Salta il menù

Invia | Commenta

Manifesto per lo studio della teologia: commenti

(25 gennaio 2004, 26 maggio 2004)

Molto più di quanto previsto, il Manifesto per lo studio della teologia ha suscitato commenti: alcuni sono pubblicati in questa pagina. Su una dozzina di interventi non si può fare una statistica, ma certo essi presentano uno spaccato interessante sul quale vale la pena di riflettere. Agli autori e alle autrici e ai tanti che hanno espresso, a voce e per iscritto, il proprio incoraggiamento va il sentito ringraziamento di Reportata.

Se volete anche voi proporre un contributo, seguite l'apposito collegamento in fondo alla pagina del Manifesto oppure scrivete direttamente a reportata@mondodomani.org.

I problemi

Diversi interventi hanno sottolineato i problemi dell'attuale insegnamento della teologia. Ecco alcune osservazioni relative alla mancanza di seri corsi di approfondimento:

Faccio le mie più sincere congratulazioni per l'idea e per lo stile del nuovo sito: la Teologia è infatti la mia più grande passione.

Certamente i programmi sia per il diploma in Scienze Religiose sia per il conseguimento del Magistero (parlo per esperienza personale) sono un «concentrato» ma, a mio avviso, molto poi dipende dalla qualità del docente e dalla volontà di ricercare e scoprire del discente; per fortuna ho avuto sia l'uno che l'altro.

Quello che sentivo e sento tutt'ora è la mancanza di corsi o seminari di approfondimento tematico su questioni inerenti la Bibbia o la Teologia, magari per persone che già sanno (pur nella certezza di non sapere) qualcosa sull'argomento e dunque vi si riescono ad orientare [...]. La Filosofia è stata un po' una scommessa, mi piace, mi è sempre piaciuta e mi interessa, in particolare alla luce della connessione che c'è, ci può essere e ci deve essere con il discorso teologico, che considero un a-priori di qualsiasi discorso attorno all'uomo: una sorta di «dimmi che idea hai (o non hai) di Dio e ti dirò che uomo sei».

Queste sono le impressioni di chi, dopo aver terminato una laurea umanistica italiana, ha vissuto come una doccia fredda il curriculum istituzionale di Teologia:

Sottoscrivo pienamente quanto denunciato dal Manifesto; avendo un background di formazione umanistica «laica», e trovandomi ora a studiare teologia presso un ateneo pontificio, mi rendo conto che se la Chiesa ha ancora qualcosa da proporre a livello culturale, questo dev'essere senza ombra di dubbio dovuto ad un'azione ex opere operato della divina Sophia, giacché la situazione, a livello di insegnamento e formazione, è effettivamente disastrosa e asfittica. Mi auguro che l'inquietudine che muove i curatori del sito, e che echeggia in molti di noi studenti di teologia, possa trovare presto un'applicazione concreta.

Un lungo e articolato intervento attraversa quasi tutti i punti toccati dal Manifesto, soffermandosi in maniera particolare sui guasti creati da una eccessiva frammentazione degli studi:

Ho letto attentamente l'articolo da lei scritto. Lo trovo interessante e attuale, se considero la mia fresca esperienza in studi teologici. La prima reazione è stata quella di condividere pienamente il contenuto dell'articolo. In fondo, vi trovo espressa quella parte di me impegnata nella lotta per la giustizia attraverso la denuncia. [...]

È certamente necessaria una ristrutturazione degli studi teologici, soprattutto quelli accademici. L'errore che lei giustamente pone in risalto è proprio quello di aver frammentato il sapere teologico. Tuttavia, a mio avviso, il problema non è tanto la dilatazione dei tempi di studio, anche se può essere un ostacolo, quanto l'eccessiva segmentazione della teologia in troppe discipline. Si è voluto usare, credo, il metodo delle scienze positive che tendono alla completezza del loro sapere attraverso studi sempre più particolari. È ciò che vediamo, per esempio, in medicina dove una vasta gamma di specializzazioni sono a beneficio di un quadro sistematico più universale, da cui deriva una maggior capacità conoscitiva in favore del bene (salute) dell'uomo.

Per la teologia non è possibile usare questo metodo. Essa, infatti, diventa più completa quanto meno la si frammenta, perché l'oggetto del suo studio non è una serie di funzioni meccaniche o tecnologiche (vedi scienza informatica, ingegneria, ecc.), né dinamismi fisiologici, per quanto perfetti quelli dell'uomo (vedi medicina). Potremmo continuare con altri esempi, ma basti dire che l'oggetto della teologia è Dio, il quale è l'Assoluto e il Semplice allo stesso tempo. Ora, sapendo bene che la forza del semplice sta proprio nell'impossibilità di poterlo scomporre o definire (cioè frammentare), sarebbe, almeno, logico che lo studio della teologia facesse cogliere, allo studente, le linee unitarie di tutto il suo contenuto.

Il problema, dunque, non penso possa riferirsi ai tempi o al confronto con le Università statali, quanto all'incapacità attuale di offrire allo studente (chiunque esso sia) la possibilità di una formazione davvero «forte», cioè veramente scientifica, dove questa non dovrà dipendere dalle molte discipline, ma dall'oggetto (è o no, Dio, fonte di ogni scienza?). È comunque auspicabile quel ridimensionamento della tendenza a cercare dappertutto «statuti epistemologici propri» di cui lei parla.

È possibile una teologia per tutti? È anche questo un ambito molto delicato. Sono d'accordo, solo in parte, con quanto lei dice. Penso ci sia bisogno di alcune precisazioni. È giusto offrire ad ogni cristiano la possibilità di approfondire nella forma più seria possibile la propria fede, ed è vero che non possiamo proporre l'attuale modo d'insegnare la teologia. Tuttavia, la riforma e la stessa apertura della teologia non dovrà dipendere da motivi quali le prospettive di lavoro. Infatti, qualunque sia il modo di rinnovare lo studio, esse saranno sempre esigue. Il mondo si è troppo secolarizzato e il pensiero è diventato anoressico. A chi insegnare la teologia dopo l'Università? Inoltre, non credo che sia giusto dire che per gli ecclesiastici sia un pedaggio da pagare prima del ministero, c'è ancora chi ricava molto dallo studio teologico e magari s'impegna a riempire le lacune dell'attuale ordinamento con il proprio sudore.

Bisogna poi evitare di parlare di corsi di serie B. Conosco molte persone che frequentano questi corsi e, nessuno escluso, lo fanno perché non hanno i requisiti per accedere agli studi universitari. Attenzione, quindi, che qualcuno potrebbe rispondere che non solo non si tratta di corsi di serie B, ma che è il modo concreto di dare a tutti la possibilità di non essere esclusi dallo studio della teologia. Non mi fraintenda, io sono d'accordo con lei: i laici non sono meno intelligenti o preparati dei candidati al sacerdozio, anzi, è forse vero il contrario, ma credo che le potrebbero fare questa obiezione. [...]

Se vogliamo, poi, passare alla qualità dello studio personale, è verissimo quanto lei dice. Purtroppo ho avuto quest'esperienza: quando volevo approfondire qualche tema si presentava subito l'impossibilità dovuta, il più delle volte, al numero dei corsi da frequentare, oppure a qualche professore che, pur conoscendo la difficoltà di questo ordinamento, pensa che il suo corso sia più importante di quello di altri e, allora, giù con i testi da studiare, ecc.

Le famose dispense, poi, sono uno scandalo: d'accordo! Lo studente è abituato allo studio passivo (niente di più deleterio per la ratio); in aula c'è chi segue la dispensa e chi legge il giornale, tanto qualche idiota ha registrato, e poi stampato, il corso pensando di compiere un'opera di carità, ma certamente non avrà alcun premio nella Parusia. E che dire di coloro che approfittando di questo modo di studiare, non si curano della propria formazione? «Tanto basta rispondere a due domande!».

È scandaloso che non si leggano i classici? È certamente una situazione indegna di uno studio che voglia essere universitario. [...] Il problema è comunque anche la distanza che i professori hanno dallo studente. Il latino poi? Ha perfettamente ragione, ma non sempre è colpa dello studente. E la filosofia? Andrebbe senza dubbio rivista l'attuale formazione. È utile allo studio teologico, meno utile, però, è il modo di affrontarla [...].

Ancora un intervento principalmente sulla frammentarietà:

Ho letto il tuo manifesto e mi è piaciuto [...]. L'idea che avanzi non solo è interessante, ma credo che per chi inizia a studiare teologia, specialmente oggi in una società secolarizzata e completamente ignorante dei principi della fede, sia essenziale. La mia esperienza personale infatti mi aveva già lasciato intuire la frammentarietà con la quale l'insegnamento teologico viene impartito; tanto che dopo i primi cinque anni io stessa avevo difficoltà ad individuare, nel mare di notizie, il filo conduttore principale per raccordarle tutte insieme.

Non ti starò a dire poi dell'importanza della lettura diretta dei classici, forse sono tralasciati in quanto il livello di comprensione delle lingue classiche è insufficiente, con il risultato che chi ne possiede una qualche conoscenza dimentica pure quello che sa.

Per questo sarebbe bene cominciare da una visione unitaria della teologia, che permetta di conoscerne il percorso storico.

Una teologia per tutti?

Forse il maggior numero di interventi ha riguardato un'idea di fondo che attraversava il Manifesto: una «teologia per tutti», anche per laici (nel senso di non chierici) e per laici (nel senso di non credenti). Ecco anzitutto che cosa ha sperimentato una laica (nel primo senso) che, dopo aver cominciato il curriculum istituzionale di teologia, ha deciso di passare al corso di laurea italiano in filosofia:

Lei sa quanto questo problema mi tocchi da vicino: mi trovo ancora agli esordi della teologia e ad aver semplicemente concluso il biennio filosofico e molto spesso, per tutte le complicazioni evidenziate nel Manifesto, non le nascondo che ho avuto la tentazione di rinunciare. Non mi sono mai sentita capita dai miei coetanei, come se la teologia fosse disciplina di altro mondo. Inoltre sono stata spesso oggetto di scarsa considerazione, nonostante vivessi in prima persona la realtà di un anno accademico che prevedeva la frequenza obbligatoria tutti i giorni dalle 9 del mattino fino alle 19 di sera, 20 esami l'anno e sbocchi professionali aleatori ed incerti. Nonostante ciò, mi creda, non so proprio dove sia riuscita a trovare la forza, forse proprio dall'alto, ma ho voluto procedere imperterrita nel mio percorso e nella mia scelta. [...]

Ho sempre pensato che l'unica soluzione possibile fosse non tanto contare su una riforma interna, forse perché l'ho vista sempre troppo difficile da attuare, ma su una maggiore pubblicizzazione delle discipline teologiche e dei relativi sbocchi professionali. Agli occhi della gente comune questo campo sembra così nuovo, incredibilmente lontano dalla loro vita, che non ne conoscono neanche l'esistenza. Forse il problema non me lo sono mai posto così seriamente: quando mi sono iscritta a teologia è stata una scelta incondizionata, l'ho fatto perché mossa dal desiderio di una crescita personale e senza pensare troppo al mio domani. È stata quest'ultima motivazione che mi ha spinto in seguito ad iscrivermi a ***: la filosofia mi permetteva di conciliare perfettamente entrambe le esigenze.

Un'altra testimonianza riguarda invece l'itinerario accademico «per laici», il più delle volte percorso con l'intenzione dello sbocco professionale dell'insegnamento:

Non posso far altro che confermare e sostenere quanto lei esprime nel Manifesto, avendo vissuto così da vicino questi problemi.

Il secondo punto mi coinvolge in maniera particolare e aggiungerei che l'impossibilità di proporre gli studi teologici a studenti laici, addirittura non credenti, non è ostacolata solo dall'attuale ordinamento; o forse potrei dire meglio che l'attuale ordinamento non è altro che la manifestazione della non dichiarata ma percepibile, inequivocabile, volontà di non farlo. Il progetto culturale è solo uno slogan? Lo è, non per tutti è vero, e ciò che rimane è un senso di inferiorità «culturale» che ti mortifica nel profondo.

Dopo aver elemosinato «carità intellettuale» in parrocchia, in ***, ho intrapreso gli studi all'Università *** nella speranza e nell'interesse di approfondire le ragioni della mia fede, una fede sopraggiunta in età adulta e riconosco caratterizzata da molti interrogativi. Il consiglio che mi fu dato fu quello di iscrivermi all'Istituto Superiore di Scienze Religiose perché «quelli erano i corsi per laici», pur non avendo la men che minima intenzione di fare l'insegnante di Religione Cattolica [...].

La cosa che mi ha sempre sorpreso era, come lei ha giustamente osservato, la totale sottomissione dei seminaristi, che li portava ad essere così profondamente demotivati ad uno studio serio ed approfondito e ad una criticità che li rendesse «interessanti» al mondo, a questo mondo!

Punto quarto e quinto: devo dire che ho sentito [...] qualche professore consigliare la lettura personale dei classici, ma per quanto detto l'importante era passare l'esame e finire il più presto possibile questo purgatorio!

Che dire del catechismo come presupposto? che dire dei presupposti in generale e dei pre-requisiti? Ho il cuore gonfio! Comprendo che nelle università statali non ci sono prerequisiti specifici e pertanto non si possono imporre alla Università *** ma mi creda, lo dico con tutta umiltà, chi saranno questi futuri insegnanti di Religione?

Due interventi affrontano il problema di un insegnamento della teologia rivolto a non credenti. Il primo, molto articolato, sottolinea come ciò implica anzitutto un ripensamento del carattere «scientifico» della teologia e del suo rapporto con la filosofia:

La lettura mi ha suggerito qualche riflessione generale e fatto sorgere un paio di dubbi che mi piacerebbe sottoporle. Spero che mi perdoni, se mi distacco un po' dal carattere «pragmatico» del suo scritto, ma la mia incompetenza al riguardo non mi permette di far meglio che tenermi su considerazioni di carattere generale. Si tratta, tuttavia, di questioni suscitate dal suo Manifesto e che anche lì vengono in parte accennate. Mentre leggevo il secondo punto mi era infatti venuta in mente una domanda a prima vista estemporanea: «Ma questa riflessione non presuppone una riformulazione generale dell'idea stessa di teologia e del suo rapporto con gli altri saperi (in primis con la filosofia), piuttosto che un semplice aggiornamento e perfezionamento del curriculum di studio?» (o anche: «Ma non si sta argomentando a partire da un concetto molto aperto di teologia che, forse, non è affatto patrimonio comune dell'ambiente ecclesiastico o anche soltanto tra gli altri studiosi di teologia?»). [...]

Qui mi sgancio dalla problematica pragmatica e istituzionale attorno a cui ruota il suo scritto, perché è ben plausibile che una riforma degli studi teologici sia possibile anche senza andare ad affrontare il problema abissale del rapporto della teologia con gli altri saperi e, dunque, di cosa possa significare uno studio «scientifico» della teologia. Il mio dubbio è: un laico che volesse studiare teologia non farebbe meglio a rivolgersi alla facoltà di filosofia? Una «teologia per laici» è davvero una bella cosa ma è possibile? Non mi è totalmente chiaro in che cosa possa consistere e fino a che punto sia lecito parlare della finalità scientifica di una disciplina così particolare come la teologia (è forse un caso che qui il termine «disciplina» assuma una risonanza diversa, o almeno più ampia, di quanto non faccia quando si parla di filosofia, matematica etc.?). Insomma, qual è lo «statuto scientifico» della teologia? La prego di non considerare questa domanda ironica o provocatoria. Io sono perfettamente convinto che la teologia abbia uno statuto scientifico, esattamente come la filosofia. (Il problema è semmai che mi riesce difficile separare le due cose e -- da non credente -- tendo piuttosto a confonderle e a vedere in quell'«esattamente» ben più di un'analogia... insomma, il mio concetto di teologia è ancora più «aperto» del suo e forse rischia di sfaldarsi!)

Lei non approfondisce questo problema nel suo Manifesto (come è giusto dato il tono generale, l'argomento specifico, lo spazio e la forma dell'esposizione); ma esso rimane sullo sfondo e genera -- mi sembra -- delle ambiguità. Nel suo scritto mi sembra che la questione della via scientifica alla teologia sia legata alla proposta di un vigoroso «ritorno ai testi». In tal modo, tuttavia, l'approccio scientifico alla teologia resta sospeso tra il «filologico» e il «filosofico» (con una forte propensione per quest'ultima...). In entrambi i casi la teologia non avrebbe uno statuto scientifico in sé, ma solo in senso traslato. Eppure, lei non opera semplicemente ed esplicitamente questa riduzione forse perché ha ben presente quel «di più» che caratterizza la teologia (vogliamo chiamarlo volgarmente e approssimativamente «giustificazione della fede»?) e che non sembra essere cancellabile dal suo concetto e, dunque, nemmeno dalla sua pratica. Sto facendo delle ipotesi su un testo breve e lacunoso [...] ma ho il sospetto che sia il pericolo di una «filologizzazione» o «filosofizzazione» della teologia a suggerirle [...] di sottolineare il ruolo ancillare della filosofia nel curriculum di studi teologici. [...].

L'ipotesi di un biennio filosofico «puro» non è più rispettosa della tensione sempre presente nella teologia (e costitutiva anche per la comprensione della sua storia) tra fede e ragione? Capisco che questa purezza è illusoria: sia dal punto di vista soggettivo del coinvolgimento -- mi passi il termine -- «ideologico» degli insegnanti, sia da quello oggettivo della difficoltà di rinvenire un paradigma universalmente vincolante per la pratica filosofica... Però una filosofia inglobata dalla teologia non rischia di snaturarsi in modo diverso ma non peggiore di quanto accade oggi nei manuali? [...]

Il secondo suggerisce come una teologia per «non credenti» risponda alla stessa esigenza di uno studio critico e problematico per i cristiani:

Per quanto riguarda il tuo articolo, mi trovi d'accordo su tutti i punti. Il problema è che dal di dentro, cioè negli Istituti di Scienze Religiose, questo discorso di insegnamento ai laici (intesi come coloro che non hanno la fede) non credo possa mai venire accettato. Infatti si comincia ogni lezione ed esame recitando le preghiere. A nessuno di loro passa minimamente in mente che possa esserci qualche allievo non credente. Non è concepibile. Si sostiene infatti che solo dal presupposto della fede si possa insegnare e comprendere queste discipline. La soluzione del problema sarebbe possibile se anche in Italia, come in Germania e in Francia, l'insegnamento della teologia fosse statale. Questo per ora io non lo credo possibile, anche se molto auspicabile, in un'Italia così cattolica.

La mia è una fede raggiunta dopo molti anni di riflessione e anche periodi di ateismo, quindi comprendo l'istanza di un laico non credente che vuole trattare del problema di Dio. La mia non è una fede ingenua, però.

I miei compagni sono molto diversi da me. A volte stento a credere di non poter fare un discorso che almeno tenti di giustificare i presupposti di fede. Non c'è in loro la minima traccia di dubbio, di presa di distanza. Addirittura paiono scandalizzati quando qualche docente sacerdote, seppur con molte cautele, cerca di porre il problema filosofico della giustificazione di certe premesse quasi mai tematizzate nella tradizione.

Un intervento affronta anzitutto il problema dal punto di vista istituzionale, osservando che il normale curriculum teologico in vigore negli Stati Uniti (in termini italiani potrebbe essere tradotto: laurea in discipline umanistiche, master in teologia, dottorato di ricerca in teologia) permette ad un numero molto maggiore di laici di studiare teologia:

First of all, I greatly appreciate the Manifesto you prepared for theological studies. I believe your concerns and suggestions are critical for the future of theological studies and the Church's mission of evangelization.

As for your suggestions regarding a Masters in the History of Theology, I think it is a great idea. I would further suggest that there be an added possiblity of entering directly into a doctoral program of studies in theology at the successful completion of the Masters. As a lay student I have that found the degrees of STB, STL, and STD, at least in my own country, are not widely understood in universities including those which are non-pontifical Catholic universities. In the U.S. the widely recognized terminal degree of studies for university professors of theology is a Ph.D. in theology, which is usually preceded by a Masters in theology. The Masters program in theology is available to students who have completed a four year undergraduate or bachelor degree in various disciplines including, but not always limited to, the humanities. This undergraduate degree is the standard degree program one enters after obtaining a high school diploma. Because of this combined program of Masters and Ph.D., I have found that in the U.S. there are many more lay students studying for a doctorate in theology than in Italy. This combined program would involve less classes and more research and writing, which is a good preparation for the final thesis and dissertation.

As for the multiplicaton of courses you mention in pontifical universities, I have found them to be an impediment to serious research and contemplation of the material. When a student spends most of his days in classes at the university there is very little time available for him to delve deeper. I strongly agree with your remark about how this impedes grasping of the great unitary theological lines.

As for the history of theology being a criterion of unity, I think this is a good idea. Even if there is not a particular degree program like the Masters which would be dedicated specifically to it, it would be quite helpful if each professor presented some background of his subject to the students, fitting it within the broader historical context, so that the student could better grasp the theological and philosophical foundations and developments and controversies revolving around it. [...]

Ritorno alle fonti

Lo stesso intervento precedente prosegue addentrandosi in un altro dei punti centrali del Manifesto: la lettura dei classici. La questione viene affrontata anzitutto sulla base di una riflessione sulla natura dell'insegnamento accademico:

As for teaching method, may I suggest that there be less straight reading from the professor's dispense and notes during the lesson. While his text would be in most cases worth publishing and is certainly an aid to the students in preparing for the exam and grasping an overall synthesis of the course, it loses the student's interest when read during the lesson. For in my opinion, a lesson needs to be an engagement with the material and the person presenting it. Indeed knowledge should be understood as a relationship with another/Another. [...] This relationship needs to be lived within the classroom or else we should simply hand out the dispense in lieu of the lessons and meet for the exam. Teaching is so much more than offering information. It is an education for life. This is not to say that the lesson should be one of a seminar type wherein the students do all the presenting. In my opinion there truly is a hierarchical structure in the classroom. It is the professor who has spent many more years than the student researching and pondering the issue who should present the material, given his experience and maturity in the field, while remaining open to student questions, comments and discussion.

One suggestion would be for the professor to prepare a compendium or a realistic list of reading material. Certainly a student cannot read in one semester all the books on an intricate book list which may serve as the bilbliography for a comprehensive course. However, the professor could draw excerpts, chapters, and essays from those works which happen to be key to the course and make them mandatory course reading. The student could be provided a syllabus of the pages to read that will be discussed each class, so that he can come to class having already read and pondered the material which the professor will present that day. Then the professor can draw from such material, presenting his own understanding and deepening of it. I have experienced this in classes and have found it to be a good way of conducting a lesson. Thus the lesson engages the students, as well as the professor. This mode of teaching would take care of the problem of the students not reading the classics. The compendiums or book lists would include reading the articles, chapters or even entire books of the great theologians. To simply read a dispense where the student is told what Augustine says on this matter does not suffice in grasping Augustine. While it is certainly a didactical aid to the student in grasping a certain synthesis of authors and themes, it is not a true engagement with the original authors.

[...] Much of your concerns correspond to the difficulties I have experienced with regard to my own theological education. [...]

Un'altra voce testimonia quanto possa essere entusiasmante e formativo uno studio basato sui classici della teologia:

Leggendo il suo articolo la prima volta, soprattutto la sua prima proposta per la riforma dell'insegnamento di teologia -- quella di studiare di più i classici -- mi ha fatto subito venire in mente il motto dell'Istituto ***: «Sicut cervus ad fontes...». Il prof. *** è innamorato dei Padri della Chiesa e dei Dottori della Chiesa, e questo amore per i maestri lo trasmette anche nei corsi proposti. Infatti è studiando lì che ho scoperto veramente la bellezza e il grande tesoro di Tommaso, Agostino, Atanasio, Basilio...

Ci era di grande aiuto anche il metodo di insegnamento, perché il testo che leggevamo a casa (e avevamo il tempo per farlo) era discusso nei seminari guidati dal professore (non avevamo corsi, ma solo seminari). In questo modo, il testo diventava rilevante ancora di più, perché era arricchito dal contributo di ciascuno, ed eravamo moltissimi «cervi» da tutto il mondo che studiavamo lì.

Così c'era una conoscenza del testo nella profondità, ma anche del coraggio, perché, come lei suggerisce, il contesto storico porta una vera luce per poter apprezzare tutte le sfumature. Credo che sia difficile, ma molto prezioso tenere questi due aspetti sempre insieme. [...]

Speriamo che la discussione su questo rinnovamento porti frutti veri e buoni.

La storia e il presente della teologia

Riguardo ad un'impostazione storica nello studio della teologia, c'è chi ha fatto notare che ciò suppone anzitutto l'ammissione della pluralità delle forme possibili di teologia:

Condivido quasi completamente le tue considerazioni riguardo il problema degli studi teologici e quello della storia della teologia nell'ambito delle Università Pontificie.

Credo, a titolo del tutto personale, che le difficoltà, oltre a quelle che hai messo in luce, siano anche di carattere «teologico» o «ideologico». In altre parole: l'insegnamento di una storia della teologia mi sembra implichi alcune cose fondamentali: una determinazione del concetto di teologia (cosa è teologia e di quale teologia si concepisce la storia?), una determinazione del concetto di storia (evoluzione, prosecuzione, racconto, ripetizione, ricerca?) ed infine il presupposto implicito che la teologia sia storica, cioè connessa attivamente e passivamente in modo determinante con le varie epoche storiche nelle quali si è sviluppata, cosa che comporta necessariamente anche una pluralità di teologie che corrisponda alla pluralità della storia e delle storie relative alle varie situazioni. Il punto più delicato mi sembra quest'ultimo: se la teologia ha una storia, in primo luogo essa è mutabile in sé stessa, soggetta ad una metamorfosi, e se è mutabile non è assoluta; in secondo luogo la storicità della teologia comporta la pluralità delle teologie, una pluralità che storicamente non può essere gerarchizzata né ricondotta ad unità.

Questi sono i motivi per i quali io sono personalmente assolutamente favorevole a tale insegnamento, sia nelle Università statali sia in quelle pontificie (dove certamente, come scrivi, non andrebbe collocato alla fine come specializzazione, ma dovrebbe far parte della forma mentis dell'intero ciclo di studi), ma ho l'impressione che parimenti questi siano i motivi per i quali esso non desti entusiasmo, né da una parte né dall'altra. Insegnare la metamorfosi e pluralità sincronica e diacronica della teologia mi sembra assolutamente necessario, ma l'attuale temperie non mi sembra molto incoraggiante.

Altri ha invece sottolineato la necessità di non separare uno studio storico dall'impegno della comprensione del presente:

Ho letto con grande interesse il tuo Manifesto. Senza augurargli la fama delle tesi di Lutero, credo sinceramente nell'importanza di un rinnovamento dello studio della teologia, a diversi livelli. [...]

Mi piacerebbe pensare però anche allo sforzo di una ricerca che non si concentri soltanto sulla storia, ma che tenti di afferrare il presente. Penso alle università medievali, alle lezioni e ai commentari: Sacra Scrittura e autorevoli interpretazioni lette per dare risposte magistrali alle questioni del loro tempo. Ho in mente l'esperienza degli autori ebraici (un filosofo come Levinas o un romanziere come Potok, per citare qualcuno) che scrivono attigendo a piene mani al patrimonio della loro tradizione religiosa. Tra i cristiani è divenuto sempre più difficile, quasi vergognoso, realizzare un'opera che tragga direttamente linfa dal patrimonium fidei. Tenendo fermo l'insegnamento storico-critico e della secolarizzazione e demitologizzazione, possiamo forse tornare a mettere insieme Scrittura e tradizione con uno sguardo nuovo e più libero.

A *** è stato tentato un corso di specializzazione in teologia per laureati in discipline umanistiche con miserevoli risultati! Credo che il problema sia di tipo organizzativo e nominale: occorre ri-dire con altri nomi ciò che vogliamo pensare in maniera corrispondente allo spirito del nostro tempo. I filosofi e i teologi potrebbero aiutarsi proprio in questo. Dovremmo lavorare a stringere sempre più relazioni interpersonali e collaborative, per stimolare la creazioni di soluzioni nuove anche a livello strutturale, amministrativo, burocratico.

E delle tante conclusioni che si possono trarre alla fine di queste opinioni e testimonianze così diverse, forse almeno questa è sicura: che solo incontrandosi e lavorando assieme con passione qualcosa di nuovo può nascere.

Sed contra (26 maggio 2004)

Due giorni dopo la pubblicazione di questa pagina di commenti, ne è giunto uno ulteriore di franca critica da parte di un professore di Teologia:

Trovo semplicemente banale e semplicistico il Manifesto, soprattutto per i giudizi che vi si esprimono, che denotano una conoscenza superficiale e pregiudiziale della realtà: la questione della formazione teologica sia dei religiosi e futuri presbiteri che dei laici è molto più complessa di quanto non lasci intravedere il Manifesto. Inoltre, la sacrosanta attenzione alla storia (della teologia) e ai classici non è la «teologia», il cui deficit odierno è facilmente individuabile nel deserto speculativo (non storico o pratico) in cui a fatica sopravvive. Infine la soluzione proposta è inadeguata: l'ormai dilagante tendenza (a mio parere del tutto negativa) di proporre un master per ogni questione emergente è tutta accademica e ha scarsa pertinenza rispetto alla realtà e ai vissuti che tali problematiche sottendono. In ogni caso è bene che ognuno faccia il proprio mestiere (filosofi e teologi: unicuique suum).

Pressoché contemporaneamente è avvenuta però anche un'altra cosa: che la proposta finale del Manifesto (che, se giova ricordarlo, non si presentava affatto come la soluzione ad alcunché, ma come un modo per sperimentare strade diverse senza interferire con i curricula teologici istituzionali) è stata raccolta dal Pontificio Ateneo S. Anselmo, che ha voluto con convinzione collaborare con l'Università di Roma Tor Vergata per l'istituzione di un Master in Storia del pensiero teologico.

Quando nel luglio del 2002 la stesura originaria del Manifesto vedeva la luce, certamente questo esito era inimmaginabile. Forse verrà un giorno in cui sarà il caso di raccontare l'intera piccola storia (che non è storia accademica, ma storia di una passione, cominciata per lo scrivente venti anni fa). Ma non è mai troppo presto per dire pubblicamente un grazie a tutti coloro che con le loro idee, le loro critiche, la loro collaborazione e i loro incoraggiamenti (autorevolissimi e non) hanno reso e renderanno possibile questo esperimento. Almeno un ringraziamento collettivo sia però esplicito, agli studenti: a quelli durante cinque anni incontrati al Master in Scienze del matrimonio e della famiglia, voluto e sostenuto dalla CEI e svolto presso l'Istituto Giovanni Paolo II (Università Lateranense); e a quelli da due anni conosciuti presso il corso di Storia del pensiero teologico presso l'Università di Roma Tor Vergata.