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Recensione a Martin Mosebach, Häresie der Formlosigkeit. Die römische Liturgie und ihr Feind

di Marco Gallo (15 febbraio 2011)

Martin Mosebach, Häresie der Formlosigkeit. Die römische Liturgie und ihr Feind, Hanser, München 20072.

Una curiosa vicenda accompagna questa pubblicazione eterogenea dal sorprendente successo letterario. L'autore della raccolta di saggi, articoli per giornali e riviste, conferenze e stralci letterari è Martin Mosebach, romanziere tedesco di innegabile talento e Büchner-Preisträger 2007. La prima edizione dall'inattesa fortuna esce nel 2002 per una secondaria casa editrice austriaca (Karoliner Verlag di Vienna) e frutta a Mosebach l'invito ad intervenire durante il Katholikentag di Ulm del 2004. Questa seconda ha un editore più prestigioso (Hanser di Monaco), è arricchita con altri tre saggi e sarà nuovamente seguita dall'invito al Katholikentag 2008 di Osnabrück. Nei circoli critici della riforma liturgica, il nostro autore gode di buona stima ed è stato invitato in Francia e negli Stati Uniti. Tradotto subito in francese ed in inglese, è stato tradotto nel 2009 da Cantagalli (Siena). Per tali ragione ci pare giustificato presentare criticamente il testo, anche se l'argomentazione proposta ha un valore scientifico piuttosto limitato, riporta numerose inesattezze e si presenta infine fragile sotto diversi punti di vista.

Mosebach non fa certamente mistero della sua mancanza di preparazione specifica1 e mostra di aver retto con ironia sofferta i dibattiti critici con specialisti del campo (26). Egli si sente comunque chiamato a scrivere di liturgia per la gravità dei tempi, con urgenza e passione. Tale «vocazione» si fa ancor più interessante quando l'autore manifesta tutta la sua ritrosia nel dover parlare di un soggetto, i riti appunto, al quale è convinto si arrechi danno ogni volta che è messo a tema. La liturgia, infatti, «vive meglio nel mistero», senza bisogno d'esser spiegata e studiata, così come altre dimensioni del vivere: parola dell'imperatrice austriaca Maria Ludovica, che a Goethe, tentato forse di citarla in qualche opera dopo il loro incontro, fece dire: «die Frauen sind wie die Religion; je weniger man von ihnen spricht, je mehr gewinnen sie».2 Eppure dei riti ora occorre parlare, perché il nostro brillante e laico letterato di educazione cattolica, dopo aver riscoperto la fede prima dimenticata grazie all'attrazione estetica per il canto gregoriano e la liturgia tridentina con la sua santa sobrietà [heilige Nüchternheit (Hölderlin) 39], avverte una lacerante distanza su questo campo rispetto al percorso della chiesa cattolica tedesca post-conciliare.

La tesi più importante del pensiero di Mosebach sulla questione liturgica è racchiusa nel sottotitolo: die römische Liturgie und ihr Feind. Il nemico della liturgia è, appunto, l'eresia dell'informe, categoria che l'autore mutua sostanzialmente e con qualche riduzione dalla hérésie antiliturgique3 di dom Prosper Guéranger. L'attacco alla «favola» antica e moderna dell'indifferenza tra forma e contenuto viene portato nel corso dei tredici saggi, riservando allo spirito antiliturgico il ruolo di «nemico», secondo l'accezione data al termine da Carl Schmitt.4 La Formlosigkeit non è un'altra forma di fede cristiana, magari diversa o in alternativa a quella ortodossa: si tratta per Mosebach del nemico che muove l'attacco frontale e vuole la morte del cristianesimo, è «l'altro» che giustifica niente meno che l'esistenza della Chiesa come istituzione, chiamata a custodire «gli amici» fedeli. Non è l'inimicus / avversario che occorre amare (Mt 5, 44), ma l'hostis che occorre neutralizzare senza odio e senza tregua.5 Questo nemico antico gode oggi di un'inedita salute perché si incarna con le sue forme storiche più diverse nell'atteggiamento cattolico post-conciliare nei confronti della liturgia. A più riprese la riforma liturgica di Paolo VI e Montini stesso sono messi in fila con le eresie iconoclaste, con l'azione di Carlostadio (81) e le concezioni riformate del rito. Gli argomenti sono tratti dagli studi di Klaus Gamber o liberamente rielaborati dal famoso Das Konzil der Buchhalter del sociologo psicoanalista Alfred Lorenzer e, più diffusamente, influisce l'impostazione del filosofo Robert Spaemann -- a cui il testo è dedicato -- con il quale non si ha paura di definire la riforma come «atto di tirannia6», azione debole e dettata dalla paura (82), archeologistico «colpo di stato» (116), dictatus papae (216) che ha ridotto arbitrariamente la ricchezza tradizionale ininterrotta. Benedetto Xvi appare allora, in virtù dei suoi scritti sulla liturgia e di alcune sue prese di posizione precedenti all'elezione -- prima ancora evidentemente del Motu proprio non ancora uscito mentre l'autore scrive -- come colui che sa bene di non dover restaurare,7 ma solo lasciar cadere i divieti sul rito vivo, che tornerà a rifiorire da sé (217).

Abbiamo raggiunto il cuore della concezione di rito che funziona nelle argomentazioni di Mosebach senza mai essere messa esaurientemente a tema. Il rito religioso è inteso, quasi assumendo un'antropologia culturale spregiudicata, come un organismo vivente oggettivo, insieme potente e fragilissimo, che non si può modificare senza sfigurarlo. Esso è «generato, non creato», propriamente non ha un autore, né ha mai conosciuto una «riforma» (29-30), ma cambia come si modifica un paesaggio naturale,8 perché, essendo «sacro» e dunque intangibile, non appartiene agli uomini che ne prendono parte. L'azione rituale sacra è dunque quell'agire indisponibile e necessario che gli uomini incontrano senza crearlo, come dimensione fruibile per fare esperienza del trascendente e del divino. Diventa chiaro, allora, che non solo aver voluto e condotto una riforma diventi un'azione incomprensibile, ma anche tutte le parole chiave del movimento liturgico che l'ha preparata e condotta perdano fondamento: partecipazione attiva, semplificazione dei riti, ritorno al cuore dei medesimi. Come vedremo, questi termini si sfigurano proprio a procedere da tale concezione di rito che l'autore assume acriticamente, mascherata da posizione tradizionale. Il rito del Messale di Paolo VI, insomma, non è più un rito.

Mosebach, nato nel 1951, riconosce certamente che anche il Vetus Ordo [VO] soffriva già di una certa crisi prima della riforma e sa notare le ambiguità che si mantengono oggi quando esso è celebrato in gruppi ristretti. Sia che si tratti di pallidi ricordi d'infanzia (33), sia che si consideri il modo in cui il Messale del 1962 è ora utilizzato (43), del rito tradizionale egli sa mettere in fila i difetti: difficoltosa coordinazione delle diverse azioni, perdita di segni importanti, ripetizioni.9 Tra questi problemi, il male principale del rito preconciliare è riconosciuto nella frequente «doppia velocità» [die Zweigleisigkeit, 43] che permette due azioni distinte e differenti in contemporanea. La percezione della frantumazione dell'azione eucaristica ben notata e descritta efficacemente non porta tuttavia l'autore ad alcuna consonanza con la riforma conciliare, che pure ha certamente alla base la medesima intenzione. Se in Sacrosanctum Concilium (48) si individua la categoria di actuosa partecipatio come cardine che renda possibile l'unità delle diverse azioni rituali della messa, Mosebach se ne discosta vigorosamente proprio in virtù della medesima parola. Quando egli utilizza l'espressione tätige Teilnahme,10 siamo evidentemente molto prossimi alla sensibilità della Mediator Dei, e dunque distanti da ciò che SC intende per partecipazione attiva. Essa consiste invece «im Anschauen, Geschehenlassen, Warten und Beten11»: il luogo teologico esemplare e fondativo è individuato nel modus partecipandi dei discepoli e delle donne nell'ultima cena, alla lavanda dei piedi ed alla morte in croce. Le perplessità pur ammesse nei riguardi del VO non portano -- di fatto non possono portare -- ad altra conclusione rispetto all'attesa che il rito evolva «da sé» per risolvere i suoi difetti,12 proprio perché tale rito è icona, è un «fatto», è oggettivo offrirsi del divino che salva l'umano. Gli uomini, nuovi discepoli invitati al sacrificio, come loro non capiscono, aspettano, sospendono le loro attività (30). Dell'azione liturgica dunque si è contemplatori, fruitori attivi come di fronte ad un'opera d'arte assoluta, della quale non si può certamente dire cos'è centrale e cos'è inutile, perché essa è appunto un «tutto» vivente. L'arte è l'unica via a disposizione dell'uomo per rendere eterno ciò che perisce, ed è in questo alveo che il rito trova per Mosebach la sua ragion d'essere.13

Pur avvertiti sin dall'inizio della natura non teorica delle pagine, è tuttavia a questo livello che dobbiamo giungere per tentare una sintesi del pensiero dell'autore, oltre le addizioni di argomenti e le sottrazioni di autorità che egli prospetta nei diversi saggi. La questione teologica allusa è evidentemente relativa allo statuto cristiano del rito in rapporto alla fede, nodo teorico che sta alla base delle argomentazioni di Mosebach. Egli non si sottrae in verità alla domanda, affrontandola in un certo senso in modo coerente con un piacevole articolo dal titolo preciso: Braucht das Christentum eine Liturgie? Il rapporto tra fede cristiana e ritualità è qui inizialmente delineato in forma dialettica, giustapponendo la rilevanza della liturgia nell'esperienza personale dell'autore o nella tradizione della chiesa con l'anima antirituale persistente dei cristiani che proviene da alcuni atteggiamenti dello stesso Gesù di Nazareth. I numerosi movimenti antirituali della storia mettono in luce una componente trasversale e permanente interna al cristianesimo; così occorre riconoscere che «dieser antirituelle Affekt also sich zwar mit der jeweiligen Geistessituation der einzelnen Epochen verbindet, daß er darüber hinaus aber doch sehr tiefe Wurzeln im Christentum hat14». La dialettica prospettata si scioglie grazie alla figura della fede che nasce dall'incontro con il Cristo. Pur critico nei confronti del fenomeno religioso, Gesù si pone in continuità con questa esperienza religiosa, nella forma ebraica, e in tale alveo chiama alla fede nel Regno. Sin dalla sua nascita, dalla crisi e nuova genesi pasquale, il credere dei discepoli si dimostra incontestabilmente dipendente dalla «presenza fisica» di Gesù (64), dal contatto «corporale» con Lui. Ecco dunque per Mosebach l'unica Riforma degna di questo nome: l'atto religioso (il sacrificio, la preghiera) è riscritto dal Risorto in direzione contraria, da Dio verso gli uomini che lo praticano.15 Preparata in modo suggestivo, l'argomentazione piega così forzando testi biblici e riletture della storia liturgica per concludere che il rito sacro è «la presenza fisica trasfigurata di Cristo», la Messa «lo Spirito santo promesso ai discepoli» (64-65). La liturgia cristiana, evento sacro, è perciò configurata come realizzazione compiuta del fenomeno religioso umano generale,16 filo trasformato in cristallo dalla soluzione satura lasciata dal Maestro, che si forma perciò fisiologicamente nella sua figura compiuta (109). La struttura teandrica dell'incarnazione continua nei riti cristiani: da qui si conclude quindi alla loro efficacia, alla loro possibile rilettura allegorica medievale e bizantina ed alla radicale tesi prima esposta sull'impossibilità d'ogni riforma. Il cerchio è ormai compiuto: fuori è rimasta la costituzione seria della libertà del credente, l'articolazione dei riti cristiani con le altre azioni sacramentali ed il rapporto serio e non inclusivo con l'antropologico e il religioso generale. In una parola, tutti i temi che la questione liturgica ha posto.

Il testo di Mosebach si presenta dunque come una lettura piacevole e non priva di qualità, irrimediabilmente condizionata dalla sua natura apologetica e teologicamente fragile. Pur avendo saputo raccogliere consensi ed addirittura presentazioni sostanzialmente positive su riveste teologiche17 per l'attualità della provocazione che porta, la medesima provocazione sulla difficoltà del celebrare cattolico pare infine solo parziale e non risolta.

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Note

  1. Per ammissione (cf. 27) e assunzione evidente di temi ed argomenti, la fonte più riconoscibile sono gli studi di Klaus Gamber (1919-1989), noto e discusso docente di liturgia a Regensburg. Testo

  2. Citato da Mosebach, 19. Testo

  3. Si veda in particolare il capitolo XIV del primo tomo di P. Gueranger, Institutions liturgiques, Paris, 18782, 388-407. Il tono ancora sostanzialmente apologetico di Guéranger conservava tuttavia una sensibilità sorprendente per il ruolo sociale della liturgia, che va ben oltre l'impresa restauratrice. Cf in particolare J.-Y. Hameline, Liturgie, Église, société. À la naissance du mouvement liturgique: les considérations sur la liturgie catholique de l'abbé Prosper Guéranger (Mémorial catholique, 1830), «La Maison-Dieu» 208 (1996), 7-46. Proprio tale sensibilità pare in Mosebach completamente persa. Testo

  4. Nel suo noto saggio del 1927, Begriff der Politik (Cf. C. Schmitt , Le categorie del 'politico', Il Mulino, Bologna 1972 [saggi orig. ted. 1932-1968]. Il riferimento è in particolare alle pagine 110-112). Schmitt definisce la coppia Freund/Feind come essenza della politica, ragion d'essere dell'azione dello Stato. Il nemico non è l'avversario (Gegner, p. 165), che stimola concorrenza o avversione, che sente diversamente da noi; il nemico è colui che ci combatte e virtualmente può farci morire, è la ragione stessa che mantiene in vita la politica (p. 111), fondata con Hobbes sulla necessità di tener lontano e distinto ciò che ci minaccia. Definire la Formlosigkeit come nemico significa perciò ritenerla non come un'altra sensibilità o una «piaga» della Chiesa, ma il suo scacco più pericoloso. Testo

  5. Tale distinzione tra hostis e inimicus, sempre di Schmitt, si trova specchiata nella postura intellettuale e polemica assunta da Mosebach verso il suo interlocutore. Cf. Schmitt, 112. Testo

  6. «In der Antike nannte man die Unterbrechung einer Tradition durch den Herrscher einen Akt der Tyrannis. In diesem Sinn ist der Modernisierer und Fortschrittsgläubige Paul VI. ein Tyrann der Kirche gewesen», Mosebach 18. Testo

  7. Nel senso attribuito nuovamente da Schmitt al termine restauratore, colui che, come fece Metternich, affossa virtualmente il sistema che vuole contribuire a far rinascere, perché ingenuamente distrugge dall'interno ciò che vive solo se non interrotto. Cf. Mosebach 98: «Wir ordnens. Es zerfällt. Wir ordnens wieder und zerfallen selbst», R.-M. Rilke, 8. Duineser Elegie. Testo

  8. «Selbstverständlich bewahrte diese Haltung die Liturgie nicht vor Modifikation, aber diese Änderungen geschahen organisch, unbewußt, unbeabsichtigt, sie wuchsen aus der kultischen Praxis hervor, wie sich eine Landschaft durch Wind und Wasser in den Jahrtausenden umformt», Mosebach, 18. Testo

  9. Tra le osservazioni più interessanti c'è il disagio per la predica maldestramente inserita al centro dell'azione come un'interruzione, avvertita quasi come una rottura della funzione scenica, da teatro epico brechtiano (cf. Mosebach 45-48). È paradossale che l'autore taccia (voglia tacere) il fatto che sia proprio questa la differenza con la liturgia della parola del Messale di Paolo VI, con il ruolo sobrio dato all'omelia. Egli invece conclude dicendo «Die Aufgabe ist, das sei gerechterweise gesagt, ästhetische nicht zu lösen» (46), piuttosto di inserire qui più onestamente ciò che egli sicuramente non ignora. Cf. PNMR 41: l'omelia non è una predica, le sono state tolte tutte le formule devozionali che interrompono l'azione e si inserisce come parte di un'azione organica. Nel V.O. questo non succede. Testo

  10. Si veda in particolare il saggio «Knien, Stehen und Gehen. Vom richtigen Verständnis der «tätigen Teilnahme»», Mosebach, 121 ss. Qui la categoria emerge in tutta la sua ambiguità partendo dalla questione del mettersi in ginocchio, per concludere ««Tätig teilnehmen« kann der Gläubige auf viele Weisen» (127), spaccando poi la messa in una contemporaneità di diverse azioni personali («private» 128) tutte lecite e buone se permettono l'adorazione interiore. Testo

  11. Mosebach, 78. Testo

  12. L'autore non regge la purezza della sua impostazione in tutti i saggi del testo. Quando, per esempio, egli parla dell'opportunità di inginocchiarsi o meno durante il rito (121 e ss.), è l'argomento culturale (significato dello stare in piedi oggi) a giocare un ruolo notevole: nel rito stesso dunque la componente antropologica non può essere solo «ricevuta», ma entra potentemente. È certo condivisibile la critica all'ingenua intenzione di fabbricare significati arbitrari inseriti nei riti. Il rito «oggettivo», iconico, tuttavia non esiste, e le riforme sono operazioni sempre culturali legittime, come le considerazioni propriamente culturali e antropologiche che l'autore esprime (131-132). Testo

  13. Si veda la gustosa e sorprendente argomentazione che giustifica la liturgia come segno artistico a partire dalla lavanda del piedi come «segno» (e non esempio Gv 13,15?) ulteriore alla sua spiegazione, concludendo: «Weil Christus die Vergegenwärtigung seines Opfers wünschte, goß er es in die Gestalt liturgischer Kunst», Mosebach 109. Testo

  14. Mosebach, 58-59. Testo

  15. «Immer wieder neu staunenerregend ist die Reform Jesu Christi, die einzige Reform, die diesen Namen verdient: in überlieferter geheiligter Gestalt etwas vollkommen Neues, die Umkehrung aller bis dahin geltenden Verhältnisse auszudrücken» Mosebach, 67. Tutta l'esperienza religiosa anticotestamentaria e non cristiana viene dunque catalogata, secondo l'impostazione apologetica classica, espressione della ricerca umana di Dio, in cui è assente proprio quell'iniziativa divina che caratterizza i sacramenti cristiani. Testo

  16. Più volte è ripresa l'interpretazione dei tre sacrifici citati nel canone romano (Abele, Abramo, Melchisedec) come compimento dei sacrifici animali, umani e vegetali, della religione primitiva, del giudaismo e del paganesimo, completati dal sacrificio della Messa. «Es war mir klar, daß die katholische Messe in ihrer seit über eintausendfünfhundert Jahren ununterbrochenen überlieferten Form genauso genommen gar nicht als der Ritus einer bestimmten Religion betrachtet werden durfte, sondern als die Erfüllung aller Religionen, die sie sämtlich in sich aufgesaugt hatte», Mosebach, 17. Testo

  17. Si veda E. Perrier, Mosebach (M.), La Liturgie et son ennemie, «Revue Tomiste», oct-dec 2006, 677-678. Il recensore domenicano avanza qualche critica, ma di fatto pare non cogliere la dimensione teologico-fondamentale sottesa. Testo