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Il Dio straniero. Sulle «radici cristiane» dell'Occidente

di Maria Grazia Crepaldi (15 febbraio 2011)

Vorrei iniziare da una considerazione che può sembrare quasi ovvia, ma così ovvia non è anche alla luce di recenti episodi di cronaca, che testimoniano il crescente e quanto mai preoccupante diffondersi di atteggiamenti di razzismo, xenofobia, intolleranza religiosa, omofobia, violenza sulle donne e sui minori: l'essere «straniero» non è identificabile tout court con la condizione dell'immigrato (o almeno non lo è nel suo significato più autentico); l'essere «straniero» è quella condizione di diversità/alterità che, oltre e prima che trovare incarnazioni esterne, alberga dentro ciascuno di noi come parte (spesso misconosciuta e rimossa) della nostra identità ed emerge con inquietante ineludibilità quando l'altro ci viene incontro in un altro, che insieme ci spaventa e ci attrae.1

Guardando al pensiero tardo-antico si comprende come questa nostra identità in sé duplice sia origine e fondamento della stessa cultura occidentale. Sono convinta che riflettendo sulla tarda antichità si possa comprendere con maggiore consapevolezza l'oggi, perché è qui, nella sensibilità e nella cultura dell'età imperiale romana, che ha le radici la nostra identità occidentale; è un'identità che si origina dall'incontro tra pensiero greco e messaggio biblico-cristiano in un quadro epocale -- quello di un'età di rottura che ha per protagonista una società multietnica e multireligiosa, la quale manda in crisi le identità tradizionali e genera angoscia -- 2 molto simile a quello attuale.

Uno dei momenti forti dell'originario strutturarsi dell'identità occidentale è emblematicamente espresso nel racconto del discorso di Paolo di Tarso ad Atene, nel quale l'incontro tra la grecità e il messaggio cristiano, da cui viene partorito l'Occidente, trova una delle sue prime grandi realizzazioni.3 Non mi soffermo qui sul contenuto del discorso paolino;4 mi interessa piuttosto focalizzare l'attenzione sulla cornice in cui esso è contestualizzato, cornice che con molta probabilità è ricostruzione letteraria verosimile (ad opera di Luca, autore degli Atti) di una situazione storicamente possibile. Nel corso dei suoi viaggi di predicazione Paolo arriva ad Atene e vi si ferma per attendere alcuni suoi compagni; nella città greca egli discute nella sinagoga con i giudei e i pagani convertiti, e nell'agora con tutti coloro che lì convengono.

Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui, e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai insegnare questo parolaio?». E altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità straniere (xenôn daimoniôn) »; infatti annunciava Gesù e la risurrezione. Presolo con sé, lo condussero sull'Areopago e dissero. «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina da te predicata? Ci metti infatti negli orecchi cose straniere (xenizonta); vogliamo quindi sapere di che cosa si tratta». Infatti sia gli Ateniesi che gli stranieri (xenoi) lì residenti non avevano passatempo più gradito che dire o ascoltare qualcosa di nuovo.5

Paolo annuncia un Dio «straniero»: il Dio cristiano è un Dio straniero non solo rispetto al pantheon greco-romano, ma anche rispetto al Principio metafisico della filosofia (al «Dio dei filosofi»); è un Dio straniero perché è un Dio che si fa carne per salvare la carne dell'uomo (Paolo annuncia «Gesù e la risurrezione», quest'ultima probabilmente identificata dagli ascoltatori ateniesi con una dea), è un Dio che si fa uomo pur restando Dio, è un Dio dall'identità duplice (di una duplicità cercata e voluta). Questo di contro a un divino, quello greco e in particolare quello proposto dalla filosofia greca di tradizione platonica, che, geloso della sua incorporea trascendenza, propone all'uomo quale via di salvezza l'assimilazione alla condizione divina. Quello che agli Ateniesi fa problema non è il presentarsi di un nuovo dio da inserire nel pantheon (a questo scopo è già pronta l'ara dedicata a un dio ignoto), ma il fatto che questo nuovo dio abbia un corpo di carne; per tale motivo il suo essere «straniero « diventa inquietante: il farsi corpo dello «straniero» provoca angoscia perché impedisce di eludere, di rendere evanescente la sua alterità. L'altare destinato a un dio ignoto non può essere occupato dal Dio cristiano perché questi è un Dio incarnato: sulle are ateniesi -- sia quelle fisicamente presenti lungo le vie della città greca sia quelle metaforiche della metafisica -- non può stare il corpo di dio, perché per il pensiero greco la condizione divina è assolutamente incompatibile con la corporeità, che caratterizza invece la condizione umana.

E allora, di fronte all'annuncio di questo Dio straniero, le reazioni immediate degli Ateniesi sono di duplice tipologia. Alcuni manifestano un atteggiamento di chiusura e tacciano Paolo di essere un ciarlatano, un «parolaio» (spermologos); altri (tra cui, si noti, anche residenti stranieri) si mostrano invece più aperti al nuovo: le «cose straniere», il Dio straniero fanno paura ma insieme suscitano thauma (quello stesso da cui, secondo Platone e Aristotele, si origina la filosofia), voglia d'interrogarsi sull'altro che abita con noi e in noi. Del resto il messaggio annunciato da Paolo ha come protagonista un Dio che è «venuto di notte come un ladro»6: il Dio che s'incarna in Gesù non bussa alla porta dove lo si aspetta, ma irrompe all'improvviso nella stanza chiusa dove proseguono le discussioni dei garanti della tradizione ebraica; vi entra come un ladro che viene a togliere le loro sicurezze per condurli a un'esperienza nuova («straniera») della fedeltà a Dio, che rende intelligibile e rinnova l'antica fedeltà.

Questa alterità destabilizzante emerge con prepotenza, al di là del tentativo di mediazione dell'annuncio cristiano operato da Paolo in tutto il suo discorso, quando l'Apostolo proclama la nuova prospettiva soteriologica: la risurrezione dei corpi fondata sulla risurrezione del corpo di Cristo, che consacra quale luogo privilegiato dell'adempiersi della salvezza quella corporeità da cui il platonismo esorta a fuggire.7

E l'esito che il discorso di Paolo produce nei suoi ascoltatori ateniesi ripropone, con una sfumatura in più, la diversità degli atteggiamenti iniziali di fronte alle «cose straniere»: alcuni deridono l'Apostolo; altri si riservano di ascoltarlo un'altra volta, pochi altri infine si convertono.8 Il primo atteggiamento esprime il rifiuto di accettare il confronto con un'alterità irriducibile e inquietante in nome di un'identità univoca, che risulta rassicurante perché pacificata. Il secondo atteggiamento esprime invece la disponibilità a convivere con la duplicità di un'inquietudine che è anche thauma capace di aprirsi al nuovo, all'estraneo ma che ha bisogno di tempo per maturare, perché è duro accettare l'alterità come elemento della nostra identità: un'identità duplice è un'identità scomoda, perché ci condanna alla fatica del confronto, della domanda, della problematizzazione. Solo pochissimi tra gli ascoltatori di Paolo (quelli che, secondo il racconto lucano, si convertono) se la sentono di dar subito fiducia al Dio straniero, scegliendo di compiere quel salto che consente di accettare l'altro senza che l'accoglienza si trasformi nel tentativo di omologazione (processo che vanifica la sostanza dell'alterità, rendendola innocua). E mi piace osservare come tra i pochi che danno fiducia al Dio straniero ci sia una donna, la quale, proprio in quanto donna, è essa stessa «straniera» in un mondo -- quello greco -- rigorosamente al maschile.

Nell'atteggiamento di coloro tra gli ascoltatori di Paolo che non si chiudono al Dio straniero si colgono le premesse per una storia che avrebbe potuto tenere insieme Atene e Gerusalemme, riconoscendone l'irriducibile alterità, l'essere «straniere» l'una all'altra come presupposto per un autentico dialogo -- il quale non può avvenire che tra «diversi» per non ridursi a una farsa, a un parlarsi addosso -- al di là di ogni tentazione di omologazione reciproca.

Ma la storia dell'Occidente è stata tutta un'altra storia: il Dio straniero, le «cose straniere» annunciati da Paolo agli Ateniesi sono stati oggetto di un processo di mediazione culturale nelle categorie della filosofia greca, che ha finito con il neutralizzarne l'alterità; in particolare questo risultato va imputato, a mio avviso, alla scelta di privilegiare come canale di mediazione le categorie del platonismo di età imperiale che, proponendo una rilettura di Platone in chiave etico-soteriologica, risulta fortemente connotato in senso ascetico e religioso. L'inculturazione filosofica del messaggio cristiano ha la sua sede eminente ad Alessandria (capitale culturale del mondo tardo-antico) e il suo immediato precedente nell'ebreo Filone, che per primo interpreta la rivelazione biblica con categorie filosofiche, prevalentemente platoniche, applicando il metodo allegorico alla Scrittura; l'allegoresi filoniana tende a concettualizzare il dettato biblico, traducendo le narrazioni storiche e la concreta carnalità dei loro protagonisti in paradigmi teorici: la biblica storia della salvezza diventa il cammino interiore dell'anima verso la virtù che apre all'incontro con Dio, oltre il corpo e oltre lo stesso intelletto umano.9 La riflessione filoniana costruisce quella che, con un'efficace espressione, è stata definita «filosofia mosaica», 10 accostamento di termini che è per certi versi -- a mio giudizio -- un ossimoro. A partire dalla convinzione che rivelazione biblica e filosofia greca manifestano, seppure con diverso grado di chiarezza, l'unica e medesima verità, la «filosofia mosaica» è il risultato dell'utilizzo organico della filosofia greca per interpretare la Bibbia e insieme dell'uso della stessa Bibbia per completare la filosofia greca: Filone è il primo che interpreta il rapporto tra filosofia e rivelazione nei termini della subordinazione ancillare della prima alla seconda.11 Eredi della prospettiva filoniana sono i grandi Padri cristiani operanti nella scuola catechetica alessandrina o che a essa si richiamano, in primo luogo Clemente e Origene; ritengo che, tramite la loro speculazione, ad Alessandria non avvenga solo una necessaria e inevitabile inculturazione della rivelazione nella lingua e nelle categorie culturali greche (strumenti indispensabili per parlare agli uomini dell'epoca), ma per certi aspetti una sorta di omologazione del Dio straniero al Principio filosofico. Il Dio cristiano tende così a perdere il proprio corpo e insieme la propria peculiare identità, divenendo un Dio beato nella propria impassibile trascendenza; ed è questa divina beatitudine che l'uomo è esortato a guadagnare attraverso un percorso etico-ascetico che esige la liberazione dal corpo, seguendo il precetto platonico secondo cui «ci conviene adoprarci di fuggire di qui al più presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che uomo può; e assomigliarsi a Dio è acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza»;12 si tratta di un precetto enfatizzato dal platonismo tardo-antico, che lo considera la direttiva etica per eccellenza, facendo della homoiôsis theô il fine ultimo dell'uomo.13 Tra i molti riferimenti che attestano lo svilupparsi di questo processo all'interno del pensiero cristiano antico cito per tutti un emblematico passo degli Stromati di Clemente di Alessandria; in tale passo, a conclusione dell'analisi volta a determinare quale sia il sommo bene per l'uomo nell'ottica cristiana, si dice, richiamando la posizione di Paolo di Tarso:

E nella prima ai Corinti l'Apostolo dice apertamente ed espressamente: «Siate imitatori di me come io di Cristo», affinché si abbia questo rapporto: se voi siete imitatori di me e io di Cristo, dunque voi siete imitatori di Cristo: e Cristo di Dio. Sicché come scopo della fede egli pone «l'assimilazione a Dio, per quanto è possibile divenire giusto e santo con saggezza», e come fine ultimo la realizzazione della promessa, fondata sulla fede.14

In Clemente Paolo parla dunque con le parole del Teeteto platonico, che esprimono, sebbene non in modo del tutto chiaro e completo, la stessa verità che Cristo ha rivelato pienamente (sulla scorta della dottrina dei «semi di verità» elaborata già nell'ambito del giudaismo alessandrino); e circa il riscatto della condizione umana la via che trova concordi platonismo e cristianesimo è quella dell'assimilazione dell'uomo a Dio attraverso la fuga dal corpo come abbandono delle cose di quaggiù, con la precisazione (già presente in Filone) che il raggiungimento di tale fine, che per il primo è possibile attraverso il solo sforzo umano, per il secondo richiede l'apertura di fede alla grazia divina. Anche nell'Antico Testamento Clemente trova questa assonanza tra il verbo platonico e la rivelazione: il precetto del Deuteronomio «Andate dietro al Signore vostro Dio» (Dt. 13, 4) viene fatto corrispondere al precetto platonico dell'«assimilazione a dio per quanto è possibile».15 E se, platonicamente, quell'assimilarsi a Dio che per l'Alessandrino costituisce il telos dell'uomo indica il liberarsi dal corpo, ciò significa che il Dio a cui ci si conforma non può e non deve avere in nessun modo un corpo: la salvezza sembra giocarsi sulla liberazione dal corpo da parte dell'uomo, più che sull'assunzione del corpo da parte di Dio. Il Dio straniero (paradossalmente per volontà del suo stesso annunziatore) non è più avvertito come altro rispetto all'orizzonte rassicurante della tradizione filosofica greco-romana.16

La stessa teorizzazione del rapporto ancillare tra filosofia e rivelazione (eredità filoniana recepita da gran parte del pensiero cristiano antico,17 attraverso cui si trasmette alla cristianità occidentale fino a essere anche oggi riproposta, più o meno esplicitamente, in autorevoli prese di posizione del Magistero ecclesiale cattolico)18 ha il risultato di vanificare in ambito epistemologico l'irriducibile diversità dei due termini. Il legame di subordinazione ancillare (inteso come propedeuticità oppure come strumentalità) della filosofia nei confronti della rivelazione presuppone infatti la concezione del rapporto tra le due come relazione tra forme di sapere della medesima Verità, strutturalmente omogenee e differenti solo per grado di cogenza veritativa; in questa prospettiva viene negata quella che, a mio avviso, è la sostanziale irriducibilità reciproca dei due ambiti e insieme viene tolta la possibilità che tra essi si dia un autentico dia-logo, il quale non può che fondarsi sul rispetto della peculiare identità di ciascuno: quella di ricerca razionalmente argomentata che si interroga sul senso del mondo dell'esperienza per la filosofia, quella di incontro personale e storicamente situato («incarnato») tra Dio e l'uomo per la rivelazione. Solo mantenendosi «straniere» l'una all'altra filosofia e rivelazione possono relazionarsi in modo fecondo, perché «questo scarto, comunque ineliminabile, non implica di per sé una divergenza insanabile, a condizione che la veritas cristiana conservi un carattere aperto e problematico, e che l'infinita inquisitio in cui si esprime il processo del logon didonai non si converta nell'assolutizzazione dell'esito scettico».19

Qual è il senso di questa storia? Se alle sue origini, in età tardo-antica, la cultura occidentale avesse riconosciuto e consapevolmente accettato di essere figlia di Atene e Gerusalemme e non fosse piuttosto divenuta figlia di Alessandria (metafora della mediazione che annulla l'alterità dello straniero), oggi probabilmente la discussione sullo «straniero» avrebbe altri toni, perché avremmo la consapevolezza di possedere un'identità originariamente duplice: lo «straniero», quello che viene di notte come un ladro a rompere la nostra normalità, è nel DNA dell'Occidente. Quelle «radici cristiane» dell'Europa (e, più in generale, del mondo occidentale), a cui oggi ci si richiama da più parti come rivendicazione di un'identità univoca e autoreferenziale (e perciò stesso sterile e conflittuale), nella loro verità originaria sono portatrici di un'alterità insanabile perché sono espressione di un Dio straniero che dice «cose straniere».

E allora lo straniero che oggi incarna fuori di noi questa alterità, quello straniero che è fisicamente presente tra di noi con il colore, l'odore, il linguaggio e i bisogni del suo corpo «estraneo» potrebbe costituire l'occasione per recuperare la consapevolezza della nostra identità irrimediabilmente duplice, perché egli disarma ogni possibile linguaggio dell'unicità. E forse anche di noi si potrebbe dire: «non avevano passatempo più gradito che dire o ascoltare qualcosa di nuovo»,20 «cose straniere»; premessa questa per essere capaci poi di fare cose nuove, di agire da «stranieri» nei confronti dell'acquietante normalità che troppo spesso ci è così cara da spingerci a rinunciare allo sforzo di capire chi veramente siamo. «Una verità interiore appare solo con l'irruzione di un altro. Perché si desti e si riveli, occorre sempre l'indiscrezione dello straniero o l'urto di una sorpresa [thauma] . Bisogna essere sorpresi per diventare veri».21

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Note

  1. Per un'articolata analisi della tematica dello «straniero» in prospettiva filosofica cfr. U. Curi, Straniero, Milano 2010. Testo

  2. Cfr. E.R. Dodds, Pagani e cristiani in un'epoca di angoscia, trad. it. di G. Lanata, Firenze 1970. Testo

  3. Cfr. Act. 17, 16-34. Testo

  4. Sul discorso dell'Areopago si veda il classico e ancora per molti aspetti insuperato studio di Norden, con l'ampia e aggiornata presentazione all'edizione italiana di Chiara Tommasi Moreschini: E. Norden, Agnostos Theos - Dio ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, ed it. a cura di C.O. Tommasi Moreschini, Brescia 2002. Una puntuale analisi della struttura e dei caratteri letterari del discorso paolino è sviluppata in V. Gatti, Il discorso di Paolo ad Atene, Brescia 1982. Testo

  5. Act. 17, 18-21 (trad. it. mia). Testo

  6. Cfr. 1 Thess. 5, 2. Cfr. anche Ap. 3,3; 16, 15. Testo

  7. Cfr. Act. 17, 30-31. Testo

  8. Cfr. ivi, 17, 32-34. Testo

  9. Cfr., quale esempio, Phil. Alex. Migr. 1-21; Her. 68-74, 263-268; Fug. 60-64. Testo

  10. Cfr. G. Reale, R. Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in Filone DI Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, Milano 2005, pp. XV-CLVI. Testo

  11. Cfr. Phil. Alex. Congr. 79. Testo

  12. Plat. Theaet. 176 a-b. Trad. it. di M. Valgimigli in Platone, Teeteto, intr. e note agg. di A.M. Ioppolo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 97. Testo

  13. Cfr. Didask. 28, 1-4; Plot. Enn. I 2, 1. Testo

  14. Clem. Alex. Strom. II 136, 5-6. Trad. it di G. Pini in Clemente Alessandrino, Stromati. Note di vera filosofia, Milano 1985, p. 340. Clemente, come si vede, cita espressamente Plat. Theaet. 176 b. Testo

  15. Cfr. Clem. Alex. Strom. II 100, 4: «la Legge chiama l'assimilazione a Dio un seguirlo; e un siffatto seguirlo rende simili per quanto si può» (trad. it. Pini cit., p.312). Testo

  16. Per una più argomentata articolazione di questa prospettiva critica, che qui mi limito a proporre sinteticamente sotto forma di tesi interpretativa, rinvio a M.G. Crepaldi, Farsi Dio, farsi uomo. La salvezza tra filosofia e rivelazione nel pensiero tardo-antico, in E. Prinzivalli, Questioni di storia del cristianesimo antico I-IV sec., Roma 2009, pp. 113-151. Cfr. anche G. Bonaccorso, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Assisi 2006. Testo

  17. Cfr. Clem. Alex. Strom. I 28-36; Orig. Phil. 13, 1-4 (Ep. ad Greg. Th.). Testo

  18. Mi sembra che questa sia la prospettiva teoretica di fondo in cui si muove, seppure in modo assai sfumato e articolato, l'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II; a tale prospettiva si è richiamato in più occasioni anche Benedetto XVI (penso, ad esempio, al celebre e discusso discorso del 12 settembre 2006 all'Università di Ratisbona e alle catechesi sviluppate nelle udienze generali, particolarmente quelle dedicate alle figure di Agostino di Ippona e Tommaso d'Aquino). Testo

  19. U. Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Torino 2008, p. 283. Testo

  20. Act. 17, 21. Testo

  21. M. De Certeau, Lo straniero o l'unione nella differenza, trad. it. di M. Porro, prefazione di P.A. Sequeri, Milano 2010, p. 204. Testo