuntiva che ha una base maternale (ancora il riferimento va a «sobornost»). Gesù l'ha vissuta nel profondo radicale ed essenziale della propria esistenza e proprio in questa maniera è agito dallo Spirito, come si manifesta nel commovente tratto di quel «farsi carne» dello Spirito santo, che noi ritroviamo nel tratto paolino che descrive l'assunzione dello «stenagmós-sospiro» dei figli di Dio che attendono la redenzione del proprio corpo (Rom 8,23). Il medesimo termine qualifica il vissuto di Gesù, quando assume la umana strettura (questo termine è necessario per dire lo «stenagmós») e la rompe significativamente nel gesto sacramentale che -- dopo il sospiro («esténaxen») nel quale esprime la propria partecipazione alla condizione del sordomuto, l'uomo insabbiato nella sua solitudine incomunicante (Mc 7,34) -- compie la liberazione. Anche lo Spirito santo assume l'umano respiro «alálatos» («senza la possibilità di essere detto», «non dicibile»; il testo paolino di Rom 8,26-27 usa il verbo «hyper-en-tynchánei»: «prega («colpisce nel segno»)-in-persona-di-e-a-favore-di» noi, con chiaro significato assuntivo) e lo traduce davanti al Padre con una forma di struttura maternale. Questa è la forma, molto più intima o comunque nell'intimo profondo dell'incarnazione, che lo Spirito di Dio verifica nel suo essere carità per noi.

Questa configurazione che ha da venire all'intera chiesa come necessità per il suo essere sacramento derivato del sacramento originario di Dio che è Cristo (Lumen gentium, 1), viene espressa in modo tipico dalla donna nella chiesa, nella sua funzione di maternità specifica dentro la propria famiglia e nel servizio ecclesiale. In questo contesto la forma monastica con la intercessione-rappresentanza nella funzione orante e nella ospitalità diretta e indiretta, che esprime la piena disponibilità, che nasce da quella forma di povertà che si esprime nella castità (come atto di unione a Dio e di gratuità verso i fratelli e le sorelle), è una espressione di totalità ecclesiale, che trova il proprio sacramento, il momento storicamente espressivo anche nella monaca singola e nella comunità monastica, come lo trova nella donna che è madre nella sua persona, nella donna che esprime la tenerezza dell'amore, e nella donna che vive il servizio.

Quanto abbiamo detto non si specifica perciò né nella forma della castità religiosa, né nella tipica presenza della donna, ma è una forma assestatamene femminile che è necessario assumere come servizio spirituale ed ecclesiale, anche da parte dei maschi, che incontrano una tipicità che trova espressione adeguata e tipica nella forma femminile e che essi hanno da seguire.

È anche chiaro che nel quadro di una forma puntuale della via monastica, possiamo oggi offrire alla donna attuale la «convenienza» della verginità e castità come forma di carità e di universalizzazione della propria singolarità di capacità unificante nella dispersione e di ritrovamento di ciò che si perde nell'insabbiamento. Questa disponibilità della persona determina una capacità ospitale e ospitante come forma di carità tesa non ad un grado di perfezione individuale, ma ad un amore che proprio perché apre una realizzazione mistagogica in un processo di conformazione al Signore, conseguentemente vie come forma di carità verso il prossimo. Così nella comunione unitiva con Dio, nella relazione che accogliente l'altro e nel suo contributo di redenzione, si rivela quale sacramento dell'Amore increato, la carità di Dio e la carità che è Dio.

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Note

  1. Si usa il neologismo (il computer insiste a correggere in «materialità») «maternalità» con una intenzione semantica precisa. In analogia con «sponsalità» notiamo che sono due termini derivanti dall'aggettivo e questo porta una sequenza semantica perché è un sostantivo derivato dall'aggettivo il quale indica a sua volta una qualità corrispondente al sostantivo: si ha così la successione dei legami derivati nella sequenza madre-materno-maternità- maternale-maternalità. Non vogliamo fare sofisticatezze, ma solo cogliere il portato di significato della parola che vuole indicare una condizione reale (comporta una analogia con la maternità, ma senza il realismo dell'essere madre), nello stesso modo in cui «sponsalità» aderisce al significato di condizione conseguente alle nozze, ma senza il realismo corrispondente. Testo

  2. Il nostro discorso si avvale di un uso estensivo del termine «sacramento» (G. Colombo ha dato alcune cautele su questo allargamento operato dalla teologia contemporanea), che insistendo sul significato di «segno efficace» ha superato la ristrettezza classificatoria del trattato sui sacramenti per dare a Cristo la qualifica di sacramento originario (in questo un grande merito è di E. Schillebeeckx; la Lumen gentium vi ha annesso la sua autorità) come archetipo modale e dinamico di ogni segno che rende presente la salvezza di Dio. La chiesa è sacramento derivato e i sette sacramenti sono la forma ordinaria operativa; ai sacramenti tipici si è unito l'uso analogico che attualmente qualifica anche la parola di Dio, la forma rituale, la dimensione segnica di tutte le creature. Testo

  3. Più volte si userà questo termine che non trova il proprio significato nella plausibilità o nell'utilità, ma -- secondo la intensità dell'uso medioevale -- in una necessità di essere: posta in un determinato quadro di vita, la persona vive in sua corrispondenza, secondo le linee di verità e di bontà che esso realizza: il modo di esistenza richiede una coerenza di essere per realizzarsi in una forma adeguata L'incarnazione ha una convenienza reale in corrispondenza con la redenzione. Testo