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La svolta teologica del De vera et falsa poenitentia:
riletture moderne

di Alessandra Costanzo (15 agosto 2010)

L'articolo propone una nuova lettura teologica del De vera et falsa poenitentia, mettendo a confronto la svolta teologica di cui il trattato si fa promotore con le attuali questioni inerenti al sacramento della penitenza. Dopo l'introduzione, che offre un breve quadro dello stato della ricerca sul trattato, lo studio si compone di tre paragrafi, in cui vengono poste le domande di oggi alle risposte teologiche di ieri: perché confessarsi, che cos'è confessarsi e come confessarsi. Rintracciare nel trattato prospettive plausibili a tali interrogativi costituisce il tentativo di cogliere la ricchezza dei messaggi teologici dell'opera, lasciandoli giungere ancora fino a noi.

1. Introduzione

I classici sono libri
che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire,
tanto più quando si leggono davvero
si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

Italo Calvino1

Se dovessimo circoscrivere ad una rapida definizione la fortuna del De vera et falsa poenitentia, potremmo far nostre le parole di Italo Calvino: come per altri classici, sulla base della notorietà, si è data quasi per scontata la conoscenza del trattato. Ma l'esser noto non sempre è sinonimo dell'esser realmente conosciuto; e così, come per altre celebri opere, anche la sfortunata fortuna del De vera et falsa poenitentia è quella di essere un classico che si è creduto di conoscere per sentito dire e che oggi si vuole riscoprire per sentire quel che ancora ha da dire.

Sorprende la situazione contraddittoria del trattato: ne possediamo più di 100 mss., ma nessuna edizione critica; lo consideriamo un'auctoritas decisiva dai tempi di Graziano, senza mai averne approfondito il pensiero teologico o le questioni inerenti l'autore, la datazione o la struttura. Sebbene la sua fama, a lungo assicurata dalla prestigiosa paternità di Agostino, attraversi circa 10 secoli di storia della penitenza, gli studiosi sembrano essersi interessati al trattato più in modo funzionale ai propri ambiti di ricerca che per un'attenzione orientata al testo in sé: non a caso forse lo studio più ampio e mirato è un contributo di appena 9 pagine, scritto nel 1954 da Clelianna Fantini.2 Che cosa sappiamo del trattato?

Secondo l'Admonitio dei Maurini, premessa al testo,3 fino al XV secolo l'opera viene attribuita senza ombra di dubbio ad Agostino, e sotto il suo nome è accolta nel Decretum di Graziano e nelle Sententiae di Pietro Lombardo, che la trasmettono quasi per intero. Il primo a dubitare della paternità agostiniana del trattato è l'abate benedettino Trithemius,4 che seppure contestato da Martinus Navarrus,5 viene seguito da Bernardus Vindingus.6 Ignoriamo la ragione per cui i Maurini non menzionano la dura posizione assunta da Lutero in una lettera del 1516 al priore degli agostiniani di Erfurt,7 nella quale considera il De vera et falsa poenitentia un'opera ben lontana dalla sapienza di Agostino. La sua contestazione, cui seguì la reazione di Carlostadio,8 benché avesse suscitato un gran clamore a Wittenberg, probabilmente rimase nota solo all'ambiente universitario del luogo, e i Maurini non ne ebbero notizia. Essi citano invece, sia pure di sfuggita, insieme ad altri generici "dottori", Erasmo, mentre riferiscono la posizione di Bernardo Vindingo, ultimo autore da loro menzionato. Il contesto in cui il passo è inserito, la rapidità della citazione e, non da ultimo, la sua particolare collocazione al termine della rassegna, ci inducono a rivedere la convinzione di studiosi come Émile Amann e Clelianna Fantini,9 i quali ritengono che il primo a mettere in dubbio la paternità agostiniana del trattato sia stato Erasmo. Un tale primato non sembra trovare fondamento né nell'Admonitio dei Maurini né nello svolgimento storico degli eventi: l'umanista arrivò, per così dire, solo in terza o quarta battuta: prima di lui, stando a quanto ci dicono gli antichi editori, Tritemio innanzitutto, e poi Bernardo Vindingo si erano resi conto della non autenticità agostiniana del testo; e Lutero -- aggiungiamo noi -- la cui lettera al priore di Erfurt precede di una dozzina d'anni l'edizione di Erasmo dell'Opera Omnia di Agostino,10 nella quale, l'umanista, omettendo il trattato, prende tacita posizione rispetto al problema della sua paternità. Così, a partire da Tritemio, salvo qualche rara eccezione, il carattere spurio del De vera et falsa poenitentia non viene più messo in discussione. Ma, per la mancanza assoluta di dati, l'autore del trattato resta ignoto.

Gli studiosi, a seconda delle questioni dottrinali individuate nel testo, collocano l'opera in un arco di tempo compreso tra il X e il XII secolo, ad eccezione di Henry Charles Lea che propone una duplice datazione, il V e la metà del XII secolo.11

Al di là delle oscillazioni degli studiosi, un dato appare certo: il trattato deve esser stato scritto prima della metà del XII secolo, dal momento che Graziano ne cita ampie parti nel suo Decretum, la cui stesura finale termina nel 1140, e di lì a poco anche Pietro Lombardo farà altrettanto nelle sue Sententiae,12 che vengono ultimate nel 1152. Oltre a questo incontrovertibile dato, altri elementi, di carattere storico-letterario, e non più solo teologico, possono contribuire alla formulazione di una nuova ipotesi di datazione. In questa sede mi limito a segnalarne solo uno, relativo al nodo struttura-contenuto.

Il De vera et falsa poenitentia, costituito da venti capitoli, appare distinto in due ampie sezioni. Nella prima (capp. II-VII), l'autore difende la ripetibilità della penitenza contro coloro che la negano. Gli avversari temono infatti che la reiterabilità del sacramento offuschi il valore del battesimo, in cui avviene la remissione dei peccati, e ritengono possibile, come unica eccezione, la penitenza concessa una sola volta nella vita dopo il battesimo. Lo pseudo-Agostino passa in rassegna uno ad uno gli errori degli avversari, e li confuta in modo serrato, condensando la sua difesa della penitenza ripetibile particolarmente nel capitolo V, non a caso più esteso degli altri.

Nella seconda sezione (capp. IX-XVIII), a differenza della prima, l'autore non si concentra su un unico tema, ma, a partire dall'incipit del capitolo IX, la vera e la falsa penitenza, affronta un ventaglio di argomenti,13 che nella loro diversità presentano tuttavia una certa continuità tematica, come appare dal contenuto che collega tra loro i capitoli a piccoli nuclei.

Una tale continuità non risulta invece affatto rilevabile tra le due parti del trattato: nella prima, non un rimando a ciò che verrà detto dopo; nella seconda, non un richiamo a quanto confutato nella precedente. Le due sezioni appaiono così autonome tra loro da presentarsi quasi come due brevi trattati, che pur sotto uno stesso titolo, mettono in luce ciascuno la propria concezione della vera e falsa penitenza, ignorando l'una l'esistenza dell'altra.

Stupiscono invece le connessioni tra quattro capitoli -- I, VIII, XIX e XX -- che sembrano restare al di fuori delle due sezioni del trattato, assumendo rispetto a queste una singolare configurazione per contenuto e/o particolare collocazione14: l'anonima Christi devotam, cui l'autore si rivolge nel capitolo I, come richiedente e destinataria dell'opera, torna improvvisamente nel capitolo XX, dopo un silenzio di ben 19 capitoli, come interlocutrice ultima del proprio lavoro; la definizione di carattere giudiziario della penitenza, che appare per la prima volta nel capitolo VIII, viene letteralmente ripresa nel capitolo XIX, a proposito dell'etimologia del termine.

Come mai tra questi quattro capitoli si trova un filo di relazione, che manca invece del tutto tra la prima e la seconda parte del trattato? Probabilmente perché unica è la mano di chi li ha scritti; mentre alcun contatto si trova tra la prima e la seconda sezione, perché diversi sono gli autori di ciascuna. Il testo si può allora considerare opera di due anonimi, vissuti in epoche differenti, che scrivono ciascuno una parte del trattato, in cui esprimono la propria concezione della vera e falsa penitenza.15 Una terza mano, quella di un redattore finale, trovandosi di fronte alle due sezioni, decide di "ricucirle" aggiungendo del proprio, quattro "pezzi", ognuno con una precisa funzione,16 nell'intento di realizzare un'unica opera da divulgare sotto il nome prestigioso di Agostino.

I due autori si fanno testimoni delle istanze dell'epoca in cui vivono e promotori del novum che si affaccia sulla soglia del proprio tempo: la prima parte del trattato, animata dalle voci di coloro che negano la reiterabilità della penitenza e da quella dell'autore che la difende, potrebbe essere stata scritta tra la seconda metà del VII e gli inizi dell'VIII secolo; un'età in cui, sebbene la nuova prassi della penitenza ripetibile sia ormai largamente diffusa e ufficialmente riconosciuta,17 tuttavia non vengono ancora meno i tentativi di ostacolarla, nel timore di separarsi da quella antica. Una datazione più tardiva non sembra possibile, in quanto successivamente il contrasto sulla reiterabilità della penitenza andrà scemando e l'attenzione si concentrerà sulle tariffe stabilite per ogni peccato, come testimonia la ricca fioritura dei Libri penitenziali a partire dall'VIII secolo.

La seconda parte del trattato, che vede nella vis confessionis il vero atto di penitenza, lasciandosi così alle spalle il sistema delle tariffe, previste per ogni peccato, si può collocare tra la fine dell'XI e gli inizi del XII secolo; non oltre, se Graziano ne cita per primo ampi passi nel suo Decretum, e in un'epoca non troppo a ridosso del suo lavoro, perché egli possa aver avuto materialmente il tempo di conoscere il testo. Anche l'intervento del redattore finale è da situarsi non oltre l'inizio del XII secolo, quando le due sezioni sono già compiute ed egli decide di comporle in unità. Le due epoche di stesura di ciascuna parte, malgrado la notevole distanza che le separa, hanno la caratteristica comune di essere fasi di passaggio cruciali nella storia della penitenza, di cui entrambe rendono, a loro modo, testimonianza: come la prima sezione infatti rispecchia il delicato cambiamento dall'unicità alla ripetibilità della penitenza, così la seconda riflette un altro decisivo mutamento, dalla penitenza-espiazione alla penitenza-confessione.

Il trattato porta a compimento alcune istanze, prima affiorate solo allo stato embrionale nelle riflessioni dei teologi o nella prassi dei semplici fedeli, e che d'ora in poi segneranno in modo decisivo l'elaborazione teologica successiva. Vediamone alcune:

Così, definendo con tratti precisi profili prima appena delineati, il trattato assume la duplice valenza di approdo finale di tendenze ad esso preesistenti e slancio iniziale per nuove prospettive teologiche e per differenti pratiche pastorali.

Cos'ha da dirci oggi, dopo circa dieci secoli, il De vera et falsa poenitentia? Se il suo studio non deve ridursi ad un mero esercizio archeologico, occorre lasciar parlare il testo nell'attualità, sia pure nel rispetto della sua antichità. Perciò rileggiamo le istanze teologiche del trattato alla luce di tre questioni che oggi mi sembra si pongano con particolare urgenza sia nella teoria che nella prassi del sacramento della penitenza: perché confessarsi (§. 1.), che cos'è confessarsi (§. 2.), come confessarsi (§. 3.). Tali domande non si presentano mai in modo esplicito nel trattato. Osiamo porle noi al testo, tentando di rintracciare le risposte che i diversi autori possono darci, magari tra le righe, in ordine sparso.

2. Perché confessarsi?

La domanda di fondo sul perché confessarsi attraversa, sia pure con diversità di accenti, tutte le epoche in cui si è svolta la storia del sacramento della penitenza. Se infatti l'annuncio liberante del perdono di Dio per mezzo della Chiesa è rimasto sempre inalterato, i modi di esprimerlo e significarlo sono mutati nel tempo.19 Ma le modalità dei cambiamenti non riguardano semplicemente il "come" si realizzano: in ultima analisi, essi rimandano alla questione, ancor più profonda, del "perché" avvengono. Se il modo di vivere e celebrare la penitenza è mutato da un'epoca all'altra, è fondamentalmente perché la domanda sulla sua ragion d'essere si è costantemente rinnovata. Ce la poniamo anche noi, nel XXI secolo, condividendo con tutti coloro che ci hanno preceduto il senso più riposto di quella domanda. "Perché confessarsi? " contiene infatti in sé, da sempre, un interrogativo ancor più mirato e potente, che ieri come oggi, scuote non solo le coscienze dei fedeli nella prassi, ma fa vacillare il sacramento della penitenza nelle sue stesse fondamenta teologiche: se la remissione dei peccati si realizza nei sacramenti dell'iniziazione cristiana -- in modo particolare, nel battesimo e nell'eucaristia -- perché istituire un quarto sacramento che significhi e celebri, in maniera specifica, il perdono di Dio? Battesimo ed eucaristia non sono sufficienti a comunicarlo?

I cristiani della Chiesa primitiva trovano una risposta, capace di mettere in luce la priorità del battesimo rispetto alla penitenza e, al tempo stesso, dare a quest'ultima una precisa funzione: la remissione dei peccati avviene nel battesimo, con il quale ha inizio una nuova vita, in cui non dovrebbe aver posto il peccato grave. Tuttavia, qualora ciò dovesse accadere, solo in questo caso sarebbe necessario ricorrere al sacramento della penitenza; i peccati veniali sono invece riparabili attraverso la preghiera e le opere private di mortificazione. Il sacramento della penitenza assume così un carattere di eccezionalità, che ben presto si precisa in quello dell'unicità: circa alla metà del II secolo, Erma, nel suo Pastore, stabilisce che la possibilità del perdono possa essere offerta una sola volta nella vita dopo il battesimo.20 Questo principio, che segnerà, da allora fino al VI secolo, tutta la penitenza antica, scaturisce dall'attesa della parusia imminente, per cui la fine del mondo, ormai considerata prossima, rende impossibile concepire più di una sola opportunità di remissione successiva al battesimo, soprattutto alla luce dei lunghi tempi di espiazione, previsti dal sistema penitenziale, che non hanno più modo di realizzarsi. L'attesa suscita un urgente bisogno di salvezza, che implica un nuovo modo di considerare non solo l'uomo e la storia, ma anche il rapporto penitenza -- battesimo: la storia ha il fiato corto, sta per finire; il battezzato può salvarsi perché nel battesimo si è realizzata la remissione dei suoi peccati. Chi ha peccato gravemente dopo, ha un'unica ed ultima opportunità di redenzione attraverso la penitenza, che è sempre più un "secondo battesimo": l'unicità di entrambi i sacramenti, il faticoso percorso di catecumenato e/o espiazione, il tempo pasquale della loro celebrazione, gli analoghi effetti di remissione dei peccati e rinnovamento interiore, costituiscono le caratteristiche che progressivamente saldano la relazione tra battesimo e penitenza. Mentre però il carattere dell'eccezionalità di quest'ultima la rendeva più facilmente distinguibile rispetto al battesimo, che manteneva tutta la sua priorità, ora la sottolineatura dell'unicità rischia di assimilare troppo il quarto al primo sacramento, avviando quel processo di identificazione, che nel tempo avrebbe portato a confondere il primato dell'uno con l'assiduità dell'altro.

La parusia tuttavia tarda a venire, e la trepidazione per il compiersi imminente della storia di salvezza cede gradualmente il passo all'amarezza per lo svolgersi degli eventi, che impietosamente la rivelano sempre più come storia di ripetute cadute nel peccato. Tra queste, durante le persecuzioni, si presenta particolarmente grave e doloroso per la comunità ecclesiale il rinnegamento della propria fede da parte di alcuni cristiani, che tradiscono i loro stessi fratelli per consegnarli al nemico. Come porsi rispetto a loro? Il problema non riguarda solo i peccatori, ma mette in discussione la stessa identità della Chiesa, perché l'apostasia in cui sono caduti alcuni è sufficiente a smentire la convinzione di molti di costituire l'Ecclesia sancta. Non solo: questa lacerante ferita dimostra la sconcertante verità che il battesimo non libera dal peccato una volta per tutte perché anche il battezzato può sempre caderne vittima.

Tuttavia, malgrado inizi ad affiorare nella comunità cristiana una coscienza diversa rispetto al passato, di cui vede vacillare le certezze, il sacramento della penitenza rimane sostanzialmente inalterato, con tutte le sue caratteristiche, che perdurano anche dopo la pace costantiniana.21 La possibilità di ricorrere solo una volta nella vita al percorso penitenziale, con la sua espiazione lunga e faticosa, e i pesanti interdetti, che continuano a gravare sul peccatore anche dopo la sua assoluzione, determinano una disaffezione crescente a quella forma di sacramento, che non risponde più ai nuovi bisogni, e che, paradossalmente, di fatto si rende accessibile solo a quei pochi che ne hanno meno bisogno (vedovi, celibi, vecchi o moribondi): così l'unicità del rimedio penitenziale si traduce nel tempo in una sostanziale inaccessibilità. Come spiegare il permanere inalterato del sistema penitenziale antico, fino al VI secolo, di fronte ad una coscienza ecclesiale non più fiduciosa e aperta ad una parusia imminente, ma disincantata e soggetta a continue cadute? Le sconcertanti verità, di cui la comunità cristiana aveva cominciato a prendere atto nel periodo delle persecuzioni -- riconoscendosi come Chiesa di peccatori, il cui battesimo non rende definitivamente immuni dal peccato -- perdono progressivamente forza ed evidenza: l'istituzione ecclesiastica continua ad offrire un'unica possibilità di recupero a chi è caduto. Il paradosso che si viene a creare tra una necessità crescente di una nuova forma di penitenza e l'effettiva impossibilità di ricorrervi corrisponde a quello che si profila tra il compito dell'istituzione ecclesiastica di portare l'annuncio del perdono liberante di Dio e la sua difficoltà ad ascoltare fino in fondo le reali esigenze di coloro cui esso è destinato.

In questo clima si comprende come, nel VII secolo, l'apparire di una nuova forma di penitenza, proveniente dalle isole celtiche, venga accolta con entusiasmo dalla maggior parte dei fedeli: la sua ripetibilità, carattere che in modo particolare la distingue dal sistema antico,22 la rende finalmente accessibile a tutti coloro che da tempo ne erano rimasti di fatto esclusi. Tuttavia, malgrado la novità segni un rilancio del sacramento, l'istituzione ecclesiastica inizialmente rifiuta il nuovo sistema penitenziale, considerandolo una execrabilis praesumptio,23 proprio a causa della sua ripetibilità, che apre il varco ad una incondizionata accessibilità. Più tardi, l'istituzione muterà il suo atteggiamento, accettando ufficialmente il nuovo regime;24 ma delle riserve dovettero rimanere a lungo, se pensiamo che all'epoca dei riformatori carolingi si afferma la dicotomia penitenziale "peccato pubblico, penitenza pubblica / peccato segreto, penitenza segreta", con l'intento di trovare una via di compromesso che consenta di ripristinare l'antica forma di penitenza, affiancandola a quella nuova. Il tentativo non riesce, ma al di là di questo esito, è significativo il tentativo in sé: il fatto stesso che l'istituzione ecclesiastica cerchi di coniugare l'uso penitenziale antico con quello nuovo segnala chiaramente una convinzione non unanime rispetto alla nuova forma di penitenza ripetibile. Del resto, l'incertezza si era già resa evidente nei confronti della sua introduzione, con le due opposte reazioni dell'iniziale rifiuto (Concilio di Toledo), seguito non molto tempo dopo, dalla sorprendente accettazione (Concilio di Chalon-sur-Saône). Perché, dopo averla ufficialmente riconosciuta, l'istituzione ecclesiastica non considera la nuova forma penitenziale come l'unica possibile? Evidentemente, malgrado il riconoscimento conciliare, le esitazioni permangono, e da latenti, si rendono manifeste in età carolingia, proprio attraverso il tentativo di compromesso tra antico e nuovo uso.

Ma scendiamo più in profondità: perché le riserve dell'autorità ecclesiastica nei confronti del nuovo sistema riguardano non solo la sua introduzione -- come sarebbe naturale in una fase di passaggio iniziale -- ma permangono così a lungo, arrivando a contrastare perfino la sua piena affermazione? Dobbiamo interpretare questo atteggiamento come un'ostinata fedeltà alla tradizione della Chiesa antica, nel timore dell'irruzione della novità nell'oggi? Se così fosse, allora le esitazioni costituirebbero un modo di trincerarsi nella stabilità del passato, di cui forse si ha nostalgia, per sfuggire allo smarrimento del presente. Ma il timore del nuovo può essere sufficiente a spiegare le resistenze che si protraggono per almeno tre secoli, se non di più?

Il rimanere ancorati al modello penitenziale antico, tentando in ogni modo di non smarrirlo del tutto, e la sostanziale diffidenza rispetto a quello nuovo, che pure incontra il favore della maggior parte dei fedeli, sembrano dirci qualcosa di più dell'ostinata fedeltà alla tradizione del passato dinanzi al timore della novità del presente. L'autorità ecclesiastica doveva aver intuito che l'affermazione piena del nuovo sistema penitenziale avrebbe rischiato di offuscare ciò che sin dall'inizio si voleva salvaguardare: la priorità del battesimo sulla penitenza. E questa doveva essere non solo la "sua" intuizione, ma anche quella di una parte, sia pur limitata, di fedeli, di cui l'istituzione ecclesiastica si faceva portavoce.

I primi capitoli del De vera et falsa poenitentia sembrano fotografare precisamente questa situazione: qui gli avversari dello pseudo-Agostino, nel loro opporsi alla ripetibilità della penitenza, difesa dall'autore, sembrano dar voce a quella parte limitata di fedeli, che nella storia viene rappresentata dalla resistenza dell'istituzione ecclesiastica al sistema della penitenza ripetibile, capace di intuire il rischio, insito nel nuovo uso, di svilire il primato del battesimo rispetto alla penitenza. La posizione dello pseudo-Agostino rappresenta il nuovo, quella dei suoi avversari l'antico: il nuovo si è in gran parte affermato, ma qualcuno continua a respingerlo con tenace determinazione. Sono a confronto due modelli penitenziali, colti sulla soglia del loro difficile trapasso. Ma nel testo, non tutti gli elementi di diversità tra i due sistemi sono coinvolti nella contestazione: uno solo è il terreno di scontro, la questione della ripetibilità della penitenza. Perché proprio questa, su tante di possibile divergenza? Perché è precisamente su questo punto che si "gioca" un problema di non poco conto: la distinzione e/o la confusione tra battesimo e penitenza in relazione alla remissione dei peccati. Dal rapporto tra l'irripetibilità dell'uno e la ripetibilità -- rifiutata o difesa -- dell'altra discende la questione più ampia della stessa ragion d'essere del sacramento della penitenza.

Quali istanze teologiche sono dietro la posizione degli avversari dello pseudo-Agostino, che giungono come echi mai sopiti del sistema penitenziale antico, caratterizzato dall'unicità della penitenza? Quali convinzioni sostengono la posizione dell'autore della prima parte del trattato, che si fa portavoce e difensore del nuovo sistema, contraddistinto dalla ripetibilità della penitenza?

Nel VII secolo, quando la penitenza ripetibile si affaccia in continente, sembra rispondere a un nuovo modo di intendere la storia e di comprendere la fede, l'uomo, la Chiesa ed il peccato: una storia che non è più intesa solo come storia di salvezza, ma anche come storia di peccato; una fede che non è più concepita solo come modo di morire, ma anche come modo di vivere; un uomo che non è più considerato già salvo perché battezzato, ma bisognoso ancora di redenzione perché, nonostante il suo sì alla fede, mille volte nel suo cammino dice no con il suo peccato; una Chiesa che non è più ritenuta la comunità dei santi, ma l'insieme di coloro che, a partire dal battesimo, tentano di testimoniare un messaggio di salvezza, dinanzi al quale spesso si scoprono inadeguati e manchevoli; un peccato che non è più pensato come un'eventualità eccezionale, che riguarda alcuni, ma una caduta ripetuta, in cui scivolano molti, che necessita ogni volta di un rinnovato perdono perché non rimanga prigioniero del male e si trasformi in opportunità di conversione. A queste istanze la ripetibilità della penitenza sembra venire incontro, annunciando l'inesauribilità del perdono di Dio, la cui infinita misericordia non può essere sorda dinanzi al pentimento dell'uomo: essa non può esaurirsi in un'unica opportunità di remissione dei peccati, ma accoglie il peccatore ogni volta che questi, pentito, ne manifesta il bisogno.

Così il ricorso al sacramento della penitenza da eccezionale diviene ordinario; la sua ripetibilità, se ha il pregio di non fermarsi solo ad un frammento della storia dell'uomo, ma di accompagnarla tutta nel suo cammino, segnato da ripetute cadute nel peccato, tuttavia sin dall'inizio mostra il suo limite: confonde e, con l'andare del tempo arriva a sostituire, il sacramento della penitenza a quello del battesimo nella remissione dei peccati. In questo modo, l'assunzione piena della storicità, come storia di salvezza che si attua nella storia di peccato, alla luce della quale vengono ripensate le istanze teologiche relative alla fede, all'uomo, alla Chiesa e al peccato, salva il cristianesimo dal rischio del "fondamentalismo", insito nel complesso iniziatico/penitenziale antico, ma rischia di smarrire il fondamento: l'antico primato del battesimo sulla penitenza viene d'ora in poi capovolto nel primato della penitenza sul battesimo nella remissione dei peccati.

Il nostro modo di concepire oggi la storia ha forse in comune, con l'epoca antica, il "fiato corto": ma mentre i cristiani dei primi secoli respiravano con il fiato corto dell'attesa di una fine imminente, noi respiriamo con il fiato corto dell'attimo, in cui concentriamo le nostre esistenze, senza essere più capaci di attendere. La dimensione escatologica sembra non preoccuparci più. E così è possibile smarrire il primato del battesimo sulla penitenza nella remissione dei peccati, e perfino arrivare a perdere la ragione stessa del confessarsi.

3. Che cos'è confessarsi?

Questa domanda sembra trovare quattro risposte nel trattato, che possiamo rielaborare, formulandole secondo le nostre moderne categorie:

Non si tratta di risposte alternative l'una all'altra, ma che appaiono tra loro legate e conseguenti: ciascuna sembra segnare una tappa indispensabile di un percorso, che il peccatore pentito è chiamato a compiere. Così, egli deve innanzitutto capire la realtà del peccato e poi, passo dopo passo, scavare in essa, cercando in sé le ragioni della caduta, che gli consentono di prendere coscienza della sua entità; quindi deve assumere il peccato, riconoscendone la propria personale responsabilità, per giungere infine, attraverso la penitenza, a liberarsene. Ma consideriamo più da vicino i passi di questo cammino, ripercorrendoli uno alla volta, e riconducendoli ai luoghi in cui nel trattato se ne possono ravvisare le orme.

4. Come confessarsi?

Malgrado la domanda sia diretta in modo particolare alla prassi, nella risposta confluiscono inevitabilmente -- ieri nel trattato, come oggi nel nostro vissuto -- teoria e prassi, riflessione e vita, pensiero e azione.

L'intreccio di queste prospettive risulta evidente già da alcune espressioni, presenti nel testo: ne considererò in particolare tre, rileggendole attraverso i termini classici -- contrizione, confessione, soddisfazione -- che identificano gli atti del penitente.

Nel cuore del trattato, all'inizio del capitolo X, nel quale si concentra in modo particolare la riflessione sulla vis confessionis, lo pseudo-Agostino, seppure di sfuggita, lascia intendere che per lui confessarsi è rivelarsi.45 Ma come realizzare concretamente questo processo di svelamento? Come passare dall'opaco al trasparente, dalle tenebre alla luce, dall'interiorità all'esteriorità?

Tre espressioni nel trattato46 mi sembrano particolarmente efficaci per descrivere questo passaggio, perché recano in sé le modalità attraverso cui il cammino di svelamento della confessione si rende possibile:

Del resto, se risulta relativamente più agevole ritrovare nel trattato ciò che noi intendiamo con i termini "contrizione" e "confessione", appare decisamente più complesso riconoscere nel testo i tratti con cui noi designiamo la "soddisfazione". Questo difficile riconoscimento da parte nostra probabilmente è dovuto all'orientamento stesso dell'autore, interessato più all'interiorità che all'esteriorità del cammino penitenziale. È infatti sulla contrizione, segnata dal pentimento e dal dolore, e sulla confessione, che dà voce e volto a questo dolore, che si concentra la sua attenzione; alla soddisfazione, che traduce in atto esteriore il percorso interiore, l'autore si dedica decisamente molto meno. Ed anche quando egli sottolinea l'importanza della visibilità del pentimento e del dolore nella confessione, la sua sottolineatura non è orientata all'esteriorità, ma ancora una volta concentrata sull'interiorità che, per comunicarsi e risultare credibile, deve divenire visibile. È il "dentro" che lo avvince, non il "fuori": così, del gesto della vedova, ciò che lo colpisce è la disposizione interiore della sua generosità, il "come" lei dona, non l'atto esteriore del suo dono; e anche quando lo ricorda, si preoccupa subito di porre in evidenza che l'offerta materiale deve essere preceduta da quella spirituale.

È evidente come questa lettura, che sottolinea nel trattato la priorità della dimensione interiore su quella esteriore del cammino penitenziale, abbia il limite di utilizzare la distinzione teologica relativa agli atti del penitente -- contrizione, confessione, soddisfazione -- che si profilerà solo a partire dalla riflessione Scolastica sul sacramento della penitenza. All'epoca della conclusione della stesura del trattato, tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo, tale distinzione non si è ancora realizzata. L'adozione dei termini contrizione -- confessione -- soddisfazione, come strumenti ermeneutico-teologici del testo, può apparire dunque una forzatura inopportuna. Se, dal punto di vista cronologico, di forzatura indubbiamente si tratta, dal punto di vista ermeneutico, tuttavia essa non è affatto inopportuna: rileggere teologicamente, all'inizio del XXI secolo, un testo di circa mille anni più antico, comporta inevitabilmente il ricorso a categorie teologiche ad esso senz'altro posteriori, ma che costituiscono per noi il patrimonio della tradizione teologica, di cui ci nutriamo ancora oggi, portandolo "dietro" e "dentro" di noi da più di settecento anni. L'adozione dei termini contrizione -- confessione -- soddisfazione mi sembra allora non solo inevitabile, ma perfino necessaria per decodificare il messaggio teologico del trattato e farlo parlare ancora a noi oggi; necessaria, per fargli dire che proprio in quegli stessi termini non è possibile trovare una traduzione pienamente rispondente alle espressioni che sembrano richiamarli nel testo. Perché esse risultano qui ancora ombre vaghe e indistinte dei concetti che, solo quasi due secoli dopo, assumeranno forma e figura nella distinzione contritio -- confessio -- satisfactio. Così le espressioni del trattato possono essere riconducibili a queste categorie solo in modo imperfetto, come preludio di una melodia che sarà suonata, nella sua interezza, solo più tardi. I tre atti, di cui essa sarà composta, appaiono in realtà, in questo preludio, ancora come un atto unico, che li contiene tutti: nel trattato, contrizione -- confessione -- soddisfazione confluiscono e si identificano nella centralità della confessio oris, manifestazione della contritio cordis che, per il dolore e la vergogna che comporta, è già satisfactio operis. Ma il cammino penitenziale, che nel sacramento della confessione si realizza, non si esaurisce qui. Esso prosegue tutta la vita, nella misura in cui il peccatore redento ha maturato la consapevolezza della propria fragilità, che può sempre indurlo a ricadere nel peccato, e ha ricevuto da Dio la grazia del perdono, che egli accoglie con gioia come dono e assume con serietà come compito di vita rinnovata, che si impegna a non smarrire.

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Note

  1. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Oscar Mondadori, 2009, p. 9. Testo

  2. C. Fantini, Il trattato ps. Agostiniano 'De vera et falsa poenitentia', in "Ricerche di Storia Religiosa" 1 (1954), pp. 200-209. Testo

  3. Edito in PL 40, cc. 1113-1130; l'Admonitio si trova alle cc. 1111-1114. Testo

  4. Johannes Trithemius, pseudonimo di Johann Heidenberg (1462-1516), fu abate benedettino di Sponheim. Nel suo De scriptoribus ecclesiasticis, edito nel 1494, mise in dubbio per la prima volta la paternità agostiniana del trattato. Testo

  5. Il suo vero nome è Martin Azpilcueta (1492-1586). Testo

  6. Nel suo Criticus Augustinianus, elaborò una puntuale analisi degli argomenti contro l'autenticità agostiniana del trattato. Testo

  7. Cfr. Lutero, Briefwechsel, vol. 1, Weimar, 1883, 65, 24-26. Testo

  8. Cfr. ivi, 29-66. Testo

  9. Cfr. É. Amann, Pénitence-repentir. IV. La penitence chez les théologiens du Moyen Age, in "Dictionnaire de théologie catholique", éd A. Vacant et E. Mangenot, continué par E. Amann, Paris, vol. XII, 1933, cc. 734-738; C. Fantini, Il trattato, cit., p. 200. Testo

  10. L'edizione di Erasmo dell'Opera Omnia di Agostino è del 1528-1529; in essa egli omette, senza darne ragione, il De vera et falsa poenitentia, insieme ad altri scritti. Nella prima edizione invece, pubblicata da Johann Amerbach, si trovavano, oltre agli scritti di Agostino autentici, anche quelli spuri. Cfr. G. Pani, Paolo, Agostino, Lutero, cit., p. 86, n. 40, che rinvia a J. De Ghellinck, Les éditions des 'Opera omnia S. Augustini' avant les Mauristes, in Patristique et Moyen Age. Études d'histoire littéraire et doctrinale. III Complements à l'étude de la Patristique, in Museum Lessianum. Section Historique 9, Bruxelles-Paris, Desclée de Brouwer, 1948, pp. 366-411, spec. p. 390. Testo

  11. Cfr. H. C. Lea, A History of Auricular Confession and Indulgences in the Latin Church, Philadelphia, Lea Brothers & Co., 1896, vol. I, spec. pp. 209-210, n. 3. [Vers. it.: Storia della confessione auricolare e delle indulgenze nella Chiesa latina, a cura di P. Cremonini, Mendrisio, Cultura moderna, 1911, vol. I, spec. p. 253, n. 1]. Testo

  12. Cfr. Graziano, Decretum Magistri Gratiani, ed. E. Friedberg, in Corpus Iuris Canonici, pars prior, Leipzig, Tauchnitz, 18792. Tractatus de penitencia, in Decreti secunda pars, Causa XXXIII, Quaestio III, distinctions I-VII, ib., cc. 1159-1247. Cfr. anche in PL 187, cc. 1519-1644. Petrus Lombardus, Sententiae in IV libris distinctae, I-II, Grottaferrata (Romae), Editiones Collegii S. Bonaventurae Ad Claras Aquas, 1971-19813. Tractatus de poenitentia, in Sent. I, IV, dist. XIV-XXII, ib., pp. 315-390. Cfr. anche in PL 192, cc. 868-899. Testo

  13. Dopo il cap. IX, sulla vera e falsa penitenza, seguono: il cap. X, la vis confessionis; il cap. XI, la penitenza pubblica e segreta; il cap. XII, la penitenza nell'unità della Chiesa; il cap. XIII, il continuo dolore nella penitenza; il cap. XIV, la colpa e le sue circostanze; il cap. XV, la disposizione interiore del penitente; il cap. XVI, la responsabilità personale nel peccato; i capp. XVII e XVIII, la penitenza tardiva e le pene nel purgatorio. I titoli dei capitoli sono stati da me liberamente formulati sulla base di quelli del testo edito dal Migne. Testo

  14. Il cap. I si presenta come un'introduzione, in cui l'autore inserisce la dedica, l'oggetto, le linee programmatiche e le finalità dell'opera; il cap. VIII sembra fare da ponte tra la prima e la seconda parte, sia per il punto in cui è posto che per il tema che affronta, la necessità della penitenza, quasi a coronamento della difesa, appena conclusa, della reiterabilità del sacramento. Sorprende l'argomento del cap. XIX, l'etimologia del termine penitenza, inserito ad un passo dalla conclusione del trattato, che l'autore velatamente giustifica ricordando che la necessità di dolersi sempre del peccato, sinora sostenuta a livello teologico, trova conferma anche sul piano lessicale. Il cap. XX infine si presenta come una conclusione, in cui dopo aver trattato delle qualità del confessore, l'autore riprende la dedica iniziale. Testo

  15. Nella prima parte, sono le dottrine poste a confronto - "vera" quella dell'autore, "falsa" quella degli avversari - ad essere trasversalmente riconducibili al titolo; nella seconda parte invece, sono le questioni affrontate a rispecchiarlo in modo più diretto e fedele, perché ineriscono precisamente la distinzione tra la vera e la falsa penitenza. Non a caso forse l'esplicitazione del titolo la troviamo solo all'inizio di questa seconda sezione, come incipit non solo del cap. IX, ma anche di quel secondo trattato che, più propriamente del primo, rispondeva all'argomento premesso e promesso dal titolo. E di fatto, la trasmissione del testo, a partire da Graziano e Pietro Lombardo, inizia sostanzialmente da qui. Testo

  16. Ogni brano scritto dal redattore finale sembra infatti assumere una specifica funzione: introdurre (cap. I), collegare (cap. VIII), precisare (cap. XIX) e concludere (cap. XX). Testo

  17. Il sistema della penitenza ripetibile viene ufficialmente approvato al concilio di Chalon-sur-Saône (644-656), circa cinquant'anni dopo il concilio di Toledo (589), nel quale si era invece manifestata la più forte indignazione dei vescovi rispetto alla nuova prassi penitenziale: cfr. concilio di Toledo, cap. 11 in Mansi 9, c. 995; concilio di Chalon-sur-Saône, can. 8 in CCL 148 A, p. 304. Testo

  18. R. Rusconi, L'ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 30-31. Testo

  19. Cfr. C. Vogel, Il peccatore e la penitenza nel Medioevo, Leumann (Torino), ElleDiCi, 19882, pp.5-6 [Ed. orig.: Le pécheur et la pénitence dans l'Église au Moyen-Age, Paris, Cerf, 1969]. Testo

  20. 20 Cfr. K. Rahner, La penitenza della Chiesa. Saggi teologici e storici, Cinisello Balsamo (Milano), Paoline, 19923, pp. 379-469. Testo

  21. Nemmeno l'afflusso, favorito dalla pace costantiniana, dei nuovi convertiti dal paganesimo, meno inclini di altri a custodire l'innocenza battesimale per tutta la vita, riesce a modificare nel suo rigore la disciplina penitenziale, che resta l'unica opportunità di remissione dei peccati dopo il battesimo. Testo

  22. Qui diamo rilievo particolarmente al carattere della ripetibilità del sacramento, legato a quello della sua accessibilità, che ci sembrano le novità più immediatamente percepibili rispetto all'antico regime penitenziale. Non dimentichiamo però che la nuova forma di penitenza porta con sé anche altri aspetti (segretezza del processo penitenziale, tariffe stabilite per ogni peccato, liberazione dalle tasse penitenziali, una volta saldate) che la distinguono dal sistema antico. Testo

  23. Cfr. il testo del Concilio di Toledo del 589, già citato. Testo

  24. Cfr. il testo del Concilio di Chalon-sur-Saône del 644-656, già citato. Testo

  25. Cfr. PL 40, c. 1113: cap. II, par. 3; il motivo della fede come origine della penitenza torna anche in seguito: cfr. PL 40, c. 1124: cap. XIII, par. 28. Testo

  26. Cfr. PL 40, cc. 1113-1114: cap. II, par. 3. Testo

  27. Cfr. PL 40, cc. 1119-1120: cap. VIII, par. 20. Cfr. anche PL 40, c. 1125: cap. XIV, par. 29. Testo

  28. Circa il peccato che "offende molti": cfr. PL 40, c. 1123: cap. XI, par. 26; riguardo l'offesa recata alla Chiesa come "sposa, madre, figlia e sorella" di Dio: cfr. PL 40, c. 1124: cap. XII, par. 27. Testo

  29. Cfr. PL 40, c. 1125: cap. XIV, par. 29. Testo

  30. Cfr. PL 40, c. 1123: cap. XI, par. 26. Testo

  31. Cfr. PL 40, c. 1123: cap. XII, par. 27. Testo

  32. Cfr. PL 40, c. 1124: cap. XIII, par. 28. Testo

  33. Le lacrime possono essere anche lacrimae mentis, visibili però negli "occhi di carne": cfr. PL 40, cc. 1121-1122: cap. IX, par. 24; le lacrime visibili mostrano il pentimento: PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25; esse commuovono il Signore: cfr. PL 40, c. 1123: cap. XI, par. 26; purificano ogni tipo di peccato: cfr. PL 40, c. 1125: cap. XIV, par. 29. Testo

  34. Chi ha peccato, si vergogni da sé: cfr. PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25; la vergogna ha una parte di remissione e il rossore con cui si manifesta è già una gran pena. Testo

  35. Cfr. PL 40, cc. 1124-1125: cap. XIV, par. 29. Testo

  36. Cfr. PL 40, c. 1125: cap. XIV, par. 29. Il peccato non rimane mai nei suoi confini: un solo vizio reca danno ad ogni virtù. Testo

  37. Cfr. PL 40, cc. 1126-1127: cap. XVI, par. 32. Testo

  38. La non necessità del peccato, che si evince in questo capitolo XVI, veniva accennata anche prima: cfr. PL 40, c. 1120: cap. VIII, par. 22. Testo

  39. Cfr. PL 40, c. 1127: cap. XVI, par. 32. Testo

  40. Cfr. PL 40, c. 1126: cap. XVI, par. 32. Testo

  41. Cfr. PL 40, c. 1127: cap. XVI, par. 32. Testo

  42. Cfr. PL 40, c. 1121: cap. IX, par. 23. Testo

  43. Cfr. PL 40, cc. 1122-1123: cap. X, par. 25. Testo

  44. Cfr. PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25. Testo

  45. "Quem igitur poenitet [...] repraesentet vitam suam Deo per sacerdotem": PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25. Questa è una delle tre espressioni-chiave per il come confessarsi, su cui torneremo tra poco. Il "vero" Agostino dirà, con un'immagine ancora più forte, che confessarsi è procedere dal buio e dalle tenebre, "Ipsum confiteri, ab occulto et a tenebroso procedere est": Agostino, Sermo CCCLII, De utilitate agendae poenitentiae, in PL 39, c. 1558. Il sermone si trova alle cc. 1549-1560. Testo

  46. Le espressioni cui stiamo per riferirci non sono riprese alla lettera dal testo, ma rielaborate da noi liberamente, seppure in minima parte. Testo

  47. Cfr. PL 40, c. 1121: cap. IX, par. 24. Testo

  48. Cfr. PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25. Testo

  49. Si tratta di Lc 17, 14, dove i lebbrosi vengono invitati dal Signore a presentarsi ai sacerdoti. Testo

  50. L'autore lo dice chiaramente: "ex misericordia enim hoc praecepit Dominus, ut neminem poeniteret in occulto": PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25. Testo

  51. Nel trattato, l'invito alla vergogna assume un duplice orientamento: se il penitente considera il sacerdote nella sua condizione umana di peccatore, non ha ragione di vergognarsi dinanzi a lui, che gli è simile (cfr. PL 40, c. 1129: cap. XIX, par. 35); se invece lo considera secondo il suo ministero sacerdotale, come rappresentante di Dio, dinanzi a lui non può che provare e manifestare vergogna (cfr. PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25). Testo

  52. Cfr. PL 40, c. 1122: cap. X, par. 25. Testo

  53. Cfr. PL 40, c. 1123: cap. XI, par. 26. Testo

  54. Alludiamo qui al duplice significato del termine os, come "volto" e "bocca". Testo

  55. Anche i peccati lievi infatti vanno confessati, perché, se trascurati, possono divenire una sorta di scabbia per il peccatore: cfr. PL 40, c. 1120: cap. VIII, par. 21. Testo

  56. Cfr. PL 40, c. 1125: cap. XV, par. 30. Testo

  57. Cfr. G. Bonaccorso, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, Padova, EMP - Abbazia di Santa Giustina, 2003, spec. pp. 181-223, che rilegge il "come celebrare" alla luce delle categorie tempo, spazio e azione. Testo

  58. Cfr. PL 40, c. 1125: cap. XV, par. 30. Testo

  59. Cfr. PL 40, c. 1126: cap. XV, par. 31. Testo

  60. Cfr. PL 40, c. 1125: cap. XV, par. 30. Testo

  61. Cfr. PL 40, c. 1126: cap. XV, par. 31. Testo

  62. Alludiamo qui all'espressione che l'autore usa per la Chiesa, considerata "sposa, madre, figlia, sorella" di Dio: cfr. PL 40, c. 1124: cap. XII, par. 27. Testo

  63. Cfr. PL 40, c. 1125: cap. XV, par. 30, in cui si fa riferimento al passo di Lc 21, 2. La vedova non è una penitente che espia il suo peccato donando tutto ciò che possiede; ma l'autore la menziona ugualmente, come esempio di generosità, pronta a donare senza riserve qualcosa di materiale perché mossa dall'offerta spirituale. Testo

  64. Ivi. Testo