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Autonomia della musica e mistica cristiana.
Lo iubilus in Agostino d'Ippona

di M. Benedetta Zorzi (1º settembre 2003)

Negli scritti di Agostino è facile notare una grande sensibilità per la musica, derivata in parte dalla formazione retorica, in parte dall'esperienza della vita ecclesiale, nella quale il canto svolgeva una parte importante. Malgrado un'intera sua opera, il trattato De musica, sia dedicata al tema, non è in esso che va cercato il contributo più originale: la musica viene infatti qui considerata solo nel suo aspetto teorico, in connessione con la matematica. L'aspetto pratico, cioè la musica come canto, non riceve invece una trattazione sistematica, per la quale forse Agostino non ebbe il tempo. Molte tracce del suo pensiero in merito si possono però raccogliere dalle Enarrationes in Psalmos, nelle quali spicca con un rilievo tutto particolare il tema dello iubilus. Questo era il vocalizzo che accompagnava il canto dei salmi (e al quale i salmi stessi invitavano), grazie al quale Agostino tematizza il «canto senza parole», un canto cioè non sottomesso alle parole ma puramente musicale.

Una profonda riflessione sull'ineffabilità era stata già compiuta nella filosofia neoplatonica, che influenzò in maniera decisiva molti elementi concettuali del cristianesimo. In essa il concetto di «culto logico», l'unico accetto a Dio, veniva associato strettamente al silenzio: essendo l'Uno divino totalmente indicibile, solo cessando ogni parola l'uomo può onorarlo. Tale silenzio esclude dunque anche ogni espressione musicale (che rientra nel dominio del sensibile) e simboleggia l'unione mistica con l'Uno, in cui l'individualità umana deve perdere i propri contorni.

In Agostino lo iubilus riprende alcune caratteristiche del «culto logico» neoplatonico, ma se ne distacca per un elemento decisivo: il giubilo esprime una gioia incontenibile, che tutt'altro che sfociare nel silenzio non può fare a meno di comunicarsi. Il vocalizzo puramente musicale significa così il paradosso della necessità di dire ciò che non può essere detto. In questo modo la dimensione corporea e sensibile dell'uomo non solo non viene disdegnata, ma diventa il necessario tramite della lode a Dio, il quale a sua volta si è voluto perfettamente comunicare nell'incarnazione del Verbo. Integrata in una prospettiva mistica, la pratica musicale acquista dunque in Agostino una dignità mai prima riconosciuta, grazie ad un nuovo concetto di relazionalità dialogica: alla parola di Dio l'uomo non è in grado di rispondere con un'altra parola, ma può e deve rispondere con il giubilo.

1. Agostino e la musica

Un attento lettore di Agostino non può che restare sconcertato per la spiccata sensibilità con cui egli parla della musica. Agostino è letteralmente affascinato dalla melodia e dimostra un insolito approccio nei suoi confronti, approccio che Marrou non ha esitato a chiamare «moderno».

La notevole sensibilità musicale gli deriva probabilmente anche dalla formazione retorica, ma non si spiega solo così: si pensi al fatto che è ascoltando la soavità del parlare di Ambrogio («delectabar suavitate sermonis») che egli si avvicina sensim et nesciens al contenuto della dottrina cattolica; ma si pensi anche a quella misteriosa cantilena di fanciulli (fondamentale per la sua adesione totale al cristianesimo) che lo spinse a prendere il Vangelo e a leggere il passo della lettera ai Romani nel famoso episodio del giardino (Confessioni VIII,12,29); si pensi a quel canto che dovette essere la sua prima esperienza di chiesa, giacché anche lui cantava assieme ai cattolici riuniti per resistere alla presa delle chiese da parte degli ariani (Confessioni IX,4); infine a quei passi che esulano dai limiti della nostra ricerca, ma che costituiscono delle perle riguardo a questo tema (del resto non ancora adeguatamente esplorato): la musica è per Agostino un modo per spiegare la memoria, la creazione, il tempo, l'armonia dell'universo, la vita, un paragone per evocare la soavità dell'esperienza mistica, per cercare vestigia della Trinità.1

Agostino ha dedicato alla musica un'opera specifica probabilmente incompiuta, il De musica, che doveva far parte di un più ampio trattato enciclopedico sulle sette discipline liberali concernente un percorso per corporalia ad incorporalia (forse non alieno da una certa polemica nei confronti del suo stesso manicheismo e comunque ancora molto legato ad idee neoplatoniche), risalente al periodo del suo battesimo. Nelle Retractationes egli stesso ci informa che in questi sei libri ha avuto tempo di trattare solo del rhythmus, ma che sarebbe stato suo intendimento dedicare altrettanti libri anche al melos (il canto, appunto). E proprio questo desta meraviglia: che cioè in lui, il teologo dell'interiorità, la musica, dominio dei sensi, assuma uno spazio così notevole.

Già Marrou aveva avanzato l'ipotesi di una certa evoluzione nel pensiero di Agostino sulla musica all'interno del De musica stesso e di una notevole e duratura presenza di questo tema.2 Marrou però con perentorietà (troppa?) afferma che «per Agostino la musica è scienza matematica nello stesso modo dell'aritmetica e della geometria» (p. 179) e fa notare che questo concetto di musica è tutt'altro da quello che noi intendiamo. D'altra parte lui stesso si trova costretto ad ammettere che «Agostino stesso ha un'esperienza musicale, nel senso moderno del termine. Una sensibilità fremente come la sua non poteva rimanere insensibile alla potenza emotiva della musica» (p. 179). Strano è che anche quando il celebre studioso riconosce che Agostino non si serve mai del termine musica / musicus per parlare della musica artistica, ma sempre e solo del termine cantare, canticus, cantilena, non veda la possibilità di una diversa linea di ricerca e concluda (tornando poi stranamente ad analizzare solo il De musica) che su questo argomento egli non ha innovato nulla. È vero che il fraintendimento sui termini rischia di portare fuori strada, ma a maggior ragione è vero che per approfondire il concetto di musica pratica bisognerà battere la pista dei termini cantatio, cantus, iubilus, iubilatio e così via. È chiaro quindi anche che tale concetto non va cercato nel De musica.

Chi infatti volesse studiare più a fondo quale sia stata la concezione di Agostino sulla musica resta un po' a bocca asciutta sia quando legge il suo De musica, sia quando cerca in altre opere: né lì né qui Agostino affronta e sviluppa il tema del melos. Non nel De musica, perché Agostino è ancora troppo legato a concezioni neoplatoniche che gli fanno considerare la musica dal punto di vista meramente filosofico, né d'altra parte nelle opere in cui la musica è trattata sì, ma solo in quanto metafora per altre realtà. Del resto quest'ultimo fatto, che cioè sia proprio la musica a costituire il supporto metaforico di molti concetti della teologia agostiniana, lascia evidentemente capire che egli ebbe di questa disciplina una concezione molto alta, sicuramente molto più alta di quella che ne ebbero i suoi contemporanei.

Partiamo in conclusione con una certezza: il filo di Arianna che ci guiderà non sono i termini musica, musicus, ma unicamente cantus, cantatio, canticum e anche iubilus. Sono questi infatti i vocaboli che in Agostino indicano il concetto di musica pratica, di melodia. Vi è però un altro problema difficile da affrontare. La schizofrenia con cui egli nell'insieme della sua opera sembra accostarsi alla musica costituirebbe materia da lasciare agli studiosi della psicologia del profondo. Bisogna quindi anche domandarsi perché Agostino da una parte senta il bisogno di utilizzare proprio la metafora della musica per spiegare i concetti più profondi della sua teologia (la memoria, il tempo, la creazione, l'estasi), e dall'altra invece risulti così sospettoso rispetto al piacere dell'arte. Solo un uomo con una sensibilità musicale vibrante come la sua poteva parlare degli effetti della musica sull'animo nei termini in cui si presentano nelle Confessioni.

Certo, il problema della coniugazione delle arti con il culto è questione molto antica: la musica ha sempre esercitato un certo fascino sull'uomo e sul suo rapporto con la divinità (l'ambiguità del musicale è una costante nella vicenda della sua costituzione, ma del resto la musica e il canto condividono la sorte dell'estetico rispetto all'esperienza religiosa); ma in Agostino questo elemento attira maggiormente la nostra attenzione: la musica può fermare il credente ad un'esperienza di autocompiacimento che non conduce oltre, nella direzione del senso delle parole cantate, nell'elevazione della mente e dell'anima alla Gerusalemme celeste. Basterebbe pensare alle descrizioni delle Confessioni, in cui si parla dell'essere presi e del restare impigliati nel piacere dell'udito: ciò svilirebbe sia la portata del canto, sia l'evento cultuale, per non parlare poi della totale inversione che viene ad instaurarsi nel rapporto di ancillarità tra parola e musica, rapporto che, non diversamente dagli altri padri della Chiesa, anche in Agostino resta il punto di riferimento della sua trattazione sul canto.

Sappiamo che egli superò le sue perplessità e arrivò a legittimare la prassi del canto dei salmi soprattutto in base alla sua esperienza personale, ricordando che le parole cantate e ascoltate in chiesa, allorché era ancora giovane catecumeno, gli strapparono lacrime e commozione. Pur non pronunciando una sentenza irrevocabile, Agostino si colloca tra coloro che al suo tempo sostennero l'utilità dell'uso del canto in chiesa dal momento che secondo lui uno spirito debole sarebbe potuto arrivare al sentimento della devozione anche attraverso il diletto delle orecchie (Confessioni X,33,50).

Davanti a questo elemento d'ambiguità, ci si è chiesti quanto la formazione retorica, con il conseguente giudizio negativo su di essa dell'Agostino convertito, possa aver influito sulle sue successive concezioni musicali. Considerando infatti l'evoluzione della melodia, «tecnicamente non esiste soluzione di continuità tra lingua parlata e lingua cantata».3 Come l'antica poesia epica, le narrazioni popolari e la cantillazione, anche il discorso retorico conosceva la portata delle inflessioni e dei gradi melodici della voce umana sulle emozioni dell'ascoltatore. L'antica querelle tra filosofia e retorica si costituiva in fondo come una disputa tra verità e persuasione; ma allora il canto si sarebbe trovato tutto dalla parte del secondo termine, nella la sua accezione negativa.

Da quale opera prendere dunque le mosse? Una sola sembra rispondere ai criteri di questa ricerca: le Enarrationes in Psalmos. In primo luogo perché la lettura delle Enarrationes in Psalmos suppone una prospettiva imprescindibile, ovvero il carattere pastorale, ecclesiale e liturgico che inquadra ogni tema, quindi anche quello del canto. In secondo luogo (e di conseguenza) perché il canto, in ambito liturgico, ha già assunto e risolto in sé ogni possibile deviazione, in quanto già sposato alla Parola: è canto dei salmi. Del resto è proprio a partire dall'esperienza liturgica in una chiesa di Milano, quindi dall'esperienza del positivo connubio tra canto e culto, che Agostino giunse a convincersi e propendere per la grande utilità del canto. Solo nelle Enarrationes in Psalmos si trova un abbozzo di quella che per Agostino sarebbe dovuta diventare una trattazione sul melos, anche se non è presente una visione sistematica di una vera e propria teologia del canto. Le Enarrationes in Psalmos presentano infatti il singolare approfondimento del concetto di giubilo: qui il puro melos prende un suo spazio autonomo. Agostino in questo si dimostra molto moderno: con lo iubilus il musicale puro prende una sua direzione autonoma rispetto alla parola, al testo della Scrittura, aprendo lo spazio alla sola voce.

Si può dunque ipotizzare che nel periodo successivo al suo ritorno in Africa Agostino abbia maturato una teoria sul melos, che tuttavia gli impegni del ministero non gli permisero di stendere in trattato, ma di cui forse le Enarrationes hanno raccolto tracce in modo sparso. Secondo S. Corbin il tempo che sarebbe mancato ad Agostino non fu tanto quello per scrivere il libro quanto quello per documentarsi in modo completo sull'argomento, che necessitava di cognizioni assai precise,4 idea del resto forse ripresa da Marrou che rileva le sue notevoli lacune in questo campo.5 Comunque stiano le cose, qui cercheremo qualche abbozzo di questo particolare interesse che non ha potuto ricevere uno sviluppo sistematico.

Se l'ipotesi è corretta, bisogna osservare anche che il tema della musica, che nel De musica risente ancora fortemente di un influsso neoplatonico, si sarebbe andato liberando dei suoi elementi più filosofici (pitagorici) contemporaneamente allo sviluppo pieno della fede cristiana, aprendo così un varco al concetto moderno di musica. Capiamo quindi i dubbi e le incertezze dei primi studiosi dell'introduzione del canto nella chiesa, ma soprattutto l'importanza di uno studio su questo specifico tema.

2. Connotazioni dello iubilus

Veniamo dunque al canto senza parole. Questo, a nostro avviso, è il tema in cui più spiccatamente emerge l'originalità di Agostino. Per lui, il canto che piace a Dio ha anzitutto la caratteristica di essere ineffabile, senza parole; egli connota questo atto del cantare con il verbo «giubilare».6 Lo iubilus ebbe molta importanza nello sviluppo dell'arte musicale cristiana, raccordandosi alle origini del canto melismatico. È tuttavia errato identificare lo iubilus con l'alleluia: infatti tutti i passi in cui Agostino parla dello iubilus si riferiscono a salmi, mentre l'alleluia è paragonato «al keleuma che era in origine il canto dei vogatori, canto cadenzato ritmicamente allo scopo di scandire i tempi della remata ... Agostino parla dello iubilus tutte le volte che ne ha occasione -- vale a dire appena ricorrono nel salterio i termini iubilare, iubilatio -- ma non ne fa parola quando parla dell'Alleluia».7

Registriamo quindi una connotazione biblica del giubilo: è sempre a partire dalla scrittura che si parla del giubilo, e sempre i presenti devono rispecchiarsi in essa. C'è come un percorso della lode (come anche della fede) che inizia dalle Scritture. Infatti, dice Agostino, Dio ha tratto perfetta lode dalla bocca dei bambini e dei lattanti, affinché coloro che desiderano pervenire alla conoscenza della gloria inizino dalla fede nelle Scritture, ma la gloria si innalza sopra le Scritture stesse, in quanto trascende e supera le espressioni di ogni parola e di ogni linguaggio (Enarratio 8,8).

Testo e musica in notazione quadrata e sangallese

Offertorium «Iubilate Deo universa terra» (Graduale triplex, pp. 227-228). Benché molto posteriore ad Agostino nella sua forma classica, il canto gregoriano affonda le sue radici nel primitivo canto della Chiesa. Tra le molte composizioni che possono esemplificare le osservazioni di Agostino, particolarmente adatto è l'offertorium ricavato dal testo del salmo 65, che inizia con un invito al giubilo: «Giubilate a Dio, terra tutta, giubilate a Dio, terra tutta». L'intera composizione è molto ornata, ma spicca soprattutto il lungo «melisma» sulla a del secondo «iubilate», che si sviluppa per quasi cinquanta note. L'invito al giubilo, ripetuto per due volte per maggiore enfasi affettiva, viene così realizzato proprio quando lo si pronuncia.

[Offertorium in formato midi, Offertorium in formato mp3 (estratto, 350 K, da Nova Schola Gregoriana / Alberto Turco, Adorate Deum. Gregorian Chant fron the Proper of the Mass, Naxos 8.550711, 1993).]

2.1. Il retroterra filosofico

Ciononostante, bisogna sottolineare che nella Bibbia non è presente alcuna riflessione sul musicale come incarnazione o forma trascendente del mondo, ovvero come rivelazione di una particolare verità divina. Il tema compare solo quando il cristianesimo interagisce col platonismo, in cui il musicale è visto come eco o immagine sensibile di una forma trascendente. La musica nel suo enigma incomprensibile è del resto sempre stata oggetto di una particolare attenzione da parte della filosofia. Considerata in un nesso oscuro con il divino, la si trova collegata ad una teologia già negli antichi miti cosmogonici orientali. Quando però la filosofia in Grecia cercò di svelarne il segreto, si divise in due linee interpretative. Più volte nella musica si distinse

una musica puramente pensata, musica come scienza teoretica, a volte strumento privilegiato di ascesi mistica o musica come attrazione dei sensi, e una musica concretamente udita ed eseguita, come suono fisico e corporeo e perciò possibile strumento di perdizione. La musica come ascesi risale all'estetica pitagorica dei numeri; la musica come concreto fluire di suoni, oggetto di piacere sensibile, ci riporta ad una estetica di carattere empiristico a sfondo aristotelico e ad una concezione della stessa come imitazione delle passioni.8

Spesso questi due campi non sono però molto ben distinti negli autori. Già Filone, che è molto critico nei confronti di ogni tipo di piacere sensibile e ammette la musica solo come preparazione alla filosofia, in un passaggio rilevato da Gérold la rivaluta soprattutto nello strumento della voce, che considera il più perfetto.9 La musica è immagine di un modello originale, la rappresentazione fuggitiva di qualcosa di eterno. Filone distingue il canto dell'uomo da quello degli altri animali, perché quello dell'uomo può articolare la parola e può fare melodie che raggiungono non solo le orecchie, ma anche la mente (De opificio 70-71). Ci sono reminiscenze pitagoriche, ma egli va oltre, perché introduce una mistica della musica. In riferimento al problema dell'estasi parla infatti di una musica che conduce all'unione con Dio. Gérold fa notare al riguardo che nel culto di Dioniso i partecipanti pervenivano ad uno stato di estasi, lasciandosi trasportare da una musica molto violenta; ma la concezione di Filone sull'unione con Dio è molto diversa: l'anima deve elevarsi (è chiaro il riferimento al Simposio di Platone) verso il luogo della musica perfetta, e può farlo tramite una sorta di entusiasmo, ma è Dio ad operare un'attrazione sull'anima -- paragonata a quella di una musica -- e a tirarla fuori dalla prigione del corpo (Quis rerum divinarum heres sit 69). Secondo Filone, la gioia della presenza divina arresta la parola, perché la contemplazione dell'essere supremo si fa nel silenzio, non nei canti a voce spiegata, ma in quelli proferiti dallo spirito interiore invisibile. Secondo la più classica tradizione apofatica filosofica, il termine che indica questa ineffabilità è árrheton.10

Nel neoplatonismo la musica era considerata una delle vie per giungere all'unione con l'Uno, anche se per lo più era ritenuta una espressione della matematica. Plotino afferma:

Il musico è commosso e trasportato dal bello e, incapace di commuoversi da sé, è aperto all'influenza delle prime impressioni e come gli uomini timidi di fronte ai più piccoli rumori, è sensibile ai suoni e alla loro bellezza, evita sempre nei canti il disaccordo e la discordanza e nei ritmi si compiace delle misura e dell'accordo. Dopo i suoni, i ritmi e le figure sensibili, egli deve separare la materia in cui si attuano gli accordi e le proporzioni e intuire la bellezza degli accordi in se stessi e comprendere che le cose che lo incantavano sono intelligibili.11

Anche Plotino (come poi farà Agostino) usa volentieri la metafora della voce e del suono per spiegare l'essere (VI, 4,12; VI,9,8). Non solo, ma egli cita la musica parlando del Bello e afferma: «Il bello è nella vista, è anche nell'udito, nella combinazione delle parole e nella musica in genere: belli sono infatti le melodie e i ritmi» (I,6,1). E ancora: «le armonie impercettibili al senso sono quelle che fanno le armonie sensibili e per opera di quelle l'anima può intuirne la bellezza, poiché esse le rivelano l'identico nel diverso. Per conseguenza le armonie sensibili sono misurate da numeri non in un rapporto qualsiasi, ma in uno che è subordinato all'azione sovrana della forma» (I,6,3). Ma il suono è movimento (VI,3,19) e quindi la musica fa ancora parte del temporale, della realtà sensibile e materiale. Per giungere all'unione con l'Uno invece bisognerà trascendere anche la musica e inoltrarsi al di là dei suoni.

Mentre in Plotino la musica è ancora utilizzata almeno come metafora, in Porfirio non resta più neanche la minima possibilità di esprimere alcunché per mezzo dei sensi. Quest'ultimo si interessò molto della musica, ma pare che il suo trattato (andato perduto) fosse stato redatto con minor sensibilità artistica di quella che abbiamo incontrato in Plotino. La musica per Porfirio è solo teoria.

Anche Giamblico ha delle interessanti affermazioni sulla musica: egli distingue estasi ed entusiasmo. La prima è demoniaca, il secondo è divino. Non è la musica a creare l'entusiasmo, ma il contrario: esso procede dall'armonia divina. Insomma, anche qui la musica stabilisce un rapporto tra Dio e l'uomo, ma il culto più perfetto resta quello del silenzio.12

Sembra perciò che non siano tanto le concezioni musicali della tradizione filosofica, ma il concetto di «ineffabilità» e il collegamento di questo con l'esperienza del divino ad aprirci una chiave di lettura del concetto di iubilus agostiniano. La nostra ipotesi è che Agostino sia stato attratto dall'elemento dell'ineffabilità del giubilo a causa di un influsso della dottrina neoplatonica sul silenzio, o meglio da quella che è stata chiamata la teologia negativa, con il suo corrispondente concetto di ineffabilità, e in particolare dal rilievo che in questo sistema filosofico tale concetto assume riguardo al rapporto con Dio e all'esperienza mistica. «Senza parole» (árrheton) infatti, per i filosofi platonici e neoplatonici, era una caratteristica del divino; conseguenza imprescindibile di questa ineffabilità di Dio nell'uomo era l'atteggiamento di silenzio, considerato anche l'unico vero culto. In molti filosofi, infatti, la musica non aveva assolutamente un carattere spirituale, anzi era disprezzata, essendo riservata al culto materiale degli déi inferiori.

Per cercare di fondare più incisivamente le nostre conclusioni, ripercorriamo a grandi tratti come questo concetto di ineffabilità emerga e vada congiungendosi con l'esperienza mistica nella tradizione filosofica. Nella prima ipotesi del Parmenide Platone afferma al termine della sua riflessione sull'Uno assoluto: «A lui non appartiene alcun nome, non vi è in esso né definizione, né scienza, né sensazione, né opinione... Non vi è persona che lo nomini, che lo esprima, che lo concepisca o lo conosca» (Parmenide 142a).

Plotino insiste a più riprese sulla necessità di fare silenzio per rendersi accetti all'Uno (VI,9). L'Uno stesso è ineffabile (V,3,13-14; 4,1; 5,6; 9,4.5.10.11). Parimenti noi siamo «uniti al Dio presente nel silenzio». L'ineffabilità assume largo spazio in questo sistema filosofico, essendo intrinseca all'estasi e all'unione fusionale dell'uomo con il primo principio (V,3,13.14.17; V,4,1), estasi che Beierwaltes chiama la «de-differenziata unione (hénosis) con l'Uno».13 Se il primo principio è ineffabile, l'unico atteggiamento che l'uomo può avere di fronte ad esso è il silenzio (sigé). Dice Plotino:

[L'Uno-Bene] è al di là dell'essenza e al di là dell'autosufficienza. Dicendo queste cose possiamo essere contenti ed andarcene? No. L'anima soffre ancora le sue doglie e ancora di più. Forse è bene che essa finalmente partorisca dopo essersi slanciata verso di Lui nel momento culminante dei suoi dolori. Ma dovremmo forse incantarla... e forse l'incantesimo per le sue doglie potrebbe nascere perfino dai ragionamenti fatti finora se li volessimo ripetere... L'anima che corre dietro a tutte le verità, anche a quelle di cui soltanto partecipiamo, si eclissa tuttavia quando si esige che essa parli e pensi logicamente, dal momento che è necessario che il pensiero discorsivo, per poter dire qualcosa, colga i concetti l'uno dopo l'altro: solo così infatti si ha il processo del pensiero. Ma in chi è assolutamente semplice quale processo è possibile? Nessuno; ma basterà un semplice contatto interiore. Ma durante il contatto -- almeno finché avviene -- non si avrà affatto né la possibilità, né il bisogno di parlare: solo più tardi si potrà ragionarci sopra (V,3,17).

L'anima che si riunisce all'Uno quindi non può più parlare, perché in quella unione non c'è possibilità di dialogo, il quale implicherebbe una certa distinzione, un faccia a faccia. Il primo principio può essere contemplato solo quando si raggiunge l'assenza di ogni attività noetica, superiore al pensiero stesso. L'eclissarsi della coscienza quindi corrisponde al contatto con la divinità che esige silenzio, perché vi è solo fusione nell'uno indistinto. Questa unità non ammette distinzione. Per spiegare questa unione superiore il linguaggio è costretto a spezzarsi:

Come il linguaggio parlato è un'immagine del linguaggio interiore dell'anima, così questo è un immagine di quello interiore ad un altro essere. E come il linguaggio parlato rispetto a quello dell'anima si frantuma in parole, così quello dell'anima rispetto all'altro superiore è frammentario quando cerca di esporlo (I, 2,3).

Nel trattato intitolato La contemplazione Plotino suggerisce che anche la natura ha una sua attività che è il silenzio: «Se gli chiedi come la produce, egli ti risponderà: non si tratta di parlarne ma di comprendere in silenzio come io che resto in silenzio e non ho l'abitudine di parlare» (VI, 8,11). La natura produce spontaneamente silenzio per effetto della sua sola contemplazione.

Anche Porfirio, discepolo di Plotino, afferma che «a Dio che è sopra ogni cosa non si pronuncia nulla di sensibile» (Abstinentia ad esu animalium II, 34). Come prima, il termine usato è árrheton. Secondo lui la preghiera che ci avvicina a Dio è fatta in silenzio e nel pensiero puro. Leggiamo infatti nella sua Lettera a Marcella: «Il saggio, quando fa silenzio, onora Dio» (16), ma «la preghiera dell'indolente è un vano brusio di parole» (12). È opportuno ricordare che il concetto di Uno-Bene plotiniano è modificato da Porfirio, il quale (nella sua cosiddetta fase post-plotiniana) sostiene che il primo Uno non è più senza relazioni, assolutamente separato e trascendente, ma un Uno-Trino.14 Ora, questa «triade intelligibile» ha le caratteristiche insieme della prima e della seconda ipotesi del Parmenide di Platone, risultando così sia ineffabile sia enunciabile. L'influsso delle concezioni della metafisica di Porfirio sulla formulazione dei padri del dogma trinitario è dimostrato;15 c'è da chiedersi tuttavia se anche questa fusione di ineffabilità ed enunciabilità abbia avuto un'influenza sull'idea cristiana di Dio (spiegando forse così, come vedremo meglio, anche il paradosso dello iubilus).

Più che le idee sulla musica, quindi, serve al nostro scopo l'idea di ineffabilità della tradizione filosofica, e in particolare il collegamento di questa caratteristica con la concezione del culto. Quasten ha ben dimostrato come per tutta la tradizione filosofica fino al neoplatonismo il vero «culto logico (logiké thysía)», l'unico degno della divinità suprema, era un sacrificio interiore, fatto nello spirito, che escludeva in modo categorico non solo i sacrifici cruenti, ma anche la musica.16 Il vero culto interiore si consumava senza parole, nel silenzio dell'estasi. Ora, lo iubilus in Agostino presenta le stesse caratteristiche di questo culto logico essendo collegato pure all'estasi: nella Enarratio 37,12 Agostino dice chiaramente che quel nescio quid intravisto nell'estasi è intrinsecamente collegato a «parole ineffabili».17

2.2. Le novità

Tra i padri, Agostino è quello che più si occupa dello iubilus. Il fenomeno dello iubilus non doveva del resto essere sporadico, ma di larghissimo impiego, altrimenti egli non ne avrebbe parlato così spesso e con così tanto entusiasmo. Si noti però che l'«entusiasmo» con cui Agostino parla del giubilo potrebbe derivare proprio dalla particolare valenza che egli gli dà, da una parte in polemica -- come dimostreremo -- con un certo tipo di esperienza religiosa neoplatonica, dall'altra per affermare la peculiarità dell'esperienza della fede cristiana.

Supposto anche che il termine implicasse un gioioso vocalizzo «senza parole» (che tuttavia non risulta mai esplicitamente in alcuno testo precedente), Agostino è originale nel fatto stesso che si sofferma a spiegarlo, e soprattutto perché sottolinea fino ad ampliarla notevolmente l'idea di ineffabilità sottesa al concetto di giubilo. «Immoliamo una vittima di giubilo, di gioia ... quella che le parole non possono esprimere» (Enarratio 26, II,12). L'idea di «sacrificio spirituale» avvicina molto questo concetto a quello della thysía logiké dei platonici, che implicava silenzio e ineffabilità. Ma a differenza dell'ineffabilità neoplatonica, qui abbiamo anzitutto la gioia profonda che non può essere espressa a causa della limitatezza della parola: infatti l'abundantissimum et inenarrabile gaudium non può essere detto con nessuna parola. In secondo luogo abbiamo il paradosso di una ineffabilità che tuttavia è enunciata. Il discorso vacilla già riguardo alle creature di Dio, dice Agostino, quanto più davanti al Creatore stesso, davanti alla cui grandezza però il giubilo (e solo esso) è in grado di reggere (restet). Quindi, se da una parte la caratteristica dell'ineffabilità accomuna questo elemento alla thysía logiké, dall'altra vi è una profonda differenza, perché lì l'adorazione sfociava nel silenzio (sigé), qui invece nello iubilus.

Procediamo ora all'indagine delle caratteristiche dello iubilus agostiniano tramite un'analisi progressiva delle Enarrationes che lo riguardano. Vediamo anzitutto le connotazioni del giubilo nel contesto della Enarratio 32. Il giubilo viene identificato con il bene canere (32,II,I,8). Giubilare significa comprendere e non poter esplicare ciò che il cuore canta. Rimandiamo l'approfondimento della caratteristica del comprendere a più avanti; per ora soffermiamoci su questa impossibilità dell'uso di un linguaggio discorsivo. Il canto interiore e quello esteriore sembrano non collimare: il canto interiore risulta infatti maggiore del canto esteriore, così da non poter essere totalmente espresso da questo. Le sillabe devono perciò come esplodere per lasciar risuonare la sola voce umana. Il cuore deve emettere, partorire ciò che non può essere detto (65,2). Si partorisce ciò che è concepito, e questo ci rimanda ancora una volta alla dimensione del comprendere. Ciò che non può essere detto trae la sua ineffabilità dall'impossibilità di riuscire ad esprime adeguatamente colui che è grandioso, ineffabile. Ma del resto non si può neppure tacere: tacere non debes! Il giubilo è quel'atto quindi che riunisce in una dinamica paradossale questi due elementi: l'ineffabilità ed l'enunciabilità di Dio. O forse, più semplicemente, la gioia, che è un bene che tende di per sé a diffondersi, comunicarsi e parteciparsi, e la parola che dichiara la sua limitatezza.

Nel 389, nel De Genesi contra Manichaeos, Agostino riteneva che il linguaggio fosse una conseguenza della caduta susseguente al peccato originale. Infatti, prima della caduta, Dio parlava immediatamente all'intelletto dell'uomo. Il linguaggio era quindi considerato una necessità nel contesto dell'umanità decaduta, radicalmente segnata da una sorta di impotenza a realizzare un qualche contatto interiore immediato con Dio-verità. In questa fase la corporeità sembra avere un carattere negativo. In seguito Agostino sembrerebbe convincersi del fatto che, dal momento che nessun procedimento razionale avrebbe mai potuto eliminare il limite posto dalla corporeità, anche quest'ultima sarebbe dovuta rientrare nell'ordine dei signa e avrebbe dovuto perciò costituire un dato irrinunciabile e positivo. Nelle Enarrationes, quindi attorno al 412, sembra compiersi questo passo ulteriore: si arriva infatti a concepire nello iubilus un tipo di espressione linguistica che pur nascendo dall'intimo, dall'interno del cuore, si esprime tramite lo strumento della voce, cioè tramite la corporeità, anzi tramite il limite stesso di questa. Il limite della corporeità costituisce ora un fattore positivo. Tramite il giubilo il corpo entra a pieno titolo come parte integrante dell'espressione dell'esperienza della fede. Secondo l'immagine offerta da Agostino del limite delle sillabe che viene spezzato, il corpo, cioè il sensibile, risulta ormai capace appunto nel suo limite di dire l'indicibile, a differenza di quanto accadeva in Porfirio («Quanto più si desidera il corpo tanto più si ignora Dio», Lettera a Marcella 13).

L'Enarratio che più ci interessa dopo quella sul salmo 32, è la 46,7, che spiega che cosa sia il giubilo e lo collega all'estasi dell'ammirazione. Agostino precisa che tale sentimento si addice ai riuniti, perché nella liturgia -- riconoscendosi nella Scrittura come in uno specchio (46,2) -- i presenti stanno facendo la stessa esperienza dei discepoli che vedono Cristo ascendere al cielo, pur restando misteriosamente tra loro (46,7). Qui si parla di una admiratio gaudii e si approfondisce quale sia l'origine di questa gioia: lo stupore di fronte alla contemplazione del mistero di Cristo, della sua croce e della sua ascensione al cielo. Per questo gaudio verba non sufficiebant. I discepoli che guardano il Signore salire al cielo fanno una vera esperienza mistica: sono presi da stupore e da meraviglia e non riescono a dire nulla. L'ek-stasi è sottolineata dal fatto che per l'ammirazione essi erano come andati fuori di sé. Viene alla luce così anche una connotazione liturgica: lo iubilus si presenta come risposta ad un aspetto particolare o all'intero mistero di Gesù Cristo Signore celebrato. Agostino termina questa breve ricostruzione del momento dell'ascensione dicendo ai presenti che l'esperienza di gioia che stanno facendo («et vos gaudetis»), perché comprendono il significato dell'essere radunati («quia videtis hic vos»), è quella stessa esperienza «mistica» dei figli di Core («ergo vos filii Core»).

Altra Enarratio importante è la 65,2. In questa al concetto di giubilo si aggiunge una caratteristica ecumenica. Qui il verbo «giubilare» ha una caratteristica universale: chi aderisce ad una fazione (pars) non potrà giubilare, ma solo ululare. Ciò che fa del giubilo un vero canto è la comunione, cioè la sua caratteristica ecclesiale, comunitaria. Cantare assieme al tutto (totum tenet) fa della vociferazione gioiosa degli uomini uniti dal mistero di Cristo, resi partecipi della resurrezione, un grido di gioia e di vittoria e non un lamento o, al modo delle bestie, un ululato: nella fazione non c'è giubilo, ma solo un ululato, al pari degli animali. Il vero giubilo è quello di tutta la terra. Come prima, è sempre la contemplazione del mistero della morte e risurrezione del Signore Gesù a provocare il grido di giubilo. Giubilare significa l'erompere della gioia nella sola voce, senza parole. Non si giubila con parole, con verbi, ma solo emettendo un suono di gioia che con le parole non si riesce ad esprimere. Anche qui è sotteso il paragone con la partoriente: avviene come se le cose che si sono concepite (con l'intelletto) partoriscano e diano alla luce la letizia del cuore nella sola voce, perché con i concetti (verba) essa non si può esplicare.

Una piccola annotazione della Enarratio 80,3 sottolinea ancora una volta l'impossibilità di restare muti: «Se non potete spiegarvi con le parole non per questo abbia termine la vostra esultanza; se potete spiegare, gridate, se non potete giubilate». Il grido è qui visto come una dimensione originaria della costituzione di senso del linguaggio. Tuttavia l'abbondanza delle gioie per le quali non sono sufficienti le parole è solita erompere in giubilo. Infatti (come nella Enarratio 32,II,8) si parla sì di una impossibilità della parola di esprimere Dio, ma si aggiunge anche che Dio non lo si può tacere, anzi Agostino sottolinea che chi ha veduto la salvezza di Dio non può restare muto davanti a Dio, deve parlare. Restare in silenzio esprimerebbe addirittura ingratitudine.

L'Enarratio 88, I, 16-17 aggiunge un ulteriore connotato al giubilo, fino ad ora visto solo di sfuggita: l'elemento della comprensione (secundum scientiam). Se il linguaggio discorsivo non è sufficiente ad esprimere la letizia, allora beato il popolo che sa giubilare (sciens iubilationem). Cosa vuol dire saper giubilare? Qui Agostino gioca con tre significati del verbo latino «intelligere» (che egli sostituisce al testo biblico, che invece porta «scire»). In primo luogo significa che è beato il popolo che non resta muto, ma riesce ad esprimere comunque la sua letizia, anche senza le parole. In secondo luogo è beato il popolo che comprende e sa da dove (unde) gli proviene la gioia che le parole non possono esprimere. In terzo luogo significa vedere e capire che cosa significa che qualcuno giubila, che senso ha in sé il giubilare, la comprensione profonda di questo atto. Ma se, come afferma Marrou, ars è ciò che si riconduce all'intelligenza, a quella ragione per la quale l'uomo è essenzialmente uomo,18 ecco allora che ci troviamo non solo davanti ad una nuova concezione di musica, la vera e propria arte pratica (secondo il nostro significato moderno, insomma), ma forse già davanti ad una «teologia del canto», come vedremo ancora più chiaramente.

Tra le più interessanti Enarrationes che riguardano il giubilo entra in questione anche la famosa Enarratio 94,1-10, che accosta l'idea del giubilo alla gioia (94,1.4), al retroterra popolare (i cantastorie 94,3), spiega il motivo della ripetizione (94,5) e infine espone i motivi del giubilo (94,6-10). Il paragrafo 3 è tutto dedicato alla definizione del giubilo, di cui vengono ripetute le caratteristiche che abbiamo già potuto vedere: l'allegria incontenibile derivante da Dio, partorita senza parole ed enunciata senza parole, solo nelle grida.

Al paragrafo 5 invece viene esplicitata una connotazione in più: la ripetizione (elemento questo che interessa forse la storia dello sviluppo melismatico del canto). Nel punto precedente (94,3) si era parlato di affectus: il giubilo è collegato, più che ad un'idea, ad un affectus che il cuore concepisce, ma che il discorso logico non può esprimere. La caratteristica fondamentale del canto è muovere l'affectus. Con il canto, assieme alle melodie, entrano nel cuore i concetti delle parole. Qui Agostino amplia ulteriormente il discorso, dicendo, in altre parole, che quando l'animo è ricolmo di commozione, non un linguaggio discorsivo-razionale può esprimere il linguaggio del cuore, ma la stessa ripetizione, la cantilena, cioè il puro musicale e sonoro. Lo stesso Cristo usava parlare ripetendo Amen, per arrivare al cuore dei suoi discepoli, per confermare ed esortare, per muovere non solo il loro intelletto, ma anche la loro volontà, il loro cuore. Si ripete per manifestare la pienezza del sentimento e perché tale ripetizione sia un rafforzamento, una intensificazione del linguaggio comunicativo, volutamente al di fuori del codice logico-razionale (in fondo è il principio delle nenie che ogni madre intuitivamente canta al proprio bambino).

Vediamo così come nel giubilo l'intelletto e l'emozione entrino allo stesso titolo come parte di un unico evento di fede. La musica infatti porta il dato emotivo ad un livello simbolico attingibile dall'intelletto. La comunicazione del giubilo risuona così a tutti i sensi e coinvolge la totalità dell'essere umano (il suo corpo, i suoi affetti, la sua capacità relazionale). Qui più che il testo, è proprio la musica a definire esattamente il significato di ciò che si vuole esprimere, un significato che in nessun altro modo, se non attraverso l'esperienza di una intimità, potrebbe essere realmente percepito e che solo così può arrivare diritto nel profondo del cuore:

Il cantare -- insomma -- è più antico del parlare. Ben prima di poter parlare, l'essere umano esprime il suo stato d'animo con immagini sonore a mo' di canto. Tuttavia la musica in senso proprio non è formata da rumori amorfi, ma è un evento sonoro voluto e prodotto consapevolmente, con suoni e toni che hanno una propria legge e una propria logica. Nonostante tutta la sua razionalità, però, essa viene colta anzitutto in modo emozionale.19

Ai paragrafi 5-6 si espongono i motivi del giubilo, che nella Enarratio precedente erano rimasti solo incoativi nell'unde che il popolo conosceva, ma che non era stato esplicato. Il primo motivo del nostro giubilo -- dice Agostino -- è la grandezza di Dio, poi la sua unicità, la sua signoria, la sua misericordia, la potenza con la quale regge e guida la creazione e la storia. Motivo del giubilo è la meraviglia (46,7) per l'opera di Dio nelle sue manifestazioni lungo la storia della salvezza: si giubila per la creazione (26, I,6; 26,II,12; 94,5.9; 99,16), per la fede (26,II,13), per il mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione di Cristo: «Ho considerato il mondo che crede in Cristo e il fatto che Dio si è umiliato nel tempo per noi, con gioia l'ho lodato» (26,I,6). Ancora, si giubila per la grazia (88,I,17), per la pace cattolica (94,8), e soprattutto per la grandezza di Dio (94,6), e cioè senza motivo, gratuitamente e perciò ripetutamente, come ad esprimere la sovrabbondanza della grazia (94,5). Si giubila per la remissione dei peccati (97,4). La stessa vita eterna sarà un eterno giubilo (102,8.10.29; 148,1; 99,8.11).

L'Enarratio 97,4 rende evidente in modo ancora più esplicito la prerogativa comunicativa e relazionale del giubilo. Viene infatti nettamente respinto l'atteggiamento di silenzio (sigé), di mutismo dinanzi a Dio. A Dio si deve parlare, perché lui è l'autore della salvezza. Qui notiamo, se non una chiara polemica, almeno una netta presa di distanza dalla concezione dell'ineffabilità dell'esperienza mistica neoplatonica.

Degna di nota per la nostra analisi è anche l'Enarratio 99,1-6. Qui le caratteristiche sottolineate sono: la cattolicità (2) la necessità della comprensione, la partecipazione (3.6), la gioia e il contesto agreste (4); l'ineffabilità (5). L'esortazione a giubilare non si rivolge ad un angolo della terra o ad un piccolo raggruppamento di persone, ma poiché ovunque Dio ha sparso i semi della sua benedizione, è necessario che da tutta la terra si giubili. In secondo luogo si dice che capire cosa significhi giubilare rende beati. Il tema lo si è già incontrato precedentemente; qui si dice lo stesso in altre parole e con altre sfumature. Secondo Agostino non si deve manifestare il giubilo senza aver compreso che cosa rappresenti il giubilare, senza aver compreso che cosa sia il giubilo e da dove esso derivi.

Questo tipo di comprensione però è particolare: è la voce del cuore. Questa, da cui scaturisce il giubilo, non è di tipo deduttivo, razionale: è una comprensione più ampia e non circoscritta al solo raziocinio. È significativo che al paragrafo 6 Agostino cominci ad esprimersi in modo quasi sinestesico:20 si sente, si comprende, si gusta, si avverte (diligens cogitatione, intuere, mirare, sentire). Avvicinarsi a Dio implica una adesione del cuore al mistero della fede, una trasformazione che renda conformi alla sua immagine (si dissimilis sis, repelleris). Si fa esperienza di Dio nella misura in cui aumenta la carità, perché Dio è carità. Viene usato il verbo «persentiscere» che vuol dire «accorgersi, rendersi conto, sentire profondamente»: siamo in pieno ambito di sensi spirituali. Tuttavia fare esperienza di Dio vuol dire anche essere in dinamica, cambiare di continuo la nostra precedente immagine di Dio, accorgersi che si credeva soltanto di conoscerlo e di poterlo esprimere, di poterne parlare.

In ciò Agostino concorda con i neoplatonici, che affermavano che l'anima non può parlare e pensare logicamente della sua partecipazione alla verità, dal momento che il pensiero discorsivo utilizza i concetti l'uno dopo l'altro, secondo il processo del pensiero. Più in generale è comune l'idea che l'esperienza sensibile costituisca il punto di partenza per questo processo ad incorporalia. Ma mentre in Plotino il pensiero stesso torna alla sua origine trasformandosi in questa stessa origine («il simile conosce il simile», Porfirio, Commentario IV,25), per Agostino questa origine è Dio nella sua relazione trinitaria. Quindi egli si differenzia dai neoplatonici dal momento che per lui l'anima non ha bisogno di eclissarsi, di scomparire. Non vi è infatti un oblio della coscienza, ma come un suo «presentire». La persona quindi non si ottunde, ma resta, e proprio nel suo dire e comunicare «balbettando» manifesta una realtà più grande, ad essa rimanda e di essa così fa esperienza (come sempre più grande, sempre oltre). In questa insufficienza dell'espressione proprio l'esperienza sensibile apre all'ulteriore. L'Uno-Bene plotiniano comporta, al termine del processo, un divenire una sola cosa con esso. Essendo superata ogni distinzione tra pensiero e pensato, questo movimento in Plotino appare come una forma di autoredenzione.21 Invece la prospettiva di Agostino, anche se non può essere pensata senza le implicazioni e i debiti filosofici, è condizionata dalla Sacra Scrittura che è anzitutto il Logos, condizione di possibilità e aiuto per la salvezza.

Per questo l'avvicinarsi a Dio, o fare esperienza di lui, in Agostino include necessariamente la purificazione del cuore, cioè una vita di continua conversione (dimensione etica del giubilo), che implica la grazia, evidente nel fatto che per comprendere il giubilo si deve giubilare, ci si deve inserire in esso: «Ma come dovrei lodare? Obbietterai. Non so esprimere nemmeno quel poco che ho potuto comprendere nella mia cognizione parziale, ottenuta per via di immagini e con lo specchio. Ebbene ascolta il salmo. Comprenderai il giubilo di tutta la terra se tu stesso giubili al Signore» (99,5). Si tratta non solo di ascoltare la parola, ma di eseguirla, tramite un continuo processo di conversione della propria vita.

L'Enarratio 150,8 ci offre un ultimo importante elemento. Crediamo di ritrovare qui (siamo alla fine di tutta l'opera del commento ai salmi) l'identificazione dello iubilus con quella logiké thysía di filosofica memoria. Infatti i connotati del giubilo sono gli stessi che avrebbe dovuto avere quel culto spirituale: «iubilatio namque, id est ineffabilis laus, nonnisi ab anima proficiscitur». Poco sopra Agostino aveva affermato che «tria est genera sonorum: voce, flatu, pulsu», quindi la voce umana come strumento, il coro come l'espressione di questa voce (vox est in choro). Quasi alla ricerca di vestigia di triadi, egli propone parallelismi secondo i quali la voce corrisponderebbe alla mente, lo strumento a fiato allo spirito e quello a percussione al corpo («vox est in choro, flatus in tuba, pulsus in cithara; tamquam mens, spiritus, corpus»). Si fa inoltre riferimento alla lode che il cristiano, prim'ancora di fare, è nella sua stessa persona («in quibus ut Deum laudent nisi in seipsis?»), e alla lode eterna («nihil transitorium ... cogitetur»); infine Agostino ricorda quel sacrificio ragionevole che per il tramite di Paolo (Rm 12,1) diventa per lui, nella versione latina, la lode spirituale («et quia secundum carnem mors est: Omnis spiritus laudet Dominus»). L'immensum opus non può che concludersi nella preghiera stessa ad Dominum Deum Patrem ... per Iesum Christum ... in unitate Spiritus Sancti Deus.

Il risultato fondamentale della nostra ricerca si concentra dunque qui: abbiamo dimostrato che, conferendo allo iubilus il connotato che nella tradizione filosofica era proprio del vero culto, Agostino fa entrare a pieno titolo nel culto la musica, a seguito del canto, tramite una nozione tutta nuova e tutta cristiana: quella del rapporto con la divinità che si manifesta nella preghiera e nell'adorazione contemplativa.

2.3. La distanza di Agostino dal neoplatonismo

È dunque ora opportuno precisare in che cosa consista esattamente la presa di distanza di Agostino dal neoplatonismo. La verità in Agostino è una persona, Gesù Cristo, il Verbo di Dio. È questo il fondamento di ogni differenza tra le teorie agostiniane e quelle neoplatoniche sull'esperienza di Dio. Questo Verbo è anche la forza da cui deriva all'uomo la possibilità di espressione, perché esso è rivelazione per eccellenza, fino alla consustanzialità della vita, del Padre. Così lo iubilus trova la sua condizione di possibilità sulla base della partecipazione dell'anima alla Parola:

Dio è l'unico ineffabile, colui che disse una parola e tutto fu creato. Disse una parola e fummo creati noi; ma se noi proviamo a parlare di lui, ne siamo incapaci. La parola mediante la quale noi fummo detti è il suo Figlio: quel Figlio il quale si rese debole come noi, affinché noi deboli riuscissimo in qualche modo a parlarne. Alla parola di Dio noi possiamo rispondere col giubilo; ma non abbiamo parola che corrisponda a quella parola (Enarratio 99,6).

Riteniamo che il passo in questione sia il più importante per una teologia del canto. È opportuno confrontarlo con un testo di Porfirio:

... Resterà così solo da comprenderlo senza comprensione e pensarlo senza pensiero; grazie a questo esercizio potrai un giorno, se ti soffermerai sulle cose che attraverso di lui sono costituite, raggiungere l'indicibile prenozione che di lui possiamo avere, che è rappresentata dal silenzio, senza che si sappia ciò che tace, senza che abbia conoscenza di ciò che riflette, in una parola, senza che essa si renda conto di ciò che sia; essa, che è solo un'immagine dell'Indicibile, poiché l'Indicibile in maniera indicibile e non l'indicibile in quanto conosciuto, se riesci a comprendere questo, come posso dire, in modo immaginativo. Ma noi stessi attraverso Lui diveniamo misericordiosi nei nostri confronti, per essere elevati alla passione estatica verso quest'oggetto degno d'amore che peer ora non conosciamo, ma che conosceremo un giorno, quando saremo degni di concepire in qualche modo l'inconcepibile (Commentario al Parmenide di Platone II,14-31).

Basterà ricordare le osservazioni precedenti per constatare evidenti corrispondenze, ma le differenze sono maggiori. Lo iubilus agostiniano si addice solo a Dio, l'unico ineffabile. Dio però crea tramite la sua Parola, in modo che noi risultiamo creati in quanto detti. Noi siamo parola di Dio, fermo restando che «aliud est Verbum in carne, aliud Verbum caro. Aliud est Verbum in homine, aliud Verbum homo» (De Trinitate II,6,11). Rimandiamo al De Trinitate dunque per il tema della distinzione del Verbo del Padre dal verbo interiore. Quest'ultimo, secondo Agostino, non solo è soggetto all'errore perché non è sostanziale, ma anche quando vedremo Dio faccia a faccia e il nostro verbo sarà partecipe della vita divina, la sua somiglianza con il Verbo sarà sempre una somiglianza dissimile (Ep. 169,6), perché sempre il nostro resterà verbo formato e mai pura forma, come invece è il Verbo eterno del Padre (De Trinitate 15,14,24-16,26), tanto che il nostro linguaggio lì sarà una laus.

L'uomo non sarebbe in grado di essere adeguata parola di Dio, di esprimersi cor-rispondendo a Dio (a causa del peccato originale). Cristo però, mediatore della creazione e della redenzione, ci mette in condizione di dire questa parola: «La vera parola su Dio è in realtà la Parola di Dio che inonda quella parola».22 Cristo è la condizione di possibilità della significanza della nostra parola, del nostro dire Dio in modo efficace, di una iniziativa pro-creativa del linguaggio dell'uomo sulla realtà.

Forse, prima di Agostino, solo in Gregorio di Nazianzo si trova una teorizzazione altrettanto profonda della necessità della parola dell'uomo contro il silenzio, il quale pure è altissima espressione della profondità divina, e anche in Gregorio la motivazione è cristologica. Piuttosto che il silenzio, questi grandi padri preferiscono un modo diverso di parlare: Cristo è Logos. Gregorio di Nazianzo preferirà la poesia, Agostino riflette sullo iubilus: si tratta di una sorta di verbum breviatum, tuttavia il luogo di una vera teo-logia. Così tutto ciò che possiamo dire di Dio si presenta anche come risposta, che implica l'essere inseriti in un dialogo personale. Chi giubila emette suoni indicanti letizia. Il giubilo esprime un affectus, una adesione profonda che dice il carattere personale di questa esperienza, la quale è quindi esperienza di un rapporto. È questo un altro punto, molto evidente, della polemica o della distanza tra Agostino e i neoplatonici.

Il mistero di cui Agostino parla non è il mistero dei filosofi o degli iniziati delle religioni dei misteri, ma sempre e solo il mistero della fede. Così anche l'ineffabile che lo iubilus esprime non è la neoplatonica assenza di parola, ma una ineffabilità che è sovrabbondanza di parola. Questa caratteristica assieme negativa e positiva riferita a Dio deriva forse dalle concezioni di Porfiriane che abbiamo prima esposto, ma mentre per Porfirio «la conoscenza coincide con sé stessa ... perché questa conoscenza è l'Uno che è al di là di ogni oggetto conosciuto o ignorato e al di là di ogni soggetto che giunge a conoscenza» (Commentario V,34; VI,10-12), in Agostino la conoscenza di Dio è possibile e prevede un soggetto non eliminabile. Oltre il salmo e oltre il canto, per il cristiano non c'è il silenzio mistico né un assorbimento nella divinità in cui la coscienza umana è nientificata, ma ancora e sempre una relazione dialogica, mediata. Iubilus è una parola che non può non comunicare il mistero (perché partecipa alla Parola rivelativa del Padre), eppure può solo farlo nell'affermazione del suo limite.

Al contrario di quanto accadeva in Plotino, perciò, l'ineffabilità in Agostino non è il contrario della parola, ma ancora un elemento di espressione di essa. Una parola che si denuncia parola finita, limitata, parziale, eppure verace nell'additare l'orizzonte divino. Agostino non rinuncia al linguaggio né alla conoscenza di Dio, per quanto sa che parola e mente umane siano soggette al limite. Viceversa Porfirio afferma:

Coloro che nella conoscenza di Dio dicono piuttosto quello che egli non è, sono migliori di coloro che dicono quello che egli è, anche se quello che dicono è vero, perché non sono nella condizione di capire quello che dicono; ... bisogna infatti rinunciare a queste formule e alla possibilità stessa di comprendere Dio (Commentario IX,29-30; X,2-4).

L'ek-stasi del cristiano è quella della gioia del messaggio inaudito che spezza i confini della parola stessa quando vuole comunicarsi. Per questo essa è intrinsecamente liturgica. Il venir meno della parola o il suo trascendimento nello iubilus manifesta una profonda differenza dal silenzio dei filosofi per i quali esso aveva un valore in sé: era il venir meno della parola perché veniva meno ogni dualità, ogni processo dialogico, a causa del ritorno fusionale all'Uno-Bene che l'anima raggiungeva, superando il molteplice. Nel cristianesimo il silenzio non ha valore in sé. L'idea stessa che troviamo nelle Enarrationes sul silenzio chiarisce questo punto. Dall'interpretazione del nome «Cusi», tramite la spiegazione tipologica, Agostino afferma che l'anima perfetta canta perché ha meritato di conoscere il mistero del silenzio (questo sarebbe il significato di «Cusi»). Questo silenzio non è però un silenzio muto (Enarratio 146,2), ma il silenzio denso di significato, nel quale il Signore avvolse il mistero della sua passione, convertendo il delitto volontario nel piano della sua misericordia.

È lo stesso mistero della salvezza di Israele che passa attraverso la sua cecità e per il quale l'apostolo esclama preso da stupefatta ammirazione: «O abisso delle ricchezze!...» (Rm 11,33). C'è dunque una sorta di sacro orrore, di meraviglia che fa cantare, una gioia e una esultanza per la conoscenza di questo mistero (del resto spesso il termine canto è usato da Agostino come l'esatto contrario di pianto: 29,II,15; 145,1 e altrove). È il silenzio dello stupore e del senso, non quello del vuoto e del nulla. Il silenzio per Agostino non è espressione di una unione mistica ma «quel profondissimo segreto per il quale si è verificata la cecità di una parte di Israele» (Enarratio 7,1) mistero di una separazione e non di unione. Esso inoltre riguarda Cristo soltanto, il suo mistero. Tale mistero è inspiegabile:

Riferendosi a questo segreto profondo e a questo alto silenzio, l'apostolo come colpito da una sorta di sacro orrore per la sua stessa profondità esclama: O abisso delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio, quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e investigabili le sue vie! ... In tal modo non rivela, spiegandolo questo grande silenzio, ma piuttosto lo mostra alla nostra ammirazione.

Il silenzio propriamente detto appartiene dunque solo a Cristo. L'apostolo e la chiesa non possono spiegare il mistero, tuttavia possono parteciparne e comunicare lo stupore. Questa partecipazione e comunicazione è il grido di esclamazione. Infatti «canta il salmo al Signore l'anima perfetta che è già degna di conoscere il segreto di Dio. Canta a causa delle parole di Cusi, perché ha meritato di conoscere le parole di quel silenzio». Non il silenzio, quindi ma le parole del silenzio, come precisa in seguito Agostino: «Per gli infedeli e i persecutori (esperienza di separazione) esso è silenzio e segreto, ma presso i suoi ... non c'è il silenzio ma le parole del silenzio, cioè il chiaro e manifesto significato di quel silenzio». Il termine ultimo di partecipazione resta dunque la parola con la sua valenza partecipativa: «non doveva restar nascosto ai santi ciò che è stato compiuto a loro favore ... In questa profezia canta dunque l'anima perfetta cui quel mistero è stato reso noto, a causa delle parole di Cusi, cioè a causa della conoscenza di quel medesimo mistero» (Enarratio 7,1).

Il mistero si partecipa pur non cessando di restare tale, in un gioco di donazione e sottrazione, ri-velandosi, offerto e comunicato però nel giubilo alla nostra ammirazione e alla nostra gioia. Un mistero non esoterico, che anzi si manifesta ai piccoli e che chiama tutti al canto di lode, come si dice nella Enarratio 103,4: «Quel che risuona nel salmo contiene certamente un grande mistero eppure risuona in modo che riesce gradito ai fanciulli e fa accostare a bere gli incolti e tutti quando si sono dissetati prorompono nel canto di lode». L'Enarratio 102,8 ci presenta proprio questo requisito del giubilo che è l'impossibilità del silenzio. Se è infatti impossibile dire Dio, spiegare quale grande bontà egli sia, tuttavia il nostro affectus non viene meno come le parole, e questo affectus va manifestato. Se non possiamo spiegare quanto grande sia Dio, quale bene egli sia con esattezza, pur non potendo dirlo non ci è consentito (non permittitur) tacerlo. Quando non dobbiamo tacerlo né possiamo dirlo, allora bisogna giubilare, effondere a lui tutta la nostra gioia: «L'esperienza dell'ineffabilità di Dio non riduce al silenzio le anime riconoscenti, piuttosto le spinge all'espressione di iubilatio, cui ci invita il salmista».23

Anche tutta la Enarratio 103,18 è dedicata a questo motivo: quale può essere il parlare dell'uomo davanti a Dio? si chiede Agostino. Si tratta di un vero dialogo, di un parlare responsoriale (mutua disputatio): infatti egli ha detto il suo Verbo. Di qui vediamo ancora una volta come lo iubilus sia connesso con una vera e propria teo-logia. In fondo la filosofia neoplatonica dichiara una in-differenza tra uomo e Dio e quindi un semplice ritorno ad una situazione originaria. Agostino invece (il teologo del peccato originale!) ha chiara la differenza tra Parola di Dio e parola dell'uomo. La Parola di Dio però implica un ritorno a sé («Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero», Is 55,11), è creatrice di possibilità di dialogo, crea responsorialità. Ci viene presentata così un'antropologia di stampo biblico, che contempla un uomo fatto per il dialogo, la cui stessa struttura antropologica risulta relazionale.

Nel giubilo il corpo da una parte esprime la necessità di autotrascendersi (spezzare le sillabe) dall'altra resta come orizzonte trascendentale tramite il quale solo l'uomo può dire qualcosa di e a Dio partecipando così della sua Parola. Il corpo sta sempre lì come limite, perché costringe l'anima ad effondere la sua gioia più di quanto non possa spiegare, ma è anche la condizione di possibilità (la pura voce) dell'espressione dello spirituale. Anche in questo notiamo una differenza con il neoplatonismo, per il quale il corpo era solo carcere e l'esperienza della divinità spettava alla sola anima.

Affresco di donna con il capo velato e lo sguardo rivolto in alto

Catacombe di Trasone (4º sec.), Orante. Pur non sviluppando forme e tecniche radicalmente diverse da quelle greco-romane, la prima arte cristiana comincia a piegarne i moduli figurativi ad esigenze sue proprie. Casi tipici si trovano nell'arte catacombale: per esempio le immagini del banchetto di un defunto, che collegano con i simboli eucaristici un modulo espressivo diffuso in tutta l'antichità, e le raffigurazioni degli «oranti», nella tipica posizione eretta con le braccia spalancate. Qui si giunge rapidamente ad usare la tecnica ritrattistica per conferire precisi tratti individuali alle immagini: nella perfetta comunione con Dio, simboleggiata da una eterna preghiera, la propria personalità non risulta annullata, ma confermata in uno sguardo aperto e sereno.

3. Teologia del canto ed esperienza cristiana

Finora abbiamo insistito molto sulla differenza tra silenzio estatico neoplatonico e iubilus agostiniano, perché pensiamo che essa possa chiarire le connotazioni proprie dell'esperienza di fede cristiana. Le caratteristiche dello iubilus ci portano infatti a comprendere più a fondo la dinamica della fede e della sua espressione, e in questa prospettiva esso appare il vertice di una teologia cristiana del canto.

Il canto, come abbiamo visto, è il vertice di una esperienza umana della parola. Il giubilo come punto estremo di questa tensione del canto, abbandonando il normale codice linguistico ancor più di quanto già accadeva nel canto, esprime ancora meglio l'esperienza della fede. L'incarnazione di Cristo, Verbo di Dio, e il mistero della rivelazione sono la condizione di questo silenzio che parla e di questa parola impronunziabile. Il giubilo inizia sul testo della Bibbia: Agostino parla dello iubilus solo quando il testo che commenta esorta a giubilare. Questo rimanda ad una sua idea fondamentale, il cosiddetto initium fidei, secondo cui la Bibbia con il suo linguaggio semplice aiuta il credente ad elevarsi gradualmente verso Dio. Coloro che desiderano pervenire alla conoscenza della gloria iniziano dalla fede nelle Scritture, ma la gloria s'innalza sopra le Scritture stesse, in quanto trascende e supera le espressioni di ogni parola e di ogni linguaggio (Enarratio 8,8). Nello iubilus non si tratta di parole che ammutoliscono nella Parola,24 ma della parola che cede il passo ad una forma di comunicazione più grande. Il giubilo rivela l'importanza della mediazione scritturistica, perché è sempre in obbedienza alla auctoritas della parola di un salmo che siamo esortati dal vescovo a giubilare, a parlare il linguaggio della rivelazione, della Parola fatta carne, fatta voce. La Parola di Dio si autorivela usando un linguaggio suo, quello della Sacra Scrittura. Il culmine dell'attività dell'ermeneuta cristiano perciò diventa capire l'essenza della Sacra Scrittura nella sua natura di Verbo del Padre, che sfocia nella comprensione dell'amore di Dio. Solo dalla Scrittura perciò traiamo il modo di lodare Dio adeguatamente. L'ineffabile del giubilo è in rapporto alla Parola stessa e quindi alla mediazione della Bibbia. Per Agostino il Verbo di Dio che si sviluppa e risuona in tutta la Sacra Scrittura è un «unico discorso di Dio che non conosce sillabazione» perché è quel Verbo che era in principio presso Dio, fuori del tempo. Ma questo Verbo a motivo della nostra debolezza si è «abbassato ad articolare le nostre parole», assumendo la fragilità stessa del nostro corpo. A partire dal mistero dell'incarnazione, perciò, il sensibile, in quanto assunto da Dio, è ormai in grado di rimandare a Dio proprio a partire da ciò che è, è fatto insomma capax Dei.

Abbiamo visto come la conoscenza sia parte costitutiva di questo evento canoro: lo iubilus è quasi un comprendere prima del linguaggio. È infatti beato il popolo che sa giubilare, che conosce il senso del suo giubilo. Canta l'anima che ha meritato di conoscere il senso, le parole di questo silenzio insito nello iubilus. Il Signore nasconde in questo silenzio il mistero della sua passione e così conoscenza è quella del mistero di Cristo. La concezione di questo mistero della fede partorisce una parola paradossale. Siamo davanti ad un altro elemento basilare della teologia agostiniana. In tutto il percorso della fede, infatti, la ragione per Agostino non è mai del tutto separata dalla fede. Lo iubilus è una sorta anch'esso di intellectus fidei.

Anche il carattere comunitario e relazionale è emerso nelle nostre analisi. Rivalutando il linguaggio comunicativo e il corpo come elemento positivo, nello iubilus la lode esplicita la sua valenza ecclesiale. Questo tratto comunionale è liturgico sotto diversi punti di vista, esso è il sacrificium laudis che quando assumesse il valore di logiké thysía implicherebbe anche una valenza estatica: estasi della gioia (la gioia incontenibile del credente), estasi della parola (la parola stessa dice al di là del suo dire). Non è estasi nella sempre ritornante tentazione non-cristiana della fusione in Dio, della negazione del limite, dell'annullamento di uno dei poli della relazione, silenzio mistico dell'unione e fusione con la divinità, la quale essendo Uno non ammette dualità, né reciprocità. Si tratta invece della esaltazione della limitatezza che Cristo ha amato e ha assunto, della esaltazione di una relazione che resta tale, anche se tra due assolutamente impari, perché Dio è colui che dà tutto. Resta estasi liturgico-comunitaria perché sempre e solo espansiva, diffusiva, comunicante, mai qualcosa di privato. L'esperienza dei misteri della fede cristiana porta il segno di una indicibile gioia che deve comunicarsi oltre il limite delle sillabe. Nello iubilus l'uomo, non avendo una parola adeguata per rispondere alla Parola che Dio ha dato agli uomini in Cristo, può lodare in un modo in cui la corporeità riesca finalmente ad esprimere adeguatamente la sua interiorità. Può farlo in obbedienza alla parola biblica, invitando gli altri a rendere lode a Dio insieme a lui, partecipando così a quella lode eterna che già ora tutto il cosmo canta (Enarratio 6,11).

Infine c'è una dimensione etica dello iubilus: dall'invito alla ripetizione del canto che tende a muovere gli affetti e la volontà, siamo ricondotti e invitati alla conversione che sempre resterà per l'uomo un compito mai totalmente realizzato. Per poterlo pensare dobbiamo essere attratti vicino a lui, in una purificazione morale che si attua grazie al progresso nella carità.

Vogliamo concludere questa analisi osservando come i connotati dell'esperienza espressa dallo iubilus mostrano molti paralleli con quelli dell'esperienza mistica dell'estasi di Ostia (Confessioni IX,10,26), unanimemente ritenuto il paradigma delle concezioni mistiche di Agostino.25 I temi fondamentali dell'esperienza mistica agostiniana implicano innanzitutto la concezione dell'ascesa dell'anima (anábasis) dalla considerazione della bellezza dell'universo (Enarrationes 26, I,6; 26,II,12; 94,5.9; 99,16), che però non ci rende capaci di parlare adeguatamente di lui, poi il movimento interiore verso la profondità dell'anima, cercando di pensarlo nella nostra mente, e infine la visione di Dio che implica un avvicinarsi a lui con l'amore e nella carità («preambulavimus gradatim cuncta corporalia ... et adhuc ascendebamus interius cogitando ... et venimus in mentes nostras et trascendimus eas»). Questa concezione, simile sotto un certo verso all'itinerario mistico plotiniano, è però legata ineludibilmente a contenuti scritturistici, cristologici ed ecclesiali. La caratteristica della mistica agostiniana è la sua fondazione nella persona di Cristo e il ruolo imprescindibile della Chiesa nel godimento di questa esperienza, caratteristiche tutte costituitive anche dello iubilus.

  1. Come l'esperienza di Ostia, l'esperienza mistica agostiniana è condivisibile anche con illetterati quale Monica o con i rappresentanti del popolo di Dio radunato nelle celebrazioni. Il carattere dell'uditorio dice che le Enarrationes non sono certo indirizzate ad una élite spirituale. Il vescovo mostra qui la sua fiducia che l'esperienza della contemplazione può essere di tutti i cristiani, non solo di pochi. Per lui tutti debbono aspirare alla contemplazione (Ep. 120,1,4).

  2. Agostino per descrivere l'esperienza di Ostia ricorre a simboli visivi, ma ancor più uditivi («si cui sileat tumultus carnis ... et ipsa anima sileat ... ut audiamus verbum eius», IX,10,26), con il ritorno alle parole umane dal Verbo silenzioso di Dio (Confessioni IX,10,26). Il racconto dell'estasi di Ostia è pervaso dal linguaggio dell'affettività («erigentes nos ardentiore affectu in idipsum ... attingemus eum modice toto ictu cordis»). Ritroviamo nell'episodio di Ostia l'esperienza sinestesica della presenza di Dio («vocasti et clamasti et rupisti sorditatem meam. Corucasti, splenduisti et fugasti caecitatem meam. Fregasti et duxi spiritum et anhelo tibi. Gustavi et esurio et sitio. Tetigisti me, exarsi in pacem tuam»).

  3. L'esperienza mistica di Ostia ha un accentuato carattere noetico: la visio non è mai staccata dalla conoscenza (ictus cordis e rapida cogitatio).

  4. Infine il concetto di vedere Dio invisibilmente è stato spesso assunto come chiave di lettura per spiegare alcuni aspetti della mistica agostiniana: nello iubilus abbiamo il concetto complementare di dire Dio indicibilmente.

Lungi dall'aver sviluppato tutte le implicazioni delle analisi svolte, possiamo tuttavia concludere che Agostino puntualizza e dilata il concetto di iubilus come mai era ancora avvenuto prima di lui, rilevando una dimensione di esso inesplorata: il paradosso del dire l'ineffabile. Tale paradosso si apre in due direzioni diverse: da una parte verso un chiarimento dei connotati della mistica e dell'esperienza cristiana, dall'altra verso una emancipazione della musica. Entrambe queste direzioni saranno ricche di avvenire.

[Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in Mneme il 30 novembre 1999.]

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Note

  1. Vedi Confessioni IX,29,40; X,33,49-50; XI,28,38; Ep. 138,1,5; 166,5,13; De ordine 2,11, 33-34; 2,14,40-15,43; De Trinitate 11,8,14; 15,7,13. Vedi A. Johnston, «Time as a Psalm in St. Augustine», Animus, vol. I (1996), http://www.mun.ca/animus/1996vol1/johnston.htm, come anche A. Solignac, Le livre X des Confessions (Lectio Augustini 4), Palermo 1987, pp. 9-34 (in particolare p. 28). Testo

  2. H.-I. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1987, pp. 469-472. Testo

  3. S. Corbin, La musica cristiana dalle origini al gregoriano, Milano 1987, p. 30. Testo

  4. La musica cristiana, cit. alla nt. 3, p. 155 Testo

  5. S. Agostino, cit. alla nt. 2, pp. 237-238 Testo

  6. Su questo argomento non ci risulta alcuna indagine monografica recente. Lo studio più completo e documentato è di E.T. Moneta Caglio, «Lo Iubilus e le origini della Salmodia Responsoriale», Jucunda Laudatio, anno 1976-77, pp. 5-17, ora in P. Ernetti, Principi filosofici e teologici della musica, Roma 1980, pp. 360-373, da cui citiamo. In questo paragrafo riprendiamo alcuni apporti di questa ricerca, riservandoci tuttavia alcune critiche e poponendo nuovi approfondimenti. Testo

  7. Ernetti, Principi, cit. alla nt. 6, p. 368. Testo

  8. E. Fubini, Estetica della musica, Milano 1995, p. 64. Testo

  9. T. Gérold, Les Pères de l'Église et la musique, Paris 1931, pp. 60-61. Testo

  10. Vedi S. Lilla, «La teologia negativa dal pensiero greco classico a quello patristico e bizantino», Helikon, vol. XXII-XXVII (1982-1987), pp. 211-279; tra i motivi in cui la teologia negativa trova espressione uno (il punto n. 17 per l'autore) riguarda «l'ineffabile e privo di nomi in quanto superiore ad ogni discorso» (p. 213). I passi in cui Filone parla dell'ineffabilità di Dio sono citati a p. 238 (il termine che ricorre è árreton). Testo

  11. Enneadi I,3,1. Che Agostino si avvicini molto alla posizione di Plotino su questo argomento lo conferma Marrou: «Quanto a Plotino, la sua posizione è curiosamente analoga a quella di Agostino: come lui ha finissima sensibilità artistica che non si è sottratta al fascino della musica artistica; come Agostino prende volentieri esempi o metafore da essa; tuttavia non raccomanda di praticarla più di quanto Agostino non faccia" (S. Agostino, p. 188 nota 96). Per il silenzio e i filosofi rimandiamo allo studio di O. Casel, De philosophorum graecorum silentio mystico, Töpelmann 1919. Testo

  12. Afferma Giamblico: «Anzitutto (Dio) nel culto non si celebra che in silenzio (diá sigés monés)» (I misteri d'Egitto 8,3). Proclo situa il Principio primo al di là di tutte le conoscenze; noi non possiamo attendere che per mezzo dell'amore e della fede, nel silenzio: «Che cosa ci unisce alla bontà se non l'amore? Infatti non è per una intellezione né generalmente per una giudizio che si produce l'iniziazione, ma per mezzo di un silenzio unitario e superiore a tutte le operazioni di conoscenza silenzio che la legge ci dona installando non solamente nell'anima universale, ma anche dentro di noi l'ineffabile e l'inconoscibile di Dio» (Teologia platonica IV,9). vedi inoltre Gèrold, Les Péres, cit. alla nt. 9, pp. 70-71; Casel, De philosophorum, cit. alla nt. 11, pp. 125-127. Testo

  13. W. Beierwaltes, Plotino. Un cammino di liberazione verso l'interiorità, lo Spirito e l'Uno, Milano 1990, p. 67. Testo

  14. Vedi Beierwaltes, Plotino, cit. alla nt. 13, 69-70; P. Hadot, introduzione a Porfirio, Commentario al Parmenide di Platone, Milano 1993. Testo

  15. Vedi S. Lilla, «The Neoplatonic Hypostases and the Christian Trinity», Studies in Plato and Platonic Tradition. Essays in Honour of J. Whittaker, Aldershat 1997, pp. 127-189 (in particolare pp. 148-160). Testo

  16. Vedi J. Quasten, Musik und Gesang in den Kulten der heidnischen Antike und christlichen Frühzeit, Münster 1930, pp. 67-77. Testo

  17. «Tale est nescio quid quod vidi in ecstasi, ut inde sentiam quam longe sum, qui nondum ibi sum. Iam ibi erat qui dixit assumtum se in tertium caelum, et ibi audiebat ineffabilia verba, quae non licet homini loqui.» Testo

  18. Marrou, S. Agostino, cit. alla nt. 2, p. 184. Testo

  19. M. Kunzler, La liturgia della chiesa, Milano 1998, p. 185. Testo

  20. «Agostino non ha mai pensato che la nostra esperienza immediata di Dio in questa vita potesse venire espressa con chiarezza. Tutte le immagini di cui fa uso, relative alla vista o agli altri sensi spirituali, sono finalizzate a suggerire l'inesprimibile, non a circoscriverlo. ... Senza arrivare ad enunciare una teoria formale dei sensi spirituali dell'anima, come invece avevano fatto Origene e altri autori orientali, la sua enfasi su di una forma di sinestesia, capace di veicolare l'ineffabile ricchezza della consapevolezza della presenza divina, segna un momento importante nella storia della mistica occidentale» (B. McGinn, Storia della mistica cristiana in occidente, vol. I, pp. 343-344). Testo

  21. «Questo principio supremo non può essere pensato come tale, ma solo come è in-noi, cioè come il fondamento dell'unità del nostro pensiero, che opera nel pensiero la sua unità con se stesso ed è presupposto di una esperienza non-più-pensante dell'Uno stesso, cioè di una ekstasis del pensiero» (Beierwaltes, Plotino, cit. alla nt. 13, p. 83). Porfirio afferma nella Lettera a Marcella: «... convinta di avere in te ciò che salva e ciò che è salvato» (9). Testo

  22. L.F. Pizzolato, Il libro I delle Confessiones (Lectio Augustini 1), Palermo 1990, p. 21. Testo

  23. McGinn, Storia della mistica, cit. alla nt. 20, p. 326. Testo

  24. Contro l'interpretazione di H.U. von Balthasar, Verbum Caro, Brescia 1970, p. 149. Testo

  25. Per queste analisi vedi McGinn, Storia della mistica, cit. alla nt. 20, pp. 317-320. Testo