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Il Römerbrief e le sue interpretazioni:
due punti di vista sull'etica

di Nicoletta Domma (9 maggio 2010)

1. Un'etica paradossale

Il tema dell'etica gioca un ruolo non secondario nella seconda edizione dell'Epistola ai Romani (1922) di Karl Barth. Dinanzi alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare?» la risposta è precisa: lasciarsi attraversare dalla crisi in cui Dio ci pone, assumere il suo «No», divenire nulla, rimettere in discussione tutto, accettare l'unico e solo comando divino: ascolta e lasciati trafiggere dalla crisi più profonda, smetti di possedere, di determinare, di rispondere. L'etica in Karl Barth è assoluta

nel fatto che consiste essenzialmente soltanto in domande a cui soltanto Dio può dare risposte, la etica umana può soltanto fare una dimostrazione, soltanto significare, soltanto sacrificare, e che neppure in questo «soltanto» vi può essere riposo, perché anche questo «soltanto» ci ricorda Dio, per opera del quale la domanda: «Che cosa dobbiamo fare?» ci è posta con inesorabile serietà.1

La crisi in cui Dio pone l'umanità, se questa la accetta, è «la più salutare delle crisi»,2 indicazione chiara dei limiti dell'uomo e dunque spinta fortissima che può consentirgli di intravedere l'ombra del «Sì» divino, della sua futura destinazione. La visione piena della positività dell'uomo in Dio non può avvenire nel presente, poiché «non esistono azioni morali che possano liberarsi dalla forma di questo mondo, ma le azioni umane possono assumere lo status di segno, parabole o dimostrazioni dell'azione di Dio».3

L'etica cristiana dunque spinge l'uomo ad entrare in crisi e risponde ad essa gridandogli che una risposta esiste. Il problema dell'etica può significare soltanto questo, ovvero il fatto che pensare a Dio suscita una fortissima «perturbazione» e che soltanto con questa perturbazione e attraverso essa ogni discorso dell'uomo intorno a Dio deve iniziare e concludersi. Non c'è risposta razionalmente raggiungibile dall'uomo che vuole agire, ma solo questa esortazione che gli indica che una risposta esiste. L'oggetto dell'etica cristiana non è un dato tra gli altri, non è una «cosa» su cui l'uomo può fondare oggettivamente il proprio discorso. L'emergere dell'etica conferma così tutto il discorso di Barth su Dio, il fatto cioè che ogni umano tentativo di relazionarsi con lui deve accettare una costitutiva asimmetria.4 È in questo senso che Dio echeggia nelle azioni concrete dell'uomo. Questo risuonare nell'umanità sta precisamente nel fatto che «ciò che troviamo nella nostra mano è solo il marchio del luogo in cui Dio è stato, o un'indicazione di un altro posto in cui Dio è stato, o un'indicazione di un altro posto in cui Dio può essere trovato».5 Il mondo stesso porta il marchio della crisi; Barth utilizza spesso immagini che descrivono questo stato, che altro non è se non l'azione di Dio sul mondo, azione che l'uomo è chiamato ad assumere come indicatore primario delle sue proprie azioni, senza tuttavia poterle possedere né adempiere se non in conformità alla legge del mondo caduco.6

Per l'uomo il modo migliore di rispondere alla crisi è assumere su di sé il momento dialettico della negazione di tutte le sue certezze come «grande possibilità negativa» che apre la strada alla «grande possibilità positiva»:7 l'amore, l'unico grande imperativo categorico imposto dalla crisi. Tuttavia, inizialmente l'azione dell'uomo nell'amore sembra scomparire nell'attività di Dio sull'uomo. L'amore dell'uomo nei confronti di Dio è libertà di Dio sull'individuo, chiamato gratuitamente da Dio ad esistere per lui, a testimoniare suo Figlio. Nessun tentativo di imitazione prettamente umana di Cristo fa sì che si possa diventare suoi fratelli.8 Ciò è invece reso possibile solo dall'abbandono di ciascuno al soffio dello Spirito Santo, che sospinge in alto nello splendore dell'azione etica; ma solo «a Dio appartiene il fuoco che accende questa luce, e la luce di quel fuoco è Dio».9 Quando la sofferenza dell'uomo in crisi non è soltanto sofferenza, ma anche spiraglio di gioia eterna, quando il mondo nella forma ineliminabile del peccato non è solo cielo grigio, ma anche momento che precede il sereno, quando Cristo non è solo attimo storico, ma nella risurrezione anche e soprattutto negazione della caducità, allora non è l'uomo ad agire, ma Dio, che attraverso la sua parola diviene «l'occhio che vede e il sole che è veduto; allora Egli ha deciso e non l'uomo»;10 dunque il cristiano è vivo in quanto testimone, Paolo è «un messaggero vincolato al suo incarico [...], ministro del suo Re» che «non può prendere coscienza della sua vocazione di apostolo come di un momento del suo sviluppo biografico».11 Qui è evidente che l'amore verso Dio non si offre all'uomo come una tra le tante possibilità per la sua condotta; esso è piuttosto la negazione del controllo dell'uomo sulle sue chances di riuscita, è ancora una volta riconoscimento della dipendenza da Dio che, attraverso una nuova prova, pone l'umanità di fronte al mistero della predestinazione.

Sembrerebbe quindi che un'etica positiva possa essere soltanto realizzata attraverso una volontà che fa di tutto per negare la forma di questo mondo, con cui necessariamente si trova a fare i conti. Tuttavia è evidente che agli individui, anche nelle loro azioni migliori, è preclusa la possibilità di realizzare fino in fondo il volere di Dio. Come può infatti l'uomo negare il tempo, la morte, il prima e il poi, l'affermare e il negare, insomma la costitutiva dualità della propria natura? Sottomettersi ai comandamenti divini12 allora sembra consistere piuttosto nella buona volontà di sapersi incompleti, contaminati da una legge che non rappresenterà mai né la nostra salvezza, né il nostro fondamento, né la possibilità di scoprirsi l'un l'altro sofferenti dello stesso tormento, attraversati dalla stessa crisi; è questa una crisi che è salutare se accettata con umiltà, ma penosamente infruttuosa e perenne se riempita di contenuto e soluzioni umane. Afferma infatti puntualmente Barth:

noi non conosciamo una volontà e un'azione dell'uomo che sia assolutamente etica in senso positivo, che cada effettivamente fuori dello schema dell'eros, che protesti effettivamente. Ma noi conosciamo una condotta relativamente etica in senso positivo, che sebbene appartenga alle possibilità dell'uomo nell'al-di-qua e porti in sé la «figura di questo mondo» come tutte le altre possibilità, possiede intrinsecamente, in virtù della incancellabile disposizione del cosmos, che anche nella sua forma attuale lo rende capace di un significato parabolico, una tendenza estranea all'eros, una tendenza alla protesta.13

2. Un'etica senza contenuti e senza responsabilità?

Ciò significa che l'azione dell'uomo è soltanto la realizzazione di un comando vuoto e astratto, che non indica abbastanza, lasciando l'uomo disorientato, solo negato da una trascendenza che lo sovrasta, lo soffoca, ma mai lo riconferma? oppure nell'etica barthiana, nonostante la sua paradossalità, l'azione umana può essere determinata da un contenuto specifico? La critica qui si divide. Parte di essa vede in questa possibilità etica della negazione una grave mancanza di considerazione per la responsabilità morale; altri credono che questa battaglia dialettica sia solo una parte dell'etica cristiana di Barth e che, dietro ad essa, si celi l'indicazione verso azioni umane ben precise.

Iniziando dai primi, c'è chi afferma che questa dialettica significhi solo l'annullamento irrimediabile di tutto ciò che è umano: «come può l'affermazione dell'agire etico venire fuori dalla negazione di tutto ciò che è umano? Possono quell'affermazione e questa negazione coesistere?».14 Affrontando questo problema, Robert Willis ritiene che Barth renda chiaro che l'azione di Dio si imprime direttamente sul mondo, tanto da non lasciare spazio a nessuna sorta di azione umana.15 L'essere umano, il suo significato, il suo agire, sembrano completamente assorbiti dall'essere di Dio e persino dalla sua rivelazione.16 Secondo Willis nell'etica di Barth si verifica «la totale eliminazione del mondo, inclusa l'azione umana, tanto che si può parlare solo della realtà di Dio».17 Egli sostiene dunque che la dialettica tra il Sì e il No, tra l'affermazione e la negazione dell'uomo, non risulta ben equilibrata. Quand'è che il Sì vince sul No? quand'è che l'uomo può concedersi di essere piuttosto che rifondarsi nel non-essere? Si è indotti a rispondere «mai», perché è noto che l'ammonizione principale di Barth sia proprio a non cedere mai alla presunzione dell'essere, all'affermazione autonoma, e piuttosto a fare un passo indietro, a non voler sussistere con un valore a sé stante. Willis vede in questa dinamica soltanto l'impossibilità costante per l'uomo di compiere azioni etiche responsabili e significanti. Inoltre, dal suo punto di vista, Barth sembrerebbe sì avvalersi dell'intuizione di Kierkegaard concernente l'infinita differenza qualitativa tra il tempo e l'eternità, ma senza utilizzare di questi il metodo di esplorazione della soggettività umana in relazione a Dio. La soggettività umana, così come Barth ce la propone, si troverebbe soltanto rimandata alla trascendenza che la fonda, così da rendere problematica l'azione nel mondo. Come può la responsabilità umana non essere minata se tutto ciò che fa non deve appartenerle in nessun modo?

In questi termini sembra in effetti facile propendere verso un'interpretazione che, ponendo in secondo piano l'uomo nella sua importanza storica e contingente (religione compresa), elimina la sua capacità di compiere azioni significative, umanamente originate, facendo risultare la negazione fine a se stessa. Anche John Cullberg, d'accordo con Willis, ritiene che la soggettività umana in questa prospettiva non solo sia minata nella sua storicità, non solo sia vista e valutata esclusivamente in termini di crisi (dato che testimonia della condizione peccaminosa in cui si trova l'uomo), ma che con essa sia compromessa qualunque possibilità etica. Secondo Cullberg la domanda

«Che cosa devo fare» è scambiata per un'altra: [...] «Che cosa mi succederà?». Passando al tempo futuro ogni ethos è ucciso. La responsabilità umana in senso reale è completamente fuori questione. Dunque si potrebbe dire con ogni ragione che «l'etica» dell'Epistola ai Romani significa «l'attacco assoluto ad ogni etica».18

Cullberg ravvisa nell'atteggiamento di Barth, che pone in netta opposizione il tempo e l'eternità, un modo di catapultare l'esistenza etica umana in una posizione di assoluta impalpabilità.19 In questo contesto può ben comprendersi l'atteggiamento di Barth nei confronti della religione in quanto istituzione umana che pretende di garantire definitivamente una religione «fissata» nei suoi limiti, strumenti e coordinate, ma che tuttavia rappresenta il filtro indispensabile di ogni questione umana, appunto perché è proprio con la finitezza che si ha a che fare quando si tratta dell'uomo. Ciò introduce al paradosso dell'etica del Römerbrief, secondo cui proprio per tale ragione l'unica cosa che davvero può sperare di incidere sull'esistenza è un comando eteronomo,20 espresso dalla rivelazione, che esige dall'uomo e quindi non esenta lo dall'azione, ma insieme gli mostra violentemente i limiti delle sue coordinate, per risollevarlo rinnovato e ridimensionato nelle sue pretese. Da questo punto di vista il discorso sembra cadere in un circolo vizioso: «nel Römerbrief il guadagno di questa intuizione è messo in pericolo dal "sistema" dell'"infinita differenza qualitativa"; esso genera infatti il problema di come sia possibile collocarsi effettivamente dal punto di vista assoluto della rivelazione, una volta che questa è concepita come la radicale messa in discussione delle possibilità umane».21

L'uomo quindi dovrebbe semplicemente prendere coscienza di ciò che gli capita, che sembra delinearsi come assolutamente estraneo all'azione e alla volontà. Si scopre in un mondo che gli impedisce di agire per il bene e lo costringe ad affidarsi alla sua origine (dunque eteronoma). E di nuovo infatti, lì dove per esempio affronta il tema della grazia, Barth esprime con chiarezza che il piano umano e quello divino, il peccato e la grazia, non possono prescindere dalla tensione eterna in cui si trovano l'uno di fronte all'altro: il No deve sempre mutarsi in Sì e il Sì in No. La grazia diviene l'assalto all'uomo del peccato, all'uomo che agisce nella sua peculiare dualità. Il peccato viene misurato in termini di caduta dell'uomo da Dio, come «divinizzazione dell'umano o umanizzazione del divino».22 All'individuo sembra così preclusa la via che gli consente di riabilitarsi all'unica dignità che gli spetta, e cioè quella umana.

3. Un'etica per un uomo nuovo

Trarre queste conclusioni sulla base delle premesse perentorie della teologia di Barth non appare del tutto infondato: come si può chiedere ad un uomo di non agire da uomo? e se glielo si chiede, come può egli restare dignitosamente umano senza essere riassorbito in Dio? Questi e simili sembrano i dubbi a cui si perviene leggendo soltanto in chiave annientatrice tutto il commentario di Barth. Tuttavia, se il suo messaggio si riducesse esclusivamente a questa negazione, non si saprebbe come interpretare tutta l'enfasi con cui Barth parla dell'uomo come di colui al quale è offerta la possibilità di diventare nuovo, né si comprenderebbe come egli possa parlare in termini positivi della potenza di una grazia che strozza il peccato soffocando il mondo vecchio: «Uno strozzare pieno di grazia, dal quale il peccato è soffocato in voi, affinché rimaniate sotto la grazia», e la grazia è la «svolta verso l'uomo nuovo».23 La sua azione trasforma il regno del peccato in mondo redento, non più ordinato necessariamente al male. Non sono parole di piene di concretezza per un uomo che si prepara di nuovo ad agire? non è il mondo dell'uomo quello che sta per essere rinnovato? L'uomo «è libero dalla potenza del peccato, non è più determinato in essa»,24 è divenuto capace di non peccare in maniera necessaria. E questo non è forse ammettere che in Dio l'uomo si ritrova semplicemente «fortificato»? con una possibilità da accogliere del tutto nuova, che riguarda per esempio il lasciar mutare l'eros in agàpe, il volere in dovere?25 Negarsi in Dio e rifondarsi in Cristo non significa annullare o denigrare la propria umanità, ma piuttosto trovare «la rocca dalla quale usciamo fortificati nel mondo delle cose temporali»:26 ma appunto è di questo che si tratta, del mondo dell'uomo, di azioni umane vivificate dalla grazia. Ed è solo in questo mondo che all'uomo è chiesto di agire, per questo mondo, convertendolo alla luce.

Tutta questa dinamica appare solo negazione assoluta di ogni eticità quando si considera la dialettica barthiana da un unico punto di vista, quello che vede la dipendenza dell'uomo da Dio, senza considerare la brillante rifondazione che ne riceve la sua vita, potenziandone l'umana dignità. Clough, su questa linea, osserva che Barth enfatizza molto il potere della grazia in relazione al volere umano. L'obbedienza è «rivendicata dal punto di vista della grazia come l'unica possibilità [...]. La grazia è la chiamata, il comando, l'ordine, a cui non si può disobbedire».27 Ed è innanzitutto questo: Barth mai avrebbe attribuito all'uomo un'autonomia prettamente umana che lo rendesse capace, da solo, di agire per il bene, sempre e comunque. Il suo distacco dalla teologia liberale ne è una prova: non c'è più traccia dell'iniziale adesione a quella corrente e dell'influsso ottimistico di Schleiermacher che si configura in una visione positiva di quel rapporto soggettivo e interiore dell'uomo con Cristo che è la fede. In Sheleiermacher avere a che fare con Cristo per l'uomo riguarda

la promozione della sua vita «superiore», della sua progressiva ascesa dalla sensibilità alla spiritualità, da una coscienza offuscata di Dio a una più robusta, e pertanto di avvicinamento alla determinazione originaria dell'uomo, messa in questione dal peccato. [...] Cristo è in Schleiermacher decisamente più che una particolare precisazione, per quanto importantissimo dello stato del cristiano?

Per questo Barth si domanda se in lui «la figura di Cristo sia qualcos'altro che il punto di partenza storico [...] di quella unità di divinità e umanità, che dà luogo all'autocoscienza dell'uomo come tale».28 Ma afferrare quel sentimento non è più possibile per l'uomo, egli non è più autosufficiente. Barth lo ribadisce in continuazione, è esattamente ciò che più sconvolge dell'Epistola ai Romani, a buon diritto definita come «una bomba esplosa nel panorama teologico». Quest'opera è innanzitutto l'invito lacerante a non prescindere mai dal bisogno di Dio.

Tuttavia, come suggerisce Clough, esiste un modo diverso di trarre conclusioni da queste premesse. In particolare, Clough nota che la critica ignora dei passaggi fondamentali attraverso i quali è possibile comprendere che «l'azione dell'uomo non è soffocata da Dio qui, ma sta solo in una relazione indiretta con l'azione di Dio. Noi non siamo automi, ma viviamo in relazione a Dio come creature responsabili».29 Un passo cruciale pone in evidenza proprio questo aspetto del discorso: «tra la responsabilità umana e la libertà di Dio non c'è una relazione diretta ed osservabile, ma solo un'indiretta, inderivabile, relazione tra il tempo e l'eternità, tra la creatura e il Creatore».30 Da qui si comprende in modo inequivocabile che in Barth la libertà divina e la responsabilità umana possono coesistere. Clough è chiaro nel rilevare che questi vuole esprimere con forza che né la dipendenza dell'uomo da Dio, né la predestinazione, né la rappresentazione della dissoluzione delle nostre esistenze possono negare la realtà dell'azione umana. In altri termini, per decidere se nell'Epistola ai Romani vi sia lo spazio per un'azione responsabile non è sufficiente citare i passaggi in cui Barth decostruisce l'indipendenza del soggetto umano.

Ampliando la base su cui formulare un giudizio non si vuole in nessun modo negare o sminuire l'importanza dell'aspetto dialettico negativo. Questo è presente e determinante, ma interpretarlo solo come negazione fine a se stessa significa allontanarlo dal suo intento principale. Clough è assolutamente convinto del fatto che Barth utilizzi in maniera persistente un metodo così demolitore solo per disorientare il lettore, ritenendo che, viste le critiche, sia ben riuscito l'intento...31 Un simile turbamento è provocato affinché non rimanga nessun appiglio di sicurezza, neanche la propria soggettività; tuttavia, così facendo, Barth prepara il lettore all'introduzione dell'altra metà della dialettica, quella in cui la responsabilità umana non solo non è negata, ma piuttosto è pretesa.32

Per valutare correttamente il problema dell'etica occorre dunque, secondo Clough, guardare ad entrambi gli aspetti della dialettica, considerando anche quei passaggi dell'Epistola senza i quali la visione d'insieme risulterebbe poco fedele alle intenzioni dell'autore. Se si tralascia per esempio il passo in cui Barth esplicita i termini dell'azione divina in relazione a quella umana, si rischia di non rendersi conto che egli costantemente dichiara che, pur in crisi, pur negato e disperato, l'uomo è sempre chiamato ad agire:

Se la grazia significa che l'uomo non deve né può far nulla, perché Dio fa tutto, non rimane che questa alternativa: ovvero con la soddisfazione appena dissimulata del figliuolo di questo mondo per questa conoscenza, scegliere questo «non fare» (con la conseguenza che l'uomo, «il corpo del peccato» è allora veramente elevato al trono); ovvero con la cupa serietà del moralista religioso, respingere questo «non fare» (con la conseguenza che l'uomo in lotta contro il peccato continua a «fare» quello che può «fare» e va a finire nella sovrabbondanza del peccato, [...]); ovvero ancora (e questa sarà la via media, sicura e più consueta) oscillare con mezza scienza e coscienza tra la scelta e la ripulsa, tra il «quietismo» e l'«attivismo» (con la conseguenza che il peccato celebra il suo trionfo alternativamente e ad un tempo nell'arroganza umana e in quella religiosa). [...] La grazia non significa che l'uomo possa o debba fare qualche cosa, né che non possa né debba fare nulla. La grazia significa che Dio fa qualche cosa. La grazia non significa che Dio fa «tutto» ma che egli fa qualche cosa di ben definito, non in generale, non qui e là, ma nell'uomo. La grazia significa che Dio rimette all'uomo i suoi peccati. La grazia è l'autocoscienza dell'uomo nuovo.33

Si potrebbe forse obiettare che Barth è più volte esplicito nel ridimensionare questa missione dell'uomo, affermando che, per quanto l'umanità si sforzi di agire per il bene, il suo operare non si libererà mai definitivamente dalla forma di questo mondo; dall'altra parte egli tuttavia afferma che esistono azioni in cui brilla la luce del sacrificio, che Dio e il suo volere possono essere dischiusi, anche se soltanto guardando ai segni che Dio ci lascia, anche se soltanto attraverso testimonianze che possiamo rendere a questi segni, lasciati in noi stessi attraverso la dialettica dell'amore. Barth identifica l'amore verso Dio come agàpe e lo distingue dall'eros religioso.34 Non si può amare Dio dello stesso consapevole amore di cui l'uomo è capace nei confronti di qualunque altra cosa. L'agàpe è la possibilità, quella che cambia il senso di marcia di una vita, che si manifesta nel dono gratuito della fede, potenza assoluta con la quale Dio tocca lo spirito umano finito, squarciandolo e creando un abisso in cui echeggia il suo comando, che esorta l'uomo a rendersi consapevole che oltre il peccato esiste una «via inconcepibile»,35 che appare ogni volta che con umiltà l'uomo accetta di rifondarsi in Cristo: questa via è appunto l'amore di Dio, che è il marchio della sua opera di salvezza sull'uomo.

Tuttavia questa dinamicità dialettica, tesa e negativa è il mezzo più efficace che conduce l'uomo verso un'azione positiva, consistente e ben precisa. La dialettica «esige dall'uomo attività piuttosto che passività [...]. Barth articola bene la distinzione tra positività e negatività per identificare la possibilità positiva nell'agàpe come una rottura dell'ordine esistenziale».36 Questa negatività è il momento più fruttuoso per la salvezza umana, si presenta come l'indicazione chiara di ciò che l'uomo deve fare, proprio perché paradossalmente gli proibisce di fare da sé. «La grande possibilità positiva», cioè determinata e riempita di contenuto, scaturisce proprio dalla «grande possibilità negativa»37: «il "No" divino, che ci rimanda ai nostri limiti e con questo stesso al di sopra dei nostri limiti»;38 la ricostruzione proviene dalla demolizione, così come l'uomo nuovo, riabilitato ad agire dal dono della grazia, deriva dalla negazione dell'uomo vecchio, fondato invece nel peccato e nella superbia umana. La legge divina dell'amore soppianta quella umana della morte e si imprime nell'esistenza. Dunque esistono azioni in grado di portare il marchio di Dio, capaci di protestare realmente contro il mondo.

4. Ragione e attività umana

A questo punto però ci si può domandare se esista qualcosa in cui l'uomo possa davvero impiegare tutta la sua costanza e la sua dedizione, come in una protesta. Per rispondere, bisogna notare anzitutto che rendere testimonianza non significa accontentarsi o sacrificare la propria attività. Evitare la deriva intellettualistica della teologia che aprirebbe all'uomo la conoscenza razionale di Dio (Tommaso), o la deriva moralistica (alla Kant), che pur coniugando morale, vita e assoluto rivendica la necessità di una dimostrazione razionale di Dio, non significa necessariamente estromette la ragione, l'impegno o l'attività umana. Le ridimensiona sì, ma a favore di una visione tanto morale (che include l'uomo in quanto colui che è chiamato ad accogliere) quanto religiosa (laddove viene rivendicata l'assolutezza di Dio in quanto fondamento ed origine dell'uomo, ripensato nel suo primato). Ciò vuol dire anche recuperare la compatibilità di Dio con la storia e ribadire l'importanza della distanza tra due soggetti qualitativamente irraggiungibili tra loro, ma ciononostante in comunicazione. Qui uno dei soggetti pone l'atto e l'altro riceve la potenza di quell'atto. Quasi come fosse detto, alla Rahner, di una metafisica della potentia oboedientialis, dove l'uomo riceve sì qualcosa (e in questo senso è esclusa la sua iniziativa), ma in cui ciò che riceve è per l'appunto la potenza all'obbedienza, il cui passaggio all'atto richiede un'attività specificamente umana. L'«impossibile possibilità» dell'Epistola sembra così volersi porre a metà strada tra una religione fondata intellettualisticamente (alla Hegel o alla Kant) e una considerata solo dal suo versante soggettivo (Schleiermacher) che non considera nei giusti termini l'incontro-scontro con l'oggettività. Ridimensionare non è estromettere, ma affidare alla dimensione che gli è più propria l'attività intellettuale umana, considerando allo stesso tempo il primato della trascendenza attraverso la concretezza dell'esperienza vissuta.

Tutto ciò però non diviene soggettivismo o sentimento personale, ma ripensamento di queste sfere nei termini dettati dall'incontro con Dio (un cerchio piuttosto che un'ellisse), come un atto vitale39 che ridimensiona l'esperienza solo dopo averne considerato l'apporto alla vita umana. Conoscere Cristo non è conoscerlo intellettualmente, ma conoscere ciò che egli ha fatto per me.40 Questo sacrificio dell'intelletto non sacrifica né recide la capacità umana di recepire l'atto vitale. Si tratta di recepire prima ancora di conoscere, di entrare in crisi prima di volersi riconciliare. Sacrificare l'intelletto per lasciar spazio all'esperienza dell'amore non è depotenziare l'uomo nelle sue scelte, quanto piuttosto potenziarne l'incontro con Dio. L'invito all'umiltà propostoci dal versante negativo della dialettica è così un ingresso che apre la strada ad una visione più positiva dell'uomo. L'uomo in penitenza impara a parlare correttamente dell'inconoscibilità di Dio, ad assumere questo rispetto come ciò che deve segnare in maniera inequivocabile ogni agire. L'uomo si destabilizza attraverso la sua negazione, e questa gli insegna che da solo non è in grado di distinguere il bene dal male: la sua situazione è quindi instabile, incerta. Il polo positivo della dialettica non intende affatto negare tutto questo o fornire all'uomo appigli umani con i quali consolarsi o ai quali aggrapparsi. È proprio questo il punto. Questa lacerazione ci dice piuttosto che «la nostra capacità di agire virtuosamente è in bilico sul filo di un rasoio»,41 ma che ciononostante, se l'esistenza umana è pronta ad accettare questa instabilità e a pentirsi di tutta la sua superbia, e se accetta di aver bisogno di Dio e quindi di non voler formulare le regole da sola, se sente questa urgenza come la più grande di tutte, se non oppone al No della crisi il suo No umano, ma umilmente decide di illuminarsi di una luce nuova che sola può guidare il nostro agire, allora, Barth vuole dirci, ogni individuo sarà in grado di compiere azioni responsabili, genuine ed umane. Alla luce di ciò, Clough è ancora più deciso nell'affermare che chi insinua che l'Epistola ai Romani promuova un'etica irresponsabile, inumana e poco significativa, si ostina a fondare il proprio giudizio sulla tensione dialettica che attraversa l'intero discorso, senza tuttavia voler guardare alla grande occasione che essa schiude per l'uomo.

Ci sono ancora due obiezioni che Clough prende in considerazione. Innanzitutto quella di Bouillard secondo cui l'etica barthiana non fornisce sufficienti risposte rispetto alla quantità di domande che solleva. Sembrerebbe che all'uomo non sia dato di possedere alcuna risposta definitiva, alcuna indicazione precisa e permanente. Clough crede invece che l'etica del Römerbrief fornisca una risposta precisa. Innanzitutto, come abbiamo già visto, l'amore. L'amore è l'indicatore primario delle nostre azioni, tuttavia anch'esso funziona di riflesso, è il mezzo per esprimere e realizzare un'urgenza ancor più primaria: il comando di Dio. Si potrebbe forse obbiettare che questo comando è assolutamente inconsistente, non consente all'uomo di darsi pace e capire esattamente che cosa debba fare. Ma il punto è proprio questo. Secondo Clough la cifra dell'etica barthiana consiste esattamente nel fatto che anche qui si verifica quella dialettica che, se non considerata nel suo insieme, rischia di essere fraintesa. Perché questo? Perché di nuovo è vero che Barth ribadisce che all'uomo non è concesso di possedere il volere di Dio, di conoscerlo e afferrarlo concretamente, così come conosce o afferra qualunque cosa umana: e così di nuovo ritorna la fortissima tensione dialettica che contrappone Dio e l'uomo come facenti parte di due piani diversi, incomunicabili se non attraverso segni concessi da Dio. Ciononostante, questa, come prima, è solo una parte del problema. Infatti, lì dove il cristiano non può possedere né tanto meno realizzare in forma umana il volere di Dio senza contaminarlo, può però accettare questa condizione con la più limpida umiltà e decidere di non volere necessariamente una risposta sistematica alle sue domande, al senso della sua vita, all'interrogazione sui suoi meriti e sulle sua colpe, e scegliere di agire disinteressatamente, in nome di Dio, cercando la risposta alla domanda «che cosa devo fare?» giorno dopo giorno, occasione dopo occasione. Decidendo di essere uomo e di non essere Dio, sceglie di lasciarsi guidare dagli unici nomi che contano: Dio e suo Figlio:

Questo «che cosa» s'indirizza in modo insinuante, aggressivo, sconvolgente a tutto ciò che abbiamo fatto ieri e faremo domani, pesando tutto sulla bilancia, e separando in ogni istante, in tutto quello [che v'è] di dato e di reale, il bene dal male, per poi nell'istante successivo porre nuovamente in discussione ciò che viene riconosciuto come bene e come male, come se dall'eternità non lo si fosse mai fatto.42

Dunque il Römerbrief fornisce una risposta ben definita. Il punto è che la si deve scovare tra le righe; non a caso Barth la definisce un'«impossibile possibilità», così come nell'opera la religione è considerata «al tempo stesso come «il vertice delle possibilità umane», ovvero come il massimo sforzo di autoglorificazione dell'umano, e come l'indizio della problematicità dell'essere umano e della sua interiore lacerazione.43 Un paradosso che ci mette alla prova ogni giorno, ci invita quotidianamente a non pretendere nulla da esso, ma anzi a rispondere soltanto alle sue pretese. Ciononostante, a buon diritto David Clough non vede in questa prospettiva un depotenziamento dell'uomo, quanto piuttosto una sua rinascita in una prospettiva diversa, nuova, velata, quasi invisibile. Dove altri avvistano la morte di ogni etica umana, egli scorge in questa instabilità e negazione a cui l'uomo deve sottomettersi il senso più profondo di un'etica squisitamente umana. È questa una tesi che non sembra affatto priva di fondamento.

La seconda obiezione a cui Clough vuol rispondere è quella ancora di Boulliard e Willis, i quali sostengono che il No divino sovrasta e annienta il Sì. Egli replica che questa critica manca il bersaglio: è vero che il No è una delle prime parole citate da Barth e che quindi l'uomo non può mai possedere il Sì divino, e che se l'etica fosse tutta qui, allora tutta l'Epistola ai Romani sarebbe nichilista; ma è chiaro che non è questo il caso. In effetti Barth parla espressamente di azioni che portano il marchio della gloria di Dio, di azioni doverose e virtuose, instabili sì e di difficilissima realizzazione, ma non inconcepibili.44 La grande possibilità positiva è l'occasione per il cristiano di manifestare agli altri l'agàpe divina.45 Non è un dettaglio che Barth, all'inizio del capitolo dedicato all'etica, si dichiari mosso innanzitutto dai doveri e dalle necessità che pervadono la quotidianità dell'uomo, introducendo dunque una prospettiva che, considerando un'esigenza che è concreta, non può non fornire una risposta altrettanto tangibile e reale, anche se di una consistenza sui generis qual è quella di Dio e del suo rapporto con l'uomo. È opportuno leggere direttamente il testo:

Il problema dell'etica ci ricorda espressamente [...] la vita ben conosciuta dell'uomo nella natura e nella cultura, e invero questa vita in quanto deve essere vissuta ed è effettivamente vissuta dalla persona stessa che conduce questo discorso, di minuto in minuto, in modo perfettamente necessario e concreto. L'emergere del problema etico ci rende sicuri della esistenzialità, [...] ci garantisce che la formula che abbiamo ripetuto fino alla sazietà: «Dio stesso, Dio solo!» non designa [...] una idealità che ci sta di fronte ma l'inscrutabile relazione divina, nella quale noi ci troviamo come uomini. Dall'essere, avere e fare dell'uomo nel mondo, [...] sorgono infatti questi concetti e queste formule [...] e la loro astrattezza non potrebbe essere peggio travisata che «sciogliendo» in qualche modo questi concetti dal loro oggetto e trascurando di ricondurli costantemente alla concretezza della nostra vita di tutti i giorni.46

Tutto ciò ha l'aspetto di una dichiarazione di intenti piuttosto palese, che tuttavia non si realizzerà in maniera lineare e sistematica, ma piuttosto sarà attraversata dalla difficoltà di far emergere un'etica paradossale, ma non impossibile.

Un'interpretazione convincente in proposito è quella di Andrea Aguti, che in uno studio dedicato all'etica barthiana legge in ciò il risultato della crisi dell'etica stessa. Egli sottolinea la critica di Barth all'incapacità della morale kantiana di conciliare i bisogni fisici dell'uomo con i fini ultimi: l'uomo da solo non può decidersi per il bene e dunque gli è preclusa la strada dell'autonomia etica. L'unica via possibile per Barth è «la consapevolezza del peccato».47 L'etica è la critica dell'ethos, è l'abbandono di qualunque autonoma eticità. Aguti è chiaro nell'affermare che tutto ciò avvicinerebbe la critica barthiana alla critica nietzschiana alla morale, se non che, piuttosto che esaurirsi in una decostruzione fine a se stessa o in una «mondanizzazione dell'etica»,48 essa sboccia nella costruzione della possibilità positiva nell'agàpe da una parte, e nell'esaltazione dell'origine trascendente di ogni azione etica dall'altra. Anche in questa posizione, come in quella di Clough, è presente tanto l'attenzione posta all'elemento negativo, quanto il rifiuto di ridurre l'etica del Römerbrief ad una critica vuota e nichilista. La negatività, nonostante l'enfasi con cui viene portata avanti, è solo il medium verso il positivo.49 Aguti entra nel dettaglio anche per quanto riguarda il problema della responsabilità. I suoi argomenti sembrano fornire un'ulteriore confutazione delle critiche già prese in considerazione. La nozione di responsabilità, secondo Aguti, rappresenta il centro del problema etico. Nel superamento dell'egoismo individuale ci si predispone all'apertura verso il prossimo. L'etica è quell'ambito in cui l'uomo risponde alla determinazione del volere di Dio, in cui «ripete e conferma l'elezione»50 divina sottomettendosi alla crisi. Aguti nota come Barth, in questa prospettiva, voglia dire innanzitutto che, se questa crisi colpisce l'uomo, essa è la prova che la grazia divina l'ha toccato e lo pone dinanzi all'ineludibile problema del bene e del male attraverso il suo comando, senza che egli possa aggirarlo. Dio gli comanda di affrontare questo problema senza contare sulla propria autonomia. Questa etica è teologica nel senso che investe di una responsabilità importante: «la riflessione etica è l'atto per mezzo del quale l'uomo diviene cosciente della sua responsabilità di fronte al comandamento di Dio e non una zona neutra dove ci si domanda astrattamente sull'etica».51

5. L'analogia fidei tra Römerbrief e Dogmatica ecclesiale

Anche Jonh Webster vede nelle critiche mosse contro l'etica barthiana l'incapacità di guardare oltre le indicazioni negative che costituiscono il primo momento demolitore dell'esistenza umana. Prendendo le mosse dal modello critico introdotto da Balthasar, Webster vuol mettere in rilievo come anche la dialettica del Römerbrief «contenga affermazioni positive sul regno umano».52 Balthasar sostiene che dal Römerbrief alla Dogmatica ecclesiale avviene un cambiamento metodologico. Nella prima opera il problema dell'etica, passando al setaccio della dialettica, veniva trattato con un metodo che, coerentemente con l'insegnamento protestante sull'uomo, disdegna la natura umana per poi opporla, nello splendore della potenza salvifica, a Dio e alla grazia. Ovvio è che anche nella Dogmatica (in quanto dottrina della parola di Dio) l'intervento della grazia giochi un ruolo fondamentale per il determinarsi dell'agire umano, tuttavia in quest'opera l'azione dell'uomo sembra riabilitata rispetto al Römerbrief. Ciò avverrebbe innanzitutto per l'uso di un metodo diverso: l'analogia fidei che, procedendo nella riaffermazione della natura umana, conduce fino alla cristologia, nella cui luce l'uomo può finalmente esistere senza doversi prima sminuire.

Balthasar, evidenziando come questo aspetto si faccia strada lentamente negli anni che condussero Barth alla stesura della sua Dogmatica (e come questo rappresenti una seconda importante svolta nel pensiero del teologo, in cui si assiste ad una «liberazione definitiva dalle scorie della filosofia in funzione di un'autentica teologia autonoma»),53 cita alcuni articoli in cui al problema dell'etica viene attribuito un ruolo preciso. In uno in particolare egli nota che Barth non presenta più la grazia come ciò «che rende tutto possibile muovendo dall'impossibilità dell'esistenza, ma il contrario: nella luce della grazia si manifesta l'impossibilità dell'esistenza»;54 si tratta dell'articolo Osservanza dei comandamenti (1927), in cui si vuole spostare l'attenzione dalla problematicità del comando divino alla sua concretezza, in virtù della quale l'uomo agisce «hic et nunc sotto il comandamento divino».55 Questa situazione diventa problematica solo quando l'uomo si distanzia da Dio e inizia a riflettere per sé anziché obbedire. Resta infatti vera sempre e comunque la concretezza tanto della parola di Dio quanto della situazione dell'uomo che deve udirla. Dio vuole dall'uomo qualcosa di assolutamente concreto, non gli chiede di restare nel vuoto di un comando inconsistente ed astratto. Il volere di Dio sull'uomo è il segno dell'elezione in cui l'uomo è «chiamato ad essere» quello che è, «quindi non più a scegliere ma ad essere eletto».56

Secondo Balthasar, soltanto ponendo al centro Cristo Barth potrà comprendere che c'è spazio anche per l'uomo. Per giungere alla pienezza di questa posizione Barth passerà prima attraverso la nozione di analogia fidei in cui progressivamente, scorrendo i volumi della Dogmatica, il nesso con la cristologia sarà sempre più saldo. Il problema dell'etica nella Dogmatica compare nel volume intitolato La dottrina della creazione, in cui il ruolo dell'analogia fidei è già molto presente. In generale questa nozione consente all'uomo di appropriarsi della fede; tuttavia questa capacità non si trova in una delle categorie a priori dell'uomo, ma piuttosto gli viene conferita da Dio come libero dono di grazia.

Anche nel Römerbrief però funzionava così: tutto ciò che l'uomo poteva fare gli era concesso per grazia. La differenza risiede forse nel fatto che in questo caso l'attenzione è posta più che sul dono sulla ricezione dell'uomo, e, così facendo, l'individuo non viene necessariamente ridimensionato nel possesso di questo dono, ma ne viene evidenziato piuttosto il legame con il suo Creatore, grazie al quale la sua natura non è strutturata dal peccato; in quest'ultimo piuttosto l'uomo sperimenta il suo allontanamento da Dio e insieme però la propria libertà pervertita, che Dio attraverso la grazia non vuole negare o soffocare, ma piuttosto innalzare: giacché Dio consente all'uomo di diventare e di agire così come egli deve fare, gli permette di diventare se stesso realmente. Il legame è dunque tra Dio e la sua creazione e precisamente nel fatto che se l'uomo riconosce Dio, ciò «sta necessariamente a significare che noi con i nostri concetti, intuizioni e parole non designiamo qualcosa di assolutamente diverso da lui, ma che con questi mezzi e in essi, gli unici che possediamo, noi designiamo appunto lui».57 Tuttavia, come nel Römerbrief, resta vero che è Dio a istituire una relazione con l'uomo e ad eleggere «la nostra verità a espressione della sua verità».58 La nostra verità gli appartiene come il nostro essere e, in conseguenza di ciò, come le nostre azioni, proprio in virtù del fatto che l'uomo è la sua creazione. La creatura è qui rivalutata nella sua natura e attiva autonomia. Se pure resta vero che tutto ciò che l'uomo fa, comprese le azioni buone, proviene da Dio, questo non lo pone, rispetto al suo Creatore, in una situazione di assoluta opposizione. Dunque anche l'uomo nella propria autocoscienza è innocente di fronte a Dio, neanche il peccato può pervertire irreversibilmente questo legame. L'uomo nel peccato non cessa di essere una creatura di Dio. Piuttosto è sulla scia di questa concezione che l'attività dell'uomo viene riabilitata in Cristo. Il mondo può esistere come disposizione alla gloria di Dio. In questo modo le critiche al Römerbrief che sottolineavano l'impossibilità della coesistenza tra l'autonomia dell'uomo e la grazia divina sono definitivamente messe a tacere.

A partire da queste constatazioni, però, Webster sottolinea come proprio il marcato aspetto dialettico del Römerbrief non significhi «un assoluto contrasto tra la superiore azione divina e (al meglio) l'inferiore o (al peggio) annientata azione umana».59 Questa situazione non è da considerarsi per Webster, come invece voleva Cullberg, come un rapporto astratto in cui l'uomo si trova semplicemente degradato della sua umanità. Dio, che è la negazione dell'uomo quando ci si imbatte con lui, non rappresenta solo l'alterità assoluta e astratta con cui l'uomo si relaziona, ma «questo altro è l'originale e spontaneamente produttiva energia della sintesi da cui l'energia della tesi e l'energia della antitesi derivano».60 Webster si domanda dove mai Barth voglia condurci e sottolinea come l'accento posto sulla trascendenza non voglia in alcun modo significare l'annientamento dell'azione umana, bensì piuttosto la sua relativizzazione.61 L'autore ammette che lo stesso Barth lascia intendere che tutto ciò porta all'eliminazione della vita morale, tuttavia sottolinea anche che ciò che Barth vuol dire è molto più che questo:

qualcosa di positivo rimane: un reale, se pur ristretto, significato per le azioni umane, trasformate dal loro annichilimento e dalla loro ricostituzione nella risurrezione [...]. In questo senso (e solo in questo senso) la perfezione dell'attività divina non è tale da escludere le azioni morali umane, quanto piuttosto le ristabilisce [...], persino nella seconda edizione dell'Epistola ai Romani, l'impronta del successivo lavoro di Barth è presente in nuce.62

Il rifiuto di Clough di vedere un esito nichilista nell'Epistola sembra qui riconfermato e il nichilismo si configura come uno strumento essenziale, ma non definitivo né fine a se stesso. Riconducendo questo discorso allo schema balthasariano che vede l'opera di Barth come un procedere dalla dialettica all'analogia e che rinviene solo in quest'ultima uno spazio per l'uomo, è evidente come l'intento di Webster sia quello di collocare l'Epistola sulla stessa linea della Dogmatica: anche nella prima quindi lo strumento dialettico non vuole esimersi dal compito di fornire all'uomo un'indicazione positiva per le sue azioni morali. Nel commentario, dunque, la coesistenza tra la volontà di Dio e l'azione dell'uomo sembra già ammessa, solo più nascosta sotto il vortice del momento dialettico negativo, in nuce, come suggerisce Webster e come ci si è sforzati di dimostrare. Forse qui Barth usa i termini più espliciti:

Proprio il fatto che ci sia un «gioco» in cui, in primo luogo e sempre entra in azione il creatore, ma anche e sempre la creatura, ecco il mistero grandioso della conservazione divina... e così anche l'uomo può uscire per andare al lavoro e alla sua opera fino a sera (Sal 104, 23), il che implica che egli utilizzi i suoi sensi e la sua ragione, che riconosca che due più due fa quattro, ma anche che possa inventare, pensare e godere, mangiare e bere, essere contento e a volte triste [...], tutto ciò nella esperienza e attività propria, per confermare proprio così, non come mezzo uomo ma nella propria interezza, a testa alta, con cuore libero e buona coscienza, la parola: «O Signore, quanto sono magnifiche e numerose le tue opere!» (Sal 104, 24). Solo gli dei falsi possono invidiare l'uomo. Il vero Dio, che è il suo Signore assoluto, gli permette di essere quello per cui lo ha fatto.63

Dunque l'uomo partecipa attivamente all'elezione divina attraverso la propria libertà di accoglierla, che tuttavia gli è concessa da Dio. La fede è grazia, ma non per questo non è una richiesta rivolta proprio alla nostra coscienza e decisione. Nella Dottrina della Creazione Barth afferma che l'uomo che agisce è chiamato ogni giorno a scegliere tra diverse possibilità che gli si presentano nella contingenza della vita quotidiana, e che egli sceglie sempre qualcosa di assolutamente concreto, attraverso cui si determina e si conosce. Non esiste nulla di più concreto di questo. Inoltre, il fatto che il problema dell'etica riguardi le azioni dell'uomo in quanto santificate dal comando divino e dunque abbia a che fare con azioni reali, significa che l'etica stessa diviene concreta, ha ancora a che fare con la parola e il comando divino.64 Ma questo messaggio non si celava forse anche nel Römerbrief? Non è questa la seconda parte della dialettica a cui ci si era affidati per rivendicare la positività dell'indicazione per l'uomo? Sembra il sereno dopo la tempesta, reso tuttavia possibile solo grazie al ristabilimento dei ruoli dopo la prima lacerazione. Seppur in toni più moderati, la dipendenza dell'uomo da Dio, l'appartenenza delle sue azioni a Dio (primo momento dialettico) è comunque sempre da ricordare, anche se poi accompagnata da un più dichiarato intento positivo nei confronti dell'uomo.

Andrea Aguti vede in tutto questo anche il tentativo di Barth di correlare parola di Dio ed esistenza dell'uomo, sganciando l'etica teologica da un apparato prettamente teoretico per ricondurlo ad una prospettiva esistenziale. Per non confondere la dogmatica con la metafisica c'è bisogno che la prima oscilli tra il suo oggetto e l'esistenza umana.65 Questa interpretazione sembrerebbe un'ulteriore conferma del fatto che nelle intenzioni di Barth c'è tutto il desiderio di considerare l'uomo, anche se ridimensionato nel suo ruolo, ancora come uomo. Forse proprio questo impedisce di interpretare Barth come egli stesso non avrebbe voluto: come un esistenzialista. È tanto vero che l'uomo deve esistere con una dignità quanto è vero che, prima di farlo, deve scansare ogni tentazione di elevarsi sopra Dio. Ristabilire i ruoli è fondamentale per non ricadere nell'errore di stampo liberale e schleiermacheriano. Si può porre al centro l'esistenza dell'uomo (e la sua sintesi di intuizione e sentimento) solo dopo aver posto al centro la parola di Dio, solo se ciò che si vuol dire lo si dice «in forma di cerchio con un centro, piuttosto che in forma di ellisse con due punti focali»,66 sempre da mediarsi per scongiurare il rischio di dimenticarsi dell'uomo o di Dio. In questo modo e solo in questo, l'uomo è riabilitato, riconciliato e ridestato in maniera corretta al suo fondamento. La Dogmatica utilizza un metodo diverso che, nel suo culmine, vede Cristo come il garante del fatto che l'uomo ha a che fare con Dio e nelle sue azioni può determinarsi non solo irrecuperabilmente come peccatore, ma come partner di Dio in maniera legittima, perché «il Figlio diventa uomo in mezzo alle sue stesse creature» e quindi «la creazione possiede per principio una relazione essenziale a lui [...], in quanto Cristo è la misura di tutte le cose» e «nessuna opposizione tra Dio e il mondo può mai raggiungere la profondità di questa compatibilità»;67 ma nonostante questi termini siano più chiaramente speranzosi, ciò non toglie che il Römerbrief proviene dalla stessa mano e che le priorità dell'autore non sono cambiate.

D'altra parte anche la forma dialettica, benché attenuata, non cessa di essere presente. Riguardo ciò, ancora David Clough sottolinea il fatto che Barth riteneva indispensabile per la teologia il metodo dialettico, poiché si ha sempre bisogno di due termini da contrapporre. Se si vuol pensare Dio, si deve ricordare che egli esiste come soggetto ed inevitabilmente ciò rimanda all'oggetto. Se si pensa al comando ci si avvia all'obbedienza, se si decide di agire, si deve comprendere qual è il momento in cui bisogna non agire. Anche Clough mostra così come nella Dogmatica la dialettica sia introdotta in quanto strumento di dialogo tra Dio e l'uomo.68 Resta vero infatti che

il compito dell'etica teologica è capire il comando di Dio. La risposta fondamentale, più semplice e ampia al problema dell'etica è che l'azione dell'uomo è buona in quanto santificata dalla Parola di Dio che in quanto tale è anche il comando di Dio.69

In questo senso allora il dialogo deve essere mantenuto in termini dialettici, poiché, come più tardi Clough, anche Balthasar, se pure marca l'utilizzo dell'analogia fidei, non dimentica di notare che Barth considera ancora il rapporto tra uomo e Dio in termini di analogia e non di identità, per cui il movimento che gli consente di comunicare procede esclusivamente da Dio all'uomo. Perciò non sembra senza importanza anche continuare a considerare la presenza di un'impostazione che resta essenzialmente fedele al Römerbrief. Dove nel Römerbrief il versante positivo della dialettica nell'affermazione dell'uomo è maggiormente mediato da quello negativo, ordinatore e demolitore, qui nella Dogmatica l'elemento positivo dell'azione sembra già mediato e dunque più immediatamente visibile, ma dietro ad esso resta l'essenza di un discorso che, nel suo tentativo di ristabilire un ordine, si fa sentire in tutta la sua efficacia nella riabilitazione di un'esistenza che forse senza quell'ordine non sarebbe tale. Dove nell'Epistola non bisogna lasciarsi sfuggire un'etica umana, qui nella Dogmatica non si deve tralasciare la disciplina e l'ordine imposti da un'etica teologica.

6. Un'etica cristiana

Le due diverse visioni esposte sembrano metterci in grado di sintetizzare meglio dove risiede la positività dell'etica barthiana. La negatività che conduce la critica ad assumere una posizione «pessimista» nei riguardi dell'agire umano, se interpretata correttamente, diviene il mezzo per accedere ad una visione più positiva dell'azione dell'uomo nel mondo: il momento negativo funge da spinta per l'uomo che crede e agisce in nome di Dio. Paradossalmente ci si potrebbe domandare se la demolizione della soggettività umana non sia piuttosto un invito a diventare soprattutto responsabili, tenendo in considerazione innanzitutto che se non si guarda dritti verso una direzione (che è Dio) è impossibile non contagiare le proprie azioni con la forma caduca del mondo del peccato. Ristabilire i ruoli attraverso questo metodo dialettico lacerante per l'uomo, per Barth significa sapere che, se non si impara ad avere un giusto rapporto con Dio, in cui Dio sia Dio e l'uomo uomo,70 non si possono compiere azioni che siano davvero orientate al bene più disinteressato. Questa esortazione costante a vivere nel paradosso è ormai indubbiamente la richiesta e insieme la possibilità più grande e più difficile per l'uomo, che esige una tensione quotidiana. Questa è la grande possibilità positiva che emerge ogni giorno dietro la grande possibilità negativa che ci sovrasta, ma che insieme ci mette in comunicazione con la meta di quella direzione, ci rende capaci di azioni umane. Non sembra superfluo ripetere che così l'uomo è riabilitato alla propria umanità, viene potenziato e non semplicemente assorbito. I critici cui si oppongono Clough e Webster tutto questo non lo vedono.

Se quelle critiche fossero fondate, perché Barth affermerebbe che le azioni umane non potranno mai liberarsi dalla forma di questo mondo?71 Si potrebbe rispondere in due modi. Il primo è in accordo con le voci critiche: l'uomo deve sapere che il suo fondamento è Dio, che la sua relazione con lui è solo indiretta, che la sua azione segue solo un segno, che egli qui non è esclusivamente con Dio, né tanto meno può sostituire la sua volontà. Il secondo invece segue un'altra strada: l'uomo proprio per questi motivi può essere uomo per Dio, nella sua specifica alterità, depurata dal peccato mediante la grazia. Dio e la grazia non tolgono responsabilità all'uomo, gliene aggiungono, piuttosto; tant'è vero che Barth, come già ricordato, ci dice che l'uomo mai può essere esentato dall'agire, né può lamentarsi di non poter agire in un mondo che, con la sua figura, lo costringerebbe ad essere senza Dio. Neanche se si tratta dell'apostolo, il quale è invece il primo a non dover dimenticare la sua appartenenza all'umanità.72

Questa ammissione di dipendenza da Dio serve specificamente a rendere l'uomo responsabile, consapevole che, se vuole il bene, deve volere Dio. Un «uomo che vuole» che diventa «uomo che deve», non è forse più responsabile di uno che dà libera espressione alla propria autonomia esclusivamente umana? Barth per primo dichiara che lui, in quanto teologo, non abita un edificio di idee in cui ripararsi, ma deve in continuazione poter apprendere di più, trovarsi sempre in cammino, carico di responsabilità, sempre all'aperto per affrontare il mondo delle cose e la verità. Ad un uomo a cui è chiesto di negarsi, di revisionare, rivalutare i propri parametri e le proprie certezze, non è pretesa forse un'azione più reale, poderosa e presente di quella che può scaturire da un uomo che agisce sempre e solo per riconfermare la propria dignità, autonomia, umanità? Chi compie uno sforzo più grande: chi vive nel pericolo o chi può riposare all'ombra di un edificio eretto su certezze umane? Rifondare è più difficile di rinsaldare. Morire nella grazia è più difficile che vivere nel peccato:

perché questa morte è la grazia? [...] Perché la potenza della sua negazione è la più forte posizione originaria. Perché essa, come ultima parola sopra questo uomo, è parimenti cardine, soglia, passaggio e svolta verso l'uomo nuovo. [...] la crisi, la fine, il suono dell'ultima tromba passa diagonalmente attraverso [...] la parola e il silenzio, [...] l'opera attiva e la contemplazione di questo uomo.73

L'uomo pare avviato verso la sua liberazione che si compie nella negazione, e dunque da una liberazione paradossale proviene la sua possibilità di esistere, nell'accettare di dover compiere azioni «ossimoriche». Questa è l'etica in Karl Barth. Il rifiuto di catalogazioni aprioristiche e definitive non fanno dell'autore un nichilista o il promotore di un'etica senza contenuti. Se questa per il cristiano deve fondarsi su un rapporto (quello tra Dio e l'uomo) che non è circoscrivibile dalle categorie logiche umane, ciò non significa che debba essere etichettata come un'etica assente, disumana o non-etica. È solo un'etica cristiana e porta con sé tutta l'ambiguità radicale del suo oggetto.

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Note

  1. K. Barth, L'Epistola ai Romani (1922), Feltrinelli, Milano 2002, p. 446. Testo

  2. Ibidem, p. 22. Testo

  3. D. Clough, Ethics in Crisis. Interpreting Barth's Ethics, Ashgate, Aldershot 2005, p. 11: «there are no moral actions that have rid themselves of the form of this world, but human action can have status of a token, parable or demonstration of the action of God», traduzione mia. Testo

  4. K. Barth, cit., cfr. pp. 407-408. Testo

  5. D. Clough, cit., p. 10: «what we find left in our hand is only the mark of where God has been, or an indication of another place where God has been, or an indication of another place where God may found», traduzione mia. Testo

  6. K. Barth, cit., p. 417: «Ma non vi è alcuna azione che non si conformi in sé alla figura di questo mondo, sebbene vi siano azioni così trasparenti che quasi lasciano trapelare la luce del giorno veniente. Ma rimane nonostante questo che ogni azione come tale è soltanto (ma perché diciamo "soltanto"?) similitudine e testimonianza dell'azione di Dio, che poiché l'azione è di Dio essa può accadere soltanto (ma perché diciamo "soltanto"?) nell'eternità e non mai nel tempo. "Soltanto" polvere sollevata dunque, per mezzo della quale una colonna in marcia può essere osservata, "soltanto" cratere dal quale si può riconoscere che qui una granata è esplosa [...]». Testo

  7. Ibidem, p. 473. Testo

  8. Ibidem, p. 305. Testo

  9. Ibidem, p. 306. Testo

  10. Ibidem, p. 306. Testo

  11. Ibidem, p. 3. Testo

  12. Rm, 12, 9-15, citato in K. Barth, cit., pp. 432-433: «L'amore sia sincero! Aborrite il male, attenetevi fermamente al bene! Siate affettuosi gli uni verso gli altri nella fraternità! Prevenutevi gli uni gli altri per onorarvi! Non siate pigri nel condurvi con serietà! Siate ardenti nello spirito! Servite il tempo! Siate allegri nella speranza! Siate pazienti nell'afflizione! Siate perseveranti nella preghiera! Partecipate a tutto quello che vien fatto per i santi! Esercitate con premura l'ospitalità! Benedite i persecutori, benedite e non maledite! Rallegratevi con coloro che sono allegri, piangete con coloro che piangono!» Testo

  13. K. Barth, cit., p. 433. Testo

  14. Wilhelm Link, citato in D. Clough, cit., p. 33: «how can the affirmation of the ethical act come from the negation of everything human? Can that negation and this affirmation coexist?» traduzione mia. Testo

  15. R. E. Willis, The Ethics of Karl Barth, E. J. Brill, Leiden 1971, pp. 36-37. Testo

  16. D. Clough, cit., pp. 36-37. Testo

  17. R. E. Willis, cit., p. 36: «the total elimination of the world, including human action, so that one can speak only of the reality of God», traduzione mia. Testo

  18. J. Cullberg, citato in D. Clough, cit., p. 33: «"What should I do" is exchanged for another: [...] "What will happen to me?". With this change to the future tense, every ethos is killed. Responsible human action in the real sense is completely out of the question. Therefore it may be said with every right that the "ethics" of Romans II means the "absolute attack on all ethics"», traduzione mia. Testo

  19. J. Webster, Barth's Moral Theology, T&T Clark, Edinburgh 1998, p. 12. Testo

  20. A. Aguti, Autonomia ed eteronomia della religione, Cittadella Editrice, Assisi 2007, cfr. p. 170. Testo

  21. Ibidem, p. 170. Testo

  22. K. Barth, cit., p. 169. Testo

  23. Ibidem, p. 173. Testo

  24. Ibidem, p. 173. Testo

  25. Ibidem, p. 21. Testo

  26. K. Barth, cit., p. 173. Testo

  27. D. Clough, cit., p. 34. Testo

  28. K. Barth, La teologia protestante nel XIX secolo, vol. II, La Storia. Schleiermacher, Marheineke, Baur, Feuerbach, Strass, Schweizer, Hofmann, Ritschl e altri, Jaca Book, Milano 1980, p. 43. Testo

  29. D. Clough, cit., p. 34: «Human action is not overwhelmed by God here, but stands only in an indirect relationship to God's action. We are not automatons, but live in relation to God as responsible creatures», traduzione e corsivo miei. Testo

  30. K. Barth, cit., p. 335. Testo

  31. D. Clough, cit., p. 35. Testo

  32. Ibidem, cfr. pp. 34-35. Testo

  33. K. Barth, L'Epistola ai Romani, cit., pp. 195-196. Testo

  34. Ibidem, cfr. p. 301. È da precisare come il rapporto tra agàpe e eros nella visione bathiana sia diverso da quello nella concezione di Anders Nygren [A. Nygren, Eros e Agàpe. La nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, EDB, Bologna 1990]. Mentre in quest'ultimo agàpe e eros rappresentano due possibilità religiose a priori dell'uomo (l'una cristiana e l'altra pagana, l'una pura e gratuita e l'altra concupiscente ed egoista), e mentre le indaga e le confronta con altre esperienze umane, in Barth è escluso ogni a priori e l'esperienza religiosa non è mai genuina senza l'intervento della grazia. Agàpe in Barth è proprio l'amore di Dio, il quale, toccando con la grazia l'eros religioso soltanto umano, lo converte a genuino agàpe. Dove in Nygren eros e agàpe sono due esperienze entrambe religiose ed entrambe umane, in Barth c'è tutto l'interesse di mostrare come, anche in questo caso, ciò che è umano (l'eros religioso) trascende se stesso (in agàpe) solo grazie all'intervento divino. Testo

  35. I Cor. 13, 8. Testo

  36. D. Clough, cit., p. 17: «It is positive in Barth's sense because it demands human activity rather than passivity [...]. Barth plays with the negative/positive distinction in identifying the positive possibility of agape as a breaking-up of the existing order.», traduzione mia. Testo

  37. K. Barth, cit., p. 473. Testo

  38. Ibidem, p. 22. Testo

  39. A. Aguti, Autonomia ed eteronomia della religione, cit., p. 127. Testo

  40. R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, Brescia 2005. Testo

  41. D. Clough, cit., p. 36: «It tell us that our ability to act virtuously is balanced on a knife-edge», traduzione mia. Testo

  42. K. Barth, Vorträge und kleinere Arbeiten (1922-1925), citato in A. Aguti, «Crisi e rifondazione dell'etica in K. Barth», Humanitas, n. 4, luglio-agosto 2006, p. 648. Testo

  43. A. Aguti, Autonomia ed eteronomia della religione, cit. p. 170. Testo

  44. D. Clough, cit., p. 37. Testo

  45. Ibidem, p. 13. Testo

  46. K. Barth, cit., pp. 407-408. Testo

  47. A. Aguti, «Crisi e rifondazione dell'etica in Karl Barth», cit., p. 650. Testo

  48. Ibidem, p. 650. Testo

  49. Ibidem, p. 651. Testo

  50. Ibidem, p. 655. Testo

  51. Ibidem, p. 658. Testo

  52. J. Webster, cit., p. 14. Testo

  53. H.U. von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1985, pp. 108-109. Testo

  54. Ibidem, p. 117. Testo

  55. Ibidem, p. 117. Testo

  56. K. Barth, Osservanza dei comandamenti, p. 217, citato in H.U. von Balthasar, cit., p. 118. Testo

  57. K. Barth, Dogmatica Ecclesiale, vol. III: La dottrina della creazione, pp. 253-254. Testo

  58. H.U. von Balthasar, cit., p. 125. Testo

  59. J. Webster, cit., p. 20: «The force of the dialectic is not an absolute contrast between superior divine action and (at best) inferior or (at worst) eliminated human action», traduzione mia. Testo

  60. K. Barth, The Christian's Place in Society, citato in J. Webster, cit., p. 21: «this 'other' is 'the original and spontaneously productive energy of the synthesis from which the energy of the thesis and the energy of the antithesis both derive'», traduzione mia. Testo

  61. J. Webster, cit., p. 22. Testo

  62. J. Webster, cit., pp. 30-31: «something positive remains: a real, if restricted, sense that human actions, transformed by their annihilation and reconstitution in the ressurrection [...]. In this sense (and only in this sense) the perfection of divine activity is not such that it excludes human morals, but rather establishes them. [...] even in the second Romans, the direction of Barth's later work is present in nuce», traduzione mia. Testo

  63. K. Barth, Dogmatica Ecclesiale, citato in H.U. von Balthasar, cit., p. 129. Testo

  64. K. Barth, Curch Dogmatics, vol. III: The doctrine of creation, T & T Clark Ltd, Edinburgh, 1961, pp. 5-7. Testo

  65. A. Aguti, cit., p. 652. Testo

  66. K. Barth, La teologia protestante nel XIX secolo, cit., p. 8. Testo

  67. H.U. von Balthasar, cit., p. 131. Testo

  68. D. Cough, cit., pp. 42-44. Testo

  69. K. Barth, Church Dogmatics, cit., p. 4: «The task of theological ethics is to understand the Word of God as the command of God. Its fundamental, simplest and comprehensive answer to the ethical problem is that man's action is good in so far as it is sanctified by the Word of God which as such is also the command of God», traduzione mia. Testo

  70. Ibidem, p. 25. Testo

  71. Ibidem, p. 27. Testo

  72. Ibidem, pp. 19-24. Testo

  73. K. Barth, cit., pp. 173-174. Testo