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Attualità di Pavel Florenskij

di Massimo Bolognino (29 marzo 2006)

«La dottrina della Santissima Trinità attira la mia mente non solo perché è come il fulcro supremo di tutte le verità sante che ci furono comunicate con la rivelazione, ma anche perché scrivendo di filosofia sono pervenuto alla convinzione che la direzione della filosofia dipende nel suo primo principio dal concetto che abbiamo della Santissima Trinità». È questa intuizione di Kireevskij, esplicitata e compiuta da Pavel Florenskij con una passione, un vigore speculativo ed una ampiezza forse unici nel panorama della filosofia religiosa del novecento, a fare di lui un protagonista più che mai fondamentale nell'attuale dibattito filosofico-teologico.

Tra arroccamenti o ritorni nostalgici a metafisiche astratte e oggettivanti ed estenuazioni ermeneutiche al limite della deriva nichilistica, Florenskij ci restituisce il respiro ampio di una inesausta ricerca di una Verità -- il termine russo per essa, Istina, deriva dalla radice di es e dal sanscrito as che nella sua forma più antica significa appunto respirare -- capace di coniugare oltre ogni separazione o confusione l'identico e il diverso, l'Uno e la ricchezza articolata e vivente della molteplicità che invoca salvezza e non annullamento.

Una metafisica concreta, dialogica, relazionale in cui la ragione partecipa dell'essere e l'essere della ragione, di una ragione liberata dalla contrazione in una autoreferenzialità opaca e tautologica, impermeabile ai richiami dell'alterità -- di sé stessi, del mondo, delle fibre del finito -- «convulsione dell'io in una gabbia di specchi» (O. Clement). Incapace di quell'atto eroico di uscita da sé, di affidamento e donazione all'A/altro, a quella Verità che comprende in sé, nella sua ricchezza e articolazione dinamica, unitotale, anche il dramma della sua consegna sulla croce.

Verità dell'Agape triunitario che sulla croce diviene infatti spazio per un rinnovato pensare «nella» fede, per lo sviluppo inedito di una gnoseologia trinitaria, di un'ontologia ed un ethos dell'amicizia ancora impensati a tale profondità.

Il tutto nello sfolgorio di una Bellezza che richiama (kalós -- kállein) tutto il nostro essere (ragione, sensi, affetti) ed il nostro essere come un tutto verso l'atto libero e ascetico di un affidamento di risposta alla pro-vocazione della bellezza «sub contraria specie» del crocifisso, della bellezza del dono di sé, dell'uscita da quell'autoidentità del raziocinio vuoto entro sé stesso -- un «sé stesso» inesistente, sterile, inattuato nella sua relazione con l'A/altro -- che è la radice del peccato e del suicidio, anche gnoseologico. Perché «tra la Trinità -- ed un pensare che ne sia rispecchiamento transfigurante e contemplante -- ed il nulla, tertium non datur».

Questo breve scritto non si propone assolutamente di essere articolato od esaustivo, ma intende unicamente suggerire l'attualità del pensiero di Florenskji nel dibattito filosofico (teologico) contemporaneo, fattosi sempre più attento e disposto a lasciarsi interpellare non negligentemente dall'avvento della Revelatio. Non a caso Florenskij è interlocutore privilegiato di alcune tra le voci filosofiche più autorevoli e significanti di questa rinnovata sensibilità al dato, al positum religioso quali, tra gli altri, M. Cacciari, V. Vitiello, F. Tomatis, N. Magliulo ed attraverso cui ci giunge il richiamo verso un «pensiero tragico», capace di esporsi sul duplice abisso della contingenza e di quello sfondo inarretrabile, di quell'apeiron che ne costituisce ad un tempo grembo e arrischio nello sforzo incessante di coniugare cura della finitezza e tensione all'unità.

Sguardo e pensiero tragico riluttante a facili conciliazioni, in perenne distacco da quell'ottica oggettivante logocentrica se non logolatrica in cui l'infinitezza è solo reduplicazione illusoria di un finito dilatato all'estremo, nel contemporaneo smarrimento tanto dell'Infinito quanto del finito stesso nella sua caricaturale tensione ad una pienezza che non è mai «compimento» ma piuttosto interruzione, scacco salvifico che rimanda ad una profonda esperienza di contingenza, quell'essere sfiorata «tangenzialmente» da un Altrove che la intreccia ma non compie, la definisce senza costituirla.

Un pensiero capace di inabitare le fessure, come dice E. Salmann, un'ermeneutica delle cifre del finito come traccia, orma e passaggio di un possibile avvento di Dio come parabola che parabolizza il mondo e lo strappa tanto alla cattiva infinitezza quanto ad un' altrettanto totalizzante percorso di indefinito differire di interpretazioni dischiudendone la simbolicità, offrendosi come luogo illocato di una dialettica non conciliativa, di una unione nella differenza, di una felice composizione e compossibilità.

È proprio P. Florenskij a definire il suo compito filosofico, lo scopo di tutta la sua ricerca -- e forse della ricerca filosofica tout court -- come il contemplare «il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà compatta, ma ad ogni tappa della mia vita da un determinato punto di vista [...]. Le sue angolature mutano, l'una arricchendo l'altra; è qui la ragione della continua dialettica del pensiero assieme al costante orientamento di guardare il mondo come un unico insieme».1

Una concezione di unitotalità (mutuata da un Solov'ëv cui Florenskij rimproverava garbatamente un certo oblio del dato concreto verso una forse affrettata tensione alla conciliazione ideale), di pericoresi tra uno e molteplice, liberati dalla giustapposizione, in un'unità articolata e vivente attraverso il plesso di relazioni costitutive la struttura di un reale cosmico e umano inteso non tanto come somma di enti gerarchicamente ordinati al sommo Ente, quanto come ev-enti e donazioni da e di una libertà amante che lascia essere l'essere, che si espone senza ritorni nell'Alterità ed all'alterità.

Il pensare tragico patisce, vive infatti con passione, con la forza di una speculazione spesso lacerata nel tentativo di abbracciare le contra-dizioni e le antinomie del reale, una sorta di cesura tra il logos e l'Altro oltre ogni separazione e confusione. Un affacciarsi stupito su quell'abisso della ragione la cui vertigine Pavel Florenskji aveva già percepito nella sua lucidissima analisi dello scacco di ogni forma logica e gnoseologica (intuitiva e discorsiva, metafisica e dialettica) della ragione autonoma nel tentativo di attingere la «colonna ed il fondamento della verità».

Una passione del pensiero che si porta al cuore della contra-dizione che inabita il fondo delle cose stesse, dentro quel Sì potente della Vita a se stessa, quell'autooriginazione divina, teo(a)gonia dalla e della libertà come inscindibilmente inizio e scelta, come vittoria sulla propria stessa im-possibilità che pure resta sopita e fondo immemoriale da cui il divino si de-cide senza separarvisi, dormiente al cuore delle cose, ferita che ne percorre ed infragilisce l'esistere ed in cui pure risuona l'eco dell'eterna, attuale autooriginazione di Dio in sé e nell'uomo, nel Sì del Figlio, nel Suo sop-portare e consumare in sé il dramma del non essere, dell'implosione della libertà entro se stessa, trans-figurandolo in possibile kenosis e dono di sé all'A/altro, non più solitudine ma comunione.

È, ancora, il dramma, spesso la frattura, testimoniata nell'opera di alcuni dei filosofi contemporanei citati, tra un paradigma ontologico, metafisico ed uno henologico, me-ontologico in cui l'inarretrabilità dell'abisso dell'Uno oltre l'essere, l'abisso del compossibile, si oppone ad ogni dicibilità, smargina oltre ogni dire analogico verso un apofatismo arrischiato all'afasìa, alla implosione nichilistica di un certo misticismo affrettatamente approcciato o verso la riproposizione di un Unità abissale posta ancora come dimensione separata e separante.

Tra pensiero dell'identità del e nell'essere ed apertura s-fondante ad un'alterità abissale, all'Uno come Altro sovraessenziale, orizzonte in-differente dei possibili e degli impossibili (Cacciari) -- posizioni entrambe esposte alla deriva nella libertà «dalla relazione» e non al compimento nella libertà «nella relazione agapica» e divinizzante ogni frammento del reale, sospese drammaticamente ad un abisso «oltre» la Trinunità e non «della» Triunità stessa -- si offre la potente riflessione triunitaria florenskjiana.

È l'orizzonte di una metafisica concreta che «si regge sulla coesistenza di due inscindibili istanze, solo in apparenza contraddittorie: da un lato il riconoscimento della natura dialettica del pensiero, della differenza, della discontinuità e frammentarietà del reale, così come dell'antinomia che lacera ogni realtà vivente, e attraverso questa fenditure lascia percepire l'opera della verità, che comprende in sé il dramma della sua consegna, della sua croce; dall'altro lato l'insopprimibile tensione verso l'unità dell'insieme, una visione unitaria e integrale della conoscenza e dell'esistenza come meta. Non si tratta tuttavia di una contraddizione interna al pensiero, in balia tra queste due opposte tendenze, ma della consapevolezza teoretica e pratica che all'unità, come alla verità, si giunge lungo un faticoso cammino ascetico, passando attraverso i contrari, fino a congiungerli insieme, nella distinzione e senza confusione: «la formula del Simbolo Perfetto (Uno e Trino), separato e inseparabile, si estende anche a qualsiasi simbolo relativo: a qualsiasi opera d'arte» (Florenskij). Per Florenskij al di fuori di questa formula del simbolo trinitario non è concepibile non soltanto l'arte, ma alcuna autentica esperienza conoscitiva».2

1. Triunità

Una filosofia dell'homoousìa dunque, una ontologia agapica, comunionale che deve a detta di Florenskji innervare e transfigurare ogni ambito di un pensiero che solo trova salvezza nella morte ad ogni philopsychìa e nel transito pasquale verso l'Altro, nella comunione all' «Agape quale sostanza divina» vivente nella relazione kenotica tra le Persone, in un tessuto umano e cosmico liberato dall'entropia e dalla lacerazione ed unificato, ipostatizzato in comunione reciproca, in amicizia nella Comunione triunitaria stessa che di ogni amicizia -- di ogni pericoresi tra Io e Tu nel Terzo dell'Alterità non oppositiva, della Luce dello Spirito in cui ciascuno è rivelato a se stesso attraverso l'altro non più altro, oltre ogni separazione e confusione -- è condizione di possibilità, grembo, custodia e destinazione ultima ed intima.

Una filosofia dell'homousia ed un'ethos dell'amicizia che si nutrono della profonda riflessione teologica dei padri greci e della teologia orientale successiva e che originano una teologia della persona e della comunione, della persona in comunione, differente dai personalismi filosofici od esistenzialisti. La persona è, alla luce della Rivelazione triunitaria estesa in Cristo all'umanità assunta nella vita dello Spirito-Amore, l'irriducibilità alla natura, l'irriducibilità al regno dell'oggettivazione e della cosificazione, dell'ossificazione di cui parlava Berdjaev, dell'estraposizione tra sostanze separate ed incomunicabili da cui origina un pensiero altrettanto rigido ed incapace di vita, non tuttavia per abbandonare la natura a se stessa, alla solitudine o alla morte nella frantumazione in individualità separate recirpocamente negantisi che non attingono più nella comunione con la vita divina essere e bene, ma per trasfigurarla in relazione deificante.

Secondo la teologia orientale la persona possiede un carattere di sorgività, di libertà abissale ed approcciabile solo attraverso un procedimento apofatico che si dispone ad accoglierne la libera ed innecessitata rivelazione nell'amore disarmato e disarmante. Anche la categoria di relazione, sia pure di relazione sussistente, pur valida, sembra venire considerata con cautela nella teologia ortodossa come designazione esaustiva del mistero della Persona e della Comunione personale. Come giustamente afferma V. Losskji: «Le relazioni servono unicamente ad esprimere la diversità ipostatica dei Tre e non a fondarla. È la diversità, l'irriducibilità assoluta delle tre ipostasi che determina le diverse relazioni e non il contrario».

Una precisazione ed un approccio apofatico che anche la rilettura e la critica pur stimolante rivolta ad una certa teologia da parte di alcuni pensatori contemporanei che denunciano una risoluzione del mistero trinitario come esaurito in una reciproca, necessitante, originante relazione dialettica tra le Persone, una sorta di «curriculum vitae dei» di suggestione hegeliana -- si pensi alle critiche preziose di un Cacciari alla teologia trinitaria di Bruno Forte -- potrebbe considerare maggiormente.

Un approccio apofatico che non consista dunque solo in un procedimento filosofico di astrazione o di haplosis, di semplificazione dell'essere ridotto e ricondotto alla sua unità oltre le determinazioni finite ma, come incessantemente ribadisce Florenskji, in un esodo da se stessi, «un reale ingresso del conoscente nel conosciuto e viceversa», in un atto di conoscenza-amore in cui si partecipa e si viene graziosamente inseriti, attraverso la kenosis del Verbo incarnato nell'Amore dello Spirito, che è lo Spirito -- o le sue energie preciserebbero giustamente i teologi ortodossi -- sin «nelle viscere della Divina Unitrinità».

Quella koinonìa in cui e di cui, oltre ogni separazione o confusione tra natura abissale ed ipostasi nella loro relatività e «destinazione» necessaria, Florenskji ribadisce l'inscindibilità tra comunione ipostatica che in-siste nella natura e natura che ek-siste nelle persone. Simultaneità di un «Atto triuno nell'Amore e come Amore», un Atto dunque di reciproca donazione costitutiva il mistero della persona in cui ciascuna è «un modo unico ed assoluto -- dunque siamo al di là del modalismo -- di dare e ricevere l'essenza divina» (O. Clement), l'abissalità di una ousìa che resta tale proprio in ed attraverso la donazione ipostatica, ri-velata come Agape nella e come pericoresi amante nella libertà dei Tre.

Florenskji sottolineerà sempre con forza, insieme ad un altro grande teologo ed amico, Sergej Bulgakov, questa simultaneità e compresenza tra ousìa inaccessibile non oltre ma dentro e come la pericoresi tripersonale nella kenosis, nello svuotamento e nella reciproca glorificazione di ciascuna persona dalle, nelle e per le altre nell'Agape, simultaneità inattingibile al pensare diacronicamente disteso e separante della ragione decaduta, del razionalismo astratto e che costituisce il margine apofatico della comunione con un Dio «tutto intero impartecipabile e tutto intero partecipato» (G. Palamas).

2. Fede-conoscenza

Un orizzonte che si dischiude alla ragione stupefatta nell'atto di fede. «Non fuga nell'irrazionalismo e neppure fede razionale che è infamia e fetore davanti a Dio (Florenskji), ma apertura della ragione all'accoglimento della fede quale fiducioso atto d'amore, abbandono e rinuncia a se stessi»,3 non tanto e non solo azzardo di una scommessa pascaliana o salto kierkegaardiano, quanto risposta all'appello silenzioso della Verità crocifissa che si testimonia paradossalmente nelle fratture e nei varchi del pensare e dei quali è ad un tempo condizione di possibilità e riscatto.

La fede inquieta e provoca la riflessione filosofica contemporanea, come responsabilità e testimonianza-martyrìa, come affidamento alla bellezza -- più persuasiva dell'impositività di una verità come adaequatio o alla cogenza di un sillogismo astratto -- dell'Amore che, sfigurato sulla croce, assume in sé le nostre lacerazioni per transfigurarle in comunione.

Nella consapevolezza che, come affermato da don Forte, la distinzione tra pensanti e non pensanti, tra un pensare fino in fondo, fino allo stesso s-fondamento del cogitare sull'abisso della propria immemoriale origine (sul versante soggettivo, da un Anselmo a Rahner) o nell'incontro assimetrico e responsabilizzante in un dono di sé al volto dell'altro senza ritorno (sul versante oggettivo di una certa lettura della Revelatio, sino a Levinas) risale a monte dell'abusata distinzione tra credenti e non credenti, che peraltro spesso non considera sufficientemente le fluttuazioni nonché lo spessore antropologico e la ricchezza di un atto di fede che nella riflessione florenskjiana è coinvolgente di tutto l'uomo, unificazione di tutte le sue facoltà richiamate nel cuore-spirito, in una conoscenza per connaturalità e comunione che si porta oltre la dicotomia tra conoscenza oggettivante o indiamento misticheggiante ed impersonale.

Per i pensatori del tragico, per un pathos filosofico azzardato alle soglie della Rivelazione, la fede non è possesso certo ma ricerca inquieta ed inquietante, continua conversio più che metanoia, continuo ricominciare a credere, a lasciarsi pro-vocare dall'avvento dell'Altro incatturabile pur e proprio nel suo donarsi.

Una fede «... semper indaganda. Anche ciò che questa fede ha «trovato», assume valore soltanto perché essa continua ancora a cercarlo. Il «già» è vivente perché «non ancora» ad un tempo. Si tratta delle grandi cifre della teologia agostiniana. La fede non può esaurirsi nell'accettazione pura e semplice dell'annuncio; né la fede è raggiungimento che pone fine alla ricerca. Anzi: la vera ricerca inizia nella e dalla fede, dove la Verità si annuncia. Senza tale «apertura», impossibile aprirsi all'Adveniens che è la Verità -- impossibile indagarne la natura indaganda, e cioè che richiede di essere indagata. Per questi fondamentali motivi, e non per un vago pathos psicologico -- esistenziale la condizione del pistòs, di colui che in verità crede, sarà sempre insieme anche quella del non credente. A vera immagine del Dio che è e non è... Dio per questa fede non è fondamento, su cui stare, ma l'abisso che toglie tutti i fondamenti. E di quest'abisso nulla sa la fede -- solo lo Spirito che dona la fede, può conoscerlo»4 perché, aggiungeremmo, è nello Spirito che è Amore, partecipazione a tutto l'essere creato e divinizzato della sostanza divina, che si attinge una conoscenza-inconoscenza della Verità come Agape, inoggettivabile allo sguardo prensile del concetto che ni-ente più conosce.

Una inquietudine ed una continua conversione, un rivolgimento continuo ed un perenne passaggio in a/Altro determinato non tanto dall'imperfetta conoscenza del nostro status viatoris quanto dall'ontologia (dalla me-ontologia) della Verità, dal suo essere irradiamento dell'agape triunitario, «contemplazione (ed amore) di sé attraverso l'altro nel tertium» (Florenskji) della Bellezza, Altro da entrambi, Altro dalla/nella reciproca alterità (o astratta identità) e dunque loro superessenziale koinonia oltre separazione o confusione. L'antinomia ed il paradosso sono costitutivi l'ontologia stessa della Verità, hanno il loro luogo nella pericoresi trinitaria, nel reciproco e contemporaneo svuotamento della natura divina nelle persone e di ciascuna persona nelle altre, in quell' Atto triuno dell'Amore come libertà abissale nella consegna di sé senza ritorno, condizione di possibilità del dramma divinoumano.

«Dove non c'è antinomia non c'è nemmeno la fede, ed essa scomparirà solo quando la fede e la speranza verranno meno e rimarrà soltanto l'amore» ci dice ancora Florenskji, accennando non ad una consumazione in uno delle antinomie ma alla loro perfetta composizione nell'acquisizione della carità come sostanza divina, nella liberazione non dalla molteplicità e dalla finitezza ma dal peccato, dall'autoaffermazione inospitale dell'io che implode sulla propria vuota libertà declinata come rifiuto ed opposizione, negazione dell'a/Altro, divenuto inferno. E già Isacco il Siro affermava come la carità divina apparisse beatitudine per chi ne avesse scorto e servito il volto nell'icona del fratello ed inferno per chi ne avesse rifiutato il dono alla radice del proprio essere, nell'impossibile tragico tentativo di annullarsi in forza di una libertà chiusa a quel medesimo essere-amore che pur necessariamente riceve nel porre l'atto stesso, in una drammatica celebrazione dell'amore di Dio nell'atto stesso di rifiutarlo, di rifiutarsi ad esso (ed a sé).

Davvero, sempre, l'impensato da pensare e sempre ripensare è il paradosso dell'essere come amore, della Croce come rivelazione dell'ontologia trinitaria e dell'ontologia tout court inverata nella carità al fratello, nell'agape che diviene somma gnosi -- «chi non ama il fratello non conosce Dio».

Il cuore della riflessione religiosa florenskjiana, vera e propria «ermeneutica della rivelazione, incentrata sul legame costitutivo tra Parola e Tradizione»5 attinge e non mortifica tutta la sua forza speculativa dal fuoco sprigionato dal confliggere delle antinomie custodite nel dogma. Secondo don Divo Barsotti «il dogma è legge solo a motivo dell'imperfezione del cristiano; è legge solo in quanto Dio stesso rimane altro da lui e quasi esteriore ed estraneo all'anima sua»6.

Allo sguardo superficiale di una razionalità astratta e di una declinazione di fede sullo stesso registro, unicamente risolta in adesione acritica ad enunciati cui assentire per uno sforzo della volontà -- e qui ha buon gioco la critica severiniana alla supposta volontà di potenza sottesa alla fede cristiana -- il dogma non rappresenta appunto altro che un contenuto oggettivato.

In realtà, come Florenskji ha intuito perfettamente, esso procede da e conduce a un'esperienza di incontro con lo Spirito del Risorto o con il Risorto nello Spirito, le cui coordinate antinomiche custodisce apofaticamente contro ogni presa e pretesa del raziocinio eretico, etimologicamente, teso a separare e distinguere la divisione indivisa della vita triunitaria estesa in Cristo ad una natura umana divinizzata ed unificata in se stessa e con, in Dio.

È dunque la «contemporaneità con l'esperienza del Risorto, partecipata nel dono-atto della fede che vitalmente l'intenzione, l'incipit ed il luogo della teologia»7 e certamente della teologia florenskjana. Secondo la tradizione cristiana orientale la teologia corrisponde alla mistica, all'esperienza non tanto e non solo del conoscere Dio ma del «patirlo», del partecipare alla Passione della Verità, in un percorso di testimonianza di un amore sino alla fine per il creato e per ogni fratello.

Risulta così evidente come in continuità con la tradizione ecclesiale dei padri teofori in Florenskij la Trinità si riveli metodo oltreché contenuto della ragione teologica. «Solo trinitariamente è possibile conoscere quella Verità che è la Trinità, in cui è custodita anche la verità dell'esistenza umana e della sua comprensione. L'Alterità di Dio rispetto all'intelligenza creata è segno di quell'Alterità (trinitaria) in Dio, all'interno della quale soltanto trova composizione (trinitaria) la relazione tra Dio e la creazione in Cristo».8

Il sapere nella fede, la crocifissione del procedere decaduto della ragione idolatrica e mai simbolica, iconica, è così in grado di accogliere le inquietudini di coloro che credono di credere o che vedono in essa solo una consolazione in cui cancellare e non trasfigurare le lacerazioni e le ferite dell'esistenza, gli infragilimenti al nostro desiderio di una vita finalmente piena e non contraddetta dal dolore e dalla morte, dalle infinite morti quotidiane nello scacco della comunione.

Può così essere vero che anche la fede più tragica «non può che comprendere l'attimo in cui amore ed attesa abbracciano in sé ogni lacerazione» (Magliulo, Vitiello), ma abbracciandole appunto come lacerazioni, non annullandole ma contenendole e contenendone il male, la reciproca negazione evocata dalla libertà dell'uomo, nel dono di Sé all'Altro costitutivo l'Essere di Dio (e del creato) come Amore e libertà liberata, impossibilità a possedersi se non nell'altro e con lui, in una simultaneità di kenosis e glorificazione vissuta da chi -- come Florenskji nella sua testimonianza martyria di un amore sino alla fine che può davvero «essere assunto come criterio ermeneutico di rilettura dell'intero suo percorso teoretico ed esistenziale»9 -- abbia saputo graziosamente trasfigurare il dolore muto, risentito, disperato, chiuso ed incapsulato nell'autoaffermazione inospitale, in fiducia, parresìa, confidenza nell'amore più forte della morte e di ogni morte, nella sofferenza come offerta di sé senza ritorni.

La Croce, ancora, ma non tanto come in-stans, come salvezza «dalla» redenzione, dal naufragio in Uno del dolore ingiustificabile (Vitiello), quanto come rivelazione del perfetto persuaso, di Cristo, di «colui che ha perfettamente mostrato che la Persuasione è un dono divino. Egli è salute e vita. È il perfetto persuaso nel quale la vita si dà -- è lui che può darla: non discorre di essa, non la insegna» (Cacciari) ma, nella rinuncia ad ogni philopsychia, ad ogni giudizio di valore e di volere, accoglie ogni istante come dono, si accoglie, accoglie attimo per attimo la rivelazione del proprio volto -- e di ogni volto anche il più sfigurato ed ostile -- dall'Altro nell'amore e come amore, anche nell'inferno di una lacerazione che è l'altro tragico versante della libertà umana (e divina) e della dignità di ogni volto più caro a Dio che Se stesso.

La tradizione cristiana orientale, particolarmente siriaca, è estremamente sensibile al tema della discesa agli inferi, all'esperienza della grazia come consustanzialità al dolore del genere umano, all'esperienza della solidarietà nel peccato, alla partecipazione alla compassione divina nel dono delle lacrime, vero criterio dell'ascesi cristiana, alla consumazione dell'unità con Dio all'interno della lacerazione abbracciata per amore e non oltre essa. «Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare» si sente dire san Silvano dell'Athos comprendendo ed apprendendo dal Crocifisso Risorto la via di una compassione senza limiti, la via dello splendore della kenosis e della kenosis dello splendore nel volto sfigurato del fratello da servire ed amare sino a rinvenirne i tratti deiformi, sino a risvegliarne il cuore cherubico.

La fede come abbandono nell'Abbandonato, come accoglienza dell'Agape triunitario, si incarna perennemente nella dedizione di sé ai fratelli e diviene condizione di possibilità di quell'ethos dell'amicizia come riflesso, premessa e promessa della vita trinitaria, della forza divinizzante dell'Amore come sostanza divina vivente nel transito pasquale dall'individuo alla persona in comunione. La croce gloriosa si rivela così come icona dell'Atto di reciproca kenosis e glorificazione, del reciproco simultaneo svuotarsi della natura divina, dell'ousìa, nelle Persone e di ciascuna di esse nelle, per e con le altre eventuandola (tale ousìa) come Agape, divenuto nella morte e resurrezione di Cristo ambiente divino, luogo e sfondo dell'abban-donarsi di Dio nell'umanità e della deificazione delle relazioni intersoggettive, di quei plessi affettivi che «ci» costituiscono. Kenosis di Dio che in Cristo si attua donando-si (donando sé, la «propria» natura, in realtà disappropriazione infinita nella e della pericoresi triunitaria) nell'unitas spiritus come condizione di possibilità dell'attuazione escatologica delle profondità ontologiche di una natura umana «imago trinitatis».

Attuazione della natura umana «ad immagine» appunto come reciproca donazione e glorificazione di ciascuno negli altri e per gli altri in quell'«Altro dall'altro» che è lo Spirito del Risorto. «Rivoluzione copernicana» definisce Piero Coda questo esperire Dio non solo nell'abbandono di ogni relazione e legame per slanciarsi nella kenosi di sé verso l'abisso di un'henosis indiante ed indistinguente ma altresì -- guardando all'abbandono della Croce -- «abbandonando Dio» -- come senso, ragione, luogo, patria, fondo, unità monadica e statica --, «dando Dio» per il fratello, dandosi nel darsi di Dio che non è (intra ed extra trinitariamente) se non nella dedizione incondizionata e perduta di sè all'Altro nella reciproca attuazione nell'agape e come agape dell'inoggettivabile singolarità di ciascuno. «Il novum è la presenza di Cristo tra i suoi che esige la reciprocità dell'amore: il riconoscere, cioè, la reciproca inclusione in Cristo di coloro che entrano in relazione, per cui l'altro è sé essendo Cristo e così -- perché è uno con Cristo -- è uno in Lui con me. Così, per la mediazione reciproca delle libertà, si è uno in Cristo e -- come Cristo e il Padre -- uno in loro (Gv 17, 21). In tal modo l'essere in Cristo come suo corpo diventa reale esperienza del Padre nello Spirito.»10

3. Bellezza

Abbiamo così visto emergere, da questa indagine limitatissima, l'impossibilità di un pensiero della Trinità che non venga a coincidere con un pensiero nella Trinità, con la theosis, la divinizzazione di un intelletto svuotato nel distacco e nell'amore da ogni contenuto, dallo svuotamento stesso, ancora ultima e suprema hybris per non accogliere -- ed accogliersi -- nella caritas la forza di sop-portare gioiosa-mente (questo sì l'impossibile della grazia, la grazia dell'impossibile) la propria finitezza non cancellata ma resa alla propria verità nell'unità con ogni altra creatura, nel legame di una Bellezza che non toglie la finitezza e l'alterità ma ne trasfigura le lacerazioni in luoghi di passaggio dello Spirito, in piaghe aperte, finestre per l'irraggiare della gloria triunitaria.

L'intera vita di Padre Pavel Florenskji è stata, nel suo percorso intellettuale e nella sua parabola esistenziale, un'opera d'arte, come giustamente affermava l'amico Bulgakov, un'icona cristologica che lo Spirito Santo -- divino iconografo per i Padri teofori -- tratteggiava su una natura umana liberata da ogni contrazione egocentrata e negante ed ipostatizzata in relazione vivificante con Dio ed in Lui con ogni fibra del finito, in quell'unità finalmente consumata che sin dall'infanzia gli si annunciava tra le pieghe e le trasparenze della vita. «La Bellezza è la ri-velazione, ipostatizzata, dell'amore tra le Ipostasi divine. Essa viene originata e contemplata là ove «accade» ab aeterno l'evento perpetuo del consumarsi dei Tre, distinti nell'unità e del distinguersi dei Tre, uniti in un'unità indissolubile».11

Nessuna analogia personalistica, nessuna immagine relazionale, nessuna teologia segnata dalla limitatezza di enti de-finiti che successivamente entrano in relazione, fagocitante o disperante, tra loro, attinge l'Atto Triuno dell'Agape come Comunione dei Tre, come triplice reciproco rapportarsi, svuotarsi simultaneo e coeterno di ciascuna persona nelle altre e per le altre, dalle altre ricevendosi nell'unità di un solo Spirito mai altro dall'evento del perenne vincolo e svincolo tripersonale nella e come libertà, ma solo il divampare della grazia-charis-bellezza in un cuore purificato dal penthos, dalla contrictio cordis, dall'umiltà come riconoscimento, nell'incontro con l'icona cristologica dell'«amore folle di Dio», della propria alienazione, di una disperazione dolente e liberatoria che nulla ha a che vedere con la semplice frustrazione della propria volontà di potenza anche e soprattutto religiosa.

È precisamente in una vita di testimonianza e di dono di sé fino alla fine, anche nell'abisso del non senso e della morte, è in tale luogo teologico che la crocifissa bellezza, la paradossale coniugazione tra sfigurazione e trans-figurazione della nostra finitezza in Cristo, si offre come luogo proprio della formazione della coscienza alla spiritualità del sensibile (Sequeri). Una estetica teologica e non una teologia estetica o estetizzante capace di restituirci all'esercizio di quei sensi spirituali capaci di percepire lo Spirito all'opera mentre dà/restituisce vita in ciò che costituisce il vertice dell'esperienza estetica nella sua forma più propriamente cristiana.

Percezione attinta nell'ascesi e nel distacco da ogni idolatrica bellezza come se-duzione, estetizzazione superficiale, smalto sul nulla, gioco delle apparenze, indefinito accadere di interpretazioni, irraggiare della grazia sul volto del crocifisso risorto, di colui che testimonia l'infinita cura di Dio per il mondo in ogni suo frammento ed affetto colpito, ne serva e serba il dolore riscattandolo in una memoria ed in una attesa escatologica di pienezza già pure tutta presente nel suo vincolarsi al nulla, il piegarsi e piagarsi di Dio nel mondo e del mondo in Dio svincolati da ogni modo nell'eccedenza di una Bellezza senza perché.

La bellezza appare, certamente, allo sguardo della fede, nel segno di una verità della creazione che precede l'avvilimento dell'umano. E resiste, indomabilmente alla sua nichilistica deriva. Non allude semplicemente al suo originario legame con la bontà dell'opera di Dio, che si compiace della propria invenzione. La bellezza evoca il riflesso di una giustizia originaria della creazione che lascia balenare il sentimento di una felice corrispondenza della sua destinazione. Nel fascino che ne promana, la bellezza prefigura la restituzione della creazione al suo senso. E rende amabile l'intenzione di Dio che volle destinare l'uomo alla dignità di un'esistenza propria: a immagine e somiglianza di lui. Il sentimento della bellezza trafigge ogni volta l'acerba contraddizione del mondo abitato con l'immemoriale bagliore della Parola creatrice. La perdurante risonanza di quell'impulso può essere oscurata, ma non è estinta. Le potenze ostili, evocate dall'incredulità dell'uomo, possono congiunturalmente ridurla al silenzio: non mai privarla della sua risurrezione».12

Qui si gioca il valore estremo di una spiritualità «filocalica» come itinerario di senso e di dignità che, con Dio ed in Lui, non si rassegna a separare nemmeno misticamente ciò che Dio stesso ha unito in Cristo e sigillato nelle mistiche nozze della Croce: lo spirituale ed il sensibile, la terra ed il cielo, la micrologia dei nostri affetti e l'immensità dell'agape come grembo ed orizzonte ospitante, tutto nel frammento come suo luogo e salvezza.

«La verità manifestata è amore. L'amore realizzato è bellezza». La Bellezza è l'irraggiare nel pensiero e nella vita della gloria triunitaria, è quella visione di se stesso, attraverso l'altro in un Terzo, la visione della propria verità deiforme, ad immagine, inverata attraverso la dedizione di sé all'altro ed attuata nella bellezza dello Spirito Santo, di una comunione liberata tanto dalla giustapposizione quanto dall'egoismo a due e dalla semplice vicinanza, dalla morale, dallo psicologismo di una «filosofia dell'homoiousìa» che non attinge la consustanzialità dei diversi nell'Agape.

E lo Spirito Santo è la Bellezza ipostatizzata, il compimento che raccoglie e custodisce nella memoria eterna della Triunità, che è la Triunità, il reciproco totale affidamento del Padre e del Figlio, senza chiuderlo ma spalancandolo all'accoglienza nell'Archè della Comunione sovraessenziale, di ogni differenza, di ogni lacerazione, di ogni solitudine e morte.

Ipostasi della Bellezza, lo Spirito è anche ipostasi della kenosis, dell'amore sacrificale che congiunge, in uno, il tutto ed il nulla, l'essere e il non essere, l'abisso e la forma la cui impossibile composizione per sguardo umano solo umano inquieta e percorre, lo abbiamo visto, il pensiero contemporaneo che proprio dalla riflessione sull'estetica teologica florenskjiana pare attingere nuovi stimoli. «L'amore kenotico, essendo il dono di sé, e quindi il tutto d'amore per un altro, ma anche la morte di sé per dar spazio a un altro da sé, e quindi il nulla di sé, proprio esso è la vera ed unica natura della Bellezza. È infatti grazie all'amore che la Bellezza può essere l'insieme, senza confusione, del vuoto e del pieno, delle due realtà, insomma, il cui riferimento unico è il contrasto tra la vita e la morte, anzi, tra l'essere e il non essere».13

È forse davanti all'irraggiare della Bellezza come gloria triunitaria che trans-figura il pensiero e la prassi, il senso e gli affetti, la passione e la ragione liberandoli dall'anomìa, dal peccato, dal disordine e dalla frantumazione -- che pure originano filosofie e teologie infragilite dalle medesime contraddizioni -- ed unificandoli in un'unica «percezione del trascendente» (Isacco Siro) nell'Amore e come Amore, nella simultaneità di un percorso mistico in cui annichilimento di ogni volontà personale nell'abisso della divinità e cura, sosta, ricordo, riaccordo ad ogni minimo frammento del finito coincidono e si compongono sul volto di Cristo, che Florenskji invita e convoca ancora oggi filosofia e teologia, fede e ragione, nell'apertura stupefatta ad una possibile, feconda reciprocità.

Lo scopo delle fatiche ascetiche è perciò di percepire tutto il creato nella sua vittoriosa bellezza originaria. Lo Spirito Santo rivela se stesso nella capacità di vedere la bellezza della creatura; scorgerla sempre e dappertutto significherebbe «risorgere all'immortalità prima della comune risurrezione», fruire in anticipo della rivelazione ultima, quella del Paraclito [...] L'amore per la creatura è espresso in maniera più chiara, anzi nella maniera più chiara possibile, dai massimi rappresentanti dell'ascetica ortodossa, i beati Macario il Grande e Isacco il Siro, vere colonne della Chiesa. Ambedue descrivono gli stati della suprema elevazione e della massima spiritualità. A prima vista sembra quasi che aleggino nello spazio vuoto, nel grande nulla senza rive dei mistici non cristiani, ma non è così. Proprio qui vediamo la massima concretezza e pienezza, proprio qui alla coscienza si presenta il creato nella sua integrità e nel suo contenuto eterno, illuminata dall'emozione di una bellezza trionfante e immarcescibile».14

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Note

  1. P. Florenskij, Non dimenticatemi, a cura di N. Valentini e L. Zak, Mondadori, Milano 2000, p. 385. Testo

  2. N. Valentini, «Forme della ragione. Dialettica, antinomia e nuovi modelli di razionalità» in Humanitas 4, 2003, p. 577. Testo

  3. Ivi. Testo

  4. M. Cacciari, «Filosofia e teologia», in La filosofia a cura di P. Rossi, Utet, Torino 1995, pp. 384-385. Testo

  5. N. Valentini, «Forme della ragione. Dialettica, antinomia e nuovi modelli di razionalità», cit., p. 576. Testo

  6. D. Barsotti, Il mistero cristiano nell'anno liturgico, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, p. 46. Testo

  7. P. Coda, L'altro di Dio. Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov, Città Nuova, Roma, 1998, p. 59. Testo

  8. Ivi, p. 71. Testo

  9. N. Valentini, Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia, 2004, p. 14. Testo

  10. P. Coda, Il Logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Città Nuova, Roma, p. 519. Testo

  11. AA. VV. Cristianesimo e bellezza. Tra oriente e occidente, a cura di N. Valentini, Paoline, Milano, 2002, p. 141. Testo

  12. Ivi, p. 99. Testo

  13. Ivi, p. 140. Testo

  14. Pavel Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità, Rusconi, Milano, 1974, 1988, pp. 370-372. Testo