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Barth e la filosofia: una prospettiva ermeneutica?
Per una lettura filosofica della teologia barthiana

di Mauro Cinquetti (10 marzo 2005)

Una breve ricapitolazione delle fasi cruciali del pensiero di Barth, dall'Epistola ai Romani (1922) alla Kirchliche Dogmatik (1932-68) passando attraverso il Fides quaerens intellectum (1931), permette di mettere in evidenza come il rapporto tra la filosofia e la teologia barthiana della Parola abbia avuto un'evoluzione nel tempo pur mantenendo sempre una coerenza di fondo. Essa consiste in un continuo tentativo di ridare alla filosofia un ruolo che le è proprio, un ruolo «umano», nella consapevolezza del proprio limite e della insuperabile «differenza qualitativa» rispetto a Dio. Su questa linea il compimento del percorso di Barth sembra avanzare per la filosofia una prospettiva di «eclettismo ermeneutico».

«Non si può parlare della filosofia come di un pericolo nella spiegazione della Scrittura, ma invece di una necessità. La filosofia e cioè, fondamentalmente, ogni filosofia può essere criticata nel servizio alla parola di Dio e può acquistare una forza critica legittima, può essere illuminata e può anche realmente illuminare, può essere messa in movimento e può, lei stessa, mettere in movimento».1 Questa importante affermazione di Karl Barth del 1938 si colloca a compimento di un percorso complesso che attraversa tutto il suo pensiero e che riguarda il rapporto cruciale tra la sua teologia, incentrata sulla Parola di Dio, e la filosofia, intesa come razionalità umana.

Cercheremo di delineare brevemente i punti salienti di questo itinerario facendo riferimento innanzitutto al Römerbrief del 1922, manifesto della fase "dialettica" del pensiero barthiano, proseguiremo attraverso alcune considerazioni contenute nel Fides quaerens intellectum del 1931, in cui Barth commenta in modo originale la prova ontologica di Anselmo d'Aosta, infine arriveremo ad abbozzare alcune posizioni presenti nella monumentale Kirchliche Dogmatik, opera che occupa tutta la fase finale della vita dell'autore (1932-1968).

La tesi che si intende sostenere è che il pensiero di Barth sui rapporti tra teologia e filosofia ha visto certamente un'evoluzione nel tempo, ma ha sempre mantenuto una sua coerenza di fondo. Essa consiste in un costante tentativo di ridare alla filosofia un ruolo che le è proprio, un ruolo umano, nella consapevolezza dei propri limiti e della «differenza qualitativa» rispetto a Dio. Il compimento del percorso barthiano sul ruolo della filosofia sembra prospettare un compito ermeneutico.

1. Il Römerbrief e la fase dialettica

Fin dal Römerbrief del 1922 due sono le istanze di fondo che si possono individuare nel pensiero di Barth in merito alla verità: da un lato un'istanza di inattingibilità, di differenza insuperabile, di strutturale limitatezza della ragione umana, dall'altro un'istanza di relazione originaria con una verità che interpella l'uomo, che si rivela, che precede l'intelletto umano. Non si tratta di istanze contraddittorie, ma di una dinamica che attraversa tutta l'opera barthiana secondo la quale a parte hominis la verità è «totalmente altra», ma a parte Dei l'uomo si trova salvato e illuminato dalla rivelazione. «Non vi è da parte nostra alcuna considerazione oggettiva della verità. La verità è l'oggettività che ci osserva, prima che abbiamo osservato qualsiasi cosa. Essa è l'oggettività primaria della fondazione del soggetto osservante».2 Da un lato l'uomo non può raggiungere la verità, dall'altro però è la verità che osserva, precede e fonda l'uomo.

L'istanza della discontinuità e rottura insanabile tra ragione umana e verità si radica nell'«infinita differenza qualitativa tra il tempo e l'eternità» che è la tesi fondamentale del Römerbrief. Dio, che è verità, è il Dio sconosciuto e irraggiungibile:

Chi ha da fare con la verità ha da fare con Dio, col Dio sconosciuto, nascosto, santo che abita in una luce inaccessibile. La sua vita è al di sopra della vita e della morte. Il suo bene è al di sopra del bene e del male [...]. Perciò la verità non sta e cade con noi, non vive e muore con noi, non ha ragione quando abbiamo ragione e non diventa errore quando noi erriamo, non trionfa nei nostri trionfi e non soggiace nelle nostre sconfitte [...]. E appunto in questa sua infinita superiorità nei confronti di ogni cosa nostra essa è la nostra speranza, la nostra infrangibile relazione con Dio, la nostra eredità immortale.3

Da questo punto di vista non esiste filosofia capace di cogliere la verità: «Tutti i tentativi fatti da Oetiger fino a Beck, da Rothe fino a Steiner [...] onde pervenire attraverso la speculazione della filosofia naturale alla realtà visibile di una corporeità spirituale devono essere abbandonati come fonti di errore».4 Caratteristico della verità è proprio il fatto di essere inesauribile, non catturabile, inoggettivabile: «Come potrebbe essere la verità se noi, come siamo, potessimo prenderne visione direttamente? Come potrebbe essere Dio se potesse diventare per noi una qualsiasi possibilità fra le altre? [...] «una speranza visibile non è speranza»».5 La verità allora si colloca nella dimensione della speranza e non della conoscenza.

Ma su cosa si fonda questa speranza? Su questo punto si innesta una seconda istanza, presente fin dalla cosiddetta fase dialettica e radicata nel momento della rivelazione di Dio. La verità che è in Dio precede l'uomo, ogni sua ricerca, ogni suo sforzo, ogni suo domandare:

Noi non possiamo domandare alla verità: perché sei la verità? Poiché essa ci ha già domandato: chi sei tu dunque? E con la domanda ha già dato anche la risposta infinitamente ricca di significato: tu sei l'uomo, quest'uomo in questo mondo, e tu sei di Dio, di Dio creatore e redentore. E sul terreno di questa domanda già posta e di questa risposta già data e non mai altrove si svolge il nostro domandare e rispondere. Con la verità non possiamo iniziare niente, perché essa stessa è il nostro inizio. Noi dobbiamo accomodarci a lasciare che essa sia la verità, a vivere con lei, sotto il suo assalto annientante e sotto la sua infinita benedizione.6

L'uomo eletto da Dio dall'eternità e per l'eternità, è scelto dalla verità, assalito, interpellato continuamente da essa. Dio ha scelto di rivelarsi all'uomo, di abbassarsi, di umiliarsi nella kenosis e con questo ha scelto di rendere l'uomo partecipe della verità e di farlo suo figlio: «Che la verità sia la verità e che noi siamo originariamente partecipi della verità, ce lo dice la verità stessa».7 Consapevole o meno l'uomo è coinvolto in questo processo di rivelazione, in questa domanda già posta che lo interroga continuamente: «Tutto ciò che accade a noi e in noi può soltanto essere risposta a quello che lo Spirito stesso dice. Quello che il nostro spirito dice può essere forte, vero, vivente soltanto come risposta. E al di là, sempre al di là di questa forza, verità, vitalità, parla lo Spirito stesso, parla Dio: parla di ciò che è incommensurabilmente più grande delle più grandi cose che il nostro spirito può dire».8

Con la forza proveniente da questa speranza Barth in una conferenza del 1922 arriva a prospettare un ruolo ancora positivo per la ragione e il linguaggio umani. In virtù della rivelazione e della kenosis di Dio il pensiero e le parole umane assumono un valore che in se stesse non avrebbero:

Potrebbe darsi che questa fosse la verità vivente, che è al di sopra del no e del sì, la realtà di Dio, di cui non posso disporre con un rivolgimento dialettico, ma che dispone secondo la propria potenza e il proprio amore; potrebbe darsi che la promessa sia entrata nel nostro tormento; che la parola, la parola di Dio, che noi non pronunceremo mai, abbia assunto la nostra debolezza e stortura, cosicché la nostra parola, nella sua debolezza e stortura, divenga capace di essere almeno involucro e vaso di terra della parola di Dio. Potrebbe darsi, dico, e se fosse così, allora avremmo tutte le ragioni non per parlare della miseria, ma per parlare chiaramente e fortemente della speranza, del nascosto splendore della nostra professione.9

L'uomo è nella miseria, ma anche nella speranza. La compresenza dialettica di queste due istanze contrastanti che attraversa il Römerbrief del 1922 lascia uno spazio e una possibilità alla filosofia e alla razionalità e rappresenta il punto di partenza per le riflessioni che Barth avanzerà successivamente sul tema.

2. Il Fides quaerens intellectum del 1931

Superata la fase critico-polemica contro la teologia liberale rappresentata dal Römerbrief, Barth arriva a riproporre un ruolo positivo esplicito per la ragione umana in un'opera sulla prova ontologica di Anselmo d'Aosta del 1931.10

Riprendendo le posizioni già esposte nel Römerbrief del 1922, la verità divina nella sua assolutezza non dipende dalla ragione umana: «Non si può parlare quindi in alcun senso di un significato creatore e normativo della ratio umana riguardo alla verità».11 Tuttavia la ragione non è inutile, anzi ha un ruolo: «Non è la verità a essere vincolata alla ratio, ma questa alla verità».12 Per la ragione si prospetta un importante e insostituibile compito, essa si sottomette alla verità (contenuta nel testo della Scrittura) e cerca di trovarne i significati fondamentali: «poiché la verità dispone di ogni ratio e non viceversa, la rivelazione deve aver luogo dapprima e fondamentalmente nel modo dell'autorità, del testo esteriore».13 Dio non si rivela direttamente alla ragione umana, ma in un dato esteriore al quale la ragione deve applicarsi.

Due sono i punti nodali che emergono con chiarezza in questa nuova fase del pensiero di Barth riguardo al rapporto tra filosofia e Parola di Dio: l'inevitabilità della filosofia da un lato, la consapevolezza del primato della fede su di essa dall'altro.

Inevitabilità della filosofia

Innanzitutto occorre dire che per il Barth post-dialettico la filosofia, cioè qualche pregiudizio di carattere filosofico, è inevitabile: ogni volta che si accosta alla Parola di Dio, o a qualsiasi altro dato, il pensiero umano non può prescindere dalle proprie categorie. Significativa in questo senso è la prefazione al Fides quaerens intellectum: «Il facile sospetto che con questo procedimento io abbia inteso leggere questo o quello nel pensatore dell'XI secolo, formulandolo nel XX secolo al riparo della sua autorità, non mi turba affatto. Chi può leggere con altri occhi se non con i propri? Con questa riserva, ritengo di poter affermare che nulla ho qui esposto che non abbia letto in Anselmo».14 Questo aspetto, poco approfondito nel Römerbrief, permarrà sempre d'ora in poi nella successiva speculazione barthiana e rimarrà un punto fermo: non si può fare a meno di un qualche schema filosofico quando ci sia accosta alla Parola di Dio. Egli lo esprime bene in un'opera risalente ai primi anni '40 in cui si riproponeva nuovamente, seppur in modo più succinto, di commentare l'epistola ai Romani di Paolo: «Questo è stato il mio intento nei due momenti -- e continuerà ad esserlo anche in futuro -- se mai debba tornare a dire qualcosa sull'epistola ai Romani: far parlare lo stesso Paolo. Nessun esegeta può fare a meno di aggiungere l'espressione cautelativa: "come lo capisco io", e anch'io non ne faccio a meno. Ho avuto e ho una speranza: che Paolo sia tanto forte da ottenere ascolto nonostante la mediazione di un'esegesi ancora e di nuovo insufficiente».15

Nell'accostarsi alla Parola di Dio non è possibile abolire la filosofia, fare il vuoto totale nel proprio pensiero, cosa che rischierebbe di abolire il pensiero stesso... occorre essere consapevoli che non si può fare a meno di utilizzare concezioni filosofiche. Una qualche filosofia è inevitabile, l'importante è esserne coscienti e, in virtù di questa consapevolezza, rimanere aperti a tutte le prospettive di pensiero.

La filosofia non fonda la fede, ma la fede interroga la filosofia

In secondo luogo Barth è chiaro nell'affermare che, nonostante una qualche filosofia sia inevitabile, non è tuttavia la filosofia, la razionalità umana che fonda la fede. In una ricognizione autobiografica del 1938 Barth afferma di avere liberato il suo pensiero «degli ultimi residui di una fondazione ed esposizione filosofica, cioè antropologica, della dottrina cristiana».16 Questo significa, non che egli abbia rinunciato alla razionalità filosofica, bensì che la razionalità filosofica non può dimostrare e fondare gli articoli di fede. Non ci sono in questo senso prove puramente razionali dell'esistenza di Dio.

È interessante a questo proposito l'interpretazione che Barth dà della prova ontologica di Anselmo d'Aosta: essa è una prova che non si fonda sulla sola ragione umana, ma parte in realtà dal dato della fede: «Non si troverà in Anselmo alcun passo in cui il "provare", dunque l'argomentazione per quelli di fuori, all'indirizzo dell'incredulo, sia realizzata come un'azione diversa dall'indagine che si deve perseguire a partire dalla fede stessa».17

L'atteggiamento giusto della filosofia nei confronti della fede deve essere quello di sottomettersi ad essa, di mettersi al suo servizio. È esattamente l'atteggiamento di Anselmo: «Egli è così sicuro della sua fede a motivo della grazia proveniente di Dio, che non conosce nulla che lo potrebbe scostare dal credervi fermamente, anche se non potesse in nessuna maniera comprendere ciò che crede [...]. È l'essenza della fede a esigere la conoscenza. Credo ut intelligam significa: la mia fede stessa e in quanto tale è per me appello alla conoscenza».18 La fede è il dato di partenza, come tale è fermo, incrollabile, tuttavia è proprio questo dato che esige una chiarificazione, una maggiore comprensione ed è a questo punto che si inserisce la filosofia, il suo compito è quello di approfondire conoscitivamente il dato della fede proveniente dalla grazia di Dio. Anzi la filosofia diventa un'esigenza ineludibile per il credente:

La fides è quaerens intellectum. Perciò Anselmo considera che noi siamo colpevoli di negligenza, se, una volta rassodati nella fede, non cerchiamo di capire quanto crediamo. Perciò, proprio possedendo la certezza della fede, dobbiamo desiderare ardentemente la ratio fidei.19

Detto in altri termini: «L'intelligere si attua ri-pensando il Credo precedentemente detto e precedentemente riconosciuto».20 Compito della filosofia è l'«intelligere» che significa: «leggere in ciò che si è detto, ri-pensare, cioè nell'appropriarsi della verità percorrere effettivamente anche quel tratto intermedio (tra presa di coscienza e riconoscimento)».21 Tra la presa di coscienza della fede, che è un dato indeducibile, un miracolo, frutto della grazia di Dio, e il riconoscimento maturo della stessa vi è un tratto di strada da percorrere che è esattamente lo spazio della filosofia.

Barth è chiaro nell'affermare che la filosofia deve venire solo dopo la fede e mai prima, non possono esistere percorsi razionali che portino l'uomo alla fede (i cosiddetti preambula fidei della tradizione tomista) può esistere un ruolo per la filosofia solo dopo che Dio si è rivelato. Barth parla di auctoritas (l'atto con cui Dio dona la fede) e ratio (l'atto umano di comprendere la fede): tale binomio «non coincide con l'opposizione di Dio e uomo, ma indica la differenza di due livelli dell'unica via di Dio, per la quale l'uomo dapprima perviene alla fede e in seguito, sul fondamento della fede (ma ora sola ratione! ), alla conoscenza».22

Come ha acutamente notato Aguti «l'esigenza di ripensare il Credo soltanto per mezzo della ragione (sola ratione) non va quindi confusa con l'autorizzazione ad un uso autonomo della ragione (solitaria ratione)».23 Secondo Barth in Anselmo, contro ogni interpretazione tomista, si trova questo percorso: in lui la fede, il Credo non viene mai messo in discussione: «la ratio veritatis contenuta negli articoli del Credo cristiano neppure per un istante viene come tale messa in discussione; essa costituisce piuttosto il fondamento naturale della discussione».24 Il suo percorso diviene allora simile ad un'equazione algebrica in cui ci sono termini noti (gli articoli di fede, tra questi la definizione di Dio come id quo maius cogitari nequit), indiscutibili e un termine incognito (l'intelligibilità di questi articoli, già creduti): «Soltanto in apparenza il quo maius cogitari nequit è un concetto formulato da lui, in realtà è per lui un nome rivelato di Dio [...]. Questa esistenza di Dio, creduta per fede, sul presupposto del parimenti creduto nome di Dio, dev'essere conosciuta e provata, dev'essere compresa come necessariamente da pensare. Il nome di Dio è questa volta l'a tratto dal Credo, per mezzo del quale l'esistenza di Dio, posta ora come x, dev'essere trasformata da grandezza incognita (non non-creduta, bensì non-conosciuta) in una grandezza nota [...] non già credibile (lo è di per sé), ma intelligibile».25 L'uomo giunge in un primo tempo alla fede e soltanto dopo, sul fondamento di questa, per quanto per mezzo della sola ragione, alla conoscenza.26

Alla filosofia resta dunque un ruolo importante: quello di cercare con i suoi modelli di pensiero, i suoi "schemi mentali", di comprendere il dato della fede, della verità rivelata, nella consapevolezza della propria strutturale limitatezza e incapacità ad abbracciare tutta la verità: «la obiettiva ratio veritatis è troppo vasta in confronto alla capacità umana, perché si possa supporre che con le loro [dei filosofi, dei padri della chiesa] asserzioni si siano esaurite le possibilità dell'intelligere».27

3. La fase dogmatica (1932-68): la verità «vuole essere interpretata»28

Punto di arrivo della riflessione barthiana sul ruolo della filosofia è indubbiamente la sua opera più significativa per mole e per ampiezza di contenuti: la Kirchliche Dogmatik (KD).

In quest'opera viene portata a compimento l'impostazione già emersa nelle fasi precedenti. Emblematico è questo passaggio in cui Barth chiarisce definitivamente il rapporto tra la sua teologia incentrata sulla Parola di Dio e la filosofia:

Si fa qui manifesto che noi non siamo realmente nella condizione di disfarci della nostra ombra, cioè di sopportare il cosiddetto sacrificium intellectus. Come potremmo comprendere obbiettivamente il testo (della Sacra Scrittura) senza accostarlo soggettivamente, cioè con il nostro pensiero? Come potremmo farlo parlare a noi, se non muovessimo almeno le labbra per parlare anche noi con esso? L'esegeta non ha altre possibilità. Già in quello che dice come osservatore ed espositore, egli non lascia alcun dubbio sul fatto che -- coscientemente o no, in maniera culturalmente elaborata o primitiva, conseguente o inconseguente -- si accosta al testo partendo da una precisa teoria della conoscenza, dalla logica e dall'etica, da determinate concezioni e da ideali riguardanti il rapporto tra Dio, il mondo e l'uomo, e che non può semplicisticamente negare queste concezioni, nemmeno come lettore del testo. Ognuno, perfino il più semplice lettore della Bibbia (e costui forse con una sicurezza e una tenacia tutte particolari) possiede una qualche filosofia. O una qualche idea di sua propria elaborazione circa il fondamento e il comportamento della realtà -- una filosofia sia pure molto popolare, confusa ed eclettica, vacillante -- filosofia che possiede anche il dotto, la cui lettura della Bibbia risponde a un programma e a intenti di evidente osservazione critica.29

Ancora una volta troviamo l'affermazione dell'inevitabilità della filosofia. Tuttavia, appare chiaro, essa va posta al servizio della Parola di Dio che possiede il primato assoluto su ogni speculazione umana, come sempre avviene nel pensiero di Barth. La lettura e la comprensione della Bibbia devono «passare attraverso uno schema mentale (Denkschematismus), che serva allo scopo, come l'occhio alla visione», tuttavia Barth, coerentemente con le sue premesse, «non determina quale debba essere cotesto schema, per non correre il rischio di far passare dalla finestra la precomprensione estromessa dalla porta, cioè l'assunzione preferenziale di una filosofia, a norma della stessa Parola di Dio».30

La categoria dell'«interpretazione»

Barth chiarisce bene questo punto nel corso della Dogmatik utilizzando la categoria dell'«interpretazione», come categoria chiave per risolvere il rapporto tra razionalità umana e Parola divina. Si ha qui il compimento di quella prospettiva ermeneutica che probabilmente già era contenuta nelle sue premesse.

Barth fa una distinzione tra «interpretazione» e «illustrazione» della rivelazione. L'interpretazione è il modo corretto di parlare con linguaggio umano della Scrittura, la rivelazione infatti «non vuol essere illustrata, ma interpretata»,31 l'interpretazione della rivelazione attraverso il linguaggio è un evento in cui il linguaggio umano è «conquistato» dalla rivelazione. L'illustrazione invece è un modo sbagliato di porre il rapporto tra la verità contenuta nella rivelazione e il linguaggio: Barth usa un gioco di parole: «Interpretare significa dire la stessa cosa con altre parole. Illustrare significa dire la stessa cosa con altre parole».32 Nell'interpretazione l'accento è posto sul contenuto da esprimere al quale le parole umane si devono adeguare lasciandosi «conquistare», mentre nell'illustrazione l'accento è posto sulle parole umane che si impossessano del contenuto fino a travisarlo. Commenta Jüngel: «L'interpretazione salvaguarda l'identità della rivelazione in quanto porta al linguaggio la rivelazione (e questa sola) come rivelazione. Quando invece insieme con la rivelazione si porta al linguaggio anche il linguaggio stesso (nomina) come rivelazione, la rivelazione non è più salvaguardata come rivelazione [...]. Quando il linguaggio stesso vuole (deve) essere rivelazione, si perde come linguaggio. Quando invece la rivelazione conquista il linguaggio, accade la parola di Dio. La parola di Dio porta il linguaggio alla sua essenza».33 Sottolinea Barth: «se sappiamo che cos'è la rivelazione, dobbiamo arrivare a lasciar parlare la rivelazione stessa, anche quando siamo noi a parlare intenzionalmente della rivelazione».34 Dio si consegna al linguaggio umano, come una richiesta che lo interpella. La rivelazione ha un valore primario rispetto alle parole umane, è «la condizione di possibilità dell'interpretazione della rivelazione».35

La filosofia deve allora essere strumento della verità attraverso un lavoro ermeneutico inesauribile. Nello sforzo ermeneutico della filosofia avviene quel dialogo tra il tempo e l'eternità, uomo e Dio, in cui i due termini si trovano insieme senza annullarsi. Interpretando la rivelazione di Dio, accolta per fede, avviene un'appropriazione personale della verità: il tempo diviene «simbolo» dell'eternità, viene portata così ad evidenza l'«analogia» (fondata però solo da Dio e in Dio) tra i due termini.

Ermeneutica ed eclettismo filosofico barthiano

Il primato della Parola divina rivelata sul pensiero umano che acquisisce quindi una dimensione interpretativa e non fondativa («illustrativa») si manifesta in un approccio eclettico in ambito filosofico. Per il lavoro interpretativo Barth non sceglie uno strumento privilegiato, una corrente di pensiero prestabilita, un sistema predefinito. In questo è forte la sua polemica con Bultmann36 che propone di leggere la Parola di Dio demitizzandola e alla luce della filosofia esistenzialistica.

Scegliere un solo strumento (in questo caso l'esistenzialismo) è limitante nei confronti dell'inesauribilità della verità di Dio. Occorre invece mettere la filosofia in ascolto della verità e al servizio di essa: il primato va dato a Dio e alla sua Parola che non va sistematizzata all'interno di una filosofia, perché vorrebbe dire incasellarla in categorie predefinite che rischierebbero di travisarla. Da questo nasce il suo netto rifiuto di ogni presa di posizione filosofica esclusiva. In alcuni testi autobiografici Barth respinge l'esistenzializzazione del linguaggio teologico, tanto in voga in quegli anni: «io vedevo la teologia nuovamente intrappolata nel vicolo cieco di un'antropologia filosofica... dal quale per decenni avevo sentito il dovere di tirarla fuori. Che il "parlare di Dio" sia di più che "parlare dell'uomo in modo un po' più elevato"... era stato il mio punto di partenza critico di un tempo».37

Con ciò, lo ripetiamo, Barth non intendeva dire che la filosofia dovesse essere accantonata nell'approccio alla parola di Dio (sarebbe un tentativo impossibile, come abbiamo visto), l'errore è però farne una questione di principio: «"Come cristiani dobbiamo avere la libertà di lasciare che i modi più diversi di pensare scorazzino per la nostra testa [...]. Oggi ci viene offerto l'esistenzialismo; certamente anche in esso ci sono cose importanti... Come cristiani abbiamo la libertà di farlo... Qui io parteggio per l'eclettismo". Barth credeva che l'influsso delle idee filosofiche sulla teologia non potesse né dovesse venire escluso. Solo che il loro uso non doveva essere una questione di principio, ma soltanto una questione di cosciente e dichiarato eclettismo».38

Tutte le filosofie sono utili per dare interpretazioni illuminanti della Verità, nessuna è privilegiata, ma nessuna è a priori esclusa dalla possibilità di gettare una luce nuova su Dio che si rivela: «La filosofia e cioè, fondamentalmente, ogni filosofia può essere criticata nel servizio alla parola di Dio e può acquistare una forza critica legittima, può essere illuminata e può anche realmente illuminare, può essere messa in movimento e può, lei stessa, mettere in movimento»39 . Tale eclettismo non consiste per Barth in un mettere sullo stesso piano tutte le filosofie, senza un criterio di discernimento e senza badare alla coerenza interna di esse, tutte queste filosofie vanno invece confrontate e fatte interagire con la Parola di Dio, essa è il criterio oggettivo in base al quale i contributi di pensiero delle diverse scuole filosofiche vanno compresi e organizzati mettendo il pensiero al servizio della verità rivelata di Dio e non viceversa la rivelazione di Dio al servizio di uno schema di pensiero predefinito. Dunque di nuovo «non è la verità a essere vincolata alla ratio, ma questa alla verità».40

4. Eclettismo ermeneutico e libertà di pensiero

Alla luce delle considerazioni avanzate da Barth in particolare su Bultmann si possono individuare tre punti cruciali attorno ai quali costruire un ruolo positivo per la filosofia di fronte alla parola di Dio, depositaria della verità rivelata da Dio e non attingibile sola ratione.

Il primo punto consiste nel rifiutare che un sistema filosofico pretenda di essere una chiave interpretativa assoluta e definitiva. «La sottomissione della comprensione del Nuovo Testamento ad una struttura anticipatoria del comprendere presuppone, in altri termini, da parte dell'interprete il riconoscimento di un'antropologia ben strutturata dalla quale derivare i criteri ermeneutici»,41 col rischio forte di imporre un canone estraneo all'ermeneutica biblica in modo che «la comprensione realizzata per mezzo di un metodo preso come chiave esclusiva di accesso al testo viene però così a contrapporsi, secondo Barth, all'illuminazione per mezzo dello Spirito».42

Il secondo punto consiste in un atteggiamento filosofico di prudenza nei confronti di ogni scuola di pensiero. Proprio perché «l'applicazione generalizzata di un metodo esegetico tratto dalla filosofia finisce più per complicare che per favorire l'interpretazione biblica» egli rifiuta non tanto i singoli metodi, ma «l'idea della validità assoluta di un metodo tratto dalla filosofia».43 Occorre invece lasciare alla Scrittura la libertà di autoesplicazione:

Io non sono affatto un nemico della filosofia come tale, ma -- dopo che da giovane sono stato kantiano fin sopra le orecchie, dopo che in seguito ci ho provato con il Romanticismo di Schleiermacher, e dopo che, più tardi (con lo studio della teologia del XIX secolo), ho avuto chiara l'impressione [...] della naturalezza folgorante con la quale si è ritenuto di aver sentito da Hegel la prima e ultima parola riguardo a tutto il problema del "comprendere" -- sono diventato assai prudente verso qualsiasi pretesa di assolutezza da parte della filosofia, della dottrina della conoscenza e del metodo.44

Il terzo punto che ne consegue è che «occorre anzitutto essere consapevoli della distanza qualitativa che corre tra lo schematismo mentale e il contenuto della Scrittura» per cui «lo schematismo mentale non può pretendere di andare oltre la propria funzione di "tentativo" o di "ipotesi" interpretativa al fine di una migliore spiegazione del testo».45 Proprio in questo si fonda l'eclettismo ermeneutico di Barth, «tutti gli schematismi mentali possono essere chiavi interpretative utili a migliorare ed allargare la comprensione del testo (e viceversa nessuno lo è di principio)»,46 sicché alla fine «non sermoni res, sed rei sit sermo subiectus».47 Proprio questa «distanza qualitativa» tra Dio e uomo riporta Barth alle origini dialettiche, mai smentite, ma confermate dall'approccio ermeneutico che delinea nella maturità.

L'eclettismo filosofico di Barth ha il pregio di dare alla filosofia la consapevolezza dei suoi limiti, di essere cioè semplice espressione del pensiero umano e quindi strutturalmente finita. Proprio per questo il suo compito è un compito essenzialmente ermeneutico cioè di interpretazione della verità rivelata da Dio, utilizzando i mezzi provenienti dalle diverse scuole di pensiero, senza bocciarne a priori nessuna, così come senza sceglierne a priori una particolare.

Ne risulta una estrema libertà di pensiero e il rifiuto di catalogazioni aprioristiche in una determinata scuola, nella consapevolezza dei limiti della razionalità e della condizione umana in generale. Una bella sintesi in questo senso è rappresentata da queste parole di Barth in cui traccia un bilancio della sua esperienza umana e intellettuale:

La teologia esige uomini liberi. Come giovane teologo, appartenevo ad una scuola. Non era una cattiva scuola: ancora penso con gratitudine ai miei maestri di allora. Ma proprio dalla loro scuola dovetti poi liberarmi, non solo perché qualcosa del loro insegnamento ormai non andava più, ma soprattutto perché era una scuola. E adesso non vorrei che il risultato della mia vita fosse il formarsi di una nuova scuola. Di solito dico a tutti quelli che vogliono ascoltare, che io stesso non sono comunque un "barthiano", perché, dopo aver imparato una cosa, voglio restar libero di impararne un'altra. Voi capite che cosa voglio dirvi con questo: nei limiti del possibile, non fate tanto ricorso al mio nome! Perché c'è un solo nome che abbia interesse, mentre l'importanza data a tutti gli altri può suscitare solo vincoli errati e, negli altri, tediosa gelosia e irrigidimento. E neppure accettate senza esame alcuna delle mie proposizioni, ma confrontate ognuna di esse con la parola di Dio, la sola vera, che è per noi tutti la fonte del giudizio e della dottrina! Mi capite bene, se vi lasciate guidare da quello che dico io a ciò che Egli dice. Un buon teologo non abita un edificio di idee, di principî, e di metodi. Ci passa in mezzo, per ritrovarsi all'aperto. Resta in cammino. Ha davanti agli occhi la lontananza, gli alti monti e l'infinito mare di Dio -- e proprio anche questo lo rende sicuramente molto vicino agli altri buoni e cattivi, felici e infelici, cristiani e pagani, occidentali e orientali, per i quali può essere in tutta modestia un testimone.48

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Note

  1. K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, I/2, Zollikon 1938, p. 834. La traduzione di questo passaggio è tratta dal testo di A. Aguti, La questione dell'ermeneutica in Karl Barth, EDB, Bologna 2001, p. 143. Testo

  2. K. Barth, L'Epistola ai Romani, trad. di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1962, 19742, 19893, 19934, 2002, p. 268. D'ora in poi segneremo i riferimenti alle pagine di quest'opera con la sigla ER. Testo

  3. K. Barth, ER, cit. nota 2, p. 269. Testo

  4. K. Barth, ER, cit. nota 2, p. 270. Testo

  5. K. Barth, ER, cit. nota 2, p. 295. Testo

  6. K. Barth, ER, cit. nota 2, pp. 268 s. Testo

  7. K. Barth, ER, cit. nota 2, p. 279. Testo

  8. K. Barth, ER, cit. nota 2, p. 280. Testo

  9. K. Barth, La parola di Dio come compito della teologia, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, trad. it. di M. C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1976, pp. 236-258 (qui p. 258). Si tratta di una conferenza del 1922. Testo

  10. K. Barth, Anselmo d'Aosta. Fides quaerens intellectum, Morcelliana, Brescia 2001. Da ora in poi citeremo quest'opera con la sigla FQI. Testo

  11. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 94. Testo

  12. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 93. Testo

  13. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 95. Testo

  14. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 47. Testo

  15. K. Barth, Breve commentario all'epistola ai Romani, tr. . it. di M. C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1990, p. 22. L'espressione è contenuta nell'introduzione che risale al 1956, anno di pubblicazione. Testo

  16. K. Barth, Autobiografia critica (1928-1958), a cura di P. Grassi, La Locusta, Vicenza 1978, p. 34 (si tratta qui della ricognizione del 1938 apparsa in «The Christian Century», nel settembre 1939 col titolo How my mind has changed). Testo

  17. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 117. Testo

  18. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 61. Si noti che Luigi Pareyson nella sua Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, 20002, p. 147, fa affermazioni molto simili pur senza citare Barth. Testo

  19. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 64. Testo

  20. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 75. Testo

  21. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 89. Testo

  22. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 96. Testo

  23. A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 154. Testo

  24. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 112. Testo

  25. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 133. Testo

  26. Cf. A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 155. Testo

  27. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 76. Testo

  28. Cf. K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, I/1, München 1932, p. 364. Testo

  29. Cf. K. Barth, Die Kirchliche..., I/2, cit. nota 1, p. 816. Tale citazione e traduzione italiana è ripresa da B. Gherardini, La seconda riforma, vol. II, Morcelliana, Brescia 1966, pp. 101 s. Testo

  30. B. Gherardini, La seconda riforma, vol. II, cit. nota 29, pp. 102 s. Testo

  31. K. Barth, Die Kirchliche..., I/1, cit. nota 28, p. 364. Cfr. Su questo punto E. Jüngel, L'essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di Karl Barth, Marietti, Casale Monferrato 1986, pp. 90 ss. Testo

  32. K. Barth, Die Kirchliche..., I/1, cit. nota 28, p. 364. Testo

  33. E. Jüngel, L'essere di Dio..., cit. nota 31, p. 91. Testo

  34. K. Barth, Die Kirchliche..., I/1, cit. nota 28, p. 366. Testo

  35. E. Jüngel, L'essere di Dio..., cit. nota 31, p. 92. Testo

  36. La posizione di Barth rispetto a Bultmann è contenuta in uno scritto del 1952 dal titolo Rudolf Bultmann. Ein Versuch ihn zu verstehen, tr. it. nel volume curato da A. Grillo: K. Barth, Tre ritratti: Schleiermacher, Herrmann, Bultmann, Messaggero, Padova 1998, pp. 123-188. Testo

  37. Citazione tratta da un testo autobiografico del 1964 (TA IV). Citato da E. Busch, Karl Barth. Biografia, tr. it. di G. Moretto, Queriniana, Brescia 1977, p. 347. Testo

  38. E. Busch, Karl Barth. Biografia, cit. nota 37, p. 348. La citazione interna tra virgolette è tratta da Conversazione II, settembre 1953. Testo

  39. K. Barth, Die Kirchiche..., I/2, cit. nota 1, p. 824. Testo

  40. K. Barth, FQI, cit. nota 10, p. 93. Testo

  41. A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 229. Testo

  42. A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 230. Testo

  43. A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 234. Testo

  44. K. Barth, R. Bultmann, Briefwechsel (1911-1966), Zürich, 19942, p. 193. La traduzione italiana di questo passo è tratta da A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 234. Testo

  45. A. Aguti, La questione dell'ermeneutica..., cit. nota 1, p. 142. Testo

  46. Ibidem, p. 142. Testo

  47. Cf. K. Barth, Die Kirchliche..., I/2, cit. nota 1, pp. 818-825. Rifacendosi a queste pagine B. Gherardini trae una chiara sintesi in cinque punti dell'atteggiamento barthiano nei confronti della filosofia. Cf. B. Gherardini, La seconda riforma, vol. II, cit. nota 29, p. 103. Testo

  48. Lettera «Ai miei amici in Giappone», 1956, in K. Barth, Offene Briefe 1945-1968, Zürich 1984, p. 375, tr. it. in K. Barth, Iniziare dall'inizio, Queriniana, Brescia 1990, pp. 176 s. (traduzione leggermente modificata, cf. E. Busch. Karl Barth. Biografia, cit., pp. 376 s.). Testo