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Dell'Inizio ovvero dell'impossibile rammemorazione dell'Assenza

di Valerio Burrascano (31 gennaio 2008)

O Trinità supersustanziale, superdivina,
conduci direttamente noi verso il vertice in conoscibile e splendidissimo
e altissimo delle Scritture occulte,
là dove i misteri semplici, assoluti
e immutabili della parola di Dio
si rivelano nella tenebra più luminosa della luce
di quel silenzio che arcanamente insegna.

-- Dionigi l'Aeropagita

Nessun amore può infuturare assolutamente,
abbandonare la notte del passato,
indossare soltanto le armi della luce.

-- Massimo Cacciari, Della cosa ultima

1. Oblio della divina Lethe

Il Deus-Esse onto-teo-logico è l'oggetto divino assunto a paradigma del percorso 'necessitato' dalla volontà-di-potenza del logos, così come tratteggiato da M. Cacciari nelle sue opere, Dell'Inizio e Della cosa ultima. Il Deus-Esse -- che è causa sui -- è la compiuta disvelatezza dell'Assenza: di quest'ultima, la sua tragica, mortifera presentificazione (come insegna il nostro). È questa morte l'esito ultimo di una parabola discendente attraverso cui è possibile leggere la consumabilità «dell'oggetto d'amore del Mistico»,1 destino della filosofia e d'Europa: «spazio dove incessantemente si interrogano gli dèi e da dove gli dèi si sono ritirati».2

Europa, espressione 'fisica' dell'amor dei intellectualis, dove il philo-sophos (che a differenza del sophos non presta la sua voce alla Dea, accogliendone il dono della Verità) come il teo-logo incontra l'arida solitudine, l'insopportabile Assenza, il fastidioso rumore di un Silenzio inascoltato.

Lungo la sua storia geo-politica -- che è oblio dell'Inizio -- l'Europa ha costruito, intorno al logos, per il logos, la sua identità, peccando della hybris più grave: tentare di catturare l'Oltre, il divino, il Mistico. «Questo pretende appunto il 'logos' langagier: poter esprimere tutto l'ente, annullare della sua presenza l'inesprimibile, togliere dalla parousía la apousía, il 'logos' langagier è oblio del darsi dell'inesprimibile in ogni presenza, è ritenere niente il puro darsi dell'ente -- e niente perciò il silenzio che ne fa segno».3

Questa verità, verità che è appropriazione dell'essente, non è che uno specchio ustorio, riflettente niente altro che le rap-presentificazioni del soggetto. La nostra essenza (che in-siste in una domanda a-poreticamente dimentica dell'intimo rapporto tra Mnemosyne e Lethe -- «A-létheia è innanzitutto e principalmente il rivelarsi di Lethe, l'essere-chiaro che Lethe è salva come sfondo di ogni proposizione»,4 alla fine, secondo il nostro, appare per quello che è: niente altro che una interrogazione che «testimonia una intimità perduta»,5 una assenza che disperatamente si vuole, nel logos, Presenza rassicurante. Appropriazione dell'ente che è presunzione di poter com-prehendere il fondamento e/o l'oggetto.

«La filosofia ama veramente quella presenza assente»,6 scrive Cacciari, ma la ama nelle forme che lei conosce: quelle del logos, delle armi spuntate della dialettica normalizzatrice che costringono inevitabilmente l'Assente, ne fanno null'altro che concetto, pensiero-pensato, e dunque, morta, silente presenza. La filosofia dimentica, ricorda Cacciari, la luce ombrosa dei Claros del bosque -- come definisce poeticamente la Zambrano -- l'inesausta attesa della Novitas, dell'Ad-veniens.

Questo oblio ha ucciso Dio.

La compiuta disvelatezza teo-logica dell'Assente ha paradossalmente portato al moderno divieto che si possa concepire l'oltre quel ristretto cerchio che è la nostra limitata capacità di com-prehendere. Con la Modernità, «solo la finitezza, assolutizzata, sciolta dalla sua costitutiva relazione con l'Infinito, appare utilmente indagabile... Guardiamo alla luce chiara del giorno, le sue evidenze, abbandoniamo le ombre come vane chimere; perché volgerci alla luce oscura che tutto avvolge, perdersi nella ricerca dell'Inconscio più profondo del nostro esserci?».7 Ci domina dunque (illudendoci di esserci finalmente liberati da Dio, dal Fondamento) il demone meridiano, la verità del Giorno? Questo ha definitivamente avuto la meglio sulla verità della Notte? Dio è morto perché abbiamo bramato con tutte le nostre forze intellettuali di poterlo fagocitare, 'amare' voracemente fino ad ucciderlo; ri (con) ducendo l'ápeiron a niente altro che cieca necessità ad ek-sistere, volontà-di-essere e di dare, donare-vita.

2. Inizio vs Deus-Trinitas?

Pensare (denken) è rammemorare (an-denken) l'Inizio, l'Ab-grund, la 'cosa' stessa, il dar-si dell'Immemoriale. «An-denken, pensare che si apre e si svolge (weiterdenken) seguendo la traccia di ciò che rammemora, sono sia filosofia che teologia. Pensare è perciò pensare l'arché, l'Inizio, per entrambe».8

Da un lato, gran parte della filosofia ha pensato però l'Im-pensabile nei termini dell'Inizio che è già Iniziante, parte di un processo (che giunge al suo compimento nel Geist hegeliano, nell'assoluto dello Spirito); dall'altro, il teo-logico ha pensato l'Inizio quale atto creativo e manifestativo di Dio, Deus-Esse, onto-teologica esistenza equivalente alla Sua essenza, causa sui.

«L'inizio non può essere detto in nomine Patris. Se il teologo pretende di rap-presentare l'Inizio non finirà che con lo svolgere ancora la catena dell'onto-teologia e rimanervi prigioniero».9 All'interno del linguaggio teo-logico Dio non sarà mai quella libertà che è libertà anche da se stesso; possibilità im-possibile che la stessa creatio possa venir meno, de-crescere, nostalgicamente ritornare all'Inizio senza tempo (aión e non chronos) da cui ek-siste anche Dio.

Scrive Cacciari che se l'Inizio è equivalente a comando divino, comando valido non solo erga homines, ma nei suoi stessi confronti (Dio non può deludere, Cristo non può non de-cidersi, obbedendo al Padre), Dio non sarà libertà: «La libertà è tale se può anche 'ritirarsi' dal fare e dal far-essere».10 Inizio è allora Un-sinn, ciò che è prima di ogni senso o prospettiva logicamente, razionalmente comprehensibile; l'Inizio non può essere 'catturato'. L'Aperto allora è il non-luogo «'dove' è ri-posta da sempre ogni determinazione-negazione, l'In-differenza dove ogni possibilità è da sempre ri-posta, fino al possibile dell'im-possibile stesso, al possibile dell'Un-sinn radicale, che nessun senso sia o che tutti i senso implodano nell'im-possibile».11

Inizio non è al contempo Deus-Trinitas, cioè la relatio non adventitia, essenziale perché Dio sia concepito quale creatore e Logos. «Se Inizio è Deus-Trinitas, Inizio diviene necessariamente un rapporto -- un relativum, e talmente perfetto in quanto relativum da apparire non accidentale, bensì necessario. Rapporto è relazione, è mediazione, è espressione, è Verbum».12 Inizio sarebbe allora equivalente teo-logico della potenza-che-dà-inizio, l'iniziante. L'aristotelico «Uno del Motore che rimane nell'ordine degli enti».13

Se teo-logicamente in principio è il Padre in quanto dice il suo Verbo e attraverso cui tutte le cose sono fatte, il Padre non è altri che potenza del Figlio e il Figlio, a sua volta, vero atto del Padre. Ma è evidente che in questo compimento (teo-sofico ed hegeliano) della teologia agostiniana tutto è già detto ab initio: «l'eterno essere per sé e in sé deve, dunque, determinarsi, dividersi ... distinguersi perfettamente da sé come l'effettivamente Altro (la croce maledetta) -- ma tale distinzione è sempre anche eternamente tolta, in quanto (proprio agostinianamente) non accidentale, forma necessaria della relazione che è Dio stesso».14

Ogni absconditum, ogni Mistero è hegelianamente superato; è com-preso perfino l'abbandono sulla croce, icona di ogni sofferenza, conciliata nella forma del concetto. «Dio è morto, questo è il pensiero più tremendo... Ed è autentica morte, deve esserlo... ma non dobbiamo restare disperati dinanzi ad essa, appunto perché ci è dato saperla... la morte di Dio è a priori iscritta nell'idea del divino posta all'inizio».15

Libertà non si dà (nel Figlio, eikon della libertà dei figli) se non concependo la differenza tra Inizio e Deus-Trinitas, tra Abisso insondabile e manifestazione del divino che il cristianesimo ci offre nella forma del Dio trinitario.

«Né Padre né Figlio sono l'arché, ma sono in essa; possono tra loro distinguersi poiché sono distinti, e precisamente i distinti dall'Inizio».16 Il Deus-Trinitas, dice Cacciari, è ab-solutus proprio perché distinto dall'Inizio, e dunque libero. Quel Non che è Inizio, sarà l'eterno immemoriale Passato cui il Padre e il Figlio guardano con nostalgia, e-vocati dall'eremía dell'Inizio medesimo; far-si evento delle infinite possibilità come dello stesso im-possibile: possibile dell'im-possibile che tutto ritorni a quell'eremía che è il Non dell'ek-sistere medesimo.

Il Ni-ente è l'ek-, la pro-venienza non necessitata della libertà di Dio come dell'uomo. Al contempo, però, dalla sua eremía il Ni-ente e-voca, chiama sempre alla sua Tenebra: «Profonda è l'ignoranza dell'uomo, ma vero abisso dell'ignoranza è quello divino. La 'regio umbrae mortis', che abitiamo è immagine soltanto (o, forse ancor più, pallida similitudine) di quella tenebra in cui è Dio nei confronti di sé, della conoscenza di sé: summa caligo. (la caligo dell'Eriugena traduce il gnóphos dello Pseudo-Dionigi, così come del Cusano). Abyssus abyssum invocat. La voce di colui che chiama nel-dal deserto chiama colui che vive nel deserto degli uomini, affinché li battezzi».17

Libertà di Dio è il suo non-sapersi, come già sosteneva G. Scoto: nella sua divina ignorantia riposa la possibilità della Libertà: «Deus itaque nescit se qui est, quia non est quid».18 Di più: il suo desiderio di Vita come di Tenebra comportano l'essere il Deus-Trinitas patibilis; «dono del Possest è in uno anche il 'non debet esse' di ogni volere e di ogni ente».19 La stessa morte di Dio è e-vocazione della Tenebra, non la rasserenante processualità dello Spirito hegeliano che conduce alla resurrezione e alla pienezza (logica-dialettica) del Crocefisso. La mortalità di Dio (nel suo essere Uno-Trino, diversamente da ciò che pensava Schelling) è intimamente legata alla sua libertà; libertà dall'Inizio ma anche di ri-tornare a quella eremía. Dio può scegliere, anche, di ritirarsi «nell'immemorabile del proprio, intrascendibile Non».20 Nel Figlio, nella sua libertà radicale e ab-soluta dall'Inizio, è ri-posta infatti la possibilità che si dia l'im-possibile; dramma del Figlio che può anche de-cidere di ri-affondare la vita-intradivina «nell'ek- del suo esistere, nell'Inizio che essa Non è, nel proprio Non -- che si affermi il possibile del suo essere radicalmente mortale».21

Inizio è Non-de-cisione; il divino così come l'umano sono in se stessi de-cisi, l'Inizio in quanto immemoriale Passato, è sempre aperto ad un Futuro aionico e dunque sempre ad-veniens, compossibilità del possibile e dell'im-possibile. Libertà: non essere soggetto-alla-Wirklichkeit, attualità del possibile; In-differenza tra gli infiniti possibili e la stessa possibilità che l'im-possibile sia; Onnicompossibilità che ha in sé potenza e atto. De posse-est.

3. Cacciariana... contra-dictio

Attraverso la contra-dictio Cacciari decostruisce la potenza stessa del logos; ma l'ardito s-mascheramento dell'oblio dell'Inizio è possibilità di accogliere il Dono dell'Un-sinnlich -- nella forma che questo ha assunto: la 'Com-possibilità' dell'Inizio medesimo?

In altre parole, la teoresi cacciariana non appare comunque manifestativa la volontà-di-potenza che è logos? Insormontabile a-poria si dà al pensiero, nel momento in cui si de-finisce con 'Inizio' il Quod che non dovrebbe essere de-finito, in quanto «contra-dizione che contra-dice (c. n.) se medesima e così 'salva' se stessa dall'indentità con sé che la negherebbe».22 In-finito procedere, quello diaporetico: pena rendere il theoreîn cattura mortale dell'Inizio, a cui compete comunque di essere-possibilità di contra-dirsi. L'in-concepibile si dà sempre quale im-possibilità a pensare-l'im-pensabile; perché im-possibile pensiero volto a «'osare' attingere ad un Inizio».23

Riesce la teoresi del nostro a sfuggire alle maglie del logos? Umana-im-possibilità (nelle forme assunte appunto dalla ragione) ad accettare l'aphasía di fronte l'Ulteriorità dell'Inizio? «Atopía, assurdità»; il pensare è perenne «stare-in-crisi»24 con se stesso e con l'Abisso. Allora è da capire come può, se può, aprirsi il pensiero ad una kénosis che rammemori senza sosta il taglio dal fondo-non-fondo dell'anima; mai se-cura o persuasa di una parola che -- proprio perché e in quanto parola -- non diverrà mai enérgeia, compiutezza intorno all'Inizio: perché, appunto, Veritas semper indaganda.

M. Donà, in una acuta critica all'impianto teoretico del nostro, ricorda che «lo stesso termine 'in-differenza' si costruisce sulla differenza, non semplicemente negandola, ma anche, sub eodem, affermandola. Ogni 'negato' deve essere (nel suo stesso esser negato) affermato -- appunto come 'negato'. Dove, ciò che prevale, anche a livello di struttura logico-formale, è appunto l'affermazione; ché, la negazione si dà nell'indeterminatissima forma di un "non" semplicemente preposto all'affermato»25. Obiezione non dissimile quella che B. Forte solleva rilevando che l'Innominabile Lethe dell'Inizio, la sua pura In-differenza è già in qualche modo de-limitata nel momento in cui l'abbiamo chiamata, appunto, Inizio: «Se veramente indicibile è l'Inizio, non è forse un dirlo il catturarlo in assoluta In-differenza?».26

V. Vitiello, d'altronde, mette in rilievo la difficoltà a tenere insieme il tempo in quanto estensione con l'eterno ad-ventus del futuro aionico. «Il futuro è davvero imprevedibile se può anche non essere».27 Ma come 'tenere' teoreticamente insieme l'eterno Passato con l'eterno Futuro, senza schiacciarli in un mero Presente-senza-tempo? Sostiene Cacciari che la novitas dell'annuncio è un qui e ora eternamente presente in quanto l'eterno è ad-vocato dalla possibilità pro-veniente dall'Immemoriale passato. Adventus è Futuro, ma aionicamente concepito; e in quanto futuro, imprevedibile. Se così non fosse, scrive Cacciari, tutto ritornerebbe ad essere insieme di momenti (nyn) interni ad un processo capace di annichilire ogni ente, ogni momento del tempo-chronos; e il futuro un concetto assolutamente inutile, superfluo in quanto prevedibile, pro-gettabile: necessità. Il suo adventus invece, è secondo il nostro, l'abitare il Presente, ne costituisce l'immanente trasfigurazione, tempo sempre ad-veniens nell'attimo, nel kairos.

Ma questo futuro è davvero imprevedibile come richiede Vitiello? Concepire un tempo aionico è anche possibile, ma come concepirne insieme la sua escatologicità (come sostiene Cacciari) se questa è irruzione qui-e-ora mai compiuta dell'Eterno? E ancora: la nostalgia divina per il passato dell'Inizio, come può in-sistere insieme alla creatio? «In Dio -- scrive ancora Vitiello -- la creatio non esclude la de-creatio, e questo uno actu»28: l'in-esistente profondità e la manifestazione quale ek-sistente; l'im-possibile della morte di Dio, perché e in quanto ri-volto verso l'eremía dell'Inizio, uno actu, appunto, con la creazione e la manifestazione della re-velatio. È sufficiente affermare che com-possibilità è insieme la contradictio contradictionis, che cioè siamo oltre l'umana comprensione basata sul principium firmissimum? «L'onnicompossibilità è all'altezza di questa contraddizione? ... Senza scioglierla in un'identità che nell'affermarla la nega?».29

Scrive S. Givone: «quando tutto fosse accaduto, non sarebbe accaduto che uno dei compossibili. E se quest'uno fosse il ni-ente, non perciò l'apocalisse apparirebbe rovesciata nel suo contrario nichilistico, dal momento che anche la negazione dell'ente, anche la negazione di ciò che è non è che la manifestazione di uno dei volti della realtà divenuta se stessa, ma già se stessa prima di divenire».30 Il Ni-ente, o meglio, la possibilità dell'impossibile che vita sia, la de-creatio intesa quale ritorno alla Tenebra dell'Inizio, in ogni istante possibile eternamente, «non toglie la Vita vera, ma sta accanto ad essa come qualcosa che le è coessenziale, e la Vita vera non cancella il niente, ma si costituisce nella sua verità affermandolo e comprendendolo».31

Nulla va perduto nulla si salva (continua Givone): forse echi, nostalgie tardo-hegeliane, ricerca di nuove forme di conciliazione della realtà, nuovi primati del logos? «Dio che abbandona ed è abbandonato, così come il Figlio che 'adempie' la volontà del Padre, e l'adempie nello Spirito»32 coesiste con l'Inizio «ab aeterno sottratto al processo, già da sempre 'salvato' dall'accadere e dal divenire, l'Inizio è, prima di tutti i tempi, quel che sarà alla fine dei tempi».33

Scrive B. Forte: «nell'istante si addensa l'éschaton, ma non vi si risolve, restando aperto nella sua In-differenza... dell'Ultimo l'istante conserva l'irriducibile libertà, l'aperta in-differenza».34 Mai alcun Futuro de-terminerà l'eterno Passato, la Croce chiama solo alla consapevole, libera adesione all'annuncio, «la Croce non è éschaton in quanto tutto-dice, tutto-risolve, ma in quanto tutto-indica. Essa indica il próblema, lo skándalon della Resurrezione dell'uomo come del suo eterno Futuro... e che altro indica l'aionicità di agape, se non l'intramontabilità della distinzione che ci fa ad-tendere l'altro, fino a quel grido, e che mai ce lo assicura -- che assicura soltanto che nessun processo mai ne esaurirà il puro Futuro?»35 Éschaton è ogni istante, complexio di tutti i tempi: insuperabile Ultimo.

Nessuna possibilità dunque che si realizzi l'éschaton nel senso di un compimento del tempo: l'apocalisse (se vogliamo utilizzare il linguaggio teologico). La Croce del Figlio assurge piuttosto a icona della possibilità che insieme si diano salvezza del possibile come dell'im-possibile: grido di Cristo, il Te-antropo sulla Croce -- che si fa grido della 'storia' -- che mai avrà fine, perché eikon della 'salvezza' della coesistenza dei com-possibili.

Mai un éschaton porrà dunque fine al dolore, al cammino in-sensato della storia? Non è possibile concepire altro senso all'Un-sinn dell'Inizio, se non quale e-vocazione alla più disperata e pur contraddittoria, 'serena' convivenza di tutti i possibili/im-possibili?

Afferma Vitiello che una visione coerentemente aperta al futuro comporta poter affermare che «domani potremo non essere mai stati».36 Se l'ek-sistenza di ogni essente come di Dio è appesa sempre e comunque a quella nostalgia dell'Inizio, nel momento stesso in cui si dovesse realizzare l'implosione della possibilità dell'ente, cioè che si realizzi la possibilità dell'im-possibile, che venga meno l'ex-plicatio divina, se tutto ciò ha un senso per quanto in-sensato, dovremo accettare l'idea stessa di un rischio 'mortale', «l'estrema contraddizione del Futuro che cancella il Tempo»37: non ci sarà più Futuro sempre futuro, né Presente sempre presente, né Passato sempre passato.

4. Inizio, Ni-ente: nichilismo e dissoluzione o abbandono al Mistico, apertura al Suo libero, in-sensato donarsi?

In Della cosa ultima l'attenzione del nostro si rivolge all'anima quale apertura alla Libertà che è l'Inizio, al Dono che è lasciare-essere come lasciare-non-essere l'essente: essa in-siste quale apertura al Mistico, all'Ignoto, al mai-posto, eterno Passato ed eterno Futuro: profunda Dei, imprevedibili e incatturabili.

Nell'exaíphnes l'anima 'sembra' poter accedere, rompendo le catene del tempo e del continuum, alla gioia plotiniana del tigheîn: poter toccare il divino, accedere all'inesprimibile, al quod che il procedimento logico vuole comprehendere de-finitivamente. Tigheîn: intuizione ek-statica dell'Haploústaton, Inesprimibile che mai si dà compiutamente nel pensiero.

Dunque, da un lato, «Il pensiero dell'Illimite si darà sempre nella forma nóesis-noetón, sarà sempre pre-giudicato in essa. Il pensiero non coglierà mai il fondo dell'anima, 'dove' ogni dialettica tra le determinazioni del fondamento e di ciò che viene fondato lascia luogo all'assoluta semplicità dell'essere-uno»;38 dall'altra, rimane però aperta la via 'escatologica': il contatto con il dio, l'im-mediatezza che, «come l'Inesprimibile, si afferma all'estremo, en escháto, del discorso capace di ascolto e silenzio. L'im-mediatezza eterna e inconsumabile della cosa, che, alla fine, è la stessa dell'anima 'iniziata' al contatto».39

Un esempio proposto da Cacciari può aiutare a comprendere meglio: il brano evangelico della trasfigurazione di Cristo. Siamo dinnanzi all'Evento, al momento kairologico, attimo (in-stans) che rompe la successione del tempo-cronologico.

Entro la nube ac-cade qualcosa; Qualcosa si dà nel Dasein, attraverso il dis-velarsi nel suo doppio significato: «Pietro, Giacomo e Giovanni vedono il Suo volto lampeggiare come il sole e le sue vesti farsi candide come la luce, e insieme cadono sulla loro faccia e non possono vedere ma possono udire soltanto. Immediatezza del contatto, in-discorribile, inesprimibile -- e che si dona tuttavia alla pienezza di tutti i sensi».40 Evidenza indubitabile, la definisce Cacciari, contemplazione che diviene Gioia di toccare Dio, appunto.

I discepoli dunque non vedono (non è visione onni-comprensiva, contemplativa) ma odono, ascoltano: Qualcosa riempie i loro sensi, dona senso a corporeità e anima, nell'unione ek-statica con Dio. Lungo, faticoso percorso che libera dal pre-dominio di Chronos, dal tempo che uccide se stesso nell'atto di negare l'essente. «Toccare il Dio è perciò apallagé, liberazione dal sensibile in quanto superamento della contraddizione tra sensibile e sovrasensibile, visibile e invisibile -- mortale e immortale».41 Se vogliamo, aspirazione al trascendimento oltre il sensibile, al di là della in-significanza della separatezza dell'Uno-uno, ék-stasis che diviene rivalutazione della corporeità che si apre al Mistico, all'ulteriorità semper Ad-veniens: «il fondo dell'anima è il lampo dell'idea del totalmente increato e increabile, oltre ogni Essere e donar-essere».42 Così, se l'Identità di thigeîn-noeîn si dà solo nell'aionicità divina è pur vero che l'anima -- liberatasi dalla rei-ficazione dell'arché -- può toccare nell'in-stans, nel logos alethés (al di là di ogni discorsività) l'evidenza della cosa.

Eppure, Dio non lo si può vedere faccia a faccia, i discepoli cadono per terra; l'in-stans (non contemplativo) in cui toccano Dio, coincide con l'aver udito una Voce: l'Abisso chiama il loro esserci; essi si aprono (al di là di qualsiasi logismós) a quell'ascolto, a quella Voce che si dà, si dona in quanto Inesprimibile. Scrive Cacciari: «ecco il silenzio che ascolta: irriducibile alla parola, 'tradito' in ogni discorso, e tuttavia condizione di quell'ascolto da cui ogni parlante proviene. Il modo d'essere corpo dell'essente che siamo è quello dell'ascoltante silenzio».43

Siamo dunque giunti all'annullamento, al nihil eckhartiano, che del resto, Cacciari denuncia quale estrema forma della volontà-di-potenza? Ricorda Cacciari che Paolo, cadendo per terra, vede con occhi aperti il Nulla che è Dio. È questo il perfetto annichilimento? L'implosione del logos, della sua possibilità di affermare qualcosa di determinato? O piuttosto, apertura al Mistico, all'Ignoto, eterno-Passato, che nell'im-mediatezza del contatto, è già contra-dictio? L'im-mediato coincide in quell'attimo con il fuggevole tentativo di dare rap-presentificazione, impossibilità a ri-evocare l'immediato medesimo, e perciò stesso, suo oblio.

L'In-esprimibile contatto, tigheîn, che nell'attimo sia pure in-comunicabile diviene identità con il noeîn -- intuizione, a-discorsivo (dunque, non dia-noeîn), appare a Cacciari l'unica possibilità per l'ente di cogliere, appunto intuitivamente, la Com-possibilità dell'Inizio.

Ultimo-non-Ultimo, Ab-grund, 'gioco' del Possibile e dell'Impossibile; eppure 'de-finito', perché possibilità che si dia, nel logismós, all'umano comprehendere, insieme al Possibile, il possibile dell'Im-possibile. Procedimento logico che de-finisce l'Inizio, l'Inesprimibile nel momento in cui se ne afferma (già contra-dicendo) il suo rimanere comunque Ignoto, Mistico non catturabile dal logos.

In fondo, scriveva Bernhart, dire di Dio che è l'Ineffabile è già asserire qualcosa di Lui: un modo anche questo di de-finirlo in quanto appunto non-dicibile, comunque catturato entro l'illimite che è, esso stesso, limite nel momento in cui è detto. In termini teoretici, ricorda ancora Donà, l'Inizio è ancora una volta il distinto, il differente, non più l'in-differenza nel momento stesso in cui l'ek-sistenza è: «nella misura in cui l'iniziante non-è, è altro dall'Inizio, cioè nella misura in cui l'iniziante è iniziato, l'iniziante non-è più nell'Inizio, e dunque che l'Inizio, in relazione all'esser iniziato dell'iniziante, è diventato semplice possibilità del 'non-esser iniziato' dell'iniziante, e cioè che l'Inizio non è più l'assoluta in-differenza, ma s'è esso stesso differenziato da ciò che sarebbe potuto essere, se l'iniziante non fosse iniziato».44

In altri termini, 'intuire' l'in-finito dono della Gioia, avere-in-dono la possibilità di unirsi alla cosa rimane (è qui ancora contra-dictio) inafferrabile, im-possibile accesso; «inesauribilità e inattingibilità per la parola»?45 Anelito all'im-possibile, sempre e comunque: "toccare il mio essere-divino senza comprehenderlo, il mio proprio inafferrabile".46 Se così non fosse, se potessimo ancora de-finire Com-possibilità onni-avvolgente l'inseparabilità del Possibile e dell'Im-possibile, non avremmo, contrariamente a quanto scrive Cacciari, 'divorato' in quell'attimo l'Inesprimibile che in Anselmo rimane maius quam cogitari possit? Nessun quod cor-risponde al Mistico, né alcun quid può divenire oggetto di rap-presentazione, appunto perché Ni-ente, il non-pensato attraverso alcuna determinazione.

L'Im-possibilità (del soggetto indagante, dell'ente-che-è) di aprirsi all'Uno, è ignorantia, non coincidenza con l'Immemoriale, con il Non di Dio; l'im-possibile di Dio è il Suo essere in deserto, la sua eremía, l'essere-chiamato dall'Inizio alla sua Ni-entità.

Già Schelling definiva l'infinita potenza un 'totale deserto' ove si muove il pensiero; luogo-non-luogo, topos dove si fa presente il nostro puro perdersi, farsi-aperto all'accoglienza del dono libero dell'eremía dell'Inizio: «Jabès parla di un dileguarsi di Dio in Dio, in un Inizio che è Ni-ente e dunque mai iniziato (e a questo Inizio mai iniziato, è rivolta la nostalgia di Dio) -- ancor più: quando egli parla della morte che è in noi come è in Dio (poiché Niente è il Suo fondo, così come il nostro -- e in tale fondo, ma nel senso dell'Ungrund -- fondo dove ogni fondamento è tolto -- dileguiamo, e così dileguando siamo, poiché il nostro esserci altro non è che il Ni-ente nel suo stesso, necessario, annichilirsi) -- ebbene, in tutte queste sue voci Jabès è veramente quello straniero che è voce di Colui che chiama nel deserto».47

Dobbiamo allora ri-volgerci alla nostalgia che è di Dio stesso e dileguarci, annichilire la nostra volontà-di-potenza, possibilità im-possibile di superare -- forse -- l'estrema philopsychía: che si dia all'umano-dire Inizio quale Com-possibilità. Coscienti però al contempo della tragica inevitabilità: che siamo im-potenti predatori di una totalità che tentiamo disperatamente di possedere.

Possedere ancora Dio, l'Inizio: nostra hybris, umano-divina condanna; e al contempo dilaniante ri-chiamo ad una terra promessa (Vitiello) che ci si dà sempre quale esilio, nomadismo. Frammento e esodo. «La risposta -- la risposta che non uccide -- è solo del frammento. Nell'esilio dell'aforisma. Nel nomadismo del commento»,48 avvento che è sempre il differimento di un approssimarsi di un Volto che rimane aperto all'infinito, tragica e-vocatione della totalità che ci re-clama -- comunque -- a sé; anche se la ricercheremo per possederla, onni-comprehenderla ancora e ancora, convinti, come nota Vitiello, che ogni parola, in quanto portatrice di significato, tradisce la verità che proclama, perché riduce il possibile a reale, l'uno a molteplice.49

Noi, scriveva Jabès, speriamo ardentemente di essere come Dio, di giungere al suo silenzio, alla sua verità; e tuttavia a-poreticamente è proprio nella parola, nel contra-dire il Silenzio con le parole che avremo accesso, sia pure limitato/limitante, a Lui: la verità di Dio è nel silenzio, cioè a dire, apertura a quel Possibile che rimane Im-possibile. Essendone coscienti solo nella parola, ne abbiamo già tradito quella che -impropriamente -- de-finiamo la sua 'essenza' ultima. Ci siamo allontanati, in quell'attimo, dal silenzio supremo di Dio, dalla sua Luce oscura.

Parola che si fa silenzio, che si apre al Silenzio. Silentium traditum, osserva Cacciari. In questa a-poria, lo scrittore diviene icona del ricevere-donare realmente libero: «la scrittura è ciò che lo scrittore-straniero 'lascia' mentre esce-fuori da ogni terra e da ogni lingua-madre, nel deserto. Così ciò che leggiamo sulla pagina -- il 'nero' della pagina -- è quanto sopravvive al 'cancellare'».50 Un infaticabile, lungo, in-finito compito re-clamato dalla Ni-entità sovra-essenziale; frammenti di parole, di voci che nel-dal deserto dell'eremía della Voce sono ri-chiamate. Ogni frammento, ogni parola è re-clamata in quanto ad-tendente quella totalità che è Ni-ente -- che non è dato possedere -- sotto alcuna forma, neanche quella della Com-possibilità.

Dobbiamo allora, ad-tendere al non-fare del poeta -- divenire icone del far-si Vuoto (haplosis), accogliente lasciar-essere, donante dire-tacendo, «rischio estremo di un ammutolire, dell'impossibilità dello stesso gesto espressivo».51 È la nuova figura dello Über-mensch nella lettura cacciariana: il tramonto di ogni determinazione, di ogni rappresentazione, "'luogo' che accoglie e che dona, luogo che non si appropria di ciò che riceve, ma lo alimenta, luogo che non trattiene, che non cattura, ma ri-lascia ogni cosa al suo tramonto. «Eckhartianamente, l'Oltreuomo è l'abbandono di tutte le immagini e di se stesso, il divenire dissimile e straniero a tutto -- ma così dissimile da esser dissimile dallo stesso dissimile, e dunque aperto e amico di tutto, donatore e dono per tutti».52

A. Emo, erede solitario dell'attualismo gentiliano e pensatore caro a Cacciari, sostiene che è proprium dell'atto tendere a conoscersi in un contingente, cioè nella propria negazione; dunque, coscienza e conoscenza nell'atto d'essere la negazione dell'assoluto stesso, pretendono di conoscerlo e possederlo immediatamente. Ma l'assoluto appunto si dona, si fa conoscere solamente perché e in quanto negato, nella sua nulli-ficazione e ni-entità: «la conoscenza pura è il vuoto: essa può sussistere soltanto in funzione dell'azione, che è la verità, che è l'assoluto, e che può essere lo scopo perché è l'attualità stessa... L'attuale, che è l'assoluto, è ciò che si incarna sempre nel relativo, nel limitato e contingente... . Questi relativi e contingenti, a cui l'attualità dà realtà, sono la negazione dell'attualità, cioè dell'assoluto che li crea e, appunto, danno realtà a questo assoluto, cioè all'attualità, negandola».53 Trascendenza che si attualizza nel suo negarsi. Oltre la semplice presentificazione della conoscenza, il Nulla dell'assoluto, il suo perenne, in-stancabile -- libero -- auto-negarsi.

Il Deserto ci chiama-a-farci-deserto: Vox clamantis in deserto, eremía dell'Inizio, Libertà, esilio senza terra, regno senza patria; Vuoto, appunto: «'vuoto' che si è fatto per dar luogo. Esso invoca l'ospite; l'ospite è il suo senso. Ma lo invoca anche se nulla si presenta. Anzi, è un puro abbandono in quanto 'crede' all'assenza, all'Irrapresentabile. La kénosis è destinata a questo: ad essere assolutamente 'liberi', aperti all'avvento dell'ospite, senza nulla chiedere, nulla pretendere, ad invocare l'avvento dell'assolutamente Assente. Il 'vuoto', alla fine, è il grande grido -- la bocca che si disserra nel grido dell'Abbandonato».54

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Note

  1. M. Cacciari, L'Europa di Maria Zambrano, in Paradosso, 8/94, p. 175. Testo

  2. M. Cacciari, ibid., p. 176. Testo

  3. M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, 2004, p. 403-404. Testo

  4. M. Cacciari, ibid., p. 404. Testo

  5. M. Cacciari, L'Europa di Maria Zambrano, p. 174. Testo

  6. M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 302. Testo

  7. N. Magliulo, La luce oscura. Invito al pensiero di Massimo Cacciari, Edizioni Saletta dell'Uva, 2005, p. 10. Testo

  8. M. Cacciari, op. cit., p. 101. Testo

  9. M. Cacciari, op. cit., p. 103. Testo

  10. M. Cacciari, op. cit., p. 102. Testo

  11. M. Cacciari, op. cit., p. 102. Testo

  12. M. Cacciari, Dell'Inizio, Adelphi, p. 179. Testo

  13. M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 34. Testo

  14. M. Cacciari, Dell'Inizio, p. 178. Testo

  15. M. Cacciari, ibid., p. 192. Testo

  16. M. Cacciari, ibid., p. 217. Testo

  17. M. Cacciari, ibid,, p. 517. Testo

  18. M. Cacciari, ibid., p. 348. Testo

  19. M. Cacciari, ibid., p. 349. Testo

  20. M. Cacciari, ibid., p. 218. Testo

  21. M. Cacciari, ibid., p. 219. Testo

  22. V. Vitiello, L'im-possibile. Discutendo con Massimo Cacciari, in Aut Aut, settembre-ottobre 1991, p. 55. Testo

  23. M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 13. Testo

  24. M., Cacciari, ibid., p. 26. Testo

  25. M. Donà, Aporia del fondamento, La Città del Sole, 2000, p. 105. Testo

  26. B. Forte, Sui sentieri dell'Uno. Metafisica e Teologia, Morcelliana, 2002, p. 292. Testo

  27. V. Vitiello, op. cit., p. 52. Testo

  28. V. Vitiello, op. cit., p. 54. Testo

  29. V. Vitiello, op. cit., p. 52. Testo

  30. S. Givone, Fra necessità e libertà, Iride, 7/91, p. 234. Testo

  31. S. Givone, op. cit., p. 234. Testo

  32. S. Givone, op. cit., p. 235. Testo

  33. S. Givone, op. cit., p. 234. Testo

  34. B. Forte, op. cit., p. 293. Testo

  35. M. Cacciari, Dell'Inizio, p. 605. Testo

  36. V. Vitiello, op. cit., p. 55. Testo

  37. V. Vitiello, op. cit., p. 55. Testo

  38. M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 61. Testo

  39. M. Cacciari, ibid., p 485. Testo

  40. M. Cacciari, ibid., p. 496. Testo

  41. M. Cacciari, ibid., p. 490. Testo

  42. M. Cacciari, ibid., p. 6. Testo

  43. M. Cacciari, ibid., p. 407. Testo

  44. M. Donà, op. cit., p, 496. Testo

  45. M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 507. Testo

  46. M. Cacciari, ibid., p. 507. Testo

  47. M. Cacciari, A Edmond Jabès. Un commento, aut aut, 241/91, p. 20. Testo

  48. V. Vitiello, La scrittura del frammento. La teologia apofatica di Edmond Jabès, aut aut, p. 39. Testo

  49. V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, 2002, p. 29 . Testo

  50. M. Cacciari, A Edmond Jabès. Un commento, p. 21. Testo

  51. N. Magliulo, Un pensiero tragico. L'itinerario filosofico di Massimo Cacciari, La Città del Sole, 2000, p. 195. Testo

  52. M. Cacciari, L'arcipelago, Adelphi, 1997, p. 146. Testo

  53. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, Marsilio, 1989, p. 22. Testo

  54. M. Cacciari, Della cosa Ultima, p. 139. Testo