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Il concetto di giustizia in S. Tommaso d'Aquino

di Maria Francesca Carnea (21 marzo 2012)

Giustizia e Intelligenza: la nostra esistenza è realmente stimolata da criteri virtuosi, sostegni all'homo viator per la completezza del suo divenire umano, e altresì illuminata dal discernimento al bene comune e al vero? Nelle pagine seguenti analizzeremo questo problema nella prospettiva di Tommaso d'Aquino, uno dei pilastri del pensiero filosofico e teologico cristiano, la cui fecondità non cessa di sorprendere. La sua filosofia si può considerare come il più grande sforzo di fondere Aristotele con i principi filosofici del Cristianesimo. La filosofia tomista, riprendendo e continuando l'intellettualismo aristotelico, tende a riaffermare i diritti della ragione sulla fede, dell'intelletto sulla volontà. L'Aquinate, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell'azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del «Sermone della Montagna» se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all'azione del suo Santo Spirito. Però -- aggiunge Tommaso -- «anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l'uomo» (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c'è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale.

La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell'uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana. Pertanto, determinante nell'uomo è l'autoaffermazione coscienziale, ovvero la sinderesi come capacità di distinguere il bene dal male. San Girolamo nel Commento ad Ezechiele (I, c. I), la indica come quella parte dell'anima diversamente chiamata coscienza. La sinderesi, cioè permette all'uomo di avere autocoscienza, esame di sé, conoscenza innata del bene e del male, e quindi capacità di distinguere spontaneamente il bene dal male, capacità di dirigersi verso ciò che lo conserva, al bene che lo favorisce, conseguendo l'autoconservazione.

Secondo S. Tommaso, inoltre, la sinderesi esprime la tendenza innata dell'anima umana verso il bene e il suo rifiuto del male (Summa Theologica I, I q. 94, art. 1). Dalla sinderesi dipende quindi la capacità dell'uomo di desiderare il bene e di provare rimorso per il male compiuto.

1. L'uomo nucleo di desideri e di appetiti

I primi concetti dell'intelletto preesistono in noi come semi di scienza, questi sono conosciuti immediatamente dalla luce dell'intelletto agente dall'astrazione delle specie sensibili; in questi principi universali sono compresi, come germi di ragione, tutte le successive cognizioni. (De Veritate, q. 11 a. 1). L'apertura all'infinito si manifesta nelle inclinazioni e nelle tendenze profonde dell'uomo. Ogni agente opera in funzione di un fine. Il fine attira perché è un bene, e l'uomo, l'ente finito, ne è attratto come da un bisogno. L'uomo è un nucleo di desideri e di appetiti. L'appetito è universale e ogni ente finito tende ad andare oltre se stesso, perché da solo non basta a se stesso.

Vi è una netta distinzione tra il tendere ad un fine per se stessi, e il tendere perché portati dalla natura. Nell'uomo esistono le due tendenze. Per sua natura tende verso tutto ciò che è proprio dell'uomo, mosso dall'intelligenza ordinatrice. Si muove da se stesso negli atti che esercita, a partire dal potere della sua libertà. Anche per gli atti la motivazione è sempre il bene. Se non c'è bene non c'è attrazione. Il fine muove, perché ha già una sua attualità nel bene che suscita l'appetito.

Il fine e il bene sono ciò che è perfettivo e dunque amato (Summa Theologica I-II q. 1). Questa attrazione rende possibile, negli enti finiti, il cammino della perfezione. Ogni agente si muove in virtù di un fine, e questo fine è il suo bene. Il problema dell'uomo sta nel lasciarsi portare nelle cose naturali, verso il proprio bene e disporre la propria libertà per dirigersi, negli atti umani, verso il bene che le compete. La libertà può orientare oppure sviare. Tutto parte dall'impulso di un'attrazione e da un imperativo interiore, da una lex naturalis insita nell'origine del dinamismo umano, che è, inoltre, il segno della presenza di Dio nella creatura razionale. L'autonomia dell'uomo libero non ne resta impedita, piuttosto ne riceve un ulteriore impulso, è dominata e fondata. La legge fondamentale prescrive a ogni uomo intelligente: fa' il bene, non fare il male.1

Secondo S. Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana. Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell'uomo e l'affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Giovanni Paolo II scriveva nella Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità:

Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere (n. 71).

Dall'indole sociale dell'uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa, sono tra loro interdipendenti.2 Spesse volte, però, sfugge la coscienza di ciò che si è, e sempre per amore di chiarezza, trovo opportuno riprendere delle definizioni che, nel raffronto con la modernità, possono essere altamente esplicativi. Penso, innanzi tutto, alla definizione stessa di persona.

2. Quanto di più perfetto esiste nell'universo: la persona

Come spiega lo stesso S. Tommaso il termine proviene da personare, che significa «far risonare», «proclamare ad alta voce»:

Sumptum est nomen personae a personando eo quod in tragoediis et comediis recitatores sibi ponebant quandam larvam ad repraesentandum illum, cuius gesta narrabant decantando» (il nome persona è stato tratto da personare perché nelle tragedie e nelle commedie gli attori si mettevano una maschera per rappresentare colui del quale, cantando, narravano le gesta) (I Sent., d. 23, q. 1, a. 1).

Il merito di avere elaborato una definizione adeguata del concetto di persona spetta a Severino Boezio. In uno dei suoi opuscoli teologici egli scrive: «La persona è una sostanza individuale di natura ragionevole» (persona est rationalis naturae individua substantia) (Contra Eutichen et Nestorium, c. 4). Dalla definizione boeziana risulta che persona non dice semplicemente individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente sostanza. L'individualità singola infatti può appartenere anche all'accidente (tutti gli accidenti concreti sono individuali); per dar luogo alla persona non bastano né la natura né la sostanza, che possono anche essere elementi generici. Ma neppure l'unione di individualità, natura e sostanza fa ancora la persona; questi elementi appartengono anche a un sasso o a un gatto, che non sono persone. Sono ancora elementi che rientrano nel genere prossimo. Per definire adeguatamente la persona occorre aggiungere ai tre elementi precedenti la differenza specifica che distingue gli uomini dagli animali, la quale consiste nella razionalità. Così si ottiene esattamente quanto ha scritto Boezio: rationalis naturae individua substantia.

Questa celebre definizione fu vivacemente discussa nei secoli XII e XIII. Riccardo di S. Vittore ne propose un'altra che non riuscì a soppiantarla. S. Tommaso però, sin dagli inizi del suo insegnamento, si decise a tenere quella di Boezio, perfezionandola con qualche importante precisazione.   Il Doctor humanitatis3 ha un concetto altissimo della persona. Questa, a suo giudizio, è quanto di più perfetto esiste nell'universo: «Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet substantia in natura rationalis» (I, q. 28, a. 3).

Egli guarda alla persona dal punto di vista ontologico e la considera quindi come una modalità dell'essere, ossia di quella perfezione che nella sua filosofia è la perfectio omnium perfectionum e l'actualitas omnium actuum, ed è proprio rispetto a questa perfezione che la persona occupa il gradino più alto: l'essere nella persona trova la sua attuazione più piena, più eccellente, più completa. Per questo motivo tutti gli enti che si fregiano del titolo di persona, sono enti che godono di una dignità infinita, di un valore assoluto: sia che si tratti di Dio, degli angeli o dell'uomo.

Il concetto di persona è un concetto analogico: non si predica allo stesso modo, ossia univocamente, di Dio, degli angeli e dell'uomo, ma secondo un ordine di priorità e posteriorità (secundum prius et posterius); tuttavia, esso designa sempre la stessa perfezione fondamentale: il sussistere individuale nell'ordine dello spirito. Come dice S. Tommaso con il suo linguaggio sobrio e preciso: «Omnne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona» (C. G., IV, c. 35).

Convinto della bontà della definizione boeziana della persona, l'Aquinate quindi la difende dalle obiezioni di chi la contestava chiarendo il senso dei quattro termini che la compongono: rationalis, natura, individua, substantia, e facendo vedere che se questi termini sono intesi nel senso giusto sono tutti indispensabili per avere un concetto adeguato di persona: «sostanza individua di natura razionale»,4 il che importa capacità d'intelletto ed espressione di volontà. Sappiamo come oggetto dell'intelletto sia la verità e, oggetto della volontà sia il bene. Rappresentano questi due elementi fondamentali quel motore capace di rendere l'uomo cosciente di se e, nello stesso tempo, di poter operare in nome di verità per il bene comune.

Il rispetto della persona non è solamente un portato del Vangelo, ma anche un portato della virtù cardinale, della Giustizia.5 Come modalità di relazione intersoggettiva, il diritto si struttura come specifica risposta alle esigenze, ontologicamente oggettivabili, della coesistenza; il diritto, laico nel suo principio, riconosce le spettanze dell'uomo in virtù della sua dignità di essere umano. Fondamentale a questo riguardo è l'opzione per la libertà che caratterizza lo spirito laico: opzione che chiede l'appoggio essenziale del diritto, poiché non esiste esperienza reale di libertà che non debba essere mediata attraverso la giuridicità.6

3. Concetto di bene comune

Bene è un concetto che, nella storia della filosofia, è stato elaborato secondo due diverse prospettive fondamentali: quella metafisica-oggettiva e quella soggettiva. Il primo concetto domina nel pensiero antico e medievale. Essa riceve una accurata formulazione con Platone, che nella Repubblica (VI 508 ss.), paragona il bene al sole: come il sole fa essere e rende visibili le cose, il bene fa essere e rende conoscibile il mondo delle idee, cui lo stesso mondo sensibile partecipa per quello che ha di vero e buono. Il bene è così la radice e la fonte dell'essere e del valore di tutte le cose. Aristotele nell'Etica Nicomachea (libro 1), polemizza con Platone sostenendo che il bene non è un'idea trascendente, ma qualcosa di agibile e praticabile da parte dell'uomo: egli rimane però platonico quando identifica il bene nel senso di Platone con l'atto puro o motore immobile, che spiega il continuo passaggio delle cose dalla potenza all'atto e tutte in questo senso le muove come il fine ultimo a cui esse tendono. La concezione platonica è ripresa da Plotino, che fa del bene la prima ipostasi dell'Uno: le cose sono buone in quanto partecipano al Bene derivando per via emanativa da esso. Questa concezione viene infine assunta dal pensiero cristiano, che la trasforma però alla luce della propria teoria creazionistica. Per la dottrina medievale dei trascendentali, bene ed essere sono convertibili: il bene è l'essere stesso in quanto appetibile, i gradi del bene e quelli dell'essere coincidono; Dio è sommo bene ed essere supremo e le creature sono buone in quanto, da lui create, gli sono in qualche modo simili.

Anche nell'antichità non mancarono concezioni soggettivistiche del bene, si pensi ad esempio alla sofistica, ma esse furono sviluppate soprattutto nella filosofia moderna e contemporanea. Carattere comune di tali concezioni è la considerazione che il bene si definisce solo in relazione al soggetto che lo vuole o desidera. La soggettività può essere poi concepita come una soggettività puramente empirica, e si avrà allora una sorta di relativismo, per es. nel pensiero dei libertini o in quello di Hobbes, o come capacità di determinarsi secondo una legge universale, e questa è la posizione kantiana. Nell'ambito della definizione soggettivistica del bene, Kant intende venire incontro a quell'esigenza di oggettività cui soddisfaceva l'oggettivismo metafisico: bene è ciò che è voluto da una volontà che determina secondo una legge universale, e in questo modo si identifica con la volontà buona.

La polemica fra soggettivismo e oggettivismo continua anche nella filosofia contemporanea. Lo spiritualismo mira a far rivivere la concezione tradizionale, greca e medievale, del bene. Il neoidealismo, riprendendo lo sforzo dell'idealismo romantico di superare il formalismo della posizione kantiana, recupera, nel contesto di una nuova metafisica della soggettività, elementi di questa tradizione. Il pragmatismo, il neopositivismo e la filosofia analitica sono legati a una concezione più o meno radicale di soggettivismo relativistico. Un posto a parte meritano, infine, la fenomenologia e certe correnti neorealistiche, per esempio G. E. Moore, che sostengono l'oggettività del bene, o più in generale dei valori, senza legarla però immediatamente con la prospettiva teologica cui la tradizione l'aveva strettamente connessa.

Questo generale quadro storico aiuta a comprendere quale senso si desse al concetto di bene, come esso venisse interpretato. Ci manca però il significato importante della parola «comune». L'umanità intera nella sua storia faticosa, attualmente pienamente immersa nel progresso tecnologico, sta lentamente scoprendo le esigenze più profonde e inestinguibili perché l'uomo, ogni persona, possa vivere e fiorire nella propria misteriosa realtà, nella propria insopprimibile dignità. Il precetto naturale di fare il bene, di volere il bene comune, tende a concretizzarsi in un movimento di apertura, di disponibilità verso ogni persona umana, di amore per essa; è riscontrabile in ciò una singolare vicinanza del contenuto della legge morale naturale con la più profonda eticità evangelica che pone come «regola d'oro» quella dell'amore al prossimo come a se stessi: l'altruismo, la gratuità devono prevalere sopra ogni ricerca esclusiva di sé.

La legge morale naturale, orienta la prassi verso il bene dell'uomo. La ragione pratica e l'intera morale trovano il loro fondamento e punto di partenza nell'idea del bene dell'uomo e nel precetto relativo di compierlo. Non è la legge come tale, il dovere per il dovere, come voleva il formalismo di Kant, che rende moralmente buona un'azione, una scelta; al contrario, è il bene inteso e attuato come fine a rendere eticamente valida la stessa legge che dirige gli atti. L'etica è un sapere pratico, il cui contenuto o materia è fornito dalla complessità delle azioni umane, legate all'arbitrio degli agenti e alla rete dei loro rapporti socio-culturali.

È solo attraverso un attento metodo dialettico e comunicativo che possiamo sperare di enucleare la moralità dei nostri comportamenti, mediante un continuo confronto, rispettoso e democratico, su quelle che possono essere le soluzioni più giuste nelle diverse situazioni del vivere personale, privato e socio- politico: è questo il compito della razionalità pratica nelle decisioni quotidiane della vita, è questo che ispira massimamente il tendere dell'uomo al bene comune.

4. Senso interiore della giustizia

Viviamo in una società pluralistica, sono state notevoli e profonde le trasformazioni nelle strutture e nelle istituzioni dei popoli in seguito all'evoluzione economico-sociale degli stessi. Ciò ha comportato una maggiore presa di coscienza circa la dignità umana al fine di instaurare un ordine politico-giuridico in cui siano meglio tutelati i diritti della persona. Il progresso culturale ha fatto sì che si producesse nella coscienza di molti, la necessità di salvaguardare i diritti delle minoranze di popoli. Instaurare una vita politica veramente umana necessita il coltivare il senso interiore della giustizia, dell'amore e del servizio al bene comune. La comunità politica esiste in funzione del bene comune nel quale essa trova significato e in cui trova il suo diritto all'esistenza. Traggo, a questo riguardo, spunto particolare nel pensiero di S. Tommaso, secondo il quale, il vero bene individuale può essere attuato solamente nella società.7

Non esiste il bene individuale se non inserito nel bene comune. In tal modo il bene comune per essere attuato da tutta la comunità deve diventare il bene nostro, il bene di ciascuno di noi. S. Tommaso d'Aquino, d'accordo con la tradizione proveniente da Aristotele, concepisce l'uomo come essere politico e sociale per natura;8 questo principio della naturale socialità e politicità dell'uomo, evidenzia come gli esseri umani si associano per esigenza della loro stessa natura9: socialità e politicità sono connaturati all'essere umano. Questo naturale stimolo all'apertura, al fine comune della società, garantisce a ogni individuo la piena realizzazione della propria vocazione come persona.10

S. Caterina da Siena mette in risalto una critica netta e rigorosa della politica dominata dall'«amore di sé», che, dice è radice dell'«ingiustizia»; una critica condotta fino in fondo, cioè fino alle esigenze della verità che è la base della giustizia e la chiave del bene comune (Lett. n. 268). «Io Caterina [...] scrivo a voi [...] con desiderio di vedere che sempre riluca ne' petti vostri la margarita della santa giustizia, levandovi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale della vostra città e non propriamente al bene particolare di voi medesimi».11

Anche la giustizia individuale deve essere coordinata con la giustizia universale, perché la virtù è unica e unitaria così come la carità.12 Se subisce un'ingiustizia il singolo la subisce tutta la società. Per non dire poi di quando il bene comune universale è gabellato come tale ma, in realtà, copre un interesse personale del detentore del potere, il quale così si sottrae al dovere di servizio e privatizza egoisticamente la funzione che la società gli attribuisce unicamente nell'interesse collettivo. Il bene comune trascende la prospettiva dei beni esclusivamente terreni e materiali, la loro gestione e il loro utilizzo nell'interesse della società; investe, invece, tutti i fini dell'uomo ed il fine complessivo stesso della sua esistenza. È nella Giustizia la matrice del bene comune. È la giustizia che assicura il bene individuale e il bene comune. Anzi, dove v'è ingiustizia non può esservi che disordine sociale ma anche grave danno per lo stesso individuo, perfino di colui che crede di raggiungere la felicità attraverso una disordinata ricerca di un bene particolare esaltato.13

Muoviamo da un assunto dottrinale, illustratoci da S. Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae: «L'intelligenza scopre (nel potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona umana)» (I-II, q. 94., a. 2). L'attuale società, proiettata verso ricerche che diano un senso del valore alla vita che oggi si vive, non può chiudere gli occhi di fronte al fondamento del valore primo che permette agli occhi di ognuno di noi di poter vedere, godere della bellezza, gioire della natura stessa. Bisogna però indagare se, attualmente, nella varietà dei «valori» di cui il mondo si è ingolfato, ci sia verità di effettiva loro sostanza oppure sia parola che mantiene l'eco della sacralità in ambiti vitali ma che, di costrutto, poco contiene.

La scelta è principio d'azione, nel senso di 'ciò a partire da cui' ha origine il movimento, e non nel senso di 'ciò in vista di cui', mentre il desiderio e il ragionamento in vista di qualcosa, sono i principi della scelta.14 Per questo non vi è scelta senza intelletto e pensiero, e senza uno stato abituale del carattere, infatti l'agire bene e il suo contrario non si danno senza pensiero e senza carattere.15 Di per sé il pensiero non muove nulla, ma lo fa il pensiero che tende a qualcosa ed è pratico;16 esso infatti guida anche il pensiero alla produzione, dato che ogni produttore produce in vista di qualcosa, e ciò che si produce non è fine in assoluto, ma è fine in relazione a qualcosa e per qualcuno. Invece, il contenuto dell'azione è fine in assoluto, infatti l'agire con successo è il fine e il desiderio tende a questo.17 Per questa ragione la scelta è pensiero desiderante o desiderio pensante, e l'uomo è un principio di questa specie.18 Nel senso sacro della vita riponiamo il valore di tutti i valori, nella sacralità del concepimento naturale, la fecondità d'intelletto. Ciò ci conduce, innanzi tutto, a porre attenzione alla meraviglia della scoperta, gioire del mistero cui l'intelligenza chiaramente ci chiama a riflettere.

A questo riguardo non possiamo non far riferimento all'ingegno di Socrate e al suo metodo rivoluzionario: il lascito socratico è davvero straordinario e può essere sintetizzato nell'invito a «prendersi cura dell'anima», intesa come sede delle qualità intellettive e morali dell'uomo. Ci lascia in eredità un messaggio che vale in ogni tempo: non conta il vivere come tale, bensì il vivere secondo virtù e giustizia, anche a costo della morte. Socrate afferma di se stesso di essere come sua madre, che era una levatrice. Non faceva figli, ma aiutava le donne a partorire. Così ecco il procedimento maieutico, ovvero l'arte di aiutare gli altri a far nascere le giuste idee intorno a se stessi ed il mondo. Nel Teeteto (149, 150), Platone, illustra in modo esemplare come Socrate presenta il proprio metodo:

Vedi di intendere bene cos'è questo mestiere della levatrice e capirai più facilmente cosa voglio dire. [...] Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente assomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera sugli uomini e non sulle donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è che io riesco, per essa, a discernere sicuramente se la psiche del giovane partorisce fantasma e menzogna oppure cosa reale e vitale. Poiché questo ho in comune con le levatrici, che anch'io sono sterile di [...] sapienza; ed il biasimo che già altri mi hanno fatto, che interrogo si gli altri, ma non manifesto mai io stesso il mio pensiero su alcuna questione, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare».

Al fondo della concezione etica di Socrate è quindi la convinzione secondo la quale tutti gli uomini possano agire razionalmente se posti in condizioni di farlo, cioè se educati. La condizione fondamentale perché questo avvenga sta tuttavia nella trasmissione non tanto del sapere, ma del modo in cui si perviene al sapere, cioè facendo domande ed ottenendo in risposta una definizione esaustiva. La domanda consiste nel chiedere per avere una definizione esaustiva «Che cosa è questo?» Ad esempio: «Che cosa è la giustizia?».

Socrate ritiene sia possibile, dunque, pervenire ad una conoscenza della giustizia, non attraverso casi particolari, esempi di giustizia, ma proprio sapendo che cosa è. È solo sapendo che «cosa è», secondo Socrate, noi possiamo comportarci giustamente. Questo «che cosa» deve essere infatti identico in ogni uomo giusto e in ogni azione giusta. Questo carattere, o tratto distintivo, rinvenibile in ogni individuo considerato giusto o in ogni azione valutata come giusta, è in sostanza un'idea, un concetto, un tratto universale. È proprio in questo tipo di domanda, quindi che germina, per così dire, la successiva teoria platonica delle idee.

Tuttavia, è in Socrate che l'idea di «idea», come forma suprema di conoscenza, comincia a farsi strada. Senza «idee», cioè rappresentazioni e definizioni esaustive di «cose» che non sono cose, ma qualità, attributi, valutazioni di comportamenti umani, dunque elementi immateriali dovuti a giudizi, vere e proprie astrazioni, non vi può essere vera conoscenza; questa non può essere trasmessa; quindi non vi può essere vera educazione o formazione. Quasi tutti i dialoghi giovanili di Platone contengono questa ricerca: nel Carmide si chiede cosa sia la temperanza, nel Lachete si vuole sapere cos'è il coraggio, nel Liside si vuole definire l'amicizia, nell'Ippia Maggiore si prova a definire la bellezza, nell'Eutifrone la domanda verte sulla santità e, sopratutto, nel primo libro della Repubblica, la domanda verte sulla definizione di giustizia.

Socrate fu, in questo senso, assolutamente coerente, quando, invitato dai suoi discepoli a fuggire dal carcere, dove era stato ingiustamente rinchiuso per essere messo a morte, si rifiutò di farlo per coerenza con la sua dottrina, incentrata, appunto, sulla «cura dell'anima» e sulla non violenza. Fuggire dal carcere, secondo il Filosofo ateniese, avrebbe significato rispondere all'ingiustizia con l'ingiustizia e contraddire, di conseguenza, nel momento della prova il suo messaggio di fondo: coerenza tra interiorità ed esteriorità, rispetto delle Leggi, di per sé giuste, poiché l'ingiustizia nasce dal cuore degli uomini, vivere secondo virtù e giustizia.

Leggiamo il passo che conferma a tutto tondo come Socrate giudichi il fuggire una forma di violenza verso le Leggi: «Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano, oppure persuaderle in che consiste la giustizia: mentre far uso di violenza non è cosa santa [...]» (Critone, 51 B). E nell'Apologia di Socrate (30 D; 41 D), contro i suoi accusatori, egli rileva in modo splendido come il virtuoso custodisca nella sua stessa virtù la difesa più alta, la rocca inespugnabile anche per coloro che, senza alcuno scrupolo, mandano a morte un uomo ingiusto:

Io non credo che sia possibile che un uomo migliore riceva danno da uno peggiore. Anito potrebbe condannarmi a morte, cacciarmi in esilio e spogliarmi dei diritti civili. Ma, queste cose, costui e forse altri con lui crederanno che siano grandi mali, mentre io non penso che lo siano. Io credo, invece, che sia un male molto più grande fare quelle cose che ora fa Anito, ossia cercare di mandare a morte un uomo contro giustizia.

Il falso sapere, la sapienza superficiale e libresca degli eruditi, smaschera l'inconsistenza dei sofisti e dei retori, lasciando, infine, agli interlocutori il compito di arrivare alle conclusioni. Dicendosi sapiente della propria ignoranza egli smaschera, per così dire, la presunzione altrui, la presunta sapienza che gonfia i petti e rende arroganti. Tuttavia, in realtà, la confutazione socratica non è diretta solo contro la presunzione intellettuale dei retori e dei dotti, ma anche contro l'ignoranza vera e propria, l'ignoranza che l'uomo ha di se stesso e delle cose che hanno realmente un valore nella vita. Pertanto non si limita solo a far crollare certezze intellettuali infondate, ma anche valori morali, o per meglio dire, immorali. Scrisse così Gianbattista Vico:

Chi pecca, cade per ignoranza, ciò lo insegna Socrate, il qual vuol parimente che in un qualche modo abbia la scienza ad essere riguardata come una virtù. Imperocché chi dopo diligente esame venisse a riconoscere chiaramente la verità, non solo dalla colpa si disporrebbe, ma anzi studierebbesi di rettamente operare. Ed aggiungeva, in guisa di esempio, i medesimo Socrate che niuno può essere né liberale, né magnifico, se non conosce la ragione del collocare i benefici, o dello spendere con magnificenza.19

5. La verità è legge di giustizia

S. Tommaso d'Aquino ha mostrato una particolare finezza psicologica nella parte pratica della Summa Theologiae. Molte questioni che trattiamo della Filosofia del Diritto, nel Diritto pubblico, nella Sociologia e molte altre questioni che non trattiamo mai, gli scolastici includevano nel trattato «De Virtutibus», e quando erano arrivati al trattato De Iustitia, vi includevano un cumulo di dottrine sociali e religiose.20 L'Aquinate, infatti, pur non essendo un giurista di professione, si occupò, come filosofo e teologo moralista, del diritto con il fine di salvare il carattere morale del diritto e dell'ordine giuridico, problema questo tra i più importanti della filosofia del diritto. Diritto naturale, legge naturale e verità sono una identica cosa; senza verità anche il diritto diventa privo di giustizia e di moralità; anche la verità è infatti legge di giustizia.21

La legge naturale, scritta ed impressa nell'animo di ciascuno, non è altro che la ragione stessa, che ci comanda di fare il bene, e proibisce di fare il male [...] Legge naturale [che] è la stessa legge eterna, ossia la stessa eterna ragione di Dio creatore e reggitore del mondo, inserita nelle ragionevoli creature, e motrice di queste agli atti debiti ed al fine».22

Intesa la legge naturale in questo senso, come legge divino-naturale, appare chiaramente la superiorità della concezione tomistica in confronto di quella aristotelica, perché sopra la lex umana vi è, per S. Tommaso, la lex naturalis, e sopra questa la lex aeterna o legge divina. Lungi dall'oscurare la grandezza e la libertà dell'uomo, questa dipendenza dalla legge di Dio, nostro creatore e legislatore, ne è al contrario la garanzia e il fondamento: libera da ogni altra schiavitù. Tutto ciò che mette l'uomo in contatto con l'assoluta perfezione che è Dio gli accresce dignità e grandezza. Lo abbassa, al contrario, tutto ciò che lo subordina interamente a forze impersonali a lui inferiori, quali la materia, la tecnica, la società e lo Stato.

Con Cicerone possiamo ripetere che «noi dobbiamo essere tutti servitori della legge per poter essere liberi»,23 e questo vale non solo nei riguardi della legge umana, ma soprattutto nei riguardi della legge naturale e della legge divina. Solo così viene rispettata la vera autonomia della persona umana ed anche della legge giuridico-morale, in quanto è la ragione stessa che la indica all'uomo, ma il fondamento ultimo di essa sta in un'autorità che è fuori dell'uomo e che ha stampato questa legge nell'anima umana, per la quale è sorgente di libertà e di crescita spirituale. E ciò è vero in quanto la legge di Dio o legge naturale è conosciuta e va osservata attraverso la «mediazione» della nostra coscienza che è l'annunziatrice della legge di Dio a ciascun uomo, come dicevano i teologi classici.24 Di conseguenza, solo chi opera secondo la legge opera secondo ragione, opera nella luce della Verità, e solo allora sarà massimamente libero e padrone di se stesso, sarà veramente uomo, perché sarà nella Verità. La Verità infatti fonda la libertà e la libertà vive solo nell'ambito della Verità. Così è l'errore che ci rende schiavi, fuori della Verità non c'è libertà.

La Verità ci renderà liberi, anche nel campo giuridico-morale:25 «Veritas liberavit vos».26 La verità è la perfezione del nostro intelletto e la purezza della coscienza, è la disposizione necessaria per ricevere la verità, quanto più l'uomo è purificato dagli attaccamenti terreni, tanto più conosce e abbraccia le verità e allontana le falsità da se stesso.27

6. Giustizia, virtù essenzialmente sociale

I principi intrinseci dell'agire umano sono le sue potenze: due spirituali, cioè l'intelletto e la volontà, e due sensitive, cioè l'appetito irascibile e l'appetito concupiscibile.28 Perché queste potenze conducano rettamente l'uomo al suo fine, abbiamo le quattro virtù cardinali o habitus boni: la prudenza per l'intelletto, la giustizia per la volontà, la fortezza per l'appetito irascibile, la temperanza per l'appetito concupiscibile.29 Infatti, osserva S. Tommaso, per agire bene noi dobbiamo anzitutto scegliere i mezzi adatti (prudenza); poi salvare i diritti altrui (giustizia); difendere la propria persona e i propri beni contro i vari pericoli (fortezza); e conservare la giusta misura nell'uso dei beni esteriori (temperanza) .30 In questi quattro beni, che sono oggetti delle quattro virtù cardinali, è contenuto il bene morale.

Tutta l'attività umana non conosce compartimenti stagni, come la pura interiorità e la pura esteriorità, ma è adeguamento del soggetto-uomo, di tutto l'uomo, all'oggetto, interiore od esteriore che sia, in quanto non solo gli atti interiori della morale ma anche gli atti esterni della giustizia o del diritto non sono che indice delle disposizioni interne: «quaedam signa interioris dispositionis»,31 cioè anch'essi non sono atti umani se non in quanto diretti e comandati dalla ragione e dalla volontà. Di conseguenza, sia la vita individuale che la vita sociale rientrano nelle leggi dell'atto umano che, come tale, «nell'individuo è buono o cattivo»;32 perciò dire «atti morali e atti umani è la stessa cosa»,33 cioè l'ordine morale riguarda tutti gli atti umani, sia dell'individuo come tale, in quanto include l'esercizio di tutte le altre virtù oltre la giustizia, e queste virtù «perfezionano l'uomo soltanto nelle sue qualità individuali che riguardano lui stesso»,34 sia dell'individuo come parte di un tutto, cioè della società.35

Ogni azione umana in quanto umana, sia essa religiosa, artistica, economica, giuridica, politica, è prima di tutto morale, cade cioè sotto il dominio dell'etica. Ma anche se ogni atto umano è soggetto alla legge etica, solo alcune azioni sono soggette al diritto, restando sempre esclusa l'attività puramente interna: non tutto ciò che è morale è diritto, come le leggi della carità, della benevolenza, della temperanza, ecc. l'ordine giuridico, quindi, non è altro che l'esercizio della virtù della giustizia, parte dell'ordine morale. Il diritto, come ogni altra verità, deve essere desunto dalla realtà, dalla scienza delle cose. In questo senso la verità è legge di giustizia, e senza verità il diritto diventa pura legalità, privo di giustizia: «Et sic etiam dicitur in nobis veritas iustitiae».36 Scindere il diritto dalla verità è privarlo di giustizia e di moralità, è privarlo così del criterio per distinguere il giusto dall'ingiusto, il vero dal falso diritto.

Come osserva S. Tommaso, «compito proprio della giustizia, tra tutte le altre virtù, è di ordinare l'uomo nei rapporti verso gli altri [...] Invece le altre virtù perfezionano l'uomo soltanto nelle sue qualità individuali che riguardano lui stesso».37 La giustizia quindi «riguarda le operazioni con le quali l'uomo non solo viene ordinato in se stesso, ma anche in rapporto all'altro»,38 e questo «altro» è la persona presa sia individualmente che collettivamente come società. La giustizia ha essenzialmente a che fare con l'altro, l'essere-altro considerato nella sua alterità e si afferma nel rapporto interoggettivo, nel vivere l'uno con l'altro,39 ed ognuno di noi è l'altro del suo vicino, ed in questo si distingue dall'amore che considera l'altro come se stesso, ed è vivere l'uno nell'altro. L'isolamento egocentrico o individualistico non è prima di tutto un attentato verso gli altri, ma un attentato verso se stessi: se l'altro diventa «alienus» sono prima di tutto io ad alienarmi, per cui né l'individualismo borghese né la disperazione di chi vede «negli altri l'inferno», per cui «io sono di troppo in rapporto all'altro» (J.-P. Sartre), possono attuare e riempire la persona.

L'individuo realizza il suo passaggio alla vita personale soltanto incontrandosi con gli altri in una comunità libera in cui all'io si sostituisce il noi, che non nega i singoli ma tutti li arricchisce e per così dire li «costituisce» nel contatto con gli altri, in quanto l'uomo è «naturaliter socialis», e domanda di unirsi agli altri nella comunicazione spirituale dell'intelligenza e dell'amore. «L'uomo ha bisogno di comunicare l'amore, e la parola, e la verità, e la passione all'altro uomo, di confidare all'altro cuore gli arcani del proprio cuore, e di stabilire tra sé e gli altri quella profonda e verace comunicazione che è comunicazione di verità e di amore».40 La giustizia è dunque una virtù essenzialmente sociale.

Inoltre, nota S. Tommaso, anche la verità, o meglio la veracità, si connette con la giustizia, ed è anzi una «pars iustitiae», poiché anch'essa, in quanto si manifesta, «est ad alterum» ed «aequalitatem quandam in rebus constituit».41 Ognuno ha verso gli altri l'obbligo di essere veritiero, e ciò anche perché, senza il reciproco credito, sarebbe tolta la possibilità della convivenza, imposta all'uomo dalla sua natura sociale. Tutta la vita in comune è così cooperazione, per cui, come dice S. Tommaso, «fra gli uomini non potrebbe mantenersi la società, se uno non aiutasse l'altro».42

È importante accorgersi come la giustizia riguardi non tanto le cose esterne in sé, ma in quanto ce ne serviamo nei nostri rapporti con gli altri. La giustizia pertanto riguarda l'uso che noi facciamo di queste cose nella nostra attività esteriore, con la quale ci mettiamo in rapporto con gli altri.43 Così la nostra attività esteriore, come nota S. Tommaso, è materia della giustizia in quanto è attività, in quantum est agere, non in quanto è fare, non in quantum facere.44 L'azione umana interna, invece, se per definizione è immanente all'agente, se essa non ha nessun riferimento fuori del soggetto, non ha neppure alcun rapporto né con gli altri individui in sé né con la società e, per conseguenza, non può cadere sotto il dominio giuridico. La materia prossima e propria del diritto è l'azione umana sociale.45

Nel realismo giuridico dell'Aquinate il diritto, essendo ipsa res iusta, porta racchiusa in sé, quasi proprio atto di nascita, l'esigenza morale, per cui non saranno mai permesse scissioni oggettive tra morale e diritto che è e deve essere informato dalla giustizia, cioè dalla moralità.46 Il diritto secondo S. Tommaso deve tendere a qualche cosa ancora di più alto, a mantenere, incoraggiare e rinforzare l'amicizia fra gli uomini, anch'essa frutto della giustizia e suo naturale coronamento umano.47 Così «l'intenzione principale della legge umana è di stabilire l'amicizia degli uomini tra loro»,48 sebbene si limiti a proibire gli atti esterni per la pace e la tranquillità della città.49 Lo stesso avviene nella legge divina che tende principalmente all'amicizia dell'uomo con Dio.50 Il diritto, infatti, è un vincolo che ci lega solo ab extra, solo con l'amore siamo tenuti insieme ab intra. Infatti, «tra le cose necessarie alla vita umana, l'amicizia è la più necessaria».51

Non vi può essere così vera carità senza giustizia (la vera carità presuppone la giustizia), perché la prima carità, la prima prova d'amore verso il prossimo è proprio quella di usargli giustizia, altrimenti sarebbe una menzogna, una ipocrisia, una maschera o mistificazione dell'ingiustizia. Bisogna, quindi, dare prima a ciascuno ciò che gli spetta, cioè il suo, se si vuole arrivare a dare più del suo, cioè, il nostro, e se necessario, anche noi stessi. La vera carità è oltre non al di sotto della giustizia: essa comincia là dove la giustizia finisce. Né vi può essere vera giustizia senza carità (la vera giustizia presuppone la carità), in quanto la giustizia è, a suo modo, una forma di amore, orientata com'è al servizio dell'uomo, ed è l'amore che spinge ad una conoscenza sempre più adeguata e profonda dei diritti del prossimo, altrimenti crederemo di aver sempre dato troppo agli altri e sempre poco a noi stessi. È sempre l'amore che regola i rapporti umani e informa la socialità, perché «se alla stretta e fredda giustizia non si unisce in fraterna armonia la carità, troppo facilmente l'occhio diviene cieco per vedere i diritti altrui, l'orecchio sordo alla voce di quell'equità dalla cui santa e volenterosa applicazione possono sorgere, anche nelle più aspre controversie, ragionevoli e vitali soluzioni».52

In altre parole, una giustizia senza carità sarebbe cieca, e una carità senza giustizia sarebbe vuota. Non senza fondamento, quindi, fu detto che «la carità di oggi è la giustizia di domani, come la giustizia di oggi fu la carità di ieri».53

7. L'intelligenza scopre

Poiché l'anima ragionevole è la forma propria dell'uomo, in ciascun uomo c'è l'inclinazione naturale ad agire secondo la ragione: secundum rationem. E ciò equivale ad agire secondo la virtù: secundum virtutem.54 Abbiamo, pertanto, una duplice partecipazione della legge naturale nell'uomo: nell'intelletto e nella volontà. Nell'intelletto, è l'impressione o l'inserzione di un lume di ragione naturale, «lumen rationis»,55 come una luce della ragione naturale, che ci indica il cammino della nostra umanità, e ci permette di discernere i principi immutabili del male e del bene, per cui l'uomo può conoscere con la ragione il suo fine naturale e può liberamente dirigersi verso di esso, deducendo da quei principi le scelte concrete, universali o particolari che siano. Per S. Tommaso, quindi, la legge naturale è più «lumen», cioè capacità di scoperta della legge eterna, che la somma dei singoli precetti scoperti una volta per sempre. Nella volontà, è l'impressione o l'inserzione di una fondamentale inclinazione a trovare la via giusta del farsi uomo, del divenire umano, integrato e inserito nel divenire cosmico; inclinazione a cercare la felicità e la piena espansione del proprio essere, in quanto è inclinazione al fine debito e all'operatività che orienta convenientemente l'uomo allo sviluppo della propria persona e a diventare operatore di bene.

S. Tommaso, dopo averci detto che la legge di natura è la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale, spiega che noi la sperimentiamo come «naturalem inclinationem ad debitum actum et finem». L'inclinazione è l'elemento genetico, che si accoppia al fine e ci orienta verso di esso, per cui vi siamo naturalmente inclinati antecedentemente a ogni conoscenza intellettuale. È importante rilevare che S. Tommaso definisce la natura come la sostanza di un essere, e naturale come ciò che conviene a tale sostanza, ciò che è naturalmente intrinseco all'essere.56

Se l'uomo ha tale natura per cui senza la giustizia non può vivere, o non può vivere bene, egli deve avere per natura una conoscenza proporzionata dei principi di giustizia, cioè del diritto naturale, del quale, se i primi principi sono evidenti, le sue altre indicazioni richiedono un travaglio intellettuale, per cui si deve raddoppiare il desiderio di conoscere la verità per adempierla. Nessuna legge, iniquità o ingiustizia potrà mai distruggere questa legge naturale, riflesso in noi dalla legge eterna di Dio, come sapientemente dice s. Agostino: «Lex tua [Domine] scripta est in cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas continua».57 E Tertulliano osserva che la legge naturale potrà oscurarsi in noi, quando nel nostro animo non abita Dio, ma essa non potrà mai estinguersi del tutto, perché è da Dio: «Potest enim obumbrari, quia non est Deus; extingui non potest, quia a Deo est».58

O si ammette Dio o si nega ogni autorità, ogni diritto, ogni dovere ed ogni morale; chi non ammette Dio e non riconosce i diritti di Dio, non riconoscerà nemmeno i diritti dell'uomo: «Bisogna rivendicare i diritti di Dio, ed allora vedremo ripristinati anche i diritti dell'uomo, i diritti che Gesù ci apportò da 2000 anni con la Redenzione» ,59 come scrive il Toniolo. Non si può cancellare Dio e pensare poi che la morale rimanga intatta; se si cancella il valore più alto, si cancellano anche gli altri valori o per lo meno diventano incerti, semplici convenzioni sociali, arbitrari o totalmente relativi ai contesti socio-culturali.

«L'amore di sé», ribadendo l'insegnamento di Caterina da Siena, è radice «dell'ingiustizia»; una critica condotta fino in fondo, fino alle esigenze della verità, è la base della giustizia, e la chiave del bene comune. C'è qualcosa di più, che nasce dal profondo dell'essere umano e che, rannicchiato in qualche angolo nascosto del nostro cuore, fa fatica a volte a riconoscere se stesso e a riconoscere l'altro come suo simile, creatura nata ad immagine e somiglianza di Dio. Ciò, compiutamente, ci riporta all'assunto dottrinale di Tommaso d'Aquino illustratoci nella Summa Theologiae, I-II, q. 94., a. 2: l'intelligenza scopre... Se l'uomo è segno altissimo dell'immagine divina, se questo segno è dato dalla sua libertà soprattutto, ecco allora che la società degli uomini non può avere altro tessuto connettivo che quello della carità, una carità ovviamente che va ben oltre una solidarietà esistenzialmente necessitata.

Riconoscere l'enorme importanza che un'analisi della natura razionale e politica dell'uomo riveste per l'etica, porta a potenziare il concetto non solo della coerenza logica dell'intelligibilità delle singole azioni, ma anche il profilo propriamente morale, relativo a una visione dell'uomo com'esecutore libero e responsabile del fine sostanziale della sua natura, continuamente impegnato nel perfezionamento umano e morale di sé.60

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Note

  1. Cfr. A. Lobato, La dignità della persona umana. Privilegio e conquista, Bologna 2003, pp. 303-304. Testo

  2. Cfr. GS 25. Testo

  3. Giovanni Paolo II chiama S. Tommaso «Doctor Humanitatis»: è il nome che diamo a S. Tommaso d'Aquino perché era sempre pronto a cogliere i valori di tutte le culture (Allocuzione ai partecipanti all'VIII Congresso Tomistico Internazionale, 13-9-1980; Insegnamenti, III, 2 [1980] 609). Testo

  4. Cfr. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, trad. e comm. a cura dei Domenicani Italiani. Testo latino dell'Ed. Leonina, Ed. Salani, 1949-1975, I, q. 29, a.1. Testo

  5. Cfr. F. D'Agostino, Il Diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia del diritto, Torino, 1977, pp.119-120. Testo

  6. Cfr. F. D'Agostino, Il Diritto..., op. cit., pp.130-133. Testo

  7. Tommaso d'Aquino, Summa Contra Gentiles, Marietti, Romae 1961, vol. III, Liber III, cap. 117, n. 2894-2900, pp. 175-176. Testo

  8. Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, Typis Petri Fiaccadori, Parmae 1852, I, q. 96, a. 4: «Primo quidem, quia homo naturaliter est animal sociale: unde homines in statu innocentiae socialiter vixissent», p. 384. Testo

  9. Tommaso d'Aquino, De Regimine Principum, Marietti, Torino 1948, Liber I, cap.1: «Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidam naturalis necessitas declarat», p. 1. Testo

  10. Cfr. J. Maritain, I diritti dell'uomo e la legge naturale, Milano 1977, p. 9: «Il bene comune [...] è la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone, ossia delle totalità carnali e spirituali insieme, e principalmente spirituali, benché accada loro di vivere più sovente nella carne che nello spirito». Testo

  11. L. Ferretti, Lettere di S. Caterina da Siena, Vergine Domenicana, tip. S. Caterina, Siena 1918, Voll. 5, Lett. N. 367, a' Magnifici Signori Difensori del Popolo, e Comune di Siena, Vol. V, p. 279. Testo

  12. Cfr. P. Pajardi, Caterina la Santa della Politica, Ricerche e riflessioni sul pensiero etico, giuridico, sociale e politico di Santa Caterina, Milano 1993, pp. 13-14. Testo

  13. Cfr. M. F. Carnea, Libertà e Politica in S. Caterina da Siena, Monopoli 2011, p. 115. Testo

  14. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. di C. Natali, Milano 2000, 1139a 35, pp. 225-227. Testo

  15. La scelta è la causa motrice ('ciò a partire da cui'); l'agire con successo è la causa finale ('ciò in vista di cui'). Il desiderio e il ragionamento in vista di qualcosa, costituiscono la connessione tra motore e fine, mentre causa formale dell'agire virtuoso è lo stato abituale del carattere, e la causa materiale è l'insieme dei movimenti fisici del corpo. Testo

  16. Il pensiero è pratico in quanto orienta il desiderio, cfr. De Anima, 433a 18-20: «la parte desiderante infatti è ciò che muove, e il pensiero muove per questo, cioè perché principio del pensiero è il desiderabile». Testo

  17. Quindi il fine cui tende il desiderio, e che è determinato dal ragionamento pratico, è il dare vita ad un'azione singola corretta, in una circostanza particolare, non lo stabilire una regola generale, valida per ogni caso, cfr. 1151a 16: «nelle azioni il fine è principio» e 18-19: «è la virtù [...] che ci insegna corrette opinioni sul principio». Testo

  18. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, op. cit., 1139b 5, p. 227. Testo

  19. Cfr. G. B. Vico, Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1974, p. 82. Testo

  20. M. Cordovani, Prolusione all'università di Firenze, in Memorie domenicane, L (1933), p. 164; cfr. G. Graneris, Contributi tomistici alla filosofia del diritto, Torino 1949, pp. 11-14; P. M. Van Overbeke, Saint Thomas et le droit, in «Revue thomiste», LXIII (1955), III, pp. 519-521; S. Cotta, Il concetto di legge nella Summa Theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Torino 1955; E. Galan Y Gutierrez, Ius naturae, Madrid 1961; G. Fasso, La legge della ragione, Bologna 1964; Idem, Storia della filosofia del diritto, vol. I: Antichità e Medioevo, Bologna 1966; J. M. Aubert, Legge divina -- Leggi umane, trad. ital., Roma 1969. Testo

  21. Cfr. Sum. Theol., I, q. 21, a. 2: «Et sic etiam dicitur in nobis veritas iustitiae». Testo

  22. Leone XIII, Encicl. Libertas, 20 giugno 1888, n. 6, in I. Giordani, Le Encicliche sociali dei Papi, vol. I, Roma, 1957 p. 127. Testo

  23. Cicerone, Pro Cluentio, LIII, 145: «Legum ministri magistratus, legum interpretes iudices; legum idcirco omnes servi sumus, ut liberi esse possimus». Testo

  24. Cfr. R. Pizzorni, Il fondamento etico-religioso del diritto secondo San Tommaso d'Aquino, Milano 1989, p. 10. Testo

  25. Cfr. R. Pizzorni, Legge morale, diritto naturale e libertà, in «Acta V Congressus Thomistici internationalis», vol. II, Roma 1960, pp. 430-441. Testo

  26. Gv. 8, 32. Testo

  27. Cfr. G. Savonarola, Il trionfo della croce. La ragionevolezza della fede, a cura di M. Negrelli, Bologna 2001, p. 283. Testo

  28. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 23, a. 1; q. 56, a. 4, ad 1. Testo

  29. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 61, a.2. Testo

  30. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 61, a. 3. Testo

  31. Sum. Theol ., II-II, q. 168, a. 1, ad 1. Testo

  32. Sum. Theol ., I-II, q. 18, a. 9: «Necesse est omnem actum hominis a deliberate ratione procedentem, in individuo consideratum, bonum esse vel malum»; cfr. ibidem, I-II, q. 18, a. 5: «Bonum ominis est secundum ratione esse, malum autem quod est praeter rationem. [...] Dicitur autem aliqui actus humani, vel morales, secundum quod sunt a ratione»; ibidem, I-II, a. 100, a. 2: «Ordo virtutis est ordo rationis». Testo

  33. Sum. Theol ., I-II, q. 1, a. 2: «Idem sunt actus morales et actus humani». Testo

  34. Sum. Theol ., I-II, q. 57, a. 1: «Aliae virtutes perficiunt hominem solum in his quae ei convenient secundum seipsum». Testo

  35. Sum. Theol ., I-II, q. 58, a. 2: «[Iustitia] non est nisi unius hominis ad alium». Testo

  36. Sum. Theol ., I, q. 21, a. 2; cfr. Ibidem, I, q. 16, a. 4, ad 3: «veritas autem iustitiae est secundum quod servat id quod debet alteri secundum ordinem legum»; cfr. Ibidem, II-II, q. 109, a. 3, ad 3. Testo

  37. Sum. Theol ., II-II, q. 57, a. 1: «Iustitiae proprium est inter alias virtutes ut ordinet hominem in his quae sunt ad alterum. [...] Aliae autem virtutes perficiunt hominem solum in iis quae ei convenient secundum seipsum». Testo

  38. Sum. Theol ., I-II, q. 66, a. 4: «[Iustitia] est circa illas operations quibus homo ordinatur non solum in seipso sed etiam ad alterum». Testo

  39. Cfr. Sum. Theol ., II-II, q. 58, a. 2, sed contra: «Iustitia ea ratio est qua societas hominum inter ipsos, et vitae communitas continetur» (Cicerone, De Officiis, I, c. 7); in VIII Ethic., lect. 9, n. 1658: «Iustitia consistit in communicatione». Testo

  40. G. Capograssi, Pensieri a Giulia, Vol. III, Milano 1980, n. 1629. Testo

  41. Sum. Theol ., II-II, q. 109, a. 3: «Veritas esta pars iustitiae, inquantum annectitur ei sicut virtus secundaria principali». Testo

  42. C. Gent., III, c. 131: «Societas autem inter nomine conservari non posset nisi unus alium iuvaret». Testo

  43. Cfr. Sum. Theol., II-II, q. 58, a. 10: «Materia iustitiae est exterior operatio secundum quod ipsa, vel res cuius est usus, debitam proportionem habet ad aliam personam». Testo

  44. Cfr. Sum. Theol., II-II, q. 58, a. 3, ad 3: «Iustitia non consistit circa exteriors res quantum ad facere, quod pertinent ad artem: sed quantum ad hoc quod utitur eis ad alterum». Testo

  45. Cfr. V. Jervasi, L'azione, materia propria del diritto secondo l'Aquinate, in Sapienza, V, 1951, I, pp. 63-69. Testo

  46. Cfr. R. Pizzorni, La liceità della resistenza alla legge ingiusta secondo S. Tommaso, in Aquinas, IV, 1961, pp. 324-368. Testo

  47. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 1, ad 2: «Sicut Apostolus dicit (I ad Tim. I, 5), "finis praecepti caritas est"; ad hoc enim omnis lex tendit, ut amicitiam constituat vel hominum ad invicem, vel hominis ad Deum». Testo

  48. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 2: «Intentio principalis legis humanae est ut faciat amicitiam hominum ad invicem»; cfr. Quodlibetum XII, q. 16, a. 24: «Finis quem intendit civilis legislator [est] pacem servare et stare inter cives»; C. Gent., III, c. 117. Testo

  49. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 98, a. 1: «Legis enim humanae finis est temporalis tranquillitas civitatis, ad quem finem pervenit lex cohibendo exteriors actus, quantum ad illa mala quae possunt perturbare pacificum statum civitatis»; C. Gent., III, c. 34: «Operationes iustitiae ordinantur ad pacem inter hominess servandam per hoc quod unusquisque quiete quod suum est possidet». Testo

  50. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 2: «Ita intentio divinae legis est ut constituat principaliter amicitiam hominis ad Deum»; C. Gent., III, c. 116. Testo

  51. In VIII Ethic., lect. 1, n. 1542: «Per amicitiam videntur conservari civitates. Unde legislatores magis student ad amicizia conservandam inter cives, quam etiam ad iustitiam, quam quandoque intermittunt, puta in poenis inferendis, ne dissensio oriatur. Et hoc patet per hoc, quod cocordia assimilatur amicitiae. Quam quidem, scilicet concordiam, legislatores maxime appetunt, contentionem autem civium maxime expellunt, quasi inimicam saluti civitatis». Testo

  52. Pio XII, Omelia pasquale per la pace, 9 aprile 1939, n. 6, in I. Giordani, vol. I, p. 666. Testo

  53. V. G. Séailles, La philosophie du travail, Parigi 1923, p. 117: «La charité d'aujord'hui est la justice de demain, comme la justice d'aujourd'hui fut la charité d'hier»; cfr. M. S. Gillet, Justice et charité, in «Revue des Sciencies Philosophiques et Théologiques», 1929, I, pp. 5-22; trad. ital., La giustizia e la carità, in Tabor, II (1948), vol. III, n. 6, pp. 485-496; vol. IV, n. 1, pp. 20-27; G. Del Vecchio, Parerga, vol. I, p. 103. Testo

  54. Sum. Theol., I-II, q. 94, a. 3: «Cum anima rationalis sit propria forma hominis, naturalis inclinatio inest cuilibet homini ad hoc quod agat secundum rationem. Et hoc est agere secundum virtutem». Testo

  55. Sum. Theol., I-II, q. 91, a. 2: «Lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et malum, quod pertinent ad legem naturalem». Testo

  56. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 10, a. 1. Testo

  57. S. Agostino, Confessioni, II, 4, 9; PL, XXXII, 678. Testo

  58. Tertulliano, De Anima, c. 41; PL, II, 769. Testo

  59. G. Toniolo, Intese internazionali, Roma 1945, p. 162. Anche Dostoevskij aveva scritto: «Chi non crede in Dio, non crede nemmeno nel popolo di Dio» (I fratelli Karamazof, libro VI). Testo

  60. Cfr. M. F. Carnea, Libertà e Politica..., op. cit., p. 113. Testo