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Mneme / Approfondimenti / L'illuminazione in Agostino

Irene Giurovich

L'illuminazione in Agostino e il mito platonico della caverna

A mio padre, prof. Giancarlo Giurovich, in memoria

Inizio

Lo sguardo, l'amore, la lotta

La teoria dell'illuminazione di Agostino non parte da considerazioni teologiche, ma piuttosto vuole spiegare la possibilità per l'intelletto umano sia di giungere alla verità e pronunciare giudizi di valore, sia di rifiutarla e restare nell'errore, pur non essendo esso stesso mai abbandonato dalla luce che lo fonda. Numerose sono le somiglianze con il mito platonico della caverna: anche in questo la sorgente luminosa è luce per l'intelletto dell'uomo e una importanza cruciale viene data alla capacità dello sguardo umano di vedere sé stesso, cioè di pensarsi e interrompere un'esistenza rivolta all'esteriorità. 

Il confronto con Platone mette tuttavia ancora più in risalto la peculiarità di Agostino: l'occhio della mente è spinto a vedere dall'amore, ma tale amore deve intraprendere una continua lotta, non essendoci mai in questa vita la possibilità di un definitivo riposo nella verità. Le tappe della conversione alla luce non sono predeterminate, il sole non può essere visto direttamente «faccia a faccia», e solo nell'altra vita lo sguardo potrà comprendere la luce in cui esso è fondato. 

L'Autrice: Irene Giurovich è nata nel 1979 a Udine, dove ha conseguito il diploma di maturità classica. Studia attualmente filosofia all'Università di Padova. I suoi interessi di studio sono rivolti soprattutto all'ambito della filosofia morale. Collabora con il Gazzettino del Friuli 

Sommario

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Facciata di cattedrale illuminata dal sole.

Claude Monet [p] (1840-1926), La cattedrale di Rouen, il portale e la torre S. Romano in pieno sole: armonia azzurra e oro. Lo studio della luce solare, tipico dell'ambiente dell'impressionismo, raggiunge in Monet uno dei suoi vertici con la serie dedicata alla cattedrale di Rouen nelle varie ore del giorno. La riproduzione meticolosa dei diversi effetti di luce e di colore diventa contemporaneamente una riflessione sullo sguardo dell'uomo e sulla sua capacità di lasciarsi investire e «impressionare» dalla realtà.

Il fascino della luce del sole ha colpito nella stessa misura arte e filosofia: la prima impegnata a renderne la forza visiva, la seconda tesa ad esprimere tramite la sua immagine primordiale quella miscela di evidenza e di enigma di cui è fatta la conoscenza.


1. Fondazione nella luce. Occhio del corpo e occhio della mente

L'uomo non è luce da se stesso e per se stesso.1 Se fosse così, afferma Agostino, non sarebbe mai soggetto all'errore e al dubbio.2 L'essere dell'uomo è sì un essere nella luce, ma questa luce promana da una fonte impenetrabile che si trova paradossalmente al di sopra e presso l'uomo.3 Per questo egli tenta, ma invano, di comprenderla. Quello che Agostino cerca di far capire, è che l'uomo è per natura «illuminato». Anche se questa affermazione sfocia poi nel campo della fede, in ogni caso le dimostrazioni per provare la veridicità di una illuminazione ontologica-gnoseologica sono di natura prettamente razionale.4 Essere illuminati non significa altro che essere fondati.5 Questa luce in cui ogni uomo vive, permette di formulare giudizi e di intuire con l'intellectus o mens6 le regole eterne e immutabili che consentono alla ratio di assolvere alla sua funzione giudicante.7 È un lumen naturale quello che possiede l'uomo, un lumen non da lui creato, ma cui deve rivolgere interiormente il suo sguardo per riconoscerlo come ragione fondativa: «potius credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut rebus intellegibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta sic ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quemadmodum oculus carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius lucis capax eique congruens est creatus» «bisogna piuttosto ritenere che la natura dell'anima intellettiva è stata fatta in modo che, unita, secondo l'ordine naturale disposto dal Creatore, alle cose intelligibili, le percepisce in una luce incorporea speciale, allo stesso modo che l'occhio carnale percepisce ciò che lo circonda, nella luce corporea, essendo stato capace di questa luce ed ad essa ordinato».8 Quest'illuminazione dunque non ha alcunché di soprannaturale, ma si inscrive in un processo del tutto naturale. Come si manifesta? Attraverso i giudizi di valore, innanzitutto: quando l'uomo cioè pronuncia giudizi su ciò che si deve o non si deve fare, su ciò che è giusto e su ciò che non lo è, «dove sono dunque iscritte queste regole, in cui riconosce ciò che è giusto anche lo spirito che non è giusto, in cui vede che bisogna avere ciò che esso non ha? dove sono dunque iscritte, se non nel libro di quella luce che si chiama verità?».9 La luce diventa così veicolo di verità,10 una verità che, ancora, è presso l'uomo e al tempo stesso a lui trascendente.

Ciò che è straordinario in Agostino, e che, tra l'altro, sconfessa le interpretazioni estremistiche su una grazia che si rivolge a pochi eletti, è questo: l'uomo può non accorgersi dell'illuminazione di cui partecipa, può addirittura compiere l'aversio dalla luce, ciononostante, rimane comunque fondato in essa, rimane, almeno potenzialmente, nella grazia. Insomma, la luce, quand'anche l'uomo fosse completamente immerso nelle tenebre dell'ignoranza,11 non cesserebbe di toccarlo, di svolgere la sua funzione fondativa. Ovviamente, nell'ottica del filosofo, tra riconoscere o meno la fonte della luce si gioca la salvezza o la dannazione dell'uomo. Che però non viene mai abbandonato, in questa vita, dal lumen. Non sarebbe neanche pensabile, visto che la possibilità di vedere nasce con l'uomo, nel momento in cui entra nella vita.12 Per riuscire a orientare lo sguardo verso la fonte luminosa, gli occhi del corpo devono farsi da parte per lasciare spazio all'occhio dell'intellectus. L'esteriorità non consente di avvicinarsi alla luce. Per osservare il sole sensibile dobbiamo alzare lo sguardo e uscire da un luogo chiuso, ma per percepire il sole intelligibile dobbiamo entrare in noi stessi e volgere lo sguardo in interiore homine.13 Nonostante esso si trovi supra nos, più guardiamo nell'interiorità, più riusciamo a coglierlo con un atto intellettivo. L'illuminazione mentale, come constatato, si basa su una costante analogia con il meccanismo della vista: «nam mentis quasi sui sunt oculi sensus animae; disciplinarum autem quaeque certissima talia sunt, qualia illa quae sole illustrantur, ut videri possint, veluti terra est atque terrena omnia», «difatti le facoltà interiori sono, per così dire, gli occhi propri della mente e i principi assolutamente certi delle discipline sono in analogia con oggetti come la terra e tutte le cose terrestri che, per apparire alla vista, devono essere illuminate dal sole».14 Il pensiero è nelle menti come lo sguardo negli occhi.15 Il sole intelligibile che diffonde i suoi raggi nella nostra vista interiore16 può essere accolto solo da un occhio puro: «oculus animae mens est ab omni labe corporis pura, id est, a cupiditatibus rerum mortalium iam remota atque purgata», «occhio dell'anima è la mente immune da ogni macchia del corpo, cioè già separata e purificata dai desideri delle cose caduche». È necessario perciò avere già intrapreso la «fuga dal sensibile».17 Una fuga che non è tanto, come sembra in alcuni passi del mito della caverna, un uscire fuori di sé, ma un ritornare in sé. Se lo sguardo dell'anima è pensiero, come deve essere questo sguardo? Un aspicere o un videre, un guardare o un vedere? Vorrebbe poter essere un videre, ossia un possedere (habere) la luce, ma non può che arrestarsi a un aspicere, a un intueri. Ciò che permette di vedere tutto, ciò in ragione di cui esistiamo ed esiste il mondo, l'onnipotente luce, non può essere vista nella sua interezza. Dobbiamo accontentarci di una docta ignorantia e di una conoscenza parziale.

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2. Conoscenza «per speculum» e «in aenigmate»

Solo questo è concesso all'uomo: un invisibiliter videre la sorgente della luce che è illuminata da se stessa.18 Il nostro, come afferma egregiamente Sciacca, è un «vedere senza vedere».19 Per Agostino è impossibile contemplare le rationes aeternae così come esse sono nella luce autosufficiente. Ciò comporterebbe la visione diretta della fonte, visto che le idee ne costituiscono l'essenza.20 Ma nessuno può avere una visione facie ad faciem21 del sole intelligibile e rimanere in vita. Perciò la luce deve rimanere secreta, occulta. La causa della massima visibilità resta, per l'uomo che ne partecipa, invisibile. Seppure il Sole si trovi presso l'occhio della spirito, non entra direttamente nel suo campo di visione.22 È precluso all'uomo comprehendere.23 Può intueri, ma nemmeno questo lo preserva da future ricadute nelle catene. Agostino non formula la tesi della docta ignorantia24 e dell'impossibilità di avere scienza del principio intelligibile solo in ossequio alle Scritture. Sarebbe riduttivo pensare così. Piuttosto le ragioni per cui la Luce deve rimanere nascosta all'uomo sono più profonde. Come riuscirebbe infatti un essere finito e limitato ad abbracciare qualcosa che per natura gli è completamente dissimile? O si finitizza l'infinito, o si diventa, in qualche modo e paradossalmente, infiniti. Per questo il filosofo parla di una conoscenza delle rationes aeternae che avviene tramite uno specchio.25 L'uomo, in sostanza, intuisce delle immagini di queste idee.26 Il suo intelletto le vede riflesse in se stesso, quasi adeguate alla sua finitezza. Il nascondimento27 e la percezione in aenigmate salvaguardano l'alterità della fonte luminosa e permettono di considerare l'uomo nelle sue capacità limitate. Pur essendo capax di intueri le idee, non è capace però di scorgerle «in sé» e direttamente.

Ora la distinzione che abbiamo posto prima tra aspicere e videre si arricchisce di un ulteriore significato: si può, afferma Agostino, videre il Padre della luce intelligibile e della nostra illuminazione,28 ma è un videre senza comprehensio, cioè un intueri: «aliud est enim videre, aliud est totum videndo comprehendere».29 Solo sulla base di questa precisazione, si può interpretare correttamente l'affermazione: «cum praesens est, non videtur».30 In un certo senso, l'uomo coglie indirettamente la fonte dell'illuminazione (sebbene essa abiti in una luce inaccessibile e segreta31): attraverso i suoi atti intellettuali. Ma lo sguardo dell'uomo, che è fondato fin dalla nascita nella luce, non potrebbe apparire passivo? Non potrebbe essere tacciato di immobilismo? Insomma, dove risiede la dýnamis dello sguardo? Se l'uomo è nella luce, non significa che sappia di esserlo.32 Ecco, l'attività dell'occhio dell'intellectus (acies mentis, acutezza della mente) risiede proprio nella presa di coscienza della fonte luminosa. È l'occhio della mens che scopre la presenza-assenza della Luce. Lo stesso incamminarsi nella strada della ricerca significa che l'occhio interiore incomincia a capire di non essere luce a se stesso, altrimenti non ricercherebbe.

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3. Lo sguardo frontale dei prigionieri e lo sguardo che non sa vedere se stesso

Affinché non sembri forzato e fuorviante un breve raffronto tra Agostino e Platone, è bene sottolineare che è lo stesso Padre della chiesa ad indicarci di guardare al pensatore greco,33 il cui mito della caverna Agostino ha sinteticamente rielaborato all'interno dei Soliloquia.34 Pur essendo consapevoli del discrimine che separa i due filosofi (la rivelazione), tuttavia non ci sembra azzardato affermare che l'elemento che li accomuna è la trascendentalità35 del sole intelligibile spiegata attraverso l'analogia con il meccanismo della vista.36 In entrambi la sorgente luminosa è luce per l'intelletto dell'uomo, è colei che dà l'intelligentia.37 In entrambi la frontalità dello sguardo è segno di insufficienza rispetto alla potenzialità di cui è capace. I prigionieri della caverna riescono solo a guardare dinnanzi a sé,38 dal momento che le catene impediscono di girare la testa. Lo stesso sguardo frontale caratterizza, in Agostino, quanti non operano una conversio interiore dello sguardo. Finché non si gira la testa e lo sguardo non è in grado di vedere se stesso (il che significa, non è in grado di pensarsi), l'unica vita concessa all'uomo è l'esteriorità. Non a caso uno dei primi atti che compie il prigioniero appena le catene sono sciolte è quello di periágein ton auxéna, di girare la testa. Lo sguardo a trecentosessanta gradi in Platone e lo sguardo interiore di Agostino sono la prima tappa nella ricerca della fonte della massima visibilità. L'occhio che si libera dalla frontalità è l'occhio della mente che opera una epistrophé, un cambiamento direzionale verso quella luce di cui partecipano gli stessi prigionieri nella caverna. Essi infatti vivono nella luce pur non sapendolo. Che altro significano infatti quell'ingresso aperto alla luce39 e quel fuoco che brilla nel carcere,40 se non una fondazione dell'uomo platonico nella luce? Proprio come l'uomo di Agostino che vive, si muove ed è nella luce, anche l'uomo di Platone si trova in rapporto con la luce. Una luce che è presente, in qualche modo, anche nella caverna. Certo, dietro i prigionieri. Ma per quante siano le tenebre e le catene che li sprofondano nell'ignoranza «l'ingresso» della caverna non verrà mai precluso alla luce. Come in Agostino: l'uomo può avere lo sguardo guasto, frontale, esteriore, e tuttavia rimane comunque toccato dalla luce.41 E l'ingresso di cui parla l'Ateniese pare simboleggiare la condizione della natura umana.42 D'altra parte, se non si fosse fondati nella luce e se non si partecipasse di qualche raggio luminoso, come ci si potrebbe girare per intraprendere il cammino di ricerca verso la condizione che permette di vedere tutto?

Qui però incominciano alcune difficoltà. Chi orienta nel cammino verso la fonte della massima intelligibilità? Come abbiamo analizzato, per Agostino è un precettore interiore,43 anche se nel testo della rielaborazione del mito fa riferimento, contraddicendosi, a maestri in carne ed ossa.44 Per Platone si tratta di un maestro esterno che ridiscende nella caverna per liberare gli altri, ma non è escluso che ognuno di noi possa essere maestro a se stesso. Non che questo implichi la non necessità di un sapiente che ci orienti in ogni caso nella salita, ma potrebbe affiancare all'interpretazione che prevede qualcuno che ci liberi dalle catene, quella secondo cui chi libera potrebbe essere lo stesso sguardo dell'uomo45 in qualche modo costretto da se stesso. In questo caso il movimento partirebbe dall'uomo stesso. L'elemento fondamentale però presente in entrambi è che nessun maestro esterno può immettere nell'uomo la vista. Essa c'è già come possibilità di rivolgersi alla fonte della luce. Platone lo dice senza fraintendimenti: «proprio di questo dunque, vi sarebbe un'arte, di questa conversione dell'anima, in che modo possa essere più facilmente ed efficacemente rivoltata, non già dell'infondervi il vedere, ma del procacciare questo come con chi abbia sì tale facoltà ma non sia voltato dalla parte giusta, né veda là dove dovrebbe».46 Nessun maestro pertanto può arrogarsi il diritto di infondere lo sguardo intelligibile che potenzialmente è già presente nell'uomo.47

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4. L'ascesi verso la causa della visibilità: lo sguardo che lotta e viene costretto

Non è certo uno sguardo pacifico quello che si dirige verso la fonte luminosa: lo frenano passioni, desideri, catene sensibili. Lo sguardo sensibile è l'atto più semplice, non richiede impegno ed esercizio: si guarda e basta. Ma quello della mente deve ingaggiare una vera e propria rixa48 con i suoi oppositori. Qui si manifesta l'attività dello sguardo interno. L'atto del volgersi è già una prima purificazione,49 ma si deve giungere alla liberazione dalla tenebre, dallo sguardo frontale e passivo. Per i due filosofi non c'è dubbio sulla natura delle tenebre: «cibi, piaceri, mollezze».50 Sono loro che rivolgono lo sguardo dell'uomo, naturalmente tendente all'alto, in basso. È lo sguardo passivo dell'uomo che condanna. Ma una volta superato lo scoglio sensibile, subito si presenta un'altra difficoltà: l'intensità della luce che, al paragone con le tenebre, fa trepidare, tanto da indurre l'uomo a ritornare allo sguardo frontale.51 Per questo lo sguardo deve cernere, combattere, deve essere costretto con la forza a tollerare l'abisso tra il non vedere e il vedere. Non a caso nel mito platonico si riscontra, con una certa frequenza, l'uso del verbo anankázein52 e di sostantivi che significano «forza» e «violenza». Bisogna obbligare lo sguardo a sforzarsi53 di contemplare, a non lasciarsi intimidire dal bagliore.54 Perciò esso deve seguire un percorso graduale nella conversione55 che pare costituito da momenti più fissi in Platone, e da tappe più elastiche in Agostino.56 La consapevolezza di essere fondati nella luce non si disgiunge quindi dal momento della lotta. Non basta girarsi, farsi interni, e contemplare.

Posta su questo piano, soprattutto per il pensiero di Agostino, la tematica dello sguardo e dell'illuminazione sembra quasi banale. Ma non si deve invece dimenticare tutto l'aspetto battagliero di questo sguardo, perché non è facile e non è immediato vedere se stessi. Anche se in Agostino si riscontra un elemento assente nel mito platonico, e cioè il desiderio, l'amor da cui l'occhio è sospinto a vedere, tuttavia questo desiderio è un desiderio che deve, di nuovo, lottare ed educarsi. L'occhio interiore deve sopportare il dolore57 (che è il dolore per la scoperta della propria non autosufficienza,58 della propria non autoilluminazione), la sofferenza,59 la difficoltà.60 È un occhio, afferma Agostino, che batte le palpebre. Ma tutti gli sguardi dell'intelletto rimangono trepidantes nel momento della metabolé, del cambiamento direzionale, o ce n'è qualcuno che non prova sofferenza e fastidio? Per Agostino sì: «nam sunt nonnulli oculi tam sani et vegeti, qui se, mox ut aperti fuerint, in ipsum solem sine ulla trepidatione convertant», «vi sono infatti occhi tanto sani e validi che possono, appena aperti, rivolgersi al sole senza alcuna trepidazione».61 Forse sono gli occhi di qualche sapiente, o di qualche santo, Agostino comunque non lo spiega. Dice soltanto però che anche questi occhi sani e vegeti hanno bisogno soltanto, forse, di un orientamento.62 Nel mito platonico invece, non si fa cenno a una simile possibilità. Pertanto sembra che non possa esserci nessuno sguardo in grado di girarsi senza provare dolore e rimanere abbagliato.

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5. La luce che fonda la capacità di vedere «intuita» in Agostino, «vista» in Platone

Siamo nella luce, nati per la luce, eppure di lei non possiamo che ricevere un riflesso, come in uno specchio, essendo preclusa all'uomo la possibilità di vederla comprendendola. Così, si diceva, per Agostino. Abbiamo già evidenziato che questa posizione non deriva esclusivamente dalle Scritture, ma è sostenuta da motivazioni, che possono essere accettate o meno, di natura razionale. L'argomentazione, sinteticamente, è questa: come può una natura finita videre comprehendendo una Luce che, al pari di quella platonica, è al di là del divenire e del sensibile, e pertanto eterna e incorruttibile, totalmente altra rispetto alla natura umana? Per Agostino non ci possono essere eccezioni: questa fonte che permette di vedere, formulare giudizi, intuire le ragioni immutabili, rimane ineffabilis e incomprehensibilis.63 Com'è veramente, sicuti est, non la possiamo vedere. Tutt'altra posizione invece in Platone. Il percorso verso la sorgente termina con la visione completa del sole: lo si osserva hóiós estin, quale è, e all'autón kath'autón en te autóu chóra,64 esso stesso nella sua propria sede. Anche per Agostino l'ascesi termina, come afferma nella rielaborazione del mito platonico, con la visione del sole,65 ma, memori della fondamentale distinzione tra il vedere (intuire) e il vedere comprendendo, non sarà mai una visione diretta. Non è un caso che Platone, per indicare la visione penetrante il sole, usi quasi esclusivamente il verbo horáo, che, dato il suo legame con la parola idéa, suggerisce appunto un vedere dentro l'idea.66 Nessuna intuizione dunque, ma una comprensione vera e propria del sole. Ne deriva che lo sguardo, da frontale divenuto circolare, non potrà mai ricadere nella frontalità iniziale. Ossia, Platone non ipotizza che, ridiscendendo dall'alto, l'occhio dell'uomo possa di nuovo essere catturato dalle tenebre. La visione diretta della condizione di visibilità rende immune lo sguardo da qualsiasi (ri)contaminazione frontale. L'unica difficoltà che lo sguardo deve affrontare è quella di riabituarsi, nel momento in cui l'uomo ritorna -- a suo rischio e pericolo67 -- dai prigionieri, a una condizione di non visibilità. Sembra quasi che la contemplazione fornisca allo sguardo dell'uomo platonico una corazza contro gli sguardi deviati. Invece l'intuizione agostiniana della luce, di cui l'occhio partecipa, per quanto acuta possa essere, non salvaguarda lo sguardo da future ricadute, non lo rende immune dal diventare uno sguardo che non sa più vedere se stesso.68 Questo accade proprio perché non si dà una comprensione totale della Luce che conferisca allo sguardo la certezza di quello che ha visto. Agostino, pertanto, non risparmia accuse ai platonici (e indirettamente a Platone) per la loro pretesa di lucem incommutabilis veritatis contingere.69 Si può perciò legittimamente affermare che in Platone lo sguardo depone -- una volta vista nella sua totalità la fonte dell'intelligibilità -- il suo aspetto conflittuale, che mantiene sino a che non raggiunge la meta. Potremmo dire, senza alcuna forzatura, che diviene uno sguardo pacifico. In Agostino, invece, lo sguardo che è arrivato in prossimità della meta, non decreterà mai (almeno in questa vita) una tregua definitiva con i suoi nemici, i sensi,70 che possono sempre corromperlo. Lo sguardo rim

Su queste basi si capisce il motivo per cui Agostino non accenna, nella rielaborazione del mito, alla possibilità che lo sguardo rimanga lassù, nella sede del sole. Dal momento che lo sguardo, pur riconoscendosi soggetto ricevente l'illuminazione, non può andare più in là di un'«intuizione», non può neanche voler rimanere in una luce che gli rimane occulta e nascosta nella sua natura. È una luce intelligibile,71 certo, ma al tempo stesso «invisibile». È una luce «presente», dal momento che l'uomo la intuisce nei suoi atti di intellezione e nelle idee -- racchiuse nella mens -- che sono le immagini riflesse delle idee contenute nella Luce, ma è contemporaneamente assente. L'abisso incolmabile tra l'aspicere (o videre o intueri) e il videndo comprehendere (la visione completa della sorgente luminosa) presente in Agostino, diventa uno stesso momento in Platone: qui, lo sguardo, nel momento in cui guarda, vede intrinsecamente. Al guardare segue immediatamente la visio, la contemplatio totale. È perciò uno sguardo del tutto appagato. Anche in Agostino l'abisso sarà colmato così che lo sguardo possa finalmente essere uno sguardo comprensivo. Solo nell'altra vita però, quando allo sguardo rectus atque perfectus seguirà la visio.72

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6. Nota bibliografica

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Note

  1. Il rapporto che intercorre tra l'uomo e la fonte della verità è simile a quello che c'è tra il sole e la luna, vedi De Civ. Dei, 10, 2. Testo

  2. Sermo 182, 5, 5: «Lumen tibi esse non potes» «tu non puoi essere luce a te stesso»; «Lucerna et accendi potest, et exstingui potest: lumen verum accendere potest, exstingui non potest» «una lampada si può accendere e si può spegnere: la luce vera può accendere, non si può spegnere». Testo

  3. De Trin. 15, 6, 10: «Quam tamen sic intuebamur, ut nec longe a nobis esset, et supra nos esset, non loco, sed ipsa sui venerabili mirabilique praestantia, ita ut apud nos esse suo praesenti lumine videretur» «tuttavia noi la intuivamo non lontana da noi e al di sopra di noi, non spazialmente, ma per la sua adorabile e meravigliosa trascendenza, in modo che sembrava stare presso di noi per la pienezza della sua luce». Testo

  4. De libero arbitrio 2, 11, 32 -- 12, 34 Testo

  5. De Trin., 4, 1, 3: «in illa (riferito a lux) vivimus et movemur et sumus» «nella luce viviamo, ci muoviamo e siamo» e De Gen. C. Man., 1, 3, 6: «quia illud lumen omnem hominem illuminat venientem in hunc mundum» «poiché quella luce illumina ogni uomo che viene in questo mondo». Testo

  6. Ivi, 15, 7, 11: «Non igitur anima, sed quod excellit in anima mens vocatur» «non dunque l'anima ma la parte migliore dell'anima è chiamata mente». La mens è come caput, oculus, facies dell'anima. Testo

  7. In Ioann. Ev., tract. XXXV, c. 8, n. 3: «ed avendo conosciuto che anche la ragione è soggetta a mutamenti mi sono ritirato nel luogo più alto della mia intelligenza. Ed è qui che, messe da parte le illusioni tutte dell'abitudine e i fantasmi dell'immaginazione, mi domandai dunque qual era questa luce per cui è illuminata la mia ragione, quando giudica che ciò che non soffre mutamento è migliore di ciò che muta e da dove le derivi la nozione di questa natura immutabile, che essa non avrebbe posta, come ha fatto, al di sopra del mutabile tutto, se non l'avesse conosciuta; ed infine riuscii a contemplare per un istante e con sguardo tremante ciò che sommamente è». Testo

  8. De Trinitate, 12, 15, 24. Testo

  9. Ivi, 14, 15, 21: «Ubinam sunt istae regulae scriptae, ubi quid sit iustum et iniustus agnoscit, ubi cernit habendum esse quod ipse non habet? Ubi ergo scriptae sunt, nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur». Vedi anche Ivi, 12, 15, 24: «Denique cur de solis rebus intellegibilibus id fieri potest, ut bene interrogatus quisque respondeat quod ad quamque pertinet disciplinam, etiamsi eius ignarus est?» «Infine, perché soltanto a riguardo delle cose intelligibili può accadere che qualcuno risponda, se lo si interroga ad arte, su ciò che appartiene a qualsiasi disciplina, sebbene la ignori del tutto?»; cfr. Retractationes, 1, 4, 4: «Credibilius est enim propterea vera respondere de quibusdam disciplinis etiam imperitos earum, quando bene interrogantur, quia praesens est eis, quantum id capere possunt, lumen rationis aeternae, ubi haec immutabilia vera conspiciunt, non quia ea noverant aliquando et obliti sunt, quod Platoni vel talibus visum est» «c'è piuttosto da ritenere che anche degli indotti siano in grado di fornire risposte conformi a verità su talune discipline, quando vengano fatte loro delle domande in forma corretta; ma ciò avviene perché risplende in loro la luce della ragione eterna nella quale contemplano, nei limiti in cui è dato loro di farlo, le verità immutabili, non perché le abbiano conosciute un tempo e se ne siano poi dimenticati, come hanno creduto Platone e quelli che la pensano come lui». Testo

  10. Ivi, 9, 6, 9: «intuemur inviolabilem veritatem, ex qua perfecte, quantum possumus, definiamus, non qualis sit uniuscuiusque hominis mens, sed qualis esse sempiternis rationibus debeat» «intuiamo l'inviolabile verità secondo la quale definiamo in modo perfetto in quanto è possibile, non ciò che lo spirito di ciascun uomo è, ma ciò che deve essere secondo le ragioni eterne». Testo

  11. De pecc. mer. et rem., 1, 25, 37: «illo lumine intus mens eius [dell'uomo] aspergitur, quod aeternum manet, quod etiam in tenebris lucet» «la sua mente è pervasa nell'intimo da quella luce che dura eterna e splende anche nelle tenebre». Vedi anche De Trin. 14, 15, 21: «Sed commemoratur, ut convertatur ad Dominum, tamquam ad eam lucem qua etiam cum ab illo averteretur quodam modo tangebatur» «ma si può far ricordare allo spirito il Signore, perché si volga a lui, come verso quella luce che lo toccava in qualche modo, anche quando si allontanava da lui»; cfr. Sermo 133, 6: «et si ego forte obscuritatis aliquid habeo, nec comprehendere ad perfectum valeam, illa lucet» «se per caso ho dell'oscurità, così che non sono idoneo a comprenderla perfettamente, quella luce risplende»; vedi anche Enarr. In Ps. 6, 7, 8: «Nam ea est caecitas mentis. In eam quisquis datus fuerit, ab interiore Dei luce secluditur; sed nondum penitus cum in hac vita est» «è questa infatti la cecità dello spirito e chiunque è abbandonato ad essa, è escluso dall'interiore luce di Dio, ma non ancora del tutto finchè è in questa vita». Testo

  12. De pecc. mer. et rem., 1, 25, 38: «non resistendum est tunc eam fieri, cum anima creatur, et non absurde hoc intellegi, cum homo venit in mundum» «tale illuminazione avviene nel momento stesso della creazione dell'anima». Anche sulla base di questo ed altri passi, risulta un po' fuorviante la suddivisione da parte di Sciacca, seppur, forse, motivata da esigenze didattiche, dei vari tipi di illuminazione, incorrendo nel rischio di far credere che ci siano più luci e più illuminazioni (M. F. Sciacca, Sant'Agostino, Palermo, 1991). Invece l'illuminazione è unica, c'è un'unica luce che è al tempo stesso naturale e speciale. Il lume della ragione è lo stesso lume di cui partecipa l'intelligenza. Testo

  13. De magistro, 11, 38: «De universis autem quae intellegimus non loquentem qui personat foris, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniti» «sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l'individuo che parla all'esterno, ma con la verità che nell'interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole», cfr. anche De pecc. mer. et rem., 1, 25, 36: «ne quisquam putaret ab eo se illuminari, a quo aliquid audit ut discat, non dico, si quemquam magnum hominem, sed nec si angelum ei contingat habere doctorem» «perché nessuno pensi di essere illuminato da chi lo istruisce, anche se ha per maestro, non dico un grande uomo, ma addirittura un angelo». Testo

  14. Soliloquia, 1, 5, 11 -- 6, 12; vedi anche Ivi, 1, 8, 15: «Ergo et illa quae in disciplinis traduntur, quae quisquis intellegit, verissima esse nulla dubitatione concedit, credendum est ea non posse intellegi, nisi ab alio quasi suo sole illustrentur» «quindi si deve ritenere che anche i concetti relativi alle scienze, che chiunque intende ritiene assolutamente veri, non possono essere intesi se non vengono illuminati, per così dire, da un proprio sole», cfr. In Io. Evang., tract. 35, 3: «Come gli occhi, che abbiamo in faccia e che chiamiamo luci, anche quando sono sani e aperti hanno bisogno della luce che viene dall'esterno -- sottraendo o mancando la quale, benché sani e aperti, non vedono --, così la nostra mente, che è l'occhio dell'anima (corsivo nostro), se non viene irradiata dalla luce della verità e non viene prodigiosamente rischiarata da colui che illumina senza dover essere illuminato, non potrà pervenire né alla sapienza né alla giustizia». Testo

  15. De ordine, 2, 3, 10 -- 4, 10: «menti hoc est intellegere, quod sensui videre» «il pensare è per l'intelligenza ciò che il vedere per la vista»; la differenza che Agostino pone, con molta originalità e quasi precorrendo posizioni idealistiche, tra l'occhio corporeo e quello della mente risiede in questo: l'occhio corporeo non può cadere sotto il suo sguardo, non vede se stesso se non in uno specchio. Invece l'occhio della mente si vede pensandosi, e quando pensa se stesso «ritorna su di sé non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale» . Vedi In Io. Evang., tract. 47, 3: «Tutto ciò che intendiamo, lo intendiamo mediante l'intelligenza; ma l'intelligenza medesima, in che modo l'intendiamo se non con l'intelligenza stessa? Forse si può dire altrettanto per l'occhio del corpo: che vede le altre cose e vede se stesso? No: l'uomo vede con i suoi occhi ma non vede i suoi occhi. L'occhio del corpo può vedere le altre cose, ma non se stesso; l'intelletto invece intende le altre cose e anche se stesso». Vedere se stessi è anche pensare se stessi: cfr. De Trin., 14, 6, 8, «tuttavia è così grande la forza del pensiero che la mente stessa non si pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stessa». Testo

  16. De beata vita, 4, 35. Testo

  17. De imm. animae, 10, 17. Testo

  18. Tractatus 14, 1: «Lumen autem illuminans a seipso lumen est, et sibi lumen est, et non indiget alio lumine ut lucere possit, sed ipso indigent cetera ut luceant» «la luce che illumina è luce per se stessa, è luce a se stessa, e non ha bisogno di altra luce per risplendere, ma di essa hanno bisogno le altre, affinché le illumini». Testo

  19. Op. cit. p. 267. Testo

  20. De diversis quaestionibus 83, 46, 2: «sunt namque ideae principales quaedam formae vel rationes rerum stabiles atque incommutabiles, quae ipsae formatae non sunt ac per hoc aeternae ac semper eodem modo sese habentes, quae divina intellegentia continentur» «Le idee sono infatti forme primarie o ragioni stabili e immutabili delle cose: non essendo state formate, sono perciò eterne e sempre uguali a se stesse e sono contenute nell'intelligenza divina». Testo

  21. Nemmeno a uomini eccezionali, come Mosè, è stato permesso, ricorda Agostino, di godere di una comprensione totale della Luce. Non a caso essa si è mostrata non nella sua natura, ma secondo l'aspetto che ha voluto. Cfr. Ep. 147, 8, 20, 21, 22 e Sermo, 23, 14: «Moysi apparebat latens» «a Mosè appariva, ma occulto». Testo

  22. Ep. 147, 8, 20: «nemo potest eum in hac vita videre vivens sicuti est». «nessuno da vivo può vederlo [Dio, la Luce] in questa vita come egli è». Testo

  23. Sermo 117, 3, 5: «De Deo loquimur, quid mirum si non comprehendis? Si enim comprehendis, non est Deus. Sit pia confessio ignorantiae magis, quam temeraria professio scientiae (...) comprehendere autem, omnino impossibile» «dal momento che parliamo di Dio, che meraviglia se non comprendi? In verità, se comprendi non è Dio. Piuttosto si riconosca umilmente di non capire, invece di fare una temeraria professione di scienza (...) quanto a comprenderlo, invece, è assolutamente impossibile». Testo

  24. Ivi, 130, 15, 28. Testo

  25. De Trin., 15, 23, 44 e 25, 45. Testo

  26. Nessuno può essere filosofo, dichiara Agostino insieme a Platone, se non le ha intuite: De div. quaest., 45, 1. Testo

  27. Sermo, 23, 14: «Si ergo capis, si intellegis, potest hoc Deus simul et apparere et latere, apparere specie, latere natura» «se dunque riesci a capire, se riesci a comprendere, Dio può insieme e essere visto e rimanere occulto, essere visto in una qualche forma, rimanere occulto nella natura». Testo

  28. Soliloquia, 1, 1, 2: «pater intellegibilis lucis, pater evigilationis atque illuminationis nostrae». Testo

  29. Ep. 147, 8, 9: «una cosa infatti è vedere, un'altra è percepire interamente con la vista» e continua: «Quandoquidem id videtur, quod praesens utcumque sentitur: totum autem comprehenditur videndo, quod ita videtur ut nihil eius lateat videntem, aut cuius fines circumspici possunt; sicut te nihil latet praesentis voluntatis tuae, circumspicere autem potes fines annuli tui» «poiché si vede ciò che si percepisce in qualche modo presente: ma si percepisce con la vista nella sua interezza una cosa di cui nessuna parte sfugge a chi la guarda o di cui si possano abbracciare con la vista i limiti». Testo

  30. Ep. 147, 6, 18: «è qui presente, eppure non lo si vede». Ovviamente il videre di cui parla qui Agostino è il videre accompagnato da comprehensio. Testo

  31. De trin., 15, 6, 10: «lux illa ineffabilis» e Ep., 147, 19, 46. Si parla di «secretissimo Deo» (Soliloquia, 1, 7, 14) e di «invisibilia Dei» (De trin., 15, 6, 10). Testo

  32. De Sermone Domini in monte, 2, 3, 14: «et in ipsa conversione purgatio interioris oculi» «e nell'atto del volgersi avviene la purificazione dell'occhio interiore». Testo

  33. Ecco i meriti che Agostino esorta a vedere nella filosofia di Platone e dei platonici (tenendo presente che la fonte della luce, che in Platone è l'idea del Bene, per Agostino è, ovviamente, Dio), De civ. Dei, 8, 6: «Propter hanc incommutabilitatem et simplicitatem intellexerunt eum et omnia ista fecisse, et ipsum a nullo fieri potuisse» «i platonici compresero che per questa sua non soggezione al divenire e alla molteplicità egli ha creato tutte le cose e che è impossibile la sua dipendenza nell'essere da un altro», e ancora Ivi «viderunt esse aliquid ubi prima esset incommutabilis et ideo nec conparabilis; atque ibi esse rerum principium rectissime crediderunt, quod factum non esset et ex quo facta cuncta essent» «ebbero l'intuizione dunque che esiste un essere in cui la forma prima è fuori del divenire e quindi assoluta e ritennero con molta coerenza che in lui è la ragione ideale non creata delle cose e nella quale tutto è stato creato». Cfr. anche Ivi, 8, 5; 8, 8 e 11, 25. Testo

  34. Per la rielaborazione del mito, vedi soprattutto Soliloquia, 1, 13, 23, ma anche, per una maggiore comprensione, 1, 4, 24-25; 1, 4, 15, 27 e prima 1, 5, 6, 12-15. Testo

  35. Repubblica VI, 508a-c. Testo

  36. Così come la vista che è insita negli occhi non svolge la sua funzione in assenza di luce, allo stesso modo c'è bisogno di una luce intelligibile che illumini l'intelletto, cfr. Repubblica VI, 508c: «ciò che il bene è nel mondo intelligibile rispetto all'intelletto e agli intelligibili, altrettanto è questo (il sole) nel visibile rispetto alla vista e agli oggetti visibili». (Bur, Milano 1997). Perciò l'intelletto non è sole a se stesso come la vista o l'occhio non sono il sole. Testo

  37. Agostino parla dell'auctor come «intelligentiae dator»; Platone, Repubblica, 517c, definisce l'idea del Bene: «én te noetó auté kyría alétheian kai vóun paraschoméne» «nell'intelligibile essa stessa (idea del Bene) legittima largitrice di verità e di ragione»; oltre ad affermare Ivi, 518e: «he de areté tou phronésai pantós mállon theiotérou tinós tynchánei» «(la virtù) del comprendere appartiene quanto mai a un più divino elemento». Testo

  38. Repubblica VII, 514a: «éis te to prósthen mónon horán». Testo

  39. Ivi, 514b. Testo

  40. Ivi, 517b: «to de tou pyrós en auté phós té tou helíou dynámei» «(assomigliando) la luce del fuoco che ivi (nella dimora del carcere) brilla all'azione del sole». Testo

  41. Vedi nota 9. Testo

  42. Questa lettura ci sembra giustificata dallo stesso incipit del libro settimo: quando cioè Platone dichiara che questo mito rappresenta la natura umana nei suoi due aspetti di sapienza e ignoranza. Testo

  43. Vedi nota 11. Testo

  44. Soliloquia, 1, 13, 23: «Tale aliquid sapientiae studiosissimis, nec acute, iam tamen videntibus, magistri optimi faciunt» «e i migliori maestri adottano tale ascesi per coloro che vivono in amoroso studio di sapienza e che già veggono sebbene ancora non con acutezza». Testo

  45. Se si analizza Rep. 517a, pare chiaro che chi libera è colui che ridiscende («kai ton epicheiróunta lýein te kai anágein», «e colui che [corsivo nostro] cercasse di scioglierli e tirarli su». Ma, se si prende in considerazione (Rep. 519c) il participio aoristo passivo apallagén (dal verbo apallátto: liberare) che ha valore soprattutto mediale-riflessivo (ossia liberarsi), si potrebbe essere indotti a pensare a un movimento che prende avvio dall'anima. Testo

  46. Ivi, 518d: «Tóutou tónyn, én d'egó, autóu téchne án éie, tes periagogés, tína trópon hos rástá te kai anysimótata metastraphésetai, ou tóu empoiésai autó to horán, all'hos échonti men autó, ouk orthós de tetramméno oudé bléponti hói édei, tóuto diamechanésasthai», contro coloro che Rep. 518c: «phasí dé pou ouk enóuses en té psyché epistémes sphéis entithénai, hóion typhlóis ophtalmóis ópsin entithéntes» «dicono che, non essendovi alcuna conoscenza nell'anima, loro ce la mettono dentro, quasi infondendo la vista ad occhi ciechi». Testo

  47. Molti hanno interpretato la dottrina dell'illuminazione agostiniana come un sostitutivo della dottrina della reminiscenza platonica. Non so quanto possa essere corretto visto che, in Platone, la facoltà di vedere è insita nell'uomo come dýnamis, e non tanto, o non solo, perché un tempo abbia contemplato. Nel mito non c'è relazione esplicita tra uno sguardo potenziale dell'uomo e una sua vita precedente. Testo

  48. Vedi In Io. Evang. tr. 34, 10 e vedi anche De vera rel. 35, 65. Testo

  49. De Sermone Domini in monte, 2, 3, 14: «et in ipsa conversione purgatio interioris oculis» «e nell'atto del volgersi avviene la purificazione dell'occhio interiore». Testo

  50. Rep. 519b. Testo

  51. Ivi, 515e: «e se quegli lo costringesse a guardare alla luce stessa, non credi che gli farebbero male gli occhi, e che fuggirebbe tornando a rivolgersi a quegli oggetti che può scorgere, e questi riterrebbe davvero più chiari di quelli mostratigli?». Stessa affermazione in Agostino, Soliloquia, 1, 13, 23: «alii vero ipso quem videre vehementer desiderant, fulgore feriuntur, et eo non viso saepe in tenebras cum delectatione redeunt» «altri rimangono abbacinati proprio dallo splendore che desiderano ardentemente di vedere e, poiché non l'hanno visto, tornano con diletto alle tenebre». Testo

  52. Rep., 515d-e («anankázoito», «anankázoi» «fosse costretto, costringesse»), Ivi, 516a («Ei de, én d'egó, entéuthen hélkoi tis autón bía» «se uno lo trascinasse via a forza»), Ivi, 519d («anankásai»). Testo

  53. La fatica dello sguardo è esemplificata in De Gen ad litt. 12, 31, 59: «quae cum conatur [corsivo nostro] lumen illud intueri palpitat infirmitate et minus valet» «quando si sforza (l'anima) di contemplare quella luce, batte le palpebre a causa della sua debolezza e non riesce a vederla interamente». Testo

  54. De Trin., 15, 6, 10: «Sed quia lux ineffabilis nostrum reverberabat obtutum» «ma poiché quella luce ineffabile abbagliava il nostro sguardo». Testo

  55. Per il percorso di ascesi verso la fonte della completa visibilità -- l'idea del Bene -- (un percorso che non può avvenire exáiphnes, tutto d'un tratto) vedi Rep., 516b («avrebbe bisogno, io credo, di abituarvisi, per poter vedere gli oggetti alla superficie; e anzitutto discernerebbe più facilmente le ombre, poi le immagini umane e degli altri oggetti riflesse nell'acqua, infine gli oggetti stessi; quindi egli vedrebbe più facilmente i corpi celesti e il cielo stesso di notte, guardando la luce delle stelle e della luna, anziché di giorno il sole e la luce solare»). Per il percorso che in Agostino lo sguardo deve compiere, vedi Solil. 1, 13, 23: «Primo enim quaedam illis demonstrata sunt quae non per se lucent, sed per lucem videri possint, ut vestis, aut paries, aut aliquid horum. Deinde quod non per se quidem, sed tamen per illam lucem pulchrius effulgeat, ut aurum, argentum et similia, nec tamen ita radiatum ut oculos laedat. Tunc fortasse terrenus iste ignis modeste demonstrandus est, deinde sidera, deinde luna, deinde aurorae fulgor, et albescentis coeli nitori» «dapprima si devono loro mostrare oggetti che non hanno luce propria, ma che possono essere veduti mediante la luce come una veste, una parete e qualcosa di simile. In seguito mostrare qualche oggetto che non di per sé ma mediante la luce più intensamente rifulga come l'oro, l'argento e simili, comunque non tanto colpito dai raggi del sole che possa offendere gli occhi. Allora convenientemente forse si può mostrare il fuoco sensibile e poi le stelle, in seguito la luna, il chiarore dell'aurora e la splendidezza del cielo mentre albeggia». Testo

  56. Mentre Agostino ipotizza la possibilità di saltare qualche gradino del percorso educativo (Ivi, «sive per totum ordinem, sive quibusdam contemptis» «sia attraverso l'intera serie dei momenti, o anche tralasciandone qualcuno»), Platone non lo dichiara, inducendo così a pensare che le tappe siano, probabilmente, vincolanti. Testo

  57. Rep. 515 c. Testo

  58. Infatti, scoprendo che l'idea del Bene è causa di tutto ciò che è nel mondo intelligibile (vedi Rep. 516c: «e dopo di ciò egli potrebbe ormai argomentare su di esso, che è lui a produrre le stagioni e gli anni, e a sovrintendere a tutto ciò che è nel mondo visibile, e causa, in certo qual modo di tutte quelle cose che essi prima vedevano») l'uomo si scopre anch'esso come «prodotto», «derivato». Testo

  59. Rep., 516a (vedi il verbo che indica il soffrire, «odynásthai»). Testo

  60. Ivi. , 515 D (vedi il verbo che indica la difficoltà, «aporéin»). Testo

  61. Soliloquia, 1, 13, 23. Invece di seguire la traduzione secondo cui quel «sine ulla trepidatione» andrebbe reso con «senza rimanere abbacinati», ho preferito mantenere la parola latina che, a mio avviso, fa capire meglio il vacillamento dello sguardo e le sue difficoltà. Testo

  62. Ivi, «His quodammodo ipsa lux sanitas est, ned doctore indigent, sed sola fortasse admonitione». Testo

  63. Sol. 1, 13, 23. (Si faccia attenzione ai problemi che crea, considerate le premesse, quel «comprehendit» che compare in Ivi, «Quippe pro sua quisque sanitate ac firmitate comprehendit illud singulare ac verissimum bonum» «ciascuno, a seconda della propria salute e robustezza, può possedere [corsivo nostro] il vero e unico bene»). Testo

  64. Rep., 516b. Testo

  65. Sol., 1, 13, 23: «sine trepidatione et cum magna voluptate solem videbit» «senza trepidazione e con grande diletto vedrà il sole». Testo

  66. Rep., 517c (il verbo variamente coniugato nei suoi vari modi, horásthai, ophthéisa, idéin), Ivi., 517 E (idónton), 519 D (idéin, idósi), 520 C (heorakénai). Testo

  67. Per quanto riguarda Platone, vedi Ivi, 517a. Agostino dichiara, genericamente, (Sol., 1, 13, 23) «Quibus pericolosum est, quamvis iam talibus ut sani recte dici possint, velle ostendere quod adhuc videre non valent» «ed è pericoloso tentare di far comprendere ad essi, sebbene in simili condizioni si possono considerare ormai guariti, che non sono capaci di vedere». Testo

  68. Sol., 1, 14, 26: «Sed, quaeso te, si quid in me vales, ut me tentes per aliqua compendia ducere, ut vel vicinitate nonnulla lucis illius, quam, si quid profeci, tolerare iam possum, pigeat oculos referre ad illas tenebras, quas reliqui; si tamen relictae dicendae sunt, quae caecitati meae adhuc blandiri audent» «ti prego, se hai dei poteri su di me, provati a condurmi attraverso qualche scorciatoia in prossimità di quella luce. Vicino a lei ormai, nell'ipotesi di un mio progresso spirituale, posso sopportare, mi rincrescerà di volgere gli occhi alle tenebre che ho abbandonato, seppur si possono dire abbandonate quando osano ancora lusingare la mia cecità» e ancora, Ivi, 1, 14, 25: «Non mi rifugerò più nelle tenebre quando vedrò il sole. Ed anche simile discorso sembrerebbe quasi conveniente alla retta ascesi, mentre è assai lontano dall'esserlo», ed, Ivi, «noi ci illudiamo di percepire di quanto siamo emersi dalle tenebre, ma non ci è permesso né di aver coscienza né di avvertire fino a qual punto eravamo immersi e fin dove abbiamo progredito». Testo

  69. De Trin., 4, 15, 20: «nonnulli eorum potuerunt aciem mentis ultra omnem creaturam transmittere, et lucem incommutabilis veritatis quantulacumque ex parte contingere», «alcuni di essi sono riusciti a sollevare la punta della mente al di sopra di ogni creatura e attingere, per quanto poco, la luce dell'immutabile verità». Testo

  70. Sol., 1, 7, 14: «i sensi possono sempre generare dei dubbi». Testo

  71. Ep., 120, 2, 10: «[Lumen] invisibiliter et ineffabiliter, et tamen intelligibiliter lucet» «[questa Luce] brilla in modo invisibile e ineffabile, ma purtuttavia in modo intelligibile». Testo

  72. Sol., 1, 6, 13. Testo

Pronuncia