Salta il menù

Invia | Commenta

Spiritualità contemporanea e religione del sé. Su Mary di Abel Ferrara, o delle ambiguità

di Agnese Maria Fortuna (15 luglio 2008)

Mary (2005) di Abel Ferrara si offre come un'interessante testimonianza della maniera corrente di intendere e vivere la religiosità. Nei personaggi del film è possibile infatti rintracciare quell'atteggiamento che la sociologia della religione compendia nella categoria della spirituality, con la centratura su sé che la contraddistingue, categoria generalmente utilizzata per comprendere il fenomeno della costellazione new-age.

«Come è possibile vivere concretamente da esseri spirituali nella nostra società?», è la domanda che il conduttore Ted Younger pone a Ivan Nicoletto in Mary, penultimo film di Abel Ferrara. Risponde Forest Whitaker, l'attore che ne interpreta il ruolo, all'intervistatrice della Rai durante il LXII Festival internazionale dell'arte cinematografica di Venezia (2005), in occasione della consegna del premio speciale della giuria al regista. «È una domanda che si pone sempre per tutti quanti, trovare uno spazio spirituale all'interno di se stessi, cercare un posto di pace all'interno di se stessi, un posto di coraggio all'interno di se stessi, per far succedere le cose nella propria vita, per farle diventare chiare e reali. Tutti lottano con questo aspetto nella società di oggi: è sempre un modo più profondo o più spirituale che sta all'interno di tutte le difficoltà della vita per cercare di mantenere sempre l'equilibrio, anche con l'universo, in quanto persona che ha forza. Molte persone tentano di trovare questo dentro di sé in un certo qual modo».

Mary non è certamente il film più "teologico" di Abel Ferrara e pare piuttosto inserirsi come un elemento estraneo nel corpus ferrariano, distaccandosene per il carattere marcatamente eterodosso e per un'ambiguità pervadente.

Abel Ferrara, un regista di culto italo-americano cresciuto e formatosi nella New York degli anni settanta, ha prodotto una quindicina di pellicole di vario livello, tra cui spiccano Ms 45 (L'angelo della vendetta), King of New York, Il cattivo tenente, The Addiction, The Funeral (Fratelli), e Snake's Eyes. 1Tutti film che hanno un evidente impianto morale, per lo più incentrato sulla questione della nostra connivenza con il male, intesa e risolta in termini esplicitamente cristiani, cattolici addirittura, sebbene il regista si definisca cattolico di educazione ma non-credente. Storie spesso sconcertanti per crudezza e ambientazione, ma di grande forza e certamente non ambigue.

Presentato nel 2005 al festival di Venezia, dove ha ottenuto il premio speciale della giuria, Mary è articolato secondo tre linee programmatiche: una riflessione sulla figura di Maria Maddalena, una riflessione sul potere dei mass media e una riflessione sul ruolo della spiritualità nella società contemporanea. Lo fa attraverso l'intreccio di tre vicende: quella dell'interprete della Maddalena (Binoche) in un film sulla vita di Gesù, quella del regista del film (Modine) alle prese con la promozione della propria opera, e quella del conduttore di una trasmissione televisiva sulla figura di Gesù (Whitaker). Vicende di crisi: d'identità, di attese di successo, di posizione nella vita che sembrano (o dovrebbero risultare) esacerbate dall'incontro, più o meno diretto, con la figura scomoda e interrogante del Cristo, o meglio col suo messaggio, perché è con questo e con i processi di tradizione-tradimento attraverso il quale usualmente lo conosciamo che si confrontano i personaggi. Almeno, ciò è quanto il regista e gli sceneggiatori si propongono di mostrare.

Ma, a differenza che altrove, in Mary il discorso sembra farsi più generale e meno profondo, più esteso e meno coeso, più consumabile e meno sostanzioso, più alla moda e meno appropriato: delle tre linee programmatiche cui si accennava, la più convincente resta la terza, e si può considerare Mary, nei suoi pregi, come una testimonianza sulla spiritualità contemporanea. Nei personaggi di Mary risultano infatti evidenti alcuni atteggiamenti tipici di quella maniera contemporanea di vivere e di intendere l'esperienza religiosa fuori dalle forme canoniche tradizionali definita generalmente come new age.

1. Spirituality

È possibile ritrovarvi, infatti, almeno una delle caratteristiche della controversa categoria che la sociologia della religione degli ultimi decenni designa con il termine "spirituality": una categoria dal significato piuttosto fluido, utilizzata per accomunare le varie espressioni della multiforme costellazione new-age. Secondo D. Houtman e S. Aupers, il fulcro di questo genere di esperienze è la centratura sul sé, che si traduce in un rapporto funzionale dell'individuo alle varie tradizioni e prassi religiose e ai relativi, e più o meno elaborati, sostrati concettuali.2

Il desiderio di appartenenza a una data comunità religiosa e di ridefinizione identitaria in relazione all'appartenenza comunitaria, tende a modularsi sulla base delle esigenze del sé, e regge fintanto che non le metta effettivamente in discussione. È la comunità che deve rivelarsi adeguata alla maniera con cui gli individui comprendono le proprie esigenze e non viceversa. In altre parole, le persone si avvicinano a una comunità o forma religiosa e ad essa si adeguano nella misura in cui risponde alle esigenze individuali: l'approccio è selettivo e funzionale, e non a caso tende a produrre forme di religiosità personale a carattere sincretico. Si prende da questa e dall'altra forma, quello si ritiene più confacente alla propria affermazione.

Perciò, anche il rapporto ai processi di tradizione attraverso i quali si trasmette una data fede risulta problematico: per un verso eluso e per un altro tendenzialmente messo in discussione. Questo genere di spiritualità si regge sull'idea che l'uomo possa e debba ritrovare in sé la fonte della verità, e lo possa perché in ultima analisi, nel suo sé più autentico, conserva la propria natura divina. Le fedi istituzionali e la maniera con cui queste si sono consolidate nel tempo, in specie attraverso il processo di tradizione della rivelazione originaria, avrebbero scientemente adombrato questa verità, inducendo gli uomini a pensare di doverla piuttosto attingere al di fuori del sé, nella fede comune, regolata e ordinata dall'autorità.

La voce interiore, sovente ipostatizzata in una sorta di divinità (il dio o la dea che è in noi), è l'unico accesso e l'unica garante della verità e dell'autenticità. È dunque necessario affrancarsi da ogni influenza culturale e sociale (l'istituzione religiosa è avvertita come una realtà alienante e mistificatoria), da ogni appartenenza vincolante, da ogni servitù dottrinale: l'unica «dottrina vincolante nell'ambito spirituale» è «la fiducia che uno trovi nelle pieghe più profonde del sé un nocciolo vero, autentico e sacro, fondamentalmente non inquinato da cultura, storia e società, che permetta di valutare ciò che è buono, giusto e significativo. Per simili valutazioni, si ritiene, uno non può affidarsi a risorse esterne, ma esclusivamente alla propria voce più profonda».3 «Della verità se ne può fare esperienza solo personalmente, in contrasto con la nozione di ragione o di fede (...). Questo "sapere interno" non può essere trasmesso tramite linguaggio discorsivo (ciò lo ridurrebbe a conoscenza razionale). Né può essere oggetto di fede (...) perché, in ultima analisi, non esiste altra autorità che l'esperienza personale interna».4 Non sarà un caso che sovente questo atteggiamento conduca a privilegiare fonti eterodosse o non canoniche di rivelazione: fonti perdute per secoli come quelle dei vangeli apocrifi e che affascinano per la promessa di offrire testimonianze "di prima mano" della rivelazione originaria, non mediata perciò dalle aberrazioni manipolatorie a cui sarebbe stata sottoposta fin dall'inizio nel processo di trasmissione. In sintesi, ed esasperando l'argomento di Houtman e Aupers, la spirituality non indicherebbe tanto una dimensione religiosa quanto un tipo di religione: la religione del sé:

2. Mary vs Kathy e il cattivo tenente

A mio avviso, questa categoria, per quanto discutibile, circoscrive di fatto l'ambito di Mary, cosa che distingue in maniera netta questo da altri precedenti film di Ferrara, dove invece si parlava e si mostrava forse meno di Cristo ma si faceva riferimento, in maniera atipica ma assolutamente organica, all'universo spirituale cattolico, senza il quale il dramma dei grandi personaggi ferrarariani non avrebbe senso. Un universo spirituale di cui si evidenziava la profonda universalità: le questioni affrontate dai personaggi dei grandi film di Ferrara, il nostro rapporto con il male, con la giustizia, con il perdono, con la possibilità concreta di una vera redenzione, sono questioni che riguardano ognuno di noi, credenti o meno, come da sempre hanno riguardato l'uomo. Eluderle ingenera insanità e morte, affrontarle significa passare attraverso una radicale decostruzione delle coordinate mediante le quali siamo indotti socialmente e individualmente a cercare consistenza per la nostra identità. Il conflitto interiore che travaglia i grandi personaggi ferrarariani è dominato dalla percezione dell'impossibilità per l'uomo di consistere con le sole proprie forze.

Qualcosa del genere sembrerebbe essere riproposto in Mary, ma rispetto a quest'ultimo nei grandi film di Ferrara c'è la significativa differenza che l'atto di fede non è, come in Mary, l'esito della ricerca del sé di un individuo che non sembra avere effettivi contatti con la realtà per quanto violenta essa sia, ma piuttosto dell'estrema esposizione pienamente coinvolta dei personaggi alla realtà quotidiana e condivisa della violenza, che è la cifra della negazione della vita. Ne Il cattivo tenente, The Addiction, The Funeral (Fratelli), e Snake's Eyes il senso non è guadagnato attraverso di sé ma malgrado sé. L'incontro con l'altro, con Cristo, non avviene per la via della ricerca del conforto e della conferma. È piuttosto uno scontro frontale, la rivelazione di un tutt'altro e di un altrimenti che non può in alcun modo essere ricondotto alle aspettative. Non è farina del proprio sacco. La legge che indica, la logica che lo sorregge sono l'esatto contrario di quanto i personaggi avrebbero mai voluto trovare. Ed essi si ribellano fino in fondo, con più o meno presenza a se stessi, e cedono alla fine si direbbe per estenuazione: quello che trovano è pace e ricostituzione, ma non certamente nelle forme comode del conformismo sociale, quand'anche fosse quello apparentemente non conformistico della protagonista di Mary. Si pensi alla fine del cattivo tenente, distrutto e braccato, che va incontro alla morte come una bestia recalcitrante perché costretto a prendere sul serio la realtà del perdono.

Il personaggio che interpreta la Maddalena si sceglie gli abiti che vestirà nella propria nuova esistenza, complice la moda dei vangeli apocrifi e della vulgata da rotocalco della teologia di genere: l'immagine oramai consunta (quella che passa sembra la classica crisi di menopausa) le cade di dosso in una sorta di muta, ma quel che appare non è la farfalla autentica, piuttosto un'altra immagine. Il regista interpretato da Modine non li ha mai smessi i propri abiti, né ha alcuna intenzione di toglierseli di dosso: per lui non esistono altro che le immagini e, nonostante la profonda antipatia che ispira il suo narcisismo, in questo è onesto. Quanto al personaggio del conduttore televisivo, egli non fa che rivoltare il solito completo alla moda che porta indosso: quello che mostra alla fine non è che il reverso "buono" dell'immagine del poco di buono nel quale ci viene mostrato all'inizio. Né Kathy in The Addiction, né il cattivo tenente, né la suora che lo costringe alla dolorosissima metanoia, né il personaggio interpretato da Madonna in Snake Eyes sanno cosa accadrà di loro, una volta dimessa la propria immagine abituale: la soglia su cui si trovano nudi e in bilico è tra due tenebre, e soltanto il varcarla le muterà in luce. In sé, lo sanno, non troveranno altro che tenebre: la luce l'uomo non la può reperire da solo, come la vita del resto, né la loro fonte sta in lui.

La verità che Mary conosce è quella del Cristo che lei ha incontrato in se stessa, la verità della propria versione del Cristo. il Cristo che infine ri-conosce Kathy la costringe a uscire da sé, a capire che la verità non sta in noi, ma di fronte a noi come qualcosa la cui totalità è incompatibile con la nostra limitatezza: non può essere attinta mediante un processo di riacquisizione del sé. Non può offrirsi che come meta non conquistabile delle nostre imprese ermeneutiche: non siamo noi che ne possiamo misurare i confini, ma è piuttosto lei che li stabilisce, spesso dove, come e quando non ci saremmo mai aspettati.

3. Estraniamento

Più che una riflessione, Mary sembra una sorta di testimonianza: a che punto siamo riguardo alla spiritualità, quale ne è il "gusto" odierno, che strade imbocca, come tende a svilupparsi, cosa la suscita, a che domande risponde e in che maniera viene vissuta correntemente.

Certamente tutto ruota attorno a una sorta di diffuso disagio esistenziale, magari acuito o portato in luce da situazioni di crisi oggettive, ed espresso in varia misura da un senso di estraniamento e dislocamento ("nulla conta né ci riguarda effettivamente quando tutto è permesso", una logica che Kathy di The Addiction riterrebbe banale; "non siamo da nessuna parte quando possiamo andare ovunque", idea che farebbe francamente inalberare il cattivo tenente). Un disagio individuale, assolutamente privato che, comunque sia e si dia, dà voce essenzialmente alla ricerca del sé, piuttosto che come genuina ricerca, come rafforzamento attraverso la conoscenza o appropriazione del sé.

Ad animare il soggetto contemporaneo sembra essere il desiderio di possedersi, attingere a quella forza interiore e coesiva che presuppone di poter rinvenire in se stesso, come se non gliene risultasse mai abbastanza.

L'interiorità diventa quella regione dell'essere che ci appartiene e ci definisce, per esprimere la quale si desidera riacquisire il corpo, come se questo non fosse altro che un mezzo, uno strumento a un tempo di conferma e di espansione. Dico che non è una ricerca genuina, perché avviene senza rischi, per capriccio si direbbe, battendo strade sempre scontate, infondo null'altro che una variazione tra le altre della solita traiettoria che porta e riporta ciascuno al proprio sé. L'altro che s'incontra su questo genere di cammino non è che il termine di quelle relazioni rispecchianti che non implicano il minimo rischio reale: l'apertura è apertura sull'hortus conclusus del sé. L'altro diventa un personaggio della propria storia, magari rilevante e rivelante, magari persino elusivo nella sua enigmatica essenza, ma sempre funzionale alle esigenze del sé e al rafforzamento ipertrofico delle sue potenzialità, anche nella sua presupposta inattingibilità. In altre parole, l'altro conserva agli occhi del soggetto il suo mistero intatto perché altrimenti il gioco non funzionerebbe più.

Ciò che manca in Mary, a mio parere, è la percezione della compresenza, del limite che non sia esclusivamente quello denunciato dalla propria mortificante inadeguatezza alla realtà della vita. Nell'ottica dei personaggi di Mary, Dio stesso non è altro che una sorta di propaggine che garantisce l'azione onnipotente e vittoriosa sulle avversità, acquisita per il sé mediante un atto di consentimento, titubante ma non realmente ribelle, un Dio che libera temporaneamente dall'ansia ma non dalla claustrofilia. Non c'è nessun personaggio che riesca a uscire effettivamente dal sé: persino le tragedie personali non sembrano lasciare altro segno che quello che induce a promettere a se stessi "sarò più bravo domani, adempirò meglio a quanto mi aspetto da me stesso", mentre l'altro è ridotto al semplice garante occasionale delle promesse gratificanti di dimostrazione della propria acquisita capacità di performance. La stessa voce "altra" della Maddalena, così come risuona nel film tra gli apostoli all'indomani della risurrezione, non soltanto non riesce a imporsi ma si dimostra portatrice di una rivelazione che non fora le tenebre opache dell'interpretazione. La rivelazione "privata" della Maddalena è in realtà un assemblaggio di filosofia gnostica: un'interpretazione della realtà divina in chiave esoterica.

In Mary la vita non irrompe: si corrompe, piuttosto, nelle immagini, attraverso la complicità ambiguissima del media-system, di cui anche il film entra a far parte nel momento in cui l'accoglie in sé per raccontarlo utilizzandolo né più né meno di un esaltatore di sapidità. Il fatto stesso di registrare gli accadimenti e di trasmetterli per così dire in presa diretta e ubiquamente, li rende artefatti, li immette nel mercato, li rapisce alla vita. L'iper-realtà diventa irrealtà. I media estraniano gli accadimenti dal tessuto della vita. Il riverbero continuo dell'interiorità nell'esteriorità, dei fatti personali negli eventi civili, che il film utilizza in quelli che dovrebbero essere i momenti chiave delle storie narrate, non fa che acuire il senso di estraneamento.

4. Ambiguità

La distanza, ma a questo punto potremmo chiamarla completa eterogeneità del senso veicolato da Mary e di quello veicolato dagli altri grandi film di Ferrara, può anche essere messa in luce considerando la profonda ambiguità che connota Mary.

Un'ambiguità che è una cifra di stile, la cifra dello stile di Mary: non è mai stata la cifra dello stile di Ferrara, cosa che colpisce chi ne conosce l'opera come un segnale di non autenticità. Ferrara ha sempre dichiarato molto onestamente che i suoi film erano frutto di un lavoro comune, e dunque tanto suoi che dello sceneggiatore, degli attori, dei tecnici della fotografia e del suono. Per molti anni ha lavorato con una équipe di amici di lunga data, cresciuti con lui nello stesso ambiente italo-americano newyorkese. Primo tra tutti lo sceneggiatore Nicholas St John, che ha cofirmato tutti i grandi film di Ferrara a eccezione de Il cattivo tenente. Le cose sono cambiate, le persone sono cambiate, e probabilmente non provengono dallo stesso milieu culturale. Il risultato è che Mary non sembra un film di Ferrara, nonostante che vi ritornino scene, situazioni e accorgimenti di altri suoi film.

Ferrara non è mai stato ambiguo: le storie, i personaggi, le sequenze, le immagini, le colonne sonore, sono sempre stati complessi ma univoci. L'incisività dei suoi grandi film sta proprio in questo: dicono con forza esattamente quello che mettono in scena. Il messaggio che veicolano è un tutto omogeneo rispetto all'universo di significato da cui derivano i messaggi particolari che vi vengono utilizzati. La questione della fede è vitalmente iscritta nell'universo cristiano che la definisce in quegli stessi termini che mostrano i film, ed è sostenuta e risolta nei termini della metanoia evangelica che la tradizione ci ha trasmesso.

Mary invece funziona sul registro dell'ambiguità: il quadro complessivo del film, la giustapposizione degli accadimenti e dei discorsi, trasferiscono il significato letterale in un contesto che ne stravolge sistematicamente il senso. La confezione accattivante sembra fatta apposta per indurre lo spettatore a consentire con la plausibilità del messaggio complessivo attraverso il riconoscimento e l'assenso che è portato a dare ai messaggi particolari che ne compongono il mosaico, mentre in realtà il film li va componendo in un insieme che forza questi significati ad assumerne uno di segno opposto a quello che hanno nei loro contesti originali. Bisogna porvi attenzione: in realtà, non è poi così difficile se si può far riferimento a una conoscenza sufficiente dell'universo di significato cristiano.

Ne deriva un'operazione molto conveniente alla mentalità mistificante e funzionalista che contraddistingue la religiosità nello stile della new age.

Ma non sono soltanto i messaggi della tradizione ordotossa cristiana ad essere convertiti nel loro opposto: anche la storia della Maddalena, viene forzata a significare qualcos'altro, come la singolare coincidenza delle immagini del punto di partenza e del punto di approdo del viaggio delle tre Marie rivela: esse salpano e approdano sulla stessa spiaggia. Il viaggio non è un vero viaggio nel mondo reale, il viaggio che intraprendono le apostole per portare alle genti il messaggio di Cristo, ma una sorta di ritorno a sé, un circolo vizioso che gira intorno all'ombellico che sta al centro dell'unico mondo rilevante, quello dell'io.

Consideriamo la composizione: ci sono tre storie che s'intrecciano, tre personaggi in crisi che si dipanano sullo sfondo della storia della Maddalena, una sorta di metastoria che dovrebbe servire da testimonianza della vera esperienza di Cristo, del vero messaggio evangelico. Ma non basta: inserite nel testo filmico ci sono alcune interviste a quattro esperti della materia, che dovrebbero confermare come la ricerca dei personaggi sia pertinente alla vera storia di Cristo e alla vera esperienza dell'incontro con lui. Avvenimenti di cronaca inseriti "brutalmente" nel film dovrebbero puntare a mostrare come non esista una vera discrepanza tra stato di crisi personale e stato di crisi globale. Un congegno piuttosto complesso, che come hanno notato alcuni critici, produce un film che lascia perplessi, un film confusionario per un messaggio confuso.

Se quanto ho detto è plausibile, in realtà il film non ha un messaggio confuso ma confondente. Appiattendo la tradizione di Cristo sull'unica dimensione dell'interpretazione, il film la mette al pari di qualsiasi altra squalificandola in ragione della sua istituzionalizzazione. La tradizione istituzionale delle chiese cristiane è ritenuta un'interpretazione mistificante della rivelazione di Cristo, statuita e accreditata nel corso dei secoli per mantenere il potere sulle coscienze.

A questa viene contrapposta una rivelazione: ma in realtà è essa stessa una tradizione! L'unico vantaggio che può pretendere è che è una tradizione che è stata repressa, si direbbe fin dalle origini. Il film però non prende in seria considerazione i motivi di questa "repressione", ma li risolve banalmente in una faccenda di potere in chiave di genere. Eppure è evidente: basta leggere i testi degli apocrifi per rendersene conto, e in specie quelli che fanno riferimento alla rivelazione alla Maddalena. Il loro contenuto è semplicemente incompatibile con il sostrato biblico che alimenta la tradizione canonica del Nuovo Testamento. Il chiaro sapore gnostico che li contraddistingue fa riferimento a una concezione dell'uomo e del rapporto tra l'uomo e Dio che è esattamente contraria a quella veterotestamentaria. Eppure Gesù era tanto ebreo da non volere che dell'antica legge cadesse anche soltanto una iota!

Ridurre la questione della squalifica di queste tradizioni a una questione di genere, per cui esse sarebbero state represse perché fondate sulla rivelazione a una donna, mi pare tutto sommato almeno a rischio di risultare un'applicazione indebita di categorie e visioni contemporanee a una questione che trascende la faccenda della considerazione o meno delle donne nell'ambito delle prime comunità cristiane. Considerazione che tra l'altro risulta, proprio dagli studi di esegesi e di storia cristiana antica di stampo femminista, maggiore di quanto si potrebbe ritenere. La subordinazione delle donne che ha indubbiamente condotto a relegarne il ruolo al focolare domestico, al chiostro o tutt'al più al matronato di pia beneficenza, da cui ancora oggi facciamo tanta fatica a liberarci; sembrano piuttosto il frutto dell'inculturazione successiva del cristianesimo.

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

Note

  1. Su Abel Ferrara e la sua produzione precedente cf. tra gli altri il documentatissimo B. Stevens, Abel Ferrara: the moral vision, Goldaming 2004; su Mary cf. V. Fantuzzi, «», in La civiltà cattolica 1 (2006), 67-74, che recensisce il film positivamente. Testo

  2. Cf. D. Houtman - S. Auspers, «Beyond the Spiritual Supermarket: the Social and Public Significance of New Age Spirituality», in Journal of Contemporary Religion, 21 (2006)2, 201-222; Idd., «La spiritualità come concetto sociologico», in G. Giordan (ed.), Tra religione e spiritualità: il rapporto con il sacro nell'epoca del pluralismo, Milano 2006, 48-70; Idd., «The Spiritual Revolution and the New Age Gender Puzzle: The Sacralisation of the Self in Late Modernity», in G. Vincent - S. Sharma - K. Aune (edd.), Women and Religion in the West: Challenging Secularization, Aldershot 2006; Idd., «The Spiritual Turn and the Decline of Tradition: The Spread of Post-Christian Spirituality in Fourteen Western Countries (1981-2000)», in Journal for the Scientific Study of Religion 46 (2007)43, 305-320. Testo

  3. Houtman - Aupers (2006), 5. Testo

  4. W.J. Henegraaff, New Age Religion and Western Culture: Esotericism in the MIrror of Secular Thought, Leiden 1996, 519. Testo