Salta il menù

Invia | Commenta

Manifesto per lo studio della teologia

(1º settembre 2003)

Questo editoriale, come ogni «manifesto» che si rispetti, usa un linguaggio povero di sfumature. Esso intende sollecitare una discussione sull'insegnamento della teologia in Italia, in una prospettiva anzitutto culturale, ma che investe anche il problema dell'autocoscienza della Chiesa. Una bozza di questo testo è stata scritta nel luglio del 2002: nella forma attuale riflette anche i commenti di coloro che lo hanno letto nella prima stesura.

Frammentazione e ipertrofia dei corsi teologici

Ormai otto anni fa, dalle pagine della Rassegna di Teologia, Severino Dianich lanciò un veemente appello in favore di una completa ristrutturazione degli studi accademici teologici.1 Secondo Dianich, il desiderio di inseguire una chimerica completezza della preparazione teologica aveva condotto ad una incontrollata moltiplicazione dei corsi, che otterrebbe però come unici effetti

Benché la recente riforma degli studi universitari italiani abbia creato le condizioni per rendere il paragone con il sistema italiano un po' meno sfavorevole (i tempi della laurea «specialistica» si sono allungati di un anno, il sistema dei «crediti formativi universitari» offre l'estro per analoghe frammentazioni), la totalità delle osservazioni di Dianich rimane completamente condivisibile. Per altro, questa è anche la conclusione che si può trarre dalla lettura delle discussioni che ne seguirono (oggi raccolte in un paio di volumi), dove nessuno mise in dubbio la fondatezza delle critiche.2

Una teologia per tutti

Almeno un ulteriore elemento critico, che dalle pagine di Dianich emergeva solo in controluce, merita però di essere evidenziato: l'attuale ordinamento degli studi teologici li rende praticamente improponibili per studenti laici e tanto più per studenti non cristiani. Il lecito desiderio di molti viene di fatto vanificato non solo e non tanto da frustranti prospettive di lavoro (il più delle volte un insegnamento della «religione» degenerante in «attualità varia»), ma ancor prima da un ordinamento che viene percepito come interminabile ed esasperante. Se i candidati al sacerdozio vivono spesso gli studi accademici come un esoso pedaggio per esercitare il proprio servizio, tutti gli altri difficilmente possono trovare moventi sufficienti per sceglierli e perseverarvi. I vari tipi di «corsi per laici» (soprattutto Diploma e Magistero in Scienze religiose) non risolvono la situazione, ma la evidenziano solo, presentando il volto ambiguo, forse un poco offensivo, di corsi di serie B. I laici sono forse meno intelligenti o preparati dei candidati al sacerdozio?

Ore di lezione e studio personale

Oltre al tempo necessario per ottenere i gradi accademici di teologia, ciò che attira l'attenzione è la proporzione implicitamente stabilita tra ore di lezione e studio personale. Tale rapporto è molto maggiore negli studi teologici rispetto a tutti gli altri in Italia: mentre un anno di studio teologico «a tempo pieno» può superare le 500 ore di lezione, uno di studio italiano ne richiede circa 360. La differenza viene ancor più approfondita dal fatto che nel primo caso spesso

Ciò significa che esami in cui sia necessario studiare qualcosa in più rispetto a quanto si è ascoltato a lezione sono l'eccezione e non la norma. Il proliferare di dispense o sbobinature ufficiali (nelle copisterie delle Università) e clandestine (nelle copisterie contigue alle Università), la cui lettura riesce spesso a simulare bene un'assidua frequenza, dimostra quale sia lo stile indecoroso di studio spesso risultante, anche in studenti di per sé interessati e volenterosi. Questo squilibrio a favore delle ore di lezione impedisce poi di fare ciò che nel sistema universitario italiano è frequente: affidare allo studio personale l'inquadramento generale della disciplina, e riservare alle lezioni un approfondimento creativo di parti specifiche.

È scandaloso che non si leggano i classici

Resa possibile dall'espansione del tempo da dedicare allo studio personale, ma motivata da ragioni più sostanziali e profonde, dovrebbe essere una più radicale riforma in favore della lettura di testi classici della teologia. È difficile definire meno che scandaloso il fatto che si possa giungere ad una licenza in teologia senza mai aver letto neppure qualche pagina intera di un qualsiasi grande teologo: Tommaso o Barth, Agostino o von Balthasar, Cabasilas o Bulgakov. In genere neppure la lettura integrale del Nuovo Testamento viene richiesta. Certamente anche il laureato in filosofia italiano può giungere al termine del suo curriculum senza mai aver letto una pagina per esempio di Kant, ma se non questo classico, almeno un altro avrà pur dovuto leggere; non così, perlomeno nella maggior parte dei casi, per il licenziato in teologia. La lettura dei programmi ufficiali, dove il più delle volte il «testo» è costituito dal manuale (o dalle dispense), conferma tristemente questa situazione.3 Certo, una teologia ridotta ad ermeneutica dei testi classici può degenerare nell'archeologia intellettuale. Ma per ridimensionare questo timore basta osservare i risultati tutt'altro che spregevoli della prassi universitaria medievale, basata su nient'altro che la lettura commentata (la Bibbia e il Liber sententiarum, che a sua volta era nelle sue intenzioni un florilegio di classici) e la vivace discussione dei problemi che da tale lettura nascevano. E pure ammettendo che la lettura sia solo «filologica»: un corso di teologia trinitaria in cui l'unico testo di esame fosse il De Trinitate di Agostino, sarebbe intellettualmente meno formativo e «completo» di uno in cui si porta un qualsiasi «manuale»?

Altri vantaggi della lettura dei classici

Ci sono due ulteriori vantaggi della lettura dei testi classici. Il primo consiste nella disponibilità di essi (almeno in alcuni casi) nelle principali lingue: in questo modo sarebbero attenuate le disparità che porta con sé il carattere internazionale frequente negli studi teologici, fermo restando che la lettura nella lingua originale è un obiettivo cui non bisognerebbe rinunciare facilmente (è troppo sperare che almeno una vera conoscenza del latino venga rigorosamente richiesta a tutti, magari a spese di simbolici corsini di greco ed ebraico?). Il secondo risiede nello spirito critico che la lettura dei testi classici incoraggia, di diritto e di fatto: di diritto, perché ogni interpretazione significa contemporaneamente discussione, confronto con i limiti, tentativo di sviluppo; di fatto, perché sul testo di un terzo, fosse pure la più grande autorità, uno studente è certo più sereno nell'avanzare critiche, piuttosto che sulle dispense di turno.

Il catechismo non è una soluzione

Molti guai dell'attuale ordinamento erano fatti risalire da Severino Dianich al miraggio della «completezza». Per rispondere diversamente a tale esigenza (o più esattamente per sbarazzarsene), egli proponeva di far esordire gli studi con un corso unitario sul «catechismo» cristiano (intendendo con ciò una esposizione culturalmente dignitosa dei contenuti fondamentali della religione cristiana). Tra le tante perplessità che tale proposta suscita, la più importante è questa: l'unitarietà che un tale corso potrebbe conferire agli studi teologici non sarebbe affatto di ordine diverso da quella che si ricerca nella teologia. Certo ogni catechismo è (in qualche misura) unitario, ma tale unitarietà è desunta non dalla fede in sé, ma dalla riflessione su di essa, cioè proprio dalla teologia. Il rischio è quindi di veicolare una delle tante «unificazioni» teologiche spacciandola surrettiziamente come una unità «kerygmatica». Viene poi sinceramente da chiedersi se tale proposta alquanto minimalista non implichi un inquietante sottinteso sull'inefficacia della formazione cristiana pre-universitaria.

La Storia della teologia come filo rosso

C'è invece un'altra strada per affrontare il problema dell'unità degli studi teologici: la Storia della teologia. Desta meraviglia che gli insegnamenti di tale disciplina, che nell'Università italiana rappresenta una delle pochissime forme possibili di studi teologici, siano rarissimi nelle Facoltà pontificie (se si eccettua il campo della Patristica).4 Ciò si riflette anche nella scarsezza e nel carattere ancora incerto dei relativi manuali e nella inesistenza di antologie globali, che in tale insegnamento sarebbero indispensabili. Tale mancanza salta ancora più all'occhio quando si confronta con la costante presenza di corsi di storia della filosofia: solo della filosofia è importante conoscere la storia? Al contrario, la conoscenza della storia di ogni disciplina, in dialogo con la storia sociale soggiacente, è il modo più evidente per comprenderne i problemi e l'interazione con i diversi campi della cultura, per distinguere tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è, e in ultima analisi per fornire dei criteri di unificazione. Mutatis mutandis, questa è la proposta che già modestamente formulava Agostino: «Bisogna cominciare una narrazione dal momento in cui Dio fece tutte le cose molto buone, e va condotta fino ai tempi presenti della Chiesa, in modo che dei singoli episodi e fatti che narriamo si evidenzino le cause e i criteri con cui riferirli a quel fine che è l'amore».5

Il luogo teologico dello studio della filosofia

Anche in un'altra direzione la Storia della teologia potrebbe contribuire a razionalizzare il curriculum teologico. Se oggi esso conta sostanzialmente due anni in più rispetto ad analoghi corsi di laurea, il motivo primo risiede nella premessa di un biennio filosofico (eventualmente integrato e ridotto sotto la formula del «quinquennio filosofico-teologico»). Le giustificazioni teoriche non mancano, ma in concreto la fine di un paradigma teologico universalmente accettato (quello neoscolastico) le ha largamente vanificate, producendo uno scollamento evidentissimo. C'è da chiedersi insomma a chi e a che cosa giovi la tutt'altro che infrequente tela di Penelope di un corso, per esempio, di Teologia razionale in cui si dimostra l'esistenza di Dio, seguito ad un anno di distanza da uno di Trinitaria in cui si argomenta con calore contro il Dieu des philosophes. Tutto ciò suggerisce che lo studio della filosofia dovrebbe costituire essenzialmente parte dello studio della Storia della teologia, perché è in quel contesto che può essere valutato come essa è stata ed è interessante per la riflessione sulla fede cristiana. Il Platone della tradizione cristiana occidentale è il Platone recepito da Agostino, ed è lì che andrebbe studiato. In questo modo risulta anche eliminato il problema di quale paradigma filosofico privilegiare. Ciò ovviamente non significa suggerire che l'alleanza tra filosofia e teologia sia solo di importanza storica, ma che è solo a partire da una conoscenza storica che tale alleanza può essere compresa ed eventualmente riproposta.

Un'impostazione storica e scientifica per tutte le discipline

La stessa impostazione storica sembra in realtà poter essere estesa con frutto anche alla maggior parte delle altre discipline. Non è per esempio difficile immaginare un corso di Storia della liturgia (o meglio di Storia della liturgia e dell'arte cristiana?) in cui la parte «sistematica» risulti ritradotta nell'ultimo capitolo relativo all'età contemporanea. Si tratterebbe in questo modo di una sistematicità confrontata con la storia ed edotta delle sue fonti, e quindi criticamente attenta e rigorosa. Questa è del resto l'esigenza di uno studio accademico.

Una proposta fattibile: un Master in Storia della teologia

Una discussione più dettagliata è resa inutile dalla mancanza di prospettive praticabili: tra la riforma dei curricula teologici delle Università Pontificie e la creazione di un corso di laurea in Teologia nelle Università italiane, è difficile decidere che cosa sia oggi più utopico.6 Lo stesso dibattito suscitato da Dianich ha condotto, dopo tanti anni, a pochissimi esiti.7 Dalla riflessione qui fatta, però, è possibile estrarre e adattare almeno una proposta finale: la creazione di un serio corso di teologia biennale, configurato come Master in Storia della teologia, accessibile almeno ai laureati in materie umanistiche. La fisionomia del Master sembra offrire diversi vantaggi:

Poscritto maggio 2004

La proposta finale è stata raccolta dal Pontificio Ateneo S. Anselmo, che ha voluto con convinzione collaborare con l'Università di Roma Tor Vergata per l'istituzione di un Master in Storia del pensiero teologico.

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

Potete leggere i commenti dei lettori finora pubblicati: la situazione attuale dell'insegnamento della teologia, i problemi di una «teologia per tutti», il ritorno alle fonti, il rapporto tra storia della teologia e comprensione del presente.

Per confrontare e approfondire

Note

  1. Severino Dianich, «La frammentazione della teologia», Rassegna di Teologia, anno 36 (1995), n. 1, pp. 71-73. Testo

  2. Giuseppe Lorizio, Saturnino Muratore (curatori), La frammentazione del sapere teologico, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1988; Associazione Teologica Italiana, Lo studio della teologia nella formazione ecclesiale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001. Testo

  3. I programmi di studio possono essere talvolta consultati integralmente nei siti delle Università: ad esempio Pontificia Università Gregoriana, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Pontificio Ateneo Antonianum. Testo

  4. L'eccezione più notevole è oggi costituita dalla specializzazione in Storia della Teologia presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo. Ma il fatto che la storia della teologia venga qui introdotta partendo da zero dopo il curriculum istituzionale, dopo cioè ben cinque anni di studio, denuncia un'anomalia molto di più di quanto vi possa rimediare. Testo

  5. De cathechizandis rudibus, 6.10. Testo

  6. Un discorso a parte meriterebbe almeno l'Istituto Superiore di Scienze Religiose Italo Mancini di Urbino. In ogni caso esso costituisce un felice unicum nel panorama accademico italiano, né può bastare esso a mutare le sorti di titoli accademici «minori» a torto o a ragione sottostimati. Testo

  7. Tra essi c'è da citare il nuovo piano di studi della Sezione San Luigi della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale. La novità tuttavia, rimanendo nel quadro della consueta articolazione degli studi teologici, sembra limitarsi ad un accorpamento di nuclei tematici distinti: utile, ma purtroppo ininfluente sui reali problemi. Testo