L’«atto di esistere» e la «filosofia dell’essere». Edith Stein e Jacques Maritain

1. Introduzione

Tentando questo accostamento siamo perfettamente consapevoli di non dire in via di principio nulla di nuovo. Maritain non può di certo venire considerato uno dei punti di riferimento filosofici della Stein. Ma comunque entrambi rientrano a pieno diritto (anche se in modi spesso molto diversi) nel contesto della «filosofia cristiana» del XX secolo. Inoltre essi condivisero non poche idee ed infine ebbero dei rapporti reali e ben documentati.1 Il nostro intento non è quindi né quello di tentare un’approssimazione tra le visioni filosofiche dei due pensatori né quello di aggiungere ulteriori elementi agli studi che sono stati già condotti sui vari generi di relazioni esistenti tra di essi.2 Nostro intento è invece semmai quello di mostrare quel certo parallelismo nella differenza (a volte generico e vago ed altre volte ben più specifico) che è sussistito – specie sul piano storico-filosofico e culturale – tra due pensatori moderni fortemente accomunati nel loro progetto filosofico da due aspetti tra loro intimamente interconnessi: – 1) l’intenzione di perseguire la strada della «filosofia dell’essere»; 2) la messa in discussione della legittimità degli ostacoli frapposti a quest’ultima da parte dell’intera filosofia moderna. Una volta precisato questo, riteniamo però che nel pensiero di Maritain emergano anche elementi capaci di farci osservare (e perfino valutare criticamente) a posteriori e con un certo distacco (precisamente a partire dalla visione del pensatore francese) l’effettiva completezza e coerenza del progetto steiniano di restaurazione di una filosofia dell’essere. Nei nostri precedenti studi sulla pensatrice eravamo infatti giunti alla conclusione che l’incontro con l’«essere» (specie nella sua pienezza divino-trascendente) divenne per lei, da un certo momento in poi, il vero e proprio più intimo centro orbitale del suo intero pensiero. Ci sembra quindi plausibile aspettarsi che il progetto onto-metafisico steiniano – a prescindere dai suoi addentellati platonici (che abbiamo esaminato a parte)3 – possa (e forse debba) venire misurato sul metro della pienezza assoluta che senz’ombra di dubbio è costituita dall’onto- metafisica filosofico-cristiana sviluppata da Maritain. E diremmo che qui non si tratta di una pienezza che sta direttamente in relazione con la scelta di campo tomista (e quindi anti-platonica), ma piuttosto molto più con la particolare lettura dell’esistenzialismo incardinato nella filosofia dell’essere, che il pensatore dedusse dalla riattualizzazione dell’Aquinate. Si tratta insomma di quell’esistenzialismo che Maritain non esitò a definire «cristiano», laddove invece (forse significativamente) né l’uno né l’altro termine ricorrono con la stessa nettezza entro la visione steiniana. Gli elementi che cercheremo di porre in evidenza sono sia di tipo dottrinario che di tipo storico- filosofico. Essi sono ovviamente tutti incentrati intorno ai temi steiniani che sono più prossimi al genere di filosofia cristiana che Maritain propose facendo appello molto direttamente a Tommaso – relazione tra essere ed esistenza e relazione tra essenza ed esistenza, valore e ruolo della persona quale esistente, visione teocentrica dell’uomo, etica, dottrina della volontà, della libertà e della Grazia etc. Tuttavia per ciò che abbiamo poc’anzi precisato a proposito dell’esistenzialismo, si può dire che ognuno di questi elementi ruoti intorno ad un elemento specifico che assume un ruolo davvero centrale nel genere di visione implicato dalla serie di aspetti appena elencati, e cioè in particolare il concetto di «atto di esistere». Proprio tale concetto (una volta sviluppato nella sua più radicale pienezza) contrassegna infatti in Maritain ciò che davvero può per lui venire considerato come una «filosofia dell’essere». Ebbene, se tale elemento che si delinea chiaramente ed in maniera costante anche nella visione steiniana,4 intanto però solo presso il pensatore francese esso conosce una trattazione diretta, decisa, netta ed esauriente. Ma ciò avviene perché la trattazione del tema è sbilanciata in modo chiaro verso una presa di posizione davvero critica verso quell’essenzialismo idealista che invece costituì di fatto il nucleo stesso della visione dell’altra pensatrice.

Ecco allora che l’osservazione della visione onto-metafisica steiniana, a partire dal punto di vista di quella di Maritain, sembra poter aprire un deciso squarcio negli studi critici che ancora oggi cercano di dare un volto all’intero pensiero della Stein. Tale osservazione pone infatti in evidenza, entro la complessiva visione steiniana, una serie di aspetti problematici che a prima vista possono anche non emergere. E ciò sta in relazione con una serie di originalità di pensiero che però in qualche modo (cioè dal particolare punto di vista della piena filosofia dell’essere) possono venire considerate anche delle contraddizioni se non addirittura delle deficienze. La Stein, infatti, è e resta una fenomenologa, e quindi conserva per questo anche una presa di posizione di fondo che rimane in linea con il sostanziale idealismo e gnoseologismo epistemologista dell’intero pensiero moderno. E per di più (come vedremo nelle conclusioni) in tale presa di posizione gioca un ruolo anche un certo qual tendenziale platonismo. Sebbene (nel contesto della sua onto-metafisica) esso si lasci in definitiva ricondurre a quel «realismo delle idee» scotista (vedi nota 4) che sembra portare a maturazione (anche alla luce della complessiva visione tomista) il tendenziale significato realista che la pensatrice fin dall’inizio aveva attribuito al progetto husserliano riassunto dal motto «zur Sache selbst».

Ma sta di fatto che è proprio in relazione a ciò che nel suo pensiero si delinea continuamente il riferimento all’«atto di esistere» – e precisamente nella forma specifica di idea-essenza incarnata, e quindi di esistente. Pertanto la decisiva illuminazione – che indirizzò verso l’onto-metafisica cristiano-tomista la sua intera visione, e cioè quella dell’equivalenza intimissima tra «essere» e «verità» (in Dio) – finì senz’altro per trovare l’ago della bilancia esattamente nella presenza concettuale dell’«atto di esistere» stesso. Quest’ultimo però fa continuamente capolino nella sua riflessione, senza intanto mai assumere la densità e lo spessore che esso invece ebbe in Maritain. Si può quindi dire che è solo leggendo Maritain che si giunge a comprendere il reale peso e ruolo che tale concetto ebbe nella visione steiniana – un peso ed un ruolo in fondo inferiori a quelli che invece avrebbero potuto esserci (qualora la pensatrice si fosse data ad una prospettiva come quella maritainiana). Entro tale visione, allora, l’atto di esistere finisce per presentari in una maniera sorprendentemente secondaria e incidentale per una concezione filosofico-metafisica che intanto aspira fortemente costituire senz’altro una «filosofia dell’essere». Tuttavia è ben noto che tale intenzione comparve presso la Stein come costantemente condizionata dal principale tratto distintivo del suo progetto filosofico, ossia quella convergenza di «essere» e «verità» – la quale poi si presenta nell’intento specifico di conciliare Husserl e Tommaso nel contesto di una sostanziale Erkenntnistheorie, sebbene tutt’altro che priva di un tangibile risvolto onto-metafisico. E questa complessiva visione mantiene fatalmente una relazione intimissima con quella «filosofia delle essenze» (coincidente almeno in parte con il tradizionale idealismo filosofico moderno) contro la quale invece Maritain sferra un attacco davvero frontale. La contraddizione di quest’ultima, infatti (in nome dell’atto di esistere), è per lui il presupposto stesso per poter davvero riaffermare una filosofia dell’essere; e che a sua volta è destinata a trovare in Tommaso un paradigma insuperabile. Ora, ponendoci di nuovo criticamente di fronte all’intera visione steiniana, cosa ci può suggerire tutto questo? Innanzitutto ciò ci dice che la Stein non sposò mai totalmente Tommaso (e con lui anche la relativa Scolastica medievale) come fece invece Maritain. Ma questo è assolutamente ovvio, dato che chi conosce la pensatrice sa bene quanto critica ella fu verso l’Aquinate; fatto salvo il far propri molti aspetti della sua visione. Il punto non deve quindi essere esattamente questo.

Ed allora il punto deve stare semmai nell’«insufficienza» (se così si può dire, sebbene non nel senso di un giudizio negativo, e comunque nel senso di un’insufficienza voluta ed inoltre giustificabile) del progetto steiniano di affermare una filosofia dell’essere, restando intanto sulla linea dell’intuizione husserliana secondo la quale l’essere stesso deve venire descritto come un «mondo di essenze». E ciò tradisce un’intenzione gnoseologico-epistemologica che (almeno stando a Maritain) è troppo condizionante per permettere il dispiegarsi davvero pieno di una filosofia dell’essere. Questo dispiegarsi noi lo ritroviamo però davvero pienamente nella visione del filosofo francese. Ecco che allora la rilettura della Stein alla luce della visione di Maritain ci permette di dare un volto globale piuttosto distinto alla visione della prima. Si tratta di un volto in qualche misura «negativo» – in quanto evidenzia un’insufficienza. Ma alla fine assume un significato decisamente positivo, in quanto ci permette di comprendere molto meglio la vera natura del pensiero steiniano in quanto filosofia dell’essere. Non per nulla – come abbiamo potuto constatare esaminando l’ultima fase mistica del suo pensiero –,5 dopo essersi soffermata molto a lungo sull’ontologia (e con risultati filosofico-metafisici davvero di grande spessore), la riflessione della pensatrice piegherà poi verso temi ed accenti mistici, che con l’ontologia stessa non ebbero più molto a che fare. E ciò spiega forse anche perché, sebbene nella sua fase matura la visione steiniana toccasse abbastanza da vicino l’esistenzialismo, la pensatrice non sentì mai l’esigenza di caratterizzarla esplicitamente in questo senso. Ed in al modo si configura pertanto un ulteriore carattere negativo, e cioè di tipo storico-filosofico. In ogni caso comunque va detto anche che tale complessivo carattere ipoteticamente negativo – l’insufficienza se non nullità dell’esistenzialismo steiniano, unitamente all’incompletezza della sua filosofia dell’essere – assume un senso invece positivo se teniamo conto di alcuni degli aspetti posti in luce dalla Borden (e che discuteremo tra poco).

Ecco allora che la rilettura della Stein alla luce di Maritain ci permette di riconoscere nella visione della prima i seguenti aspetti (relativamente) «negativi» dottrinari ed anche storico-filosofici: – 1) ciò che lei non giunse a pensare, o forse non volle giungere a pensare; 2) ciò che lei giunse a pensare (o volle giungere a pensare) solo parzialmente, senza pervenire però fino alle estreme conseguenze dei relativi concetti; 3) ciò che lei non sentì l’esigenza di categorizzare in relazione tanto alla cultura filosofica generale del suo tempo quanto all’ambito della filosofia cristiana nel quale comunque giocò un ruolo di primo piano. Vedremo però anche che il confronto tra i due pensatori ci aiuterà a comprendere meglio anche gli aspetti del pensiero nei quali la Stein è davvero molto saldamente giustificata. Tuttavia l’impiego di termini negativi (come «insufficienza» e «deficit»), per non venire frainteso entro questo nostro tentativo giudizio a posteriori sulla complessiva visione steiniana, deve venire ora definito un po’ meglio. Si tratta infatti appena del tentativo di osservare quest’ultima da un determinato punto di vista esogeno (e cioè quello della filosofia dell’essere tomistico-maritainiana). E pertanto la forma del «giudizio negativo» inerisce appena quella che è un’ipotesi di lavoro e di studio (il cui scopo è molto più l’approfondimento interpretativo che non la critica). Lo si può comprendere bene leggendo il recentissimo Thine own self, di Sarah Borden. Ed infatti nel nostro tentativo di sintesi del pensiero steiniano (vedi nota 4) abbiamo utilizzato questo testo proprio allo scopo di illustrare le ragioni del perché (in maniera del tutto coerente ed affatto insufficiente) la Stein non configura una filosofia dell’essere incentrata sull’atto di esistere. Pertanto rimandiamo il lettore a questo scritto per approfondire una serie di argomenti che in questa sede possono venire solo accennati.

Innanzitutto infatti la Borden6 sottolinea quanto del resto a noi stessi è sempre sembrato ovvio nell’interpretazione del pensiero steiniano; cioè che esso è in primo luogo assolutamente originale, e quindi (stavolta in senso assolutamente positivo!) non può venire inquadrato in alcuna delle scuole di pensiero alle quale comunque risulta prossimo (non al tomismo, non allo scotismo, e nemmeno alla Fenomenologia husserliana). Giustissimamente la studiosa sottolinea insomma che, se non si pongono le cose in tal modo, è impossibile comprendere davvero fino in fondo la metafisica steiniana. Tutto ciò ruota però intorno a quello che per la studiosa costituisce il vero e proprio cardine di tale metafisica, e cioè il concetto di «forma individuale» (individuelles Wesen) quale nucleo della dottrina steiniana dell’assoluta unicità individuale.7 Si tratta di quanto nella nostra sintesi del pensiero della Stein abbiamo più volte sottolineato come l’individuo da intendere come «forma per sé stesso». Ebbene, se teniamo conto di questo, allora possiamo realizzare che forse (presso la nostra pensatrice) proprio la forma individuale corrisponde a quell’«atto di esistere» sul quale pone così fortemente l’accento Maritain. Si tratta quindi probabilmente dell’atto di esistere nella sua forma filosoficamente meno legata all’esistenza come vincolo ontologico, e molto più legata invece al concetto (estremamente specifico) di «unicità» individuale. Diversamente da quanto avviene in Maritain, dunque, presso la Stein il vincolo ontologico sembra stare proprio in quella «forma» – corrispondente poi pienamente al concetto di «essenza» (Wesen) nel suo significato gnoseologico (essere ideale) ed anche nel suo significato ontologico (quello di «essere vivente») – che l’individuo costituisce esattamente nell’occupare intanto lo stesso luogo proprio dell’atto di esistere. È il luogo di un vero e proprio «esser-ci» che configura appunto un «atto», ossia qualcosa che ha già abolito ogni potenza, e sussiste quindi in maniera totalmente auto-giustificata. Come per l’atto di esistere tomistico-maritainiano, si tratta pertanto dell’individuo come «supremo indipendente» (sebbene la Stein sostenga con forza che l’indipendenza ontologica non basta affatto a configurare la vera unicità individuale, e quindi quella che per lei è una pienezza individuale di molto travalicante l’atto di esistere).8 E dunque, in termini più specificamente teo-metafisici, si tratta dell’individuo che è già stato posto in essere da Dio, e che di conseguenza si trova già lì nel mondo in tutta la sua impositività ontologica. Naturalmente, nella metafisica steiniana, tutto ciò riposa però sul peso attribuito all’essenza (quale primaria radice della pienezza di essere individuale);9 che invece Maritain svaluta, negando che essa possa davvero mettere capo ad una filosofia dell’essere. Tuttavia presso la Stein l’essenza precede in rango ontologico l’esistenza, non senza intanto configurare un vero e proprio «atto di esistere» antecedente l’esistenza concreta – e precisamente come l’Idea di individuo (wesenhaftes Sein) già presente nella mente divina (ed in maniera peraltro omni-estensiva come Logos cristico). Alla luce di tutto ciò, quindi, si può davvero finalmente comprendere la portata non esattamente platonica che ha presso la Stein l’essere ideale in veste di esistente trascendente e paradigmatico. Esso non sembra essere insomma in primo luogo la «perseità» (o «kat’autò»), ovvero l’individuo indipendente supremo in quanto pienezza di essere giustificata totalmente dall’onticità ideale. Esso sembra invece essere un vero e proprio atto di esistere non vincolato all’esistenza; e che quindi può esistere al modo di una «forma» (ossia nella stessa maniera della puramente gnoseologica «forma vuota») senza però essere sprovvisto di onticità. E la riprova di questo si ha allorquando questa forma si manifesta infine come un individuo la cui indipendenza ontologica (e relativa onticità) non consiste nell’«esistere», ma consiste invece soltanto nel costituire un’insuperabile «unicità». Ed esattamente in questo senso esso può e deve venire inteso alla stregua di un individuo che viene compreso interamente solo da Dio (come vedremo poi venire sottolineato da Maritain), e cioè come una persona.

Va però osservato anche che la non-platonicità di questa visione si attenua di molto (fin quasi a cessare) se si considera che la Stein vede nel paradigma formale dell’atto di esistere (l’»essere essenziale» nella sua veste specificamente divina, ossia il Logos) come un’entità puramente trascendente. Le cose divengono poi ancora più chiare laddove la Borden10 illustra la ben limitata capacità di spiegare l’unicità individuale che può venire imputata all’»impredicabilità». E con quest’ultima possiamo di certo intendere l’«inerenza» caratterizzante l’ultimità ontologica costituita dall’atto di esistere. L’impredicabilità e l’inerenza fondano infatti l’unicità solo come la differenza quantitativo-numerica che caratterizza ciascun esistente nell’isolamento (meramente spaziale) che è proprio di un sommo indipendente, in quanto ontologicamente ultimissimo. Non si tratta però affatto dell’unicità (puramente qualitativa) che caratterizza invece l’»irripetibilità». Pertanto in questo senso l’atto di esistere diviene ontologicamente ben più secondario della «forma individuale». Alla luce di tutto questo, quindi, la filosofia dell’essere steiniana è comprensibile solo se essa viene ricompresa nell’importanza fondamentale che ebbe per lei la «forma individuale», e conseguentemente anche il concetto di «essenza» (qui sì in concorrenza con il concetto di «esistenza»). In sintesi possiamo quindi dire che ciò che per Maritain è l’»atto di esistere» per la Stein è invece la «forma individuale», ossia l’unicità individuale nella sua massima espressione.

E la differenza sussistente tra i due pensatori (a tale proposito) può del resto venire in tal modo facilmente spiegata. Infatti il discorso steiniano sulla forma risale in definitiva al ruolo onto- formante della coscienza così come si presenta nella Fenomenologia husserliana – laddove la coscienza è poi anche l’essenza stessa delle cose. Tuttavia, una volta incontrata l’onto-metafisica tomista – ed avendo quindi ormai constatato che la coscienza umana stessa (ovvero l’Io) non è altro che un esistente (e quindi non può esso stesso formare l’essere, né proprio né mondano) –, la Stein dovette necessariamente risalire alla postulazione effettivamente metafisica del ruolo onto- formante dell’essenza – intesa però in maniera trascendente, e cioè non più come mero «essere mentale» (gedankliches Sein) bensì invece come «essere essenziale» (wesenhaftes Sein) (vedi nota 9). Ciò implica la piena consapevolezza filosofica del soggetto umano come atto di esistere (con tutta l’impositività ontologica esercitata quindi dall’esistenza), e però non senza che in tale consapevolezza continui a giocare un ruolo la primarietà dell’essenza entro il processo di onto- formazione. E ciò esclude recisamente il radicale anti-essenzialismo implicato nel neo-tomismo maritainiano.

Infine va considerato che molto probabilmente presso la Stein mancò un esistenzialismo (ossia una filosofia dell’essere incentrata sull’esistenza) in quanto la sua reinterpretazione metafisica (e soprattutto metafisico-religiosa) dell’epistemologismo husserliano11 le imponeva di porre l’Io esistente in una maniera che non ne comportasse il riassorbimento nell’assolutezza ontologica del puro atto di esistere. Ed il motivo di ciò sta ancora una volta nel fatto che alla pensatrice stava a cuore in particolare la messa in evidenza dell’assoluta unicità individuale – cosa che per lei era possibile solo ponendo intanto con molta forza l’essenza egoico-cosciente (ossia la sostanziale natura di Io) che è propria dell’essere umano. Ecco di nuovo che solo a quest’ultimo, ossia all’Essente umano-personale (e non invece al generico atto di esistere), può venire attribuito il vero primato ontologico – e non invece primariamente all’atto di esistere. Si può quindi dire che l’epistemologismo steiniano aspirava senz’altro ad un radicamento dell’egoicità cosciente nella dimensione ontologica; ma non fino al punto di configurare in tal modo una filosofia dell’esistenza. In ogni caso questo tema è troppo complesso e multiforme per poter venire esaurito nello spazio di questo articolo (e quindi nuovamente rimandiamo per questo il lettore al nostro saggio sintetico). Va intanto però ribadito che in questo articolo perseguiremo appena la sottile linea di un’ipotesi di lavoro (che a sua volta muove da un molto limitato e specifico punto di vista), senza con ciò alcuna intenzione di offrire con ciò un’interpretazione globale del pensiero steiniano; e precisamente senza alcuna intenzione di istituire una gerarchia di valore che veda quest’ultimo «inferiore» rispetto al pensiero maritainiano. Dunque, una volta inquadrato abbastanza precisamente quello che sarà il campo della nostra indagine, dobbiamo ora precisare che ci riferiremo in particolare a due testi di Maritain, e cioè Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente e Umanesimo integrale.12 Il primo testo è senz’altro quello più denso di implicazioni, e quindi sarà quello che maggiormente terremo in considerazione. Ma anche il secondo testo offre spunti significativi a proposito degli aspetti prima accennati. A causa dell’affinità filosofica aggiungeremo anche alcuni spunti provenienti da un testo di Romano Guardini.13 Questi ultimi si riferiscono in particolare agli aspetti più intensamente religiosi del concetto di Dio come supremo Essere. Vorremmo anche precisare che per non appesantire eccessivamente questo scritto, per la maggior parte degli aspetti dottrinari in esso trattati dovremo rinviare (specie per i relativi riferimenti testuali) alla lettura dei testi nei quali abbiamo trattato dettagliatamente del pensiero steiniano (vedi note 3 e 4).

2. Essenza ed esistenza

Maritain critica molto intensamente il ruolo di fatto onto-generativo che è stato affidato all’essenza nel corso dell’intero pensiero moderno (già da Cartesio in poi), sebbene con accenti e con intensità variabili.14 Ed a ciò egli contesta che con l’essenza può venire intesa appena una potenza di essere, ossia una possibilità, ovvero un progetto di essere; e questi sono tutti elementi ontologici che in assenza dell’atto di esistere non hanno alcuna consistenza di essere.15 Con tutto questo si è poi per lui sempre ricollegato un idealismo metafisico-religioso che ha concepito Dio appunto come un’Essenza «senza natura» e quindi come «pura potenza». Si tratta insomma di un Dio ridotto appena a «idea di Dio»,16 e quindi spogliato di qualunque essere. Ma qui bisogna dire che la Stein non è molto lontana da quest’ordine di idee maritainiano, dato che ella (in linea con Tommaso) rinsaldò fortemente l’essenza all’essere sul piano del livello divino, oltre che poi finalizzare l’onticità dell’essenza all’atto di esistere. Ciononostante nel suo pensiero si ritrova costantemente la sottolineatura della vuotezza di essere dell’essenza (sebbene, come abbiamo visto, ciò valga solo per l’»essere mentale», ma non per l’»essere essenziale»). E ciò sta senz’altro in linea con l’ovvietà che il concetto ha tale vuotezza nel contesto della Fenomenologia husserliana – in essa infatti ci riferisce all’essenza come all’oggetto presente esclusivamente nello spazio di coscienza, e non invece all’oggetto presente nel mondo reale.

Allo stesso modo non è prevista in questa visione alcuna postulazione dell’essenza divina come un effettivo essere. Cosa che però si ritroverà pienamente entro la visione steiniana matura. Ma Maritain è tanto critico contro l’intera filosofia moderna quanto è estremamente incisivo nel porre in luce che non sono possibili mediazioni se davvero si vuole configurare una filosofia dell’esistenza e dell’esistente, in luogo invece di una mera filosofia dell’essenza. E così chiarisce che, se la visione di Tommaso si è fatta pienamente carico del problema della conoscenza (non trascurando affatto l’»intelligenza» posta davanti al mondo concreto della Natura), tuttavia il pensatore ha chiaramente condizionato l’intelligibilità delle cose al vincolo ineludibile dell’esistenza.17 In tal modo, una volta configurata l’intelligibilità della cosa (dopo averne accolto le relative impressioni sensoriali), l’intelligenza deve ancora restituirla all’esistenza per poter averla davvero davanti. Manca qui insomma totalmente l’atto husserliano (e solo in parte anche steiniano) del condizionare l’intelligibilità della cosa unicamente al suo esistere nello spazio di coscienza. Questa presenza rientra infatti appena entro l’ambito dell’atto di astrazione dai sensi, che l’intelligenza deve senz’altro compiere per poter conoscere la cosa reale.

Di conseguenza, una volta considerato primario il solo pieno esistente, in tal modo il soggetto si trova di fronte ad un radicale «altro», ossia di fronte all’effettivo oggetto esteriore. Ed è per questa via che si deve poi ammettere che la conoscenza è per definizione «immersa nell’esistenza», ovvero sussiste solo in quello spazio di essere concretissimo e vincolante che l’esistenzialismo filosofico moderno avrebbe riconosciuto come l’«in mondo». Possiamo a tale proposito prendere atto dell’importanza costituita dal fatto che la Stein da un certo momento in poi iniziò a sottolineare la necessità imprescindibile di collocare le essenze entro il mondo reale. E tuttavia sta di fatto che comunque ella non rinunciò mai del tutto all’intero armamentario gnoseologico-epistemologico della dottrina husserliana; secondo il quale l’intelligibilità della cosa sussiste solo nel momento in cui la coscienza desta la tiene sotto la mira dell’atto intenzionale, ossia lo sguardo «diretto» verso un oggetto che intanto si è costituito come tale in quanto la sua esistenza era compresente all’atto di coscienza. Specie nel suo famoso Excursus sull’idealismo trascendentale, ella affermò esplicitamente che la postulazione dell’atto di coscienza non era affatto sufficiente a giustificare l’esistenza di un oggetto esteriore. Ma intanto restava comunque in piedi l’impianto complessivo di una dottrina sostanzialmente idealistica, ed inoltre fin troppo essenzialista per giungere alla stessa presa di posizione radicale di Maritain. Per quest’ultimo infatti la coscienza non gioca il benché minimo ruolo nemmeno nel contesto del costituirsi dell’intelligibilità della cosa. Non a caso la dottrina tomista del «giudizio» (da lui menzionata a tale proposito) revoca qualunque distinzione tra l’»è» e ciò che «esiste». Il primo termine, infatti, va ridotto totalmente al secondo. E così, quando il giudizio è all’opera, esso si serve dell’essenza («è») unicamente per prendere atto dell’esistenza – per mezzo di un «ita est» («è così»), riferito alla cosa conosciuta, che revoca in un solo colpo qualunque problematicità della conoscenza (entro quella che è poi la dottrina tomista della «verità dell’essere»). Insomma il contenuto configurato dal giudizio corrisponde esattamente all’ente conosciuto solo e soltanto in quanto esistente. Il che significa che, in assenza di quest’ultimo, il giudizio resta totalmente vuoto. Il che revoca totalmente l’estremamente farraginosa teoria di Husserl relativa al «reale» in quanto «possibile», ossia quel «reell» che a suo avviso si distinguerebbe dal troppo ingenuo «real».18

L’esempio di Maritain ci serve senz’altro a comprendere quanto oggettivamente negativo (ai fini di una piena filosofia dell’essere) sia stato il classico armamentario filosofico idealista-essenzialista ed epistemologista. Ed esso senz’altro ha giocato un ruolo anche nella stessa visione steiniana. Tuttavia bisogna anche dire che (grazie alla Borden) possiamo comprendere ancora meglio in che modo, pur fondandosi sull’essenza, la pensatrice sia pervenuta ad una davvero esemplare filosofia dell’essere (sebbene senz’alto non esistenzialista). E ciò appare chiaro specialmente nell’introduzione19 che la studiosa premette alla trattazione della metafisica steiniana. In altre parole comunque – nei termini di quella che è in Tommaso è intanto un’ineccepibile Erkenntnistheorie (e che proprio come tale viene infinitamente ammirata dalla Stein) – ci viene dimostrato ciò che intanto è immediatamente intuitivo per chiunque di noi. Ci viene cioè mostrato che la cosa reale sta nella sua pienezza proprio in quanto è un esistente che esercita un’azione sui sensi (determinando così la percezione e condizionandola) molto prima di divenire intelligibile e di essere in tal modo condizionata dall’intelligibilità. Le specie intelligibili vengono dunque semplicemente estratte dalle specie sensibili, con il configurarsi solo in tal modo dell’essenza della cosa. Ma ciò, come abbiamo già detto, avviene solo perché poi la cosa venga riconsegnata alla sua esistenza; e non invece perché essa trapassi in oggetto di coscienza o essenza (autentico intelligibile). Ciò significa che l’»è» predicativo indica l’essenza («cos’è?») solo nella misura in cui quest’ultima è irrevocabilmente vincolata all’esistenza.

Ebbene, nonostante tutta la tremenda lotta ingaggiata dalla Stein con il suo amato maestro – affinché il suo idealismo trascendentale (incentrato nella cosiddetta «riduzione trascendentale») non escludesse un realismo che a lei giustamente sembrava assolutamente sacrosanto –, la pensatrice non giunse mai a formulare in maniera così chiara e semplice tale intera problematica. Come invece venne fatto da Maritain. E al proposito ci sembra che vada riconosciuto un oggettivo limite del pensiero steiniano. E ciò è tanto più vero se si tiene presente la stessa aspirazione della pensatrice a condividere la critica maritainiana all’eccessivo culto tributato alla Ragione naturale nel contesto del moderno pensiero. Ella non giunse infatti mai a formulare allo stesso modo l’imbarazzo che naturalmente un autentico filosofo dell’essere deve provare di fronte ad apparati di pensiero che hanno apportato una complicazione immensa laddove invece le cose sono così semplici da poter essere intuite anche solo sulla base del senso comune. Maritain invece non esitò ad essere su questo estremamente esplicito. E così egli si produsse in alcune affermazioni, di cui peraltro una chiama in causa abbastanza scopertamente la Fenomenologia husserliana (menzionando le sue famose «parentesi»). Innanzitutto egli commenta molto sarcasticamente la tendenza dei pensatori moderni ad arbitrarie e squalificanti neo-produzioni filosofiche, che non possono non lasciare sconcertato chi invece attribuisce alla Filosofia il valore che essa merita: – «Da più di trent’anni constato quanto sia difficile ottenere che i nostri contemporanei non confondano le facoltà di invenzione dei filosofi con quelle degli artisti delle grandi case di moda».20 Poi (commentando l’assurdità dell’evolversi dell’originario esistenzialismo religioso in un esistenzialismo «filosofico o accademico» ed «ateo»), egli parla apertamente del progressivo passaggio dallo svergognamento della Ragione (già verificatosi entro l’esistenzialismo religioso) alla vera e propria «distruzione filosofica dell’intelligenza» avvenuta poi nell’esistenzialismo filosofico. E a tale proposito precisa inoltre che ciò è avvenuto mezzo di un’»arte filosofica, sapientemente trincerata dietro le analisi freudiane e le parentesi fenomenologiche, proliferazioni ideologiche dell’assurdo, e una completa liquidazione filosofica delle realtà prime e delle rivendicazioni radicali della persona e della soggettività».21 Tutto questo ha infine per lui finito per configurare una «filosofia contro la filosofia», i cui protagonisti furono però chiaramente i »professionisti della filosofia», e nel contesto della quale il livello altissimo della disciplina raggiunto con un pensatore come Tommaso conobbe una degradazione assolutamente insensata. Quello qui commentato è insomma il tipico orgoglioso protagonismo intellettuale che caratterizza i pensatori moderni. Ed esso è connotato da un lato da un pensiero delirante febbrilmente impegnato a »edificare sistemi e nuovi temi da sfruttare artificiosamente», e dall’altro lato dalla cinica tendenza ad usare molto pragmaticamente tutta questa scintillante astrusità allo scopo infimo di tenere in piedi una »macchina per fare idee, strumento per costruire tesi».

Nonostante il suo immenso coraggio, il suo anticonformismo e la sua originalità, la Stein non giunse mai a formulare affermazioni così radicali eppure così appropriate nei confronti dell’andazzo del moderno pensiero (incluso senz’altro quello di Husserl). E se questo non può venire considerato nel suo caso una colpa (dato che erano in causa il suo identificarsi con il rigore filosofico della scuola dalla quale proveniva, oltre che la scrupolosa lealtà e fedeltà che sempre ella osservò verso il maestro), bisogna pur dire che questa carenza limita sensibilmente la portata della sua filosofia dell’essere. Maritain infatti dimostra che quest’ultima può venire davvero rimessa in sesto, solo se intanto ci si oppone alle assurde, astruse e pretenziose neo-ontologie moderne. Comunque, allo stesso modo che per la Stein (sebbene con incertezze molto maggiori nel caso di quest’ultima), l’essenza ha per Maritain un significato primariamente ontologico più che non invece gnoseologico.22 Essa è infatti esistenza già a livello trascendente in quanto «fondamento delle cose», e cioè costituisce il paradigma metafisico dell’oggetto reale ossia l’Atto puro. E qui prevale decisamente quel criterio visivo della conoscenza che fece intuire allo stesso Platone, nell’eidos, la suprema oggettualità trascendente in quanto Idea.23 Per lui questo non indeboliva affatto la natura squisitamente onto-intellettuale di tale entità (ossia quella di puro oggetto ideale). Ma invece per Maritain (sulla scorta del Tommaso più aristotelico) non è affatto così; dato che egli, a proposito dell’essenza colta nella sua vuotezza intellettuale di essere (con paradigma nel nominalismo), parla di un «platonismo da strapazzo». Si tratta senz’altro di un’accusa ingiusta (ed anche piuttosto grossolana), ma essa è comunque non poco comprensibile.

Quel che è certo è che l’essenza in tutta la sua portata ontologica può configurarsi solo nel contesto della constatazione inoppugnabile di un’esistente che se ne sta davvero lì davanti ai nostri occhi. Ed in effetti per chiarire le cose a tale proposito basta molto poco – almeno entro una filosofia che non rigetti sdegnosamente i contenuti offerti dalla metafisica teologica. Ossia basta distinguere tra ciò che accade in una mente in cui Essere e Conoscenza non sono affatto separati, la mente divina, ed una mente in cui invece i due termini non possono mai essere simultanei. Solo in quest’ultima, infatti, si può e si deve pensare all’essenza come la vuotezza di essere per eccellenza (ossia la famosa «forma vuota» conoscitiva). Quest’ultima però per davvero non sarebbe nulla in assenza della relativa cosa reale. Infatti, afferma Maritain, noi possiamo vedere solo l’idea incarnata, ma non possiamo vedere mai effettivamente l’essenza-idea trascendente, ossia l’intelligibile stesso. Quest’ultima di fatto «non esiste» nella nostra mente. Mentre invece esiste sì nella mente divina (come idea creatrice), allo stesso modo in cui esiste nel mondo, di fronte al quale la coscienza si pone conoscendo nel mentre essa stessa resta vincolata all’esistere.

Ebbene, questa serie di considerazioni esistettero nella riflessione steiniana con assoluta certezza.24 Altrimenti ella non avrebbe posto con tanta drammaticità la necessità di postulare un mondo esteriore assolutamente indipendente dalla coscienza. Inoltre, laddove la sua indagine si soffermò sui livelli più elevati dell’onto-metafisica tomista, la pensatrice lasciò che qui si delineasse quel complessivo «wesenhaftes Sein» che ha effettivamente il carattere di una suprema oggettualità trascendente, ossia il supremo Esistente quale Ente divino. E quest’ultimo può ben venire considerato un supremo «atto di esistere». In ogni caso, però, la preoccupazione idealistico- gnoseologica (fortemente influenzata dal platonismo, in questa fase presente specie per mezzo di Agostino), portò la pensatrice a sottolineare la natura di Logos (cristico) che è propria di questa suprema oggettualità. Ed in tal modo essa si lascia fortemente appaiare al supremo Individuo ideale platonico, ossia il «kat’autò», e quindi un oggetto ideale. E tuttavia nello stesso tempo la Stein sottolineò costantemente, allo stesso identico modo di Maritain, che l’Idea è un nulla senza il relativo esistente, ossia è inconcepibile prima di essersi incarnata in un qualcosa concreto. Nel nostro saggio sintetico abbiamo però mostrato che anche questa affermazione va considerata con una certa prudenza. Maritain va però senz’altro ben oltre queste affermazioni e riflessioni in relazione all’importanza fondamentale da attribuire all’«atto di esistere». Egli sostiene infatti (sulla base di Tommaso) che il «giudizio» stesso restituisce l’essenza (dopo averla estratta dalla cosa come concetto) alla sua esistenza (il che costituisce poi l’aspetto più primario, in assenza del quale l’essenza resta appena un nulla). Ossia la pone davanti a sé stesso come una cosa reale esteriore alla coscienza senza la quale nemmeno l’essenza sussisterebbe. In tal modo egli prende le distanze da quella caratterizzazione tutta kantiana del giudizio (ancora una volta con molto coraggio, ed in sprezzo dei dogmi imperativi del pensiero moderno) che fece di esso l’atto astrattivo-concettuale per eccellenza; in quanto primario rispetto alle cose dell’esperienza, e non invece secondario rispetto ad esse. Egli sottolinea infatti che per Kant il concetto è un puro prodotto mentale che ignora completamente l’esistente in quella sua imperiosa presenza che esige di essere presa esattamente com’essa è; anche se intanto non ricade affatto nei limiti dell’esperienza sensibile, ossia costituisce l’oggetto metafisico per eccellenza. Non vi è nulla da stupirsi, quindi, se Maritain sostiene a tale proposito che l’unità stessa dell’oggetto sussiste già di per sé, nel pieno del mondo esteriore, molto prima che essa venga ricostruita nella coscienza. Ma questo fu esattamente quanto invece sostenne Husserl, e nemmeno in questo caso la Stein smentì questa dottrina nel pieno della sua riflessione onto-metafisica. Di certo la ricostruzione intra-coscienziale dell’unità delle molteplici «apparizioni» della cosa esteriore assunse per lei un significato unicamente teoretico-conoscitivo (e non più invece onto-ideale, nella forma di un’ontologia puramente essenziale intra-coscienziale) ma comunque restò in piedi. E così ella non si distanziò affatto dalla tradizione filosofica moderna post-cartesiana, entro la quale (come dice Maritain) l’idea-essenza fu sempre considerata come un «ideatum». E come tale fu sempre considerata così infinitamente distante dalla cosa esteriore, da costringere poi a postulare il vero e proprio assurdo costituito dalla cosiddetta problematicità della conoscenza.

Dunque, sentendosi totalmente libero rispetto ai vincoli del pensiero moderno (in forza del suo porsi in linea con una filosofia che per lui era tale solo nella sua forma antica), Maritain può letteralmente rivoluzionare la dottrina dell’intelligibile nel constatare che il giudizio è appena una risposta all’«atto di esistere esercitato dalle cose». E da ciò egli deduce che l’esistente è già di per sé l’intelligibile stesso, e quindi come tale è sempre già pienamente a disposizione della conoscenza; abolendo così totalmente qualunque problematicità di quest’ultima. Ma intanto, rendendosi conto del paradosso rappresentato dall’intelligibilità di un qualcosa di squisitamente ontico, egli precisa che quella dell’esistente è da considerare una «sovraintelligibilità» – tale è «l’intelligibilità» esistente «su cui verte il giudizio». E qui si delinea chiaramente il vero e proprio mistero e miracolo rappresentato dalla del tutto «già data» (data «in partenza») connessione esistente tra la dimensione intellettiva dell’essere (soggetto) e la sua dimensione ontica (oggetto). In altre parole lo jato soggetto-oggetto (che sarebbe davvero insuperabile qualora la cosa conosciuta fosse appena un «concetto») viene invece superato in partenza da un lato per l’esistere ineluttabile della cosa (indipendente dalla coscienza) e dall’altro lato per la potenza donata all’intelligenza di superare tale autentico abisso. È la potenza conferita a quel soggetto umano conoscente, che invece, se (per propria costituzione ontica) fosse sprovvisto di tale dono, dovrebbe effettivamente essere del tutto separato dalla cosa. Insomma la problematicità della conoscenza è destinata a venire superata non sul piano filosofico ma invece su quello teologico e metafisico. Qui infatti è di importanza critica l’inscindibile interconnessione tra un soggetto-esistente ed un oggetto-esistente, che viene posta in atto da Dio stesso, nel suo donare all’uomo la capacità intellettuale «dopo» aver intanto creato il mondo che lo circonda. In altre parole l’interconnessione soggetto-oggetto risulta assolutamente ovvia una volta che si ammetta che i due termini altro non sono che entrambi alla pari esistenti «in-un-mondo». Ebbene della ingenuità di questo schema possono pure farsi beffe lo scienziato naturale ed il filosofo. Eppure esso spiega le cose in modo molto migliore di teorie che inevitabilmente poi naufragano nella loro stessa complessità. Per tutto questo l’esistenza ha un senso e un valore ontologico che sono del tutto a sé, e quindi sono radicalmente diversi dall’essenza. Di conseguenza si deve ammettere che l’esistenza non viene affatto gnoseologicamente costituita dall’essenza – né in senso letterale né metaforico – ma invece sussiste di per sé. Ed anzi proprio per questo è già di per sé intelligibile. Non vi è dubbio che senza il coraggio di una fede che condiziona direttamente il pensiero, non sarebbe stato in alcun modo possibile sostenere cose come queste in pieno XX secolo. E bisogna ammettere che la Stein non si spinse però mai fino a questo punto. Ella infatti ammise pienamente l’indipendenza dell’atto di esistere. Ma intanto – almeno come metafora e non invece letteralmente, come avviene nella dottrina husserliana della costituzione – non si sognò mai nemmeno minimamente di porre in discussione il condizionamento gnoseologico dell’esistente da parte di un’essenza che tuttavia è assolutamente vuota di essere. Ed in questo modo, sebbene solo sul piano metaforico dell’Erkenntnistheorie, essa viene di fatto costituita un’onto-generazione a partire dalla coscienza. Ed in tal modo ci si approssima non poco ai termini di quella «coscienza senza mondo», che pure la Stein stessa aveva sempre condannato come un idealismo inaccettabile. Ecco allora che, proprio in quanto libero dai condizionamenti ai quali invece la Stein soggiacque – sebbene più sul piano conoscitivo-teoretico che non onto-metafisico –, Maritain può sostenere con molta maggiore decisione quanto anche la pensatrice intuì nello scoprire un mondo esteriore del tutto indipendente dal condizionamento coscienziale, e cioè il fatto che sostanzialmente le cose «ci sorprendono» costantemente con il loro così impositivo esistere. È proprio su questa falsariga, infatti, che il pensatore francese ci illustra più approfonditamente l’autentico portento costituito da un atto intellettuale che sempre intercetta l’essere infallibilmente. Condizionante qui è cioè quell’»urto delle cose» che sussiste in quanto esse, in quanto esistenti, sono un «fatto primo» dal quale non si può in alcun modo prescindere. Ed almeno a tale proposito bisogna dire che nemmeno le correzioni di tiro critico sollecitate dalla Borden riescono a relativizzare l’insufficienza dell’ontologia steiniana rispetto a quella maritainiana. Infatti, sebbene l’essenzialismo della pensatrice dia senz’altro ragione in modo esemplare dell’Essente (ossia l’individuo unico umano- personale), esse sicuramente non riescono a dare ragione dell’ente con la stessa forza di Maritain. Si tratta con ciò evidentemente della natura sostanzialmente intuitiva dell’atto intellettuale (esso è «autentica intuizione intellettuale»). E ciò lascia emergere di nuovo quella dimensione visiva della conoscenza, che a sua volta da ragione in modo davvero convincente del mistero del dono divino che si nasconde dietro di esso – «Questo è l’essere colto o percepito al vertice di una intellezione astrattiva, di una visualizzazione eidetica o intensiva, così illuminatrice e pura, solo perché l’intelligenza è stata un giorno svegliata nelle sue profondità e illuminata dall’urto dell’atto di esistere colto nelle cose…». Ma è proprio postulando tutto ciò che, secondo Maritain, il filosofo finisce per sentirsi così «inebbriato dell’essere» da vivere un’esperienza di autentico risveglio alla filosofia dell’essere; ossia un’esperienza che è di illuminazione già nel contesto del filosofare stesso. Il che lo porta poi ad essere costretti ad ammettere che «Non si è filosofi se non si è metafisici». Ed inoltre «è l’intuizione dell’essere […] che fa il metafisico». Romano Guardini25 ci induce allo stesso stupore di fronte a tale strabiliante (ma intanto del tutto ordinaria) rivelazione, nel mostrarci come nella preghiera noi non facciamo altro che prendere contatto con quell’Essere divino, il quale è tanto impositivo nella sua presenza quanto è del tutto inaccessibile ai nostri sensi. E questa è un’altra esperienza (in parte senz’altro anche filosofica) nel corso della quale noi possiamo venire letteralmente schiacciati dall’evidenza di un Dio che in primo luogo è «essere» – il che significa che è un’indubitabile Presenza. È pertanto del tutto opinabile che noi non lo percepiamo sensibilmente per il semplice fatto che siamo intanto totalmente immersi in esso. Solo così noi possiamo comprendere che Egli è davvero solo Persona (ed affatto invece un’idea). Il Guardini però sottolinea come si possa cogliere tutto questo solo nel contesto di una fede piena d’amore, e mai invece per mezzo del puro e distaccato pensiero (sempre affannosamente quanto vanamente alla ricerca di effettive obiettività). In verità è però davvero difficile sostenere che la Stein non abbia vissuto queste stesse emozioni. Del resto proprio per l’aver scoperto la dimensione inevitabilmente metafisica della filosofia dell’essere, ella pagò il prezzo altissimo del dover prendere le distanze dall’amatissimo maestro.

Il quale riuscì ad accettare perfino la sua conversione religiosa della sua allieva, ma non accettò invece mai la sua conversione metafisica. Allora, la chiarezza e forza con le quali però solo Maritain afferma queste cose, ci mostra che la presa di posizione di quest’ultimo è indispensabile per comprendere fino in fondo ciò che la Stein fece sì, ma intanto non esternò mai allo stesso modo. È proprio in questo senso che i testi maritainiani appaiono di importanza fondamentale per gettare luce in alcuni lati piuttosto oscuri della complessiva presa di posizione filosofico-metafisica steiniana. Oltre a ciò Maritain sottolinea che, mentre l’apprensione coglie appena l’essenza, solo il giudizio coglie invece l’esistenza. Il che rende pertanto decisamente secondario il ruolo dell’essenza nella conoscenza del mondo. Ciò che invece appare primario è proprio il coglimento dell’essere che avviene esattamente per l’intermediazione dell’esistenza. L’essere costituisce infatti la «prima idea» che insorge dopo il «giudizio di esistenza». Non appena inizia ad agire, insomma, l’intelligenza coglie immediatamente l’esistenza, e da quest’ultima deduce poi perfino l’essere come astrazione. Il che implica poi che l’esistenza (per l’intermediazione dell’essenza, ossia del «cos’è?» delimitante un «qualcosa») viene «resa oggetto» senza però esserlo in sé in alcun modo. In altre parole davvero esiguo appare essere l’apporto dell’essenza (per quanto concepita in maniera trascendente) – sempre inevitabilmente astrattamente conoscitivo-teoretico – nello spiegare l’insondabile quanto schiacciante mistero (sempre svelato) che è costituito dall’esistenza. Almeno in questo, insomma, bisogna dare ragione ad Heidegger contro la Stein. E ciò ci riporta alla natura di «soggetto» o «suppositum» che secondo Maritain (sulla base di Tommaso) è la vera identità di ogni ente oggettuale (in quanto creato). E lo stesso vale inoltre per il soggetto conoscente in quanto sostanziale atto di esistere, e cioè in primo luogo esistente; che il pensatore francese definisce come totalmente assimilabile allo status ontico proprio dello stesso Atto puro. Ma di questo parleremo più avanti.

Anche la Stein finisce per giungere alla conclusione che il soggetto conoscente è in primo luogo un esistente, e solo dopo invece una pura sostanza intellettuale trascendente l’esistenza (ovvero un’essenza). Ed in questo modo anche lei finisce per considerarlo come un qualcosa che o costituisce un «atto di esistere», oppure resta una pura sostanza ideale del tutto pari al nulla in quanto mera potenza (o possibilità di essere). Purtuttavia il persistere nella sua visione di una sostanziosa Erkenntnistheorie – incentrata proprio sul ruolo imprescindibile dell’intenzione (a sua volta dipendente strettamente dall’intuizione di un’essenza molto prima che di un esistente) – rende molto più tiepida la sua affermazione del soggetto conoscente come atto di esistere. Una volta caratterizzato in maniera teoretico-conoscitiva, infatti, il soggetto sussiste comunque in quanto sostanza intellettuale (o ideale), e quindi come luogo della dimensione intelligibile colta nella sua indipendenza. E ciò configura in ogni caso una filosofia delle essenze. Invece, così come viene visto da Maritain, il soggetto (in quanto riproduzione dell’Atto puro) non ha ontologicamente nulla a che fare con la dimensione dell’intelligibile. Esso è invece solo e soltanto esistenza, ossia «esse», e non invece essenza. Semmai allora – volendo un po’ attenuare la radicalità di tale discorso, e riportandolo così alle coordinate più moderate della visione steiniana – si può dire che esso costituisce un’essenza colta nell’atto di essere, ovvero un «è vivente». Come tale esso è esattamente quell’«essente» al quale la pensatrice tedesca riconobbe comunque lo stesso statuto ontologico dell’Atto puro quale Essente primario. L’essente è comunque per la Stein in qualche modo l’ente stesso (sebbene fondato nell’essenza ideale quale istanza onto-costitutiva, ossia il complessivo «wesenhaftes Sein»), ossia quell’»ens» che invece Maritain dichiara essere ontologicamente del tutto secondario rispetto all’»esse», e cioè all’essere primariamente inteso come esistenza. Quindi in qualche modo, così come viene caratterizzato (quale ente), per la pensatrice l’essente (ossia l’essenza stessa nella sua forma vivente) coincide con l’Essere.

Insomma l’accento da lei posto sull’atto di esistere appare nuovamente essere ben meno forte di quello posto da Maritain. Quest’ultimo infatti contraddice lo stesso concetto di essente nell’affermare che con l’esistente (ossia l’atto di esistere) non si tratta affatto di un «ciò che è», ma invece semmai di un «ciò che esiste». Le considerazioni della Borden ci permettono però di introdurre in tale questione un’obiezione che va di nuovo a vantaggio della concezione steiniana, in quanto sottolinea l’inevitabile trascendenza dell’Essente rispetto al mero atto di esistere.26 In ogni caso quanto fa rilevare Maritain ha un rilevantissimo riflesso poi anche sulla relazione conoscitiva sussistente tra soggetto ed oggetto. Perché il primo impiega l’»è» rispetto all’oggetto non in senso predicativo (facendo così uso di quell’essenza, quale «cos’è?» della cosa, che per Husserl e Stein è di importanza capitale nel riconoscimento), bensì proprio nel riconoscere un «ciò che esiste». In altre parole il soggetto conoscente non contribuisce in nulla al sussistere dell’ente, ma semmai ne subisce totalmente la presenza schiacciante. E qui bisogna dire che le coordinate dell’esistenzialismo maritainiano coincidono abbastanza bene (fatta eccezione per l’ateismo ed il nichilismo) con quelle dell’esistenzialismo sartriano.27 Quest’ultimo infatti sottolinea con grande forza la totale nullità del soggetto-essenza (il «per-sé») rispetto alla preponderanza schiacciante dell’oggetto-esistenza (l’»in- sé»). Maritain non manca però di deplorare energicamente il fatto che in tale concezione la positività del concetto tomista di esistenza va totalmente persa proprio in quanto l’»in-sé» viene ridotto ad un totale inintelligibile che sta poi al centro di un mondo schiacciante sì nella sua esistenza ma intanto spogliato di qualunque vera onticità e di qualunque senso.28 L’esistente ha invece presso Maritain ben altra primaria rilevanza ontologica. E ciò avviene in maniera del tutto immediata ed incondizionata (da parte dell’essenza), in modo tale che si può presumere che il soggetto possiede la capacità di intercettare l’essere in maniera assolutamente infallibile e indubitabile. Ebbene questo demolisce in un solo colpo quell’intero armamentario husserliano (della conoscenza intenzionale come costituzione dell’oggetto), che invece la Stein – pur opponendosi vivacemente alla dottrina della costituzione – lascerà in piedi anche nel pieno della sua onto-metafisica (postulando la necessità imprescindibile della compresenza della coscienza all’essere). In termini più elementari, insomma, l’intuizione di un’oggettualità avviene per Maritain totalmente nell’esteriorità ed in alcun modo invece nell’interiorità.

In questi termini, però, bisogna anche dire che la sua visione diverge sensibilmente da quella steiniana, dato che essa configura quanto la pensatrice definisce come realismo ingenuo nei termini della postulazione di un «essere senza coscienza». In ogni caso va constatato che non poche volte la Stein si approssima a questa sfera di riflessione, laddove ella sottolinea più esplicitamente la vuotezza di essere dell’essenza (in quanto puro progetto di essere, o potenza). A tale proposito lei stessa sottolinea che è impossibile concepire un’essenza se non si è mai incontrato nell’esperienza il relativo esistente in quanto assoluto esteriore e quindi totalmente indipendente da qualunque costituzione coscienziale. Questa costatazione metafisica non la porta però a concluderne, come fa invece Maritain, che il concepimento interiore della stessa «idea di essere» (ossia l’Essere quale puro concetto) insorge simultaneamente alla totale scopertezza dell’essere che si manifesta intanto nell’esistente. Ossia insorge non appena entriamo in contatto con quest’ultimo. Cosa che però avviene esclusivamente nel pieno dell’esteriorità mondana. Maritain parla peraltro dell’astrazione di essere in termini assolutamente positivi, e cioè come «liberazione» dell’essere dalla dimensione del «sensibile» in cui «esso è immerso»; laddove è poi assolutamente decisiva la costatazione dell’atto di esistere. Tuttavia a tale proposito bisogna ricordare che Husserl criticò il pensatore francese proprio per questo, e cioè perché egli non avrebbe sottomesso il concetto di essere alla comprovazione per mezzo del metodo della Riduzione Trascendentale fenomenologica, ossia per mezzo di una rigorosa analisi delle essenze coscienziali. E del resto l’«immersione nel sensibile» del concetto di Essere (dal quale Maritain dice che bisogna liberare il relativo concetto) ricorda molto da vicino il concetto husserliano di «datità» intenzionale – in quanto presenza dell’oggettualità esteriore già entro i limiti della coscienza sebbene apparentemente ancora facente parte del mondo. In qualche modo insomma Husserl si rifiuta di accettare l’atto di liberazione del concetto di essere dal sensibile, in quanto compimento del concetto di essere proprio nel pieno dell’esteriorità, ossia laddove l’esistente si impone con la sua incondizionabile presenza. Il richiamo alla purificazione del concetto di essere (per mezzo della Riduzione Trascendentale) è quindi nel suo pensiero il richiamo ad una concezione dell’essere che, per essere soddisfacente, deve per lui avvenire solo nell’interiore. E questa così inflessibile aspettativa è senz’altro rimasta (almeno come traccia) anche nel pieno dell’ontologia steiniana.

Ma se così è, allora anche le pur così insistenti rivendicazioni steiniane della dovuta ammissibilità di un mondo esteriore indipendente dalla coscienza, devono essere considerate di portata ancora troppo limitata rispetto alla concezione dell’essere che Maritain deduce dalle premesse appena discusse. Egli afferma infatti che solo per mezzo dell’atto di liberazione del concetto di essere dal sensibile – e quindi da un lato da qualunque conoscenza empirico-scientifica, e dall’altro lato da qualunque proiezione dell’ideale nel reale in quanto vincolante essenza cosale (come avveniva nel tradizionale idealismo razionalista, entro il quale poi in qualche modo rientra anche la Fenomenologia husserliana) – si perviene alla vera onto-metafisica (la «scienza regina»). Ciò che avviene in tal modo è insomma che si delinea quell’«oggetto puramente metafisico», e quindi intangibile ai sensi, che per essere tale deve risultare totalmente privo di materia. Solo così insomma l’essere diviene vero oggetto di un «discorso sull’essere». Ma soprattutto questo può avvenire solo e soltanto se si parte dall’atto di esistere, ossia solo e soltanto quando l’essere si presenta unicamente come «concettualizzazione dell’atto di esistere». Ed in tal modo (anzi solo in tal modo) si giunge a concepire un essere che è solo e soltanto esteriore, sfuggendo così al condizionamento costitutivo da parte di qualunque atto di coscienza – ancor più se questo viene inteso, come avviene in Husserl, come frutto del rivolgimento dello sguardo dell’Io verso sé stesso (con il configurarsi di tal guisa della coscienza quale unico orizzonte nel quale si possa avere a che fare con l’essere). Orbene, la Stein contestò senz’altro questo concetto di costituzione. Eppure però (mantenendo intanto in piedi l’apparato rappresentato dal fondamentale atto riflessivo dell’Io rivolto a sé stesso) non può aver concepito un «essere» totalmente esteriore con la stessa forza di Maritain. Il che significa che (almeno in questo senso) il suo cammino nel mondo dell’onto- metafisica non è mai stato così pieno come quello che quest’ultimo invece postula.

E ciò ci riporta all’integralità della dottrina del giudizio in relazione all’oggettualità esteriore prima commentata. Finché infatti esiste anche una minima traccia di postulazione di un «essere di coscienza», non si potrà mai ritenere (come fa il pensatore francese) che l’intelletto intercetta indubitabilmente l’essere semplicemente in quanto quest’ultimo se ne sta lì davanti ad esso in tutta la sua incondizionabile ed incondizionata preponderanza in quanto atto di esistere (non costituito in alcun modo dall’essenza). Solo in questo modo si potrà insomma affermare che, se non vi è un atto di esistere così concepito, allora l’intelletto non intercetta un ben nulla, e quindi semplicemente gira a vuoto. Questo è insomma un rischio che realmente corre qualunque filosofia dell’essere incentrata sull’essenza (inclusa quella steiniana). Riprenderemo poi questo discorso a proposito dei commenti di Maritain al concetto di esistenza sviluppato dall’esistenzialismo filosofico. Ma intanto va detto che, al cospetto di tutto ciò, solo l’onto-metafisica descritta dal pensatore francese appare davvero in grado di portare a termine il progetto husserliano che divenne famoso per mezzo del motto «zur Sache selbst», e che mirava a restituire alla filosofia un accesso sulla cosa mondana nella sua pienezza. Tuttavia ciò appare possibile proprio perché l’ontologia qui in causa mira molto direttamente ad una visione integralmente metafisica (il cui aspetto più evidente è un realismo davvero franco ed esplicito); invece di dibattersi penosamente tra le esigenze della filosofia moderna (perdutamente epistemologistico-gnoseologistica, e quindi idealistica) e la metafisica stessa. Di tutto ciò si può avere la misura prendendo atto dello straordinario sforzo fatto da Husserl per vincolare la pienezza dell’oggetto alla sua possibilità ideale (nel contesto della distinzione tra «reell» e «real»). Non a caso è grosso modo a questo che si riferisce un’ulteriore serie di chiarimenti offertici da Maritain.29 Assumendo una posizione decisamente anti-platonica (cioè contro l’Idea trascendente come l’effettiva radice della cosa immanente), il pensatore afferma infatti che qualunque genere di «possibile ideale» è così irrecuperabilmente lontano dall’»atto di esistere» da non poter in alcun modo configurare un’oggettualità (nemmeno nel contesto della coscienza, ossia come oggetto ideale). Certamente non può esserlo ancor più la materia in quanto «potenza». Essa infatti, in quanto mera «opacità» dell’essere (e cioè «non intelligibile» per definizione), essa non è in alcun modo un «abbozzo di atto». E quindi nemmeno la potenza, intesa come materia in attesa di forma (invece che come forma-essenza), possiede davvero i titoli per poter costituire anche solo qualcosa di prossimo all’oggettualità piena. Ma se ciò è vero, allora l’oggettualità non può in alcun modo insorgere nemmeno allorquando l’essenza va a formare la materia. Anche in questo caso saremo infatti lontanissimi dall’oggettualità effettiva, per quanto sia ormai senz’altro insorta un’oggettualità intelligibile. La quale però mancherà ancora del carattere più criticamente fondamentale per il sussistere dell’essere, e cioè l’effettiva esistenza (quella che si constata e non si presuppone, ossia quella che è solo «atto», e non invece «potenza»). Di tale carattere è in possesso solo e soltanto l’atto di esistere. In altre parole invariabilmente viene sempre prima l’esistenza e solo dopo l’intelligibilità. Il che significa che il sussistere entro la coscienza di un oggetto ideale non configura in un alcun modo un’oggettualità.

Ma sta di fatto che l’intera riflessione steiniana sull’essere si sforza di seguire il percorso lungo il quale progressivamente, a partire dall’essenza ideale (l’oggettualità che è effettivamente solo progetto e potenza), insorge progressivamente una piena oggettualità, ossia quella concreta in quanto esteriore. E questo significa allora che, su una base come questa, risulta fin troppo debole l’accento da lei stessa posto sull’oggettualità effettiva, quale atto di esistere che attira verso sé stesso l’intera dinamica dell’individuazione dominata dall’altro polo dall’essenza ideale. Il problema è insomma ancora una volta che la Stein parte comunque dall’interiore per poi solo alla fine giungere all’esteriore. L’onto-metafisica maritainiana si sforza invece di compiere il percorso diametralmente opposto. E dunque solo in essa l’atto di esistere risulta davvero vincolante. A moderazione di tale constatazione va però addotto l’argomento (fortemente supportato dall’analisi della Borden)30 della differenza da fare (entro la visione steiniana) tra la vuotezza di essere propria dell’»essere mentale» (la vera e propria «forma vuota», il cui significato è solo epistemologico ma non ontologico) e la vuotezza di essere invece propria dell’»essere essenziale». A tale proposito la studiosa chiarisce infatti che quest’ultimo è per davvero un’inesistente, ma solo in quanto esso si pone come condizione trascendente ed eterna dell’essere in qualunque sua determinazione, ossia come l’assolutamente inevitabile ed incontestabile «necessità eidetica» delle cose. E tale condizione governa non solo la conoscenza dell’ente ma anche la sua stessa esistenza; ossia ne determina essenzialmente la «struttura ontologica».

In ogni caso, pur tenendo conto di tale precisazione, la così forte primarietà dell’esistere affermata da Maritain indebolisce non poco l’intera dottrina steiniana della formazione di essere a partire dall’interiorità. Almeno in un certo senso, insomma, essa sembra mancare dei presupposti fondamentali per mettere effettivamente capo ad una davvero forte filosofia dell’essere. E ciò va senz’altro imputato ai resti, persistenti comunque entro la visione steiniana, della dottrina husserliana della costituzione. Questo significa allora che la filosofia moderna (ossia l’idealismo razionalista) permette al massimo un realismo delle essenze (e cioè esattamente quello della Fenomenologia steiniana), ma mai invece un effettivo realismo dell’esistente e dell’esistenza. A tale proposito bisogna però moderare le costatazioni appena fatte anche sulla base di considerazioni più primariamente teologiche. Il Guardini31 ci offre infatti la possibilità di vedere nel vissuto interiore di Dio, per mezzo del Cristo, l’esperienza di quell’»Uguale» all’uomo che è poi lo Spirito stesso nella sua possente capacità di manifestare il Dio vivente. Questo significa allora che, proprio ponendo l’accento sul Logos cristico quale essenza ultima dell’interiorità animico- spirituale umana (e quindi della somiglianza intellettuale-spirituale dell’uomo a Dio), la Stein intese in realtà sottolineare la natura primariamente ontologica della conoscenza di Dio. Interiormente, insomma, noi cogliamo null’altro che Dio come Essere, ossia quel Dio che in primo luogo è vivo, e cioè si rende a noi amorosamente presente. E ciò si spinge fino al punto che, per mezzo della manifestazione di Cristo grazie alla potenza effusiva dello Spirito, noi veniamo in contatto gnoseologicamente (ma per una via sostanzialmente ontologica) con quel Dio che è l’Uno e l’Unico. E ciò anticipa quanto poi diremo sulla base di Maritain circa quella conoscenza dell’uomo da parte di Dio, che fa dell’uomo stesso un soggetto il quale mai è riducibile ad oggetto.32 Il che significa che in effetti la pienezza dell’esistente (quale impositivo «atto di esistere») è comunque il frutto di un atto intellettuale divino. Atto intellettuale che è però amoroso esattamente in quanto esso dona l’essere attuale e non invece quello appena potenziale. E questo equivale poi decisamente alla stessa kenosis divina (quale nucleo dell’Incarnazione). Evidentemente, infatti, l’esistente sussiste in verità come se esso fosse stato lì nel mondo da sempre; e cioè esiste senza che traspaia la benché minima traccia dell’atto intellettivo divino che lo aveva costituito. Esso esiste come una totale auto-evidenza. Ma questo lo vuole Dio stesso; il quale (quale supremo Artefice) arretra volontariamente rispetto a questo esistere autonomo. Ed arretra fino al punto da rendersi totalmente invisibile.

Si può dunque concludere a tale proposito ricordando il chiarimento estremamente netto offerto da Maritain a proposito di ciò che può venire considerato un effettivo esistente – esso può infatti essere solo un «quod» ed affatto invece un «quid».33 Ne riparleremo specificamente a proposito dell’atto di esistere in quanto soggetto, ossia quello che si distingue dagli enti di ogni genere a causa della sua capacità di riflessione. Anche in questo caso non si tratta in alcun modo di un oggetto di pensiero, ossia di un ente fondamentalmente costituito dalla propria essenza. Proprio qui infatti Maritain sottolinea (e con ragioni ben più forti di quelle con le quali la Stein afferma la stessa cosa) che l’essenza è esistente solo nello spirito, e lo è in maniera del tutto inconsistente. Dunque, anche se nel caso dell’ente intellettuale si tratta – come ben chiarito dalla pensatrice tedesca – di un ente che è costituito specificamente ed unicamente dalla propria essenza interiore di «uomo» (senza alcuna decisiva partecipazione dell’esteriorità sostanziale), tuttavia esso resta un qualcosa che non sarebbe ciò che è se non fosse in primo luogo un esistente. Ed allora, se esso è da considerare effettivamente come l’esistente per eccellenza (cioè il primo tra gli enti, l’Essente), va ammesso intanto che non sarebbe mai tale se la primarietà dello status ontico di esistente non venisse a compensare la difettività (ontica ed anche onto-costitutiva) che fatalmente è propria dell’essenza. Nel caso dell’ente intellettuale si può quindi parlare di un «essente» (ossia di un «è» incarnato o vivente) solo in quanto esso è un «essente-in-quanto-esistente». E ciò significa ancora una volta che la dottrina steiniana dell’Essente ha comunque i suoi aspetti di una certa debolezza. E difatti (almeno in tale contesto) risulta difficile affermare che (come fa la Stein) l’Essente è ciò che è in quanto è un’Idea (o essenza) incarnata, e quindi come tale è un individuo che è «specie per sé stesso» – in quanto è un’Idea che deve essere contemplata dal polo ontologico dell’esistenza e non invece dal polo ontologico dell’essenza. Tutto ciò può venire affermato solo e soltanto se intanto si postula che esso non è un’essenza destinata a venire ad esistenza, ma è invece ab origine un’«essente-in-quanto-esistente». Esattamente questo è per Maritain (sulla base di Tommaso) quel soggetto umano che non può in alcun modo venir considerato un oggetto; e che quindi come tale è conosciuto totalmente da Dio (in quanto esistente già in atto) ancor prima di venire ad esistenza. In questo senso esso è davvero «conosciuto» solo da Dio. Questo è quanto in sostanza pensa anche la Stein – ed anzi più avanti vedremo che di nuovo la partita può a tale proposito venire rovesciata a suo favore (in quanto presumibilmente è vero anche che l’oggetto è un soggetto semplicemente perché non è per davvero un oggetto). Ma a quanto pare gli strumenti metafisici da lei impiegati per sostenere questa dottrina appaiono essere (almeno in un certo senso) ben meno appropriati di quelli invece impiegati da Maritain. Non a caso vedremo poi che il concetto di «persona» può venire sostenuto con forza non solo sulla base di una concezione come quella steiniana (che pone al centro di tutto l’unicità individuale soggettuale) ma anche sulla base di una dottrina onto-metafisica come quella illustrata dal pensatore francese.

3. L’atto di esistere e l’«oggetto» quale «soggetto» («suppositum»)

Tutto quanto abbiamo detto finora ha chiarito a sufficienza la forza metafisica che va impiegata nell’affermare il concetto di «atto di esistere» nella sua pienezza. Tale affermazione richiede infatti un realismo davvero pieno, in quanto esso è estremamente deciso nel sostenere che non vi è altro esistente se non un mondo (di oggetti e soggetti) totalmente incondizionato alla coscienza. In altre parole, a fronte di ciò, non appare sufficiente nemmeno la prudente postulazione steiniana di una coscienza «co-posta» insieme al mondo esteriore intanto totalmente indipendente (come venne sostenuto nel suo famoso Excursus in un’ormai totale condanna della riduzione trascendentale husserliana, e del conseguente idealismo di tale concezione).34 Un autentico realismo comporta infatti il disinteresse davvero totale per la coscienza. Ed abbiamo visto quanto coraggio occorra a Maritain per sfidare in tal modo il condizionamento idealistico operante in tutta la filosofia almeno fino ad Husserl. È anche vero che successivamente a questo pensatore si è sviluppato un realismo estremistico radicalmente anti-idealista. Ma è vero altresì che esso non ha nulla a che fare con quello sostenuto da Maritain. Semmai esso si pone sulla linea dell’esistenzialismo che (come poi vedremo) il pensatore francese critica in maniera molto aspra proprio nell’opera che stiamo commentando. Vi sono comunque ulteriori aspetti da chiarire a proposito del concetto di atto di esistere, così come viene impiegato dalla Stein in relazione al modo in cui lo concepì Maritain. Uno dei punti abbordaggio del tema da parte di Maritain è quello che abbiamo già accennato riportando l’affermazione secondo la quale all’essere si perviene per davvero una volta che il suo concetto sia stato liberato dalla contaminazione con il «sensibile» in quanto «materiale».35 È infatti in tal modo che si delinea per davvero in maniera chiara e netta un’oggettualità metafisica. È solo in questo modo, dice il pensatore, che emerge davanti a noi l’essere come non lo avevamo mai contemplato, ossia quello colto «nella sua ampiezza analogica e nella libertà di fronte alle condizioni empiriche […], nozione la cui fecondità è inesauribile…». Ebbene, esso è sì il «concetto metafisico dell’essere» – ossia l’essere astratto che Tommaso aveva indagato a proposito dei Trascendentali e degli Universali, e che proprio come tale colpì anche per sempre la fantasia filosofica della Stein.

E tuttavia non si perviene ad esso se non ponendosi davvero radicalmente davanti all’atto di esistere. E quest’ultimo altro non è se non «ciò che è» non in forza di un «è» copulativo (che svolge semmai un ruolo unicamente entro il discorso), bensì in forza di un «è» che costituisce solo e soltanto l’»ogni essere che è» nel senso di primariamente esistente. Come abbiamo visto tale è esattamente l’esistente che viene infallibilmente intercettato dall’intelletto nel contesto del giudizio. Pertanto ciò che ai fenomenologi appare come un »oggetto di pensiero» (ossia di fatto l’«oggetto di coscienza») è in verità solo e soltanto l’atto di esistere nella sua pienezza. La stessa datità intenzionale è pertanto in verità appena l’atto di esistere – che poi è tale solo se del tutto esteriore alla coscienza. Tuttavia si tratta di ben più di ciò che Husserl relega nel mondo dell’»hyletica»,36 ossia il caotico mondo della materia bruta non ancora organizzata in quanto formata intelligibilmente. Infatti, non si tratta certamente di materia, ma sì invece di esistenza. L’esistenza è quindi pienezza di essere (esteriore alla coscienza), mentre la materia non lo è per nulla. Maritain chiarisce al proposito che «le cose oggetto della metafisica esistono o possono esistere senza la materia», e proprio per questo non sono oggetto della scienza sensibile. Dunque la metafisica è la scienza dotata del «grado di astrazione più elevato» (si occupa infatti dell’»essere in quanto tale») esattamente perché, occupandosi dell’essere, essa prescinde dalla materia. Ma intanto essa è tutt’altro che non- concreta in quanto fa riferimento all’»esistenza», ovvero fa tutt’altro che prescindere dall’esistenza. Per il soggetto, dunque, «l’esistenza è il termine in funzione del quale conosce tutto ciò che conosce: voglio dire l’esistenza reale, sia attuale che possibile…», e peraltro esso perfino libera dal determinato stesso quale «quel punto di attualità esistenziale attualmente sperimentato». È insomma solo ponendosi filosoficamente in tal modo che si coglie effettivamente ciò che per davvero può venir definito come «atto di esistere». Esso è più «reale» che mai (nel senso della concretezza) – anzi è l’unica pienezza di essere che possa venire concepita –, ma intanto costituisce l’oggetto metafisico per eccellenza, ossia è qualcosa che non si tocca affatto con mano per quanto sia immediatamente evidente. Per la precisione è «ciò che vi è di più profondo nelle cose concrete e individuali»; e dunque è la sostanza quale invisibile strato di essere pieno, che è sottostante le cose. E ciò, precisa Maritain, è metafisicamente assolutamente necessario; dato che l’individualità immediata (a causa della materia che la connota) ha qualcosa di «non essere» al cospetto dell’»individuale per eccellenza» ossia l’Atto puro (Ipsum esse subsistens). Insomma, ancora una volta, proprio questo è ciò che sta «davanti a noi» molto ma molto più di quanto lo sia la datità configurata con un immenso sforzo intellettuale-filosofico da parte di Husserl. Ora, non vi è dubbio che in tal modo noi tocchiamo quello che deve venire considerato come quella suprema oggettualità trascendente (in qualche modo un supremo Individuo), che la Stein si sente costretta a considerare come l’essenza in veste di essere – in quanto «wesenhaftes Sein» nella sua forma pienamente ontica in quanto assolutamente sottile, e cioè il Logos stesso (quale Principio di tutte le cose). E non vi è dubbio che qui ci troviamo sul piano dell’universale. Ma a tale proposito Maritain ci procura un chiarimento onto-metafisico che davvero appare essere di importanza capitale. Infatti, egli dice, non si tratta per nulla di universalità in quanto mera generalità ontologica («genus generalissimus» o »pura essenza»). Non si tratta insomma per nulla dell’essere più generale possibile in quanto il più astratto. Questa, egli dice, non è altro che un’»eresia metafisica». Si tratta invece di quanto abbiamo appena identificato come l’autentico oggetto metafisico, ossia il supremo Ente divino; e dunque qualcosa che più concreto non potrebbe essere proprio in quanto paradigma ultimo dell’atto di esistere, ossia l’Atto puro.

Pertanto, ne conclude il pensatore, l’Essere nella sua pienezza trascendente (di atto di esistere) non è affatto «un universale», ma semmai costituisce ciò che è analogicamente ubiquitario ed in maniera esplicitamente oggettuale («oggetto di pensiero implicitamente molteplice che inerisce in modo analogico a tutte le cose»). Tutto ciò implica allora che l’esistenza viene «significata dallo spirito» quale essenza pur non essendo affatto un’essenza. Insomma di fatto entro lo spirito («ut significata»), l’esistenza viene necessariamente colta come essenza pur non essendolo in sé affatto. Ma intanto questo passaggio gnoseologico è per noi inevitabile. Perché altrimenti (senza concepire l’essenza quale esistenza, ossia l’«è-in-quanto-essente») si rischia di non cogliere affatto l’essere. Il che significa, egli dice, che non si tratta nemmeno di esistenza, ma invece semmai di «esistenza in sé stessa». Si tratta insomma (come dice Gilson, qui citato da Maritain) dell’»atto di esistere» nel senso di «ciò che ha per essenza di non essere un’essenza». E la seguente può pertanto venire considerata la definizione stessa più pregnante dell’atto di esistere: – «La metafisica usa il concetto di esistenza per conoscere una realtà che non è un’essenza, ma l’atto stesso di esistere». Bisogna certamente dire che deve essere stata proprio l’intuizione di tutto questo, ciò che spinse la Stein (come abbiamo già detto) a fare equivalere tendenzialmente l’essenza all’atto di esistere quale Idea incarnata. Tuttavia solo al cospetto di Maritain possiamo davvero comprendere perché è così. Questa ammissione è in verità un atto obbligatorio. Perché quando io cerco di cogliere l’essenza nel senso specifico di «ciò che è» (è essendo, è esistendo), sono comunque costretto a riferirmi all’esistenza. In ogni caso, come abbiamo prima illustrato (sulla base dell’esposizione del pensatore francese), con l’atto di esistere ci troviamo di fronte ad un tale «sovraintelligibile» (a causa della sua impositiva evidenza) che per concepirlo bisogna infine assolutamente fare a meno del ricorso all’essenza. E ciò senz’altro non accade entro la visione steiniana. A tale proposito bisogna comunque riprendere quanto abbiamo già accennato a proposito della dimensione visiva dell’atto intellettuale che coglie l’esistente in maniera infallibilmente intuitiva. Infatti l’atto di esistere è in verità lo stesso «sovraintelligibile» (l’Ens divino, o individualità oggettuale trascendente) che noi abbiamo «davanti agli occhi» in quanto «vertice» dell’essere.

È esattamente in questo senso, allora, che l’esistenza è sempre un «esse», e mai propriamente un’essenza. Quindi essa non si identifica con l’intelligibile nemmeno quando lo è. E ciò avviene perché essa è la fonte stessa dell’intelligibilità – in quanto punto ancoraggio saldissimo per la conoscenza di ciò che è davvero fondamentale, ovvero l’essere reale-attuale e non potenziale. Pertanto essa è fonte dell’intelligibile in quanto «sovraintelligibile» (più che intelligibile puro- astratto-potenziale, o mero strumento gnoseologico per il riconoscimento). Si tratta, dice Maritain, della costatazione di «ciò che esiste» quale autentico «mistero»; in quanto esso coniuga il «cos’è» (o «ciò che è…»), ossia l’essenza intelligibile, al concetto stesso di atto di esistere. Che è poi in sé inesplicabile in quanto evidenza assolutamente impositiva auto-giustificata. E per inciso sembra davvero assurdo pensare che a questa ricchezza di significati Heidegger abbia voluto applicare così un miope riduzionismo, trasformando cioè l’atto di esistere in una cosa tanto striminzita quanto pretenziosa. Questo appare insomma essere un vero e proprio atto di follia filosofico-metafisica. Su questa base, dunque, si deve presumere che, al cospetto della pienezza di essere totalmente conoscibile dell’atto di esistere, la conoscenza dell’essenza in verità non coglie alcunché, insomma è totalmente vuota. In essa manca quindi qualunque vera oggettualità. È in rapporto a ciò che Maritain afferma pertanto che l’atto di esistere «non è questo e non è quello», ma è invece «esso stesso essere» (est ipsum esse). Un’autentica filosofia dell’essere sussiste pertanto indubbiamente solo allorquando l’atto di esistere viene concepito alla maniera del pensatore francese, e cioè in definitiva sulla scorta dell’ontologia tomista accolta nella sua immediatezza. Non caso lo stesso Maritain37 afferma che in fondo il «tomismo» stesso non è altro che un’operazione di dissezione anatomica tipicamente filosofico-accademica; il che lo porta addirittura ad affermare che egli non si definisce affatto come un «neo-tomista». Tale infatti può essere per lui solo una reinvenzione moderna tipicamente filosofica del pensiero di Tommaso. E quindi semmai bisognerebbe parlare di un del tutto legittimo «paleo-tomismo». E dato che questi interpreti dell’Aquinate vengono dal pensatore accusati di non impersonare affatto lo spirito del maestro (ma di ripeterne invece appena le «formule») – tradendo così quello che in lui fu davvero filosofico –, si può da ciò arguire che una buona fetta del moderno neo-tomismo (ancora perdurante in molte scuole accademiche) è in realtà molto più una sterile filologia e molto meno un’autentica filosofia.

E così il nostro pensatore afferma che non per nulla la metafisica di Tommaso è fondata sull’esistenza e non sulle essenze. Ciò perché essa tende a porre in luce lo «scaturire misterioso dell’atto di esistere» nel quale qualunque essenza è sottomessa ad attualizzazione. Si tratta dunque del cogliere l’essere in primo luogo come «sovrabbondante», e quindi come qualcosa in cui tutti gli esistenti sono immersi restando in tal modo in relazione tra essi («in comunicazione reciproca») entro una realtà totalizzante che è assolutamente inesauribile. In essa insomma nulla è mai determinato per sempre e quindi vincolato ad uno stato fisso. Ecco allora che la sovrabbondanza di essere equivale alla relazione, ossia al dono di un essere che è in è un «sempre-di-più», cioè il luogo inesauribile nel quale è sempre possibile nuova possibilità oltre il determinato. Si tratta per la precisione della «sovrabbondanza dell’esistere divino» (dono di essere) che presiede a qualunque esistenza (e più ancora essenza) e la fonda immancabilmente. Al cospetto di cotanta Presenza non vi è pertanto bisogno di alcuna essenza fondante, e quindi è escluso qualunque determinismo.

Una volta chiariti questi aspetti preliminari bisogna passare ad esaminare la parte del testo di Maritain38 nella quale vengono esposti gli aspetti più suggestivi di ciò che è «atto di esistere», e cioè quanto fa di esso un «soggetto» che non è in alcun modo un «oggetto», ma è invece (nel linguaggio di Tommaso) un «suppositum»; ovvero è il soggetto tanto della conoscenza divina quanto del suo amoroso atto creativo, cioè il dono di essere. Esattamente in questa sua valenza noi possiamo, secondo il pensatore francese, cogliere più pienamente cosa vada inteso come un «esistente», ovvero in qualche modo l’esistente per eccellenza. Ed in quest’ultimo va senz’altro riconosciuto l’Essente unico-personale, quale specchio del Logos divino, alla cui definizione la Stein dedicò tutti i suoi sforzi metafisici. È insomma l’uomo inteso come creatura e figlio di Dio, anzi perfino esso stesso tendenziale uomo-dio. L’esistente indagato in questo senso da Maritain è in primo luogo un «chi». Ma proprio come tale è tutt’altro che un’essenza. È invece semmai «una cosa che è», ossia un «chi ha un’essenza». Tuttavia, per poter affermare questo, è per Maritain indispensabile ricorrere al concetto tomista di «sussistenza» (o anche subsistenza). Il quale sta appunto a designare quel «soggetto esistente» quale «atto di esistere», con il quale viene totalmente revocato il primato ontologico del «concetto o idea». Tali concetti vengono infatti totalmente trascesi. In altre parole in tal modo il soggetto cessa di essere un’entità intellettuale (vuota di essere) e diviene in primo luogo un esistente (un «supremo concreto»), ossia una creatura ed un ente in carne ed ossa, e cioè un individuo («cosa individuale che sta nell’esistenza»). È proprio in esso che, irrevocabilmente, si inscrive la realtà ontologica intellettuale (epistemologico-gnoseologica, formale e potenziale).

Insomma corrisponde a questo ciò che via via la Stein stessa andò riconoscendo come un soggetto che è tale solo in quanto esistente. In Maritain stesso però, in questo luogo della sua indagine, la dimensione riflessiva (in assenza della quale non può venir concepito alcun soggetto) viene comunque postulata in maniera esplicita. E così egli ci mostra come il soggetto qui in causa è sostanzialmente il «chi» stesso, una volta colto da sé stesso. Proprio in questo senso esso è «sussistenza». In quanto da un lato l’essenza è il troppo pieno astratto mentre dall’altro lato l’esistenza è il troppo pieno concreto. E ciò ci richiama la dimensione dell’«auto-sostegno» che per la Stein caratterizza il soggetto in modo davvero caratteristico.39 Esattamente a causa della sua non immediata concretezza, il soggetto per Maritain «trascende» e «supera in profondità tutto l’universo degli oggetti». Per la precisione si tratta, egli dice, di quella «natura individuale» che non coincide affatto con l’»essenza», e quindi è la sola a potere esistere davvero fuori dallo spirito. È insomma quanto, quale «in sé» assoluto, chiude definitivamente la linea di sviluppo dell’essenza sulla falsariga dell’individuazione, e quindi configura l’inerenza aristotelica (ovvero la sostanza prima). Ancora una volta siamo con ciò al cospetto dell’atto di esistere nella sua pienezza, e quindi colto nella sua facoltà di trascendere infinitamente ciò che invece non ha le sue stesse caratteristiche ontiche. In altre parole l’oggettualità (effettivamente determinata dall’essenza) non è mai piena se non sfocia in un atto di esistere. Eccoci di nuovo davanti al «quod».

Siccome però esso è intanto essenzialmente connotato dall’atto di riflessione, il soggetto quale esistente (che non è affatto un oggetto) va inteso (proprio come l’inerenza stessa) come ciò a cui invariabilmente si riferisce qualunque predicato. Ed è questo che fa di esso un «subsistente», ossia un auto-fondato. Proprio per questo esso, dunque, esso è atto di esistere nonostante sia intanto costretto a cogliersi come tale con un atto di pensiero, cioè rivolgendosi a sé stesso. Ma ovviamente esso non è affatto l’esistente in quanto oggetto di pensiero (ovvero l’essenza esistente solo nello spirito), bensì è l’esistente stesso (per eccellenza), e cioè l’esistente in quanto «compimento» della difettività ontica dell’essenza (che sempre sussiste solo fuori dell’essenza stessa). Di nuovo siamo con ciò di fronte all’Essente, così come la Stein stessa cerca di definire il soggetto quale sommo atto di esistere. Va peraltro a tale proposito ricordato che la pensatrice si adoperò molto per contestare il concetto di «subsistenza» sostenuto da tomisti come Gredt. Ma di questo abbiamo parlato nella nostra tesi di dottorato (vedi nota 3).

Tuttavia, sebbene il «suppositum» per eccellenza sia il vero e proprio soggetto, anche l’effettivo oggetto di conoscenza (una semplice cosa come il «filo d’erba» e perfino lo stesso mero «evento») è tale in quanto esso esiste nella misura in cui viene completamente conosciuto da Dio. Non molto diversamente stanno però le cose quanto noi «ri-conosciamo» un oggetto del mondo esteriore in forza dell’essenza, trasformandolo così in intelligibile o oggetto ideale. Anche in questo caso, infatti, noi facciamo sfuggire l’oggetto all’indefinizione. Ciò sottolinea comunque nuovamente i tratti portanti della lineare dottrina della conoscenza tomista, in quanto in tal modo avviene una de-realizzazione dell’oggetto esistente nel mondo reale. Il che significa che l’intera serie di operazioni conoscitive, previste da Husserl nel contesto dell’atto intenzionale, configurano una sfera di cose (un’ontologia) che non solo è esclusivamente secondaria ma è anche marginale. Il vero oggetto conosciuto è e resta, infatti, solo quello pienamente esteriore alla coscienza. Se dunque l’oggetto ideale è da riconoscere come vuoto di essere, ciò non avviene perché esso lo sia di per sé e per diritto (ma restando intanto, come previsto da Husserl, una piena oggettualità reale), ma avviene invece perché esso è il mero frutto della de-esistezializzazione dell’effettivo oggetto reale (che avviene nel contesto della conoscenza). Cionondimeno il più autentico «soggetto di esistenza» (in quanto esistente e conosciuto) è da considerare il soggetto umano provvisto di «anima spirituale», e quindi di interiorità, ed inoltre libero soggetto di atti. Questo è per Tommaso la «persona», e questo è senz’altro anche l’essente unico-personale così come concepito dalla Stein. Per entrambi i pensatori esso è del resto un soggetto che in primo luogo è un esistente, ovvero un «io pensante», che, quale coscienza, è immerso in un mondo di oggetti. Tommaso chiarisce però ulteriormente che questo mondo di oggetti è in verità un mondo di soggetti – e ciò perché tale esso «è» per davvero nella mente di Dio. Ma questo relativizza decisamente la ricognizione dell’essere che avviene nel contesto del «cogito- sum», ovvero la capacità di auto-coscienza (ed auto-costituzione) che costituisce lo stato ontico del soggetto umano. Una volta svincolato dall’atto fondamentale della conoscenza divina, tale «conosci te stesso» perde quindi ogni mordente, ed anzi diventa fallimentare e riduttivo.

Esso finisce infatti per rivelarci, in noi stessi, appena un mero oggetto. Si tratta in questo caso sì di un esistente, ma non nella sua pienezza; che viene raggiunta solo quando si ammette che l’oggetto è in verità sempre in primo luogo un soggetto. Ebbene, a questa conclusione la Stein non sarebbe mai potuta pervenire a causa della così condizionante eredità fenomenologica (poi sfociata nell’agostinismo), la quale doveva necessariamente farle considerare possibile che la conoscenza di sé stessi non è mai la conoscenza di un mero oggetto. Quindi, se proprio la dottrina della persona è presso di lei bastata proprio sulla (così formulata) dimensione dell’auto-conoscenza, appare evidente che essa è (almeno in questo) non poco deficitaria rispetto a quella di Tommaso. In essa infatti la persona non viene riconosciuta per davvero come soggetto pur venendo intanto riconosciuta un mero esistente, e cioè un mero oggetto tra gli oggetti. Nella Stein resta infatti pienamente (sebbene adombrata) l’idea di Husserl, secondo la quale lo sguardo intellettuale rivolto verso l’interiore flusso di coscienza costituisce il pieno riconoscimento di un soggetto (oltre che di un mondo di essenze ben più reale di quello esteriore). Ma a ciò fa da eco negativa il monito di Maritain a non considerare altro che un «inconoscibile» l’oggetto che intercettiamo rivolgendo lo sguardo intellettuale al nostro flusso di coscienza. In tale contesto infatti non incontriamo appena l’»essenza del nostro io», ossia un qualcosa che è del tutto vuoto di essere. Di abbastanza prossimo a Tommaso restano nella Stein in tutto ciò comunque due aspetti: – 1) il riconoscimento in sé stessi non di un’essenza (ossia di un puro «è») ma invece di un «essente», ossia di un «è vivente», o «è nell’atto di essere», e cioè un esistente in quanto soggetto; 2) l’ammissione piena del fatto che la coscienza (in quanto conoscenza) non costituisce per davvero alcuna vera ontologia, se non è ricompresa nell’atto conoscitivo di Dio stesso. Ma rispetto al primo punto va detto che l’essente così conosciuto non è altro che un abbozzo del pieno esistente postulato da Tommaso come oggetto che è un soggetto. Abbiamo infatti poc’anzi visto che in verità esso non è altro che una pura essenza.

Insomma ciò che per Tommaso (secondo Maritain) va assolutamente evitato, è che (in qualunque modo ed in qualunque misura) l’intelletto si ponga di fronte ad una mera «oggettivazione concettuale» invece che prodursi in una vera e propria presa d’atto di esistenza. Vedremo tra poco quali radicali conseguenze tutto ciò ha, entro la visione di Maritain, nel giudizio critico circa quella che è la forma dominante della filosofia moderna, e cioè la conoscenza della soggettualità. I termini di quest’ultima, infatti, sussistono inevitabilmente tutte le volte che la filosofia non concepisce sé stessa come conoscenza di un’oggettualità nella sua pienezza, anche allorquando essa indaga il soggetto. E tale oggettualità nella sua pienezza non è altro che l’esistente assolutamente incondizionato, ossia il «suppositum». Solo in questo caso si configura un’autentica ontologia, e solo in questo caso si configura un’autentica onto-metafisica. Bisogna quindi ammettere che ciò può essere affermato per la Stein solo limitatamente al fortissimo condizionamento che la posizione filosofica moderna continuò sempre ad esercitare nel suo pensiero. E tuttavia (come abbiamo anticipato) bisogna comunque ammettere che la visione steiniana dell’Essente (in quanto soggetto) possa mantenere un certo vantaggio sull’equivalente visione maritainiana. Per la precisione ciò può avvenire in relazione ai chiarimenti offerti dalla Borden40 a proposito della presa di posizione steiniana sulla «specie» tomista da un lato e la «specie» evoluzionistico-darwiniana dall’altro lato. Il primo concetto di specie, infatti (in quanto equivalente alla forma quale astratto universale comune), permette di concepire proprio un individuo colto nella sua primaria oggettualità indifferenziata (metafisicamente universale), e cioè alla stregua di quell’ente che insorge solo quale frutto dell’azione esercitata dalla forma sulla materia. Ed esso non può allora per davvero costituire un soggetto esattamente perché, nel farlo, deve prima considerarsi fondamentalmente un oggetto. Tale appare essere esattamente il «soggetto-in-quanto-oggetto» che viene postulato da Maritain, ponendo in primo piano l’atto di esistere quale fondamento effettivo di qualunque «è»; e quindi relativizzando il ruolo costitutivo dell’essenza rispetto alla realtà soggettuale. È evidente allora che – sebbene si possa postulare che tale oggetto-soggetto viene conosciuto da Dio allo stesso modo di qualunque oggettualità – verrà comunque a mancare il presupposto primario in virtù del quale un oggetto può davvero venire considerato un soggetto. Tale presupposto è l’atto auto-costitutivo in forza dell’essenza, che viene postulato dalla Stein, ma non da Maritain. Sulla base di tutto ciò si può allora ritenere che l’oggetto può fungere da soggetto solo se la sua fondamentale costituzione ontologica sfugge al condizionamento troppo vincolante dell’oggettualità. Ed in questo senso allora un autentico «suppositum» sussiste molto più nella visione essenzialista steiniana che non in quella anti- essenzialista maritainiana

4. L’esistenzialismo moderno e l’intendimento di Filosofia

Maritain chiarisce subito che, nel costituire l’esistenzialismo più «autentico», quello di Tommaso non ha in alcun modo i caratteri dell’esistenzialismo religioso e filosofico moderno.41 Per cui esso è da considerare tanto poco «esistenzialista», quanto poco esso è anche da considerare «realista». Si tratta infatti di una visione che semmai si limita ad affermare il «primato dell’esistenza» ed a sostenere «l’intuizione dell’essere esistenziale». Il che significa che essa ha la valenza di una «filosofia dell’essere» che poi mai più si sarebbe presentata nella sua pienezza allo stesso modo; meno che mai nell’esistenzialismo moderno. In altre parole si può ben dire che alla filosofia tomista dell’esistenza manca il carattere negativo, tipicamente moderno dell’«-ismo» (carattere retorico, ideologico e polemico). In ogni caso si tratta di una visione che si oppone decisamente a qualunque «filosofia delle essenze». Essa nega quindi recisamente il condizionamento dell’esistenza da parte di «essenze e nature», sebbene si guardi bene dal negarle. Ed il tal modo pone l’essere nella sua pienezza incondizionata, ossia come pura e piena esistenza, ovvero in primo luogo come «esse» (che è poi l’essere stesso). Invece l’esistenzialismo che afferma il primato dell’esistenza, negando intanto

essenze e nature, viene da Maritain considerato come «apocrifo». Nulla da stupirsi, dunque, se quest’ultima visione pone in evidenza l’esistenza al puro scopo di negare l’essere (invece di affermarlo). Il che fa di essa un chiaro nichilismo. Esso infatti, negando l’essenza, nega anche lo stesso »esse», e quindi afferma l’esistenza in maniera unicamente negativa e riduzionistica. Il pensatore francese prende quindi atto del fatto che un esistenzialismo così svuotato del vero e pieno senso dell’esistenza non può più avere alcun significato (rispetto a quello che, almeno in via di principio, potrebbe invece essere un esistenzialismo ben posto come quello di Tommaso). Tale visione è comunque di fatto storicamente succeduta da una lunga tradizione essenzialista (coincidente con il razionalismo idealista e metafisico cartesiano e post-cartesiano). Per cui, in conflitto con quest’ultima visione, l’esistenzialismo moderno è giunto ad affermare un «soggetto senza essenza» come assoluto ed incondizionato esistente. Si tratta del finito quale assoluto, concepito come «totalmente irrazionale», ed ovviamente contrapposto radicalmente a quel Dio che viene totalmente negato (nel contesto di un esistenzialismo apertamente «ateo»). Ad esso si contrappone comunque la postulazione antecedente di un puro cogito quale essenza intelligibile legittimamente vuota di essere e non mettente capo ad alcuna vera ontologia – se non come gnoseologia che fonda criticamente l’essere. Si tratta del puro pensiero senza essere, e quindi per questo si tratta anche di un Dio concepito come razionalità pura al massimo grado.

Riguardo all’esistenzialismo moderno, Maritain non esita a vedere in Heidegger il principale esponente della prospettiva «fenomenologica»42 che si è impadronita del tutto illegittimamente non solo del concetto di esistenza ma anche della stessa intera filosofia dell’essere; così che il pensatore tedesco va considerato di fatto un moderno parassita in mala fede dei «grandi metafisici dell’essere».43 Qui Husserl non viene menzionato, ma (vedi note 20-21) gli appunti critici rivolti alla Fenomenologia lo chiamano senz’altro in causa. In particolare, comunque, il pensatore francese pone in evidenza il fatto che il moderno esistenzialismo fenomenologico postula un’»esistenza» che «precede l’essenza». Ed è evidente che ciò pone l’atto di esistere in una maniera del tutto scorretta e scomposta, ossia come vincolo ontologico eticamente neutrale, e quindi puramente fine a sé stesso. Non a caso, entro la visione heideggeriana, esso «cancella» l’essere, invece di affermarlo e rivelarlo.44 Ne consegue che l’anteposizione dell’atto alla potenza è in tale visione solo apparente. E la conseguenza di tutto ciò è la totale nullificazione dell’esistente proprio nel mentre si tenta di riassumere in esso l’intera ontologia – «io esisto ma non sono nulla». Infatti non a caso viene rigettato il concetto stesso di «natura umana». Cosa che poi implica l’ateismo nella maniera più ripugnante e desolante possibile, e cioè nell’affermare che, poiché «non c’è un Dio che possa concepire» la natura umana (come essenza da attualizzare), di fatto «non vi è niente di intelligibile al mondo», tranne «il nauseabondo vibrione umano che si ostina a crescere e moltiplicarsi». Quello che ci viene presentato per mezzo di questa pseudo-ontologia metafisica è semplicemente un «mondo senza Dio». Insomma, questa è la deludente prospettiva offerta da una filosofia che dichiara di essersi preposta il fine di dignificare l’esistenza umana liberandola dalle mistificazioni prima dell’idealismo razionalista e poi anche dell’antica onto-metafisica, specie cristiana. Ora sarebbe davvero troppo sostenere che la Stein rientri in questo così desolante scenario. Non per nulla anche lei sferrò un attacco frontale contro la pseudo-onto-metafisica heideggeriana. Peraltro (sebbene nel contesto di un tangibile essenzialismo) ella sostenne fortemente l’idea della presenza viva del Dio vivente nella forma di una vera e propria impregnazione cristica (e quindi spirituale) dell’intera estensione mondana. Ed a tale proposito va tenuto conto del fatto che Guardini ricollega proprio tale aspetto al dovuto riconoscimento che Dio è in primo luogo Essere.45 E ciò si ricollega poi alla dovuta costatazione che, proprio per mezzo dello Spirito, l’impregnazione cristica del mondo è da intendere come sostanzialmente invisibile ed intangibile; dato che, a paragone del Cristo, lo Spirito è qualcosa che per definizione «si cela».46

Inoltre va anche sottolineato che lo stesso Maritain sostiene che la visione medievale47 (e dunque quella scolastico-tomista) concepì l’uomo come una creatura nobile e divina per definizione, in quanto dotata del libero arbitrio a causa della Grazia. Ed almeno in questo senso, quindi (ossia in senso più teologico che non filosofico-metafisico), la visione steiniana rientra decisamente in una sfera di pensiero che si pone in gran parte aldiquà del razionalismo metafisico (e pertanto dell’idealismo filosofico) sviluppatosi successivamente. Quest’ultimo, infatti, vide nell’uomo una creatura affatto divina, bensì invece integralmente naturale (e proprio per questo concepita come ente intellettuale-razionale, non tanto sul modello divino ma molto più per sua propria natura immanente). Ed esattamente su questa base per Maritain si svilupparono in tale contesto contemporaneamente sia l’umanesimo che il pessimismo tipicamente protestante. Nel Medioevo invece l’uomo era stato inteso come una creatura tanto più nobile e divina quanto più essa veniva (come fece Tommaso) considerata un «esistente» nel pieno del suo valore (ovvero un necessario ed insostituibile atto di esistere). E lo stesso si può senz’altro dire anche per la visione agostiniana dell’uomo (sebbene su diverse basi filosofiche). Restando quindi in linea (almeno teologicamente) con queste due sue antiche radici (Tommaso e Agostino), la visione steiniana rientra solo fino ad un certo punto nell’essenzialismo filosofico condannato da Maritain.

Ma del resto, come abbiamo constatato più volte finora, essa non sfugge per troppi aspetti allo stile di pensiero ed al linguaggio della visione che qui il filosofo francese contesta in maniera molto diretta. Ed inoltre abbiamo anche constatato che la maniera maritainiana di farci toccare la realtà dell’essere è filosoficamente ben più piana, lineare, comprensibile e condivisibile di quella che invece si ritrova in visioni come quella heideggeriana e husserliana. Possiamo quindi condividere senza alcuna difficoltà la denuncia da parte del pensatore francese del »sacro orrore» degli esistenzialisti di fronte all’»universo degli oggetti»48. E questo è il chiaro segno di una totale incapacità di costituire una filosofia dell’essere. La quale è in verità solo paradossale, qualora non ci permetta di concepire davvero incondizionatamente un’indubitabile oggettualità esteriore (con la connessa ontologia) che resta pienamente aperta e disponibile all’azione conoscitiva dell’intelletto. Ma a tale proposito Maritain chiama in causa la tradizione filosofica iniziata con Cartesio, in forza della quale si è iniziato a concepire il dualismo soggetto-oggetto, e così inevitabilmente anche quella «problematicità della conoscenza» restata poi un dogma indiscutibile per l’intera filosofia moderna. Ne è conseguita pertanto la svalutazione delle nozioni di «oggetto» ed «oggettività», che poi è sempre andata di pari passo con la postulazione di una totale inintelligibilità dell’oggettualità esteriore. Come abbiamo già visto, però, la visione tomista dell’esistente si contraddistingue proprio per il fatto di sgombrare il terreno da qualunque negazione dell’intelligibilità dell’oggetto di conoscenza da parte del soggetto. Ciononostante, però, in forza della dottrina del «suppositum», l’oggettualità esteriore non cessa di essere inesauribile nella sua conoscibilità. Proprio questo è dunque l’esistente nella pienezza del suo mistero.

E proprio in questo consiste dunque il vincolo da esso esercitato verso qualunque presa di posizione soggettuale. Questo è poi anche l’insuperabile vincolo costituito da ciò che è «atto di esistere». Ma ciò accade ancora una volta a causa dell’estrema, limpidissima ed onestissima concretezza tanto dell’ontologia tomista quanto della relativa teoria della conoscenza. Infatti, dice Maritain,48 «il concetto di esistenza non può essere visualizzato completamente a parte, staccato, isolato, separato da quello dell’ente è in esso e con esso che il concetto di esistenza è concepito». Si tratta insomma di un concetto che presuppone strettamente il porsi davanti ad un esistente in quanto essente. L’esistenzialismo invece «isola» il concetto di esistenza, e proprio in tal modo pretende poi vanamente di fare di essa ciò che «da sola» costituisce «l’humus che nutre la filosofia». Il che va poi di pari passo con l’estrema negazione della metafisicità dell’oggettualità metafisica incarnata dall’esistente. E tutto ciò è quindi il segno chiaro di quella del tutto abusiva filosofizzazione complessizzante, tipicamente moderna, che poi commenteremo ancora più avanti. Si tratta insomma di una filosofia che, tanto più complica il concetto di essere (per mezzo di un puramente astratto concetto di esistenza) quanto più spoglia l’esistenza della sua inspiegabilità metafisico- religiosa. E del resto proprio in tal modo ne fa, del tutto illegittimamente, il proprio oggetto centrale.

Di importanza capitale è comunque in tutto ciò lo sradicamento del concetto di esistenza da quello di essenza – «Questo significa che il concetto di esistenza non può essere separato dal concetto di essenza», dato che «forma con esso un solo concetto semplice […] il concetto di essere, che è il primo di tutti e di cui gli altri non sono che delle varianti…». Ma una volta rinsaldati i due concetti di esistenza e di essenza (evitando però qualunque postulazione della primarietà della seconda), emerge immediatamente tutto il mistero costituito dall’atto di esistere in quanto «essere-che-è». Ed in tal modo (come abbiamo già visto) si delinea in maniera chiarissima l’essere astratto in tutto il suo valore filosofico; e cioè il concetto di essere, inevitabilmente colto nell’atto di esistere. Esso si lascia infatti sintetizzare senza alcun dubbio in quell’«è» che intanto cessa di designare la pura essenza del tutto vuota di essere. Ed è proprio così che si delinea una ragionevolissima e condivisibilissima filosofia dell’essere. Ma lo svanire dall’orizzonte filosofico del puro concetto di essenza fa sì che la visione «essenzialista» (che nella Stein è fondamentale nel postulare la capacità formativa dell’anima) si differenzi fatalmente dalla visione «esistenzialista».49 Tuttavia in Tommaso proprio quest’ultima svolge il ruolo che la pensatrice tedesca attribuì all’essenza nel postulare la formazione animica. E quindi ciò significa che (grazie ai chiarimenti offerti da Maritain a tale complessivo proposito), bisogna registrare ancora una volta una certa contraddizione interna, che è insita nella visione steiniana a causa del condizionamento esercitato in essa dall’eredità fenomenologica. La visione tomista, intanto, non nega affatto (come abbiamo visto) il ruolo ed il valore dell’essenza. E pertanto costituisce a pieno diritto, come dice Maritain quell’»intellettualismo essenzialista» entro il quale soltanto vengono evitate in partenza tutte le difficoltà relative ai concetti di causa efficiente e causa finale; che evidentemente sono insorte in filosofia solo per il fatto che si è preteso di attribuire la funzione di causa all’»essenza pura». È proprio per questo, precisa il pensatore francese, che poi si è stati costretti ad invocare (o meglio, diremmo, inventare di sana pianta) un’artificiosa e complessissima «scienza dei fenomeni». Le cose stanno in realtà in maniera molto più semplice, a patto che si abbia il coraggio di ancorare la filosofia ad una metafisica religiosa sorretta alla teologia a sua volta ancorata saldamente alla Rivelazione. Infatti la causalità efficiente non è altro che lo «straripare» nell’esistenza, ovvero il «sovrabbondare» che caratterizza gli esistenti. E la causalità finale non è altro che la causa di questo straripare, in quanto tendenza a «trapassare al di là di sé stessi». Quindi si può e si deve semmai parlare di una «sovracausalità» e «sovrafinalità», dovute all’esistere dell’esistente al cospetto del Primo Ente, che lo penetra da ogni parte l’esistente stesso. In verità la Stein si sofferma molto su questa visione nella sua traduzione delle Quaestiones disputatae di Tommaso (specie in relazione al concetto del «tendere» verso un Fine, o «Streben»). Inoltre la Borden (vedi nota 8) testimonia dell’importanza fondamentale che ha nel suo pensiero l’Essenza divino-trascendente, da lei posta proprio come vera e propria causa finale dello sviluppo individuale in direzione dell’unicità personale. Eppure bisogna ammettere che l’essenzialismo fenomenologico, insito nella sua visione, le impedisce di giungere alla stessa chiarezza e nettezza metafisica che a tale proposito è invece propria del pensiero di Maritain. Evidentemente la filosofia moderna (idealismo razionalista) permette al massimo un realismo delle essenze (fenomenologia), ma non mai un autentico realismo dell’esistente. E di nuovo il progetto contrassegnato dal motto «zur Sache selbst» appare essere molto meglio perseguibile per mezzo di una franca, limpida e piana ontologia tradizionale (impregnata totalmente di un sano buon senso) che non invece per mezzo degli astrusi costrutti filosofici moderni. Del resto di ciò prende atto la stessa Borden50 affermando e dimostrando approfonditamente che, nonostante tutto il suo valore esemplare, la concezione steiniana dell’individualità soggiace comunque (per molti aspetti) alla «sfida» («challenge») rappresentata per esso dalla concezione tomista.

Del resto, commentando molto negativamente l’incentrarsi del concetto esistenzialista-moderno sulla libertà incondizionata, e quindi sul puro «potere» – equivalente poi non a caso alla dottrina di una libertà incondizionata del tutto svincolata dalla causalità divina (questione illustrata a fondo da Maritain a proposito del «piano divino») –,51 il filosofo francese registra la ben maggiore autenticità della filosofia tomista.52 Essa infatti – in quanto pienamente «speculativa» per il fatto di costituire un«intellettualismo esistenzialista» – appare essere stata capace di porre sempre il «sapere» al di sopra del «potere»; in particolare evitando di identificare il filosofare con quest’ultimo. Ecco quindi una forma di filosofia (definita qui come «esistenzialismo moderno») che è incapace di divenire etica nel concepire l’azione come orientata appetitivamente al Bene, invece che alla volontà fine a sé stessa, ovvero di fatto alla «volontà di potenza». In relazione a questo Maritain53 non esita a definire come un «piacere dei barbari» il criterio perseguito da un esistenzialismo filosofico che – nell’opporre orgogliosamente la dimensione individuale-personale alla «legge universale» etica – non si muove nemmeno più sulla scorta della forte sollecitazione etica costituita dall’angoscia kirkegaardiana. È in questo spirito distruttivo che gli esistenzialisti moderni sacrificano (senza alcun imbarazzo) l’essenza incarnata dall’universale etico. È su questa complessiva base che possiamo ora approssimarci alla trattazione critica del problema della filosofia.54 Filosofia non è infatti per Maritain la conoscenza dell’oggetto in quanto soggetto. Quest’ultimo è invece solo dalla religione. E dunque, se ancora una volta la conoscenza del flusso soggettuale di vissuti si rivela (alla luce di ciò) come un’idea ben poco filosofica, la Fenomenologia husserliana (in quanto dottrina dell’auto-conoscenza) si delinea nella sua natura tendenzialmente religiosa.

E tuttavia essa si rifiutò espressamente di concepire esplicitamente l’esistenza di Dio – se non nel contesto di una teologia che andava considerata come una scienza regionale tra le tante (cosa che fu comunque senz’altro aspramente criticata dalla Stein).55 Ciò significa però che, nel portare a compimento la dottrina dell’auto-conoscenza per mezzo di Agostino, la pensatrice tedesca sarebbe dovuta pervenire a conclusioni davvero estreme come quelle qui tratte da Maritain – «La religione è per essenza ciò che nessuna filosofia può essere: rapporto da persona a persona, con tutto il rischio, il mistero, lo sgomento, la fiducia, la delizia e il tormento he esso comporta». Ella avrebbe insomma dovuto concepire in questi termini l’importanza del concepire la soggettività immanente posta davanti alla «soggettività trascendente». Ed invece, nello scritto appena menzionato (vedi nota 56), ella si limitò ad opporre il «teocentrismo» all’»egocentrismo» che a suo avviso andava di pari passo con la dottrina della Riduzione Trascendentale. E questo è decisamente troppo poco. La Stein, invece, si sarebbe dovuta produrre in una critica anti-filosofica e pro-religiosa radicale come quella esercitata da Maritain. Il che avrebbe implicato la rivendicazione dell’indagine sulla soggettività alla sola pura filosofia religiosa. Del resto solo così il suo personalismo avrebbe potuto raggiungere davvero il suo culmine. Il pensatore francese afferma infatti che solo in un’indagine specificamente religiosa sulla soggettività si riesce ad entrare «nel mistero della vita personale». Del resto egli chiarisce anche che in tale contesto si supera decisamente la tradizionale opposizione filosofica tra idealismo e realismo. La prima presa di posizione equivale infatti al porre unilateralmente la «prospettiva della soggettività», «sacrificando» in tal modo «ogni cosa al mio unico», ossia affermando di fatto un egocentrismo. La seconda presa di posizione invece comporta invece l’unilaterale abbandonarsi alla «prospettiva dell’oggettività», «dissolvendomi» in tal modo totalmente «nel mondo» e così tradendo quel valore della soggettività del quale è garante in primo

luogo il Dio d’Amore. L’equilibrio tra le due prese di posizioni sta quindi esattamente nella concezione tomista, secondo la quale la conoscenza di un altro soggetto come oggetto, da parte di un soggetto, ricostituisce costantemente i termini di un mondo in cui la relazione prevale su tutto proprio in quanto anche i più infimi oggetti sono degli oggetti. Ma in tal modo viene affermato il personalismo nel modo più radicale ed intenso possibile. Dunque, se è vero che senz’altro il personalismo steiniano fu davvero esemplare per la forza della sua costruzione filosofica e se è vero, inoltre, che anche la sua stessa visione pose fortemente l’accento sulla relazione (specie nelle sue riflessioni sul «cosmo spirituale»),56 è altrettanto vero che nel suo pensiero fu assente la forza semplice e schietta (sorretta da una fede davvero combattiva) che gli stessi concetti ebbero in Maritain. Ed ancora una volta diviene dirimente in tutto ciò il coraggio di assumere una posizione radicalmente critica verso la filosofia moderna. Solo per inciso ci chiediamo quindi per quale vero motivo bisognerebbe abbandonare una dottrina di cotanto valore per abbracciare invece (come tende a fare oggi la moderna filosofia occidentale di ispirazione buddhista) quell’astrusa dottrina dell’anātman, ovvero «not-self (anattā) – che nega l’esistenza della persona come effettiva sostanza – allo scopo di teorizzare un’etica incentrata esattamente sulla relazione d’amore tra tutti gli esseri, viventi e non viventi58.

Per affermare con forza il teocentrismo non basta quindi affatto contraddire la Riduzione Trascendentale, ma bisogna anche sostenere che, per considerarsi un vero soggetto, si deve accettare di venir costituiti solo «dall’alto ossia da quella soggettività trascendente che è il centro dell’universo» ed alla quale «tutte le soggettività sono riferite». È questo, e solo questo (al di fuori di qualunque sofisticata disputa filosofica), che esclude qualunque egocentrismo soggettivistico sostenendo invece solo un teocentrismo. E ciò implica l’affermazione dell’Amore come criterio centrale di qualunque concezione di un’onto-metafisica che osi concepire il valore incontrovertibile del soggetto in quanto persona. Perché, come dice Maritain, è solo «per Lui che io mi amo»; ed è quindi solo per Lui che io ho valore come soggetto, e posso tendere legittimamente alla mia realizzazione come soggetto nel mondo («pur non avendo alcuna importanza nel mondo», ovvero essendo appena, quale uomo, «una piccola cresta di spuma apparsa e scomparsa in un batter d’occhio nell’oceano della natura e dell’umanità»). In altre parole bisogna inderogabilmente ammettere che la posizione della soggettività umana è bivalente per definizione, e comporta quindi una contraddizione insolubile per i due aspetti. L’unica possibilità di soluzione sta pertanto nel Soggetto trascendente, cioè in Dio come Colui che può essere il centro di tutto (immersione in sé) nel mentre è il Tutto stesso (immersione nel mondo). Nello stesso tempo Egli è il Soggetto nel quale ogni soggetto (immanente) può sussistere (in forza del Trascendente) come centro dell’universo. Solo in tal modo io posso essere un ente importante senza cadere nell’egoismo. E solo da ciò scaturisce la dottrina dell’amore di sé correttamente posto. Questa però è pura teologia metafisica, e non è affatto invece più filosofia.

Non a caso anche a tale proposito bisogna ancora una volta moderare l’esclusione della visione steiniana dall’ambito dottrinario appena illustrato, tenendo conto dei suoi aspetti più teologici. Maritain infatti è davvero radicale nel giudicare negativamente l’antropocentrismo che si sviluppò nel pieno della filosofia essenzialista da Cartesio in poi – ««In breve, diciamo che il vizio radicale dell’umanesimo antropocentrico è stato d’essere antropocentrico e non d’essere umanesimo».57 E da ciò discende che l’umanesimo cristiano non può che essere unilateralmente teocentrico nel riconoscere che «Dio è il centro dell’uomo», invece di ritenere che «l’uomo stesso sia il centro dell’uomo e quindi di tutte le cose». Un’affermazione come questa è però totalmente coerente anche con l’intera visione metafisico-religiosa steiniana. E pertanto, almeno in questo senso, il suo teocentrismo deve venir giudicato altrettanto radicale quanto quello maritainiano. Peraltro bisogna tener conto anche delle estreme conclusioni che Maritain trae dalla sua intera disamina dello sviluppo subìto nel tempo dall’umanesimo nel contesto del pensiero cristiano.58 Egli sottolinea infatti che l’evoluzione moderna del calvinismo presso un teologo come Karl Barth ha configurato una posizione che, nello svalutare radicalmente la creatura umana al cospetto del Dio Trascendente, statuì per sempre l’impossibilità di concepire qualunque intervento del Sovrannaturale divino sul piano dell’immanenza divino-mondana. E questo afferma un immanentismo religioso (ormai radicalmente avverso a qualunque metafisica) che appare fortemente convergente con uno degli aspetti più teologici del pensiero heideggeriano, ossia l’affermazione dell’autenticità del solo punto di vista umano circa Dio. Si tratta insomma ancora una volta di un radicale antropocentrismo.

Ed il pensatore francese adduce al proposito in alternativa l’esempio unico di Tommaso, in quanto protagonista di una visione nella quale il pur fortissimo l’antropocentrismo immanentista (incentrato nel valore dell’atto di esistere) mai contraddisse la primarietà del teocentrismo. In tale visione, insomma, la creatura umana venne straordinariamente avvalorata, senza che però sia stato sostenuto in alcun modo che essa debba prendere il posto di Dio. Il teocentrismo così affermato è pertanto di matrice filosofica decisamente antica. Ed in esso rientra senz’altro anche la visione steiniana, nel suo avvalorare l’essente umano come specchio del divino. Quanto abbiamo finora chiarito sta comunque in intima ed inestricabile connessione con quella già discussa dottrina del «suppositum», in forza della quale io posso affermare che in verità solo Dio mi conosce come soggetto (nella mia profonda e vera identità). Anzi si deve ammettere che Dio mi conosce molto meglio di me stesso. Insomma solo in Dio io sono davvero persona. E dunque solo questo contesto fornisce il più solido fondamento a quella intuizione steiniana della fatale solo fugace attualità della nostra esperienza dell’Io («Erlebniseinheit»);59 che, una volta ammessa, esige il presupporre inevitabilmente Dio come il Fondamento in assenza del quale il glorioso flusso di coscienza sprofonda nel nulla ad ogni passo (per quanto in Husserl esso ambisca a configurare l’eternità stessa dell’essere). Insomma si tratta del riconoscersi definitivamente nella condizione dell’»in Dio»; nella quale è impossibile che alcunché si configuri come oggetto di un soggetto – né i miei stessi atti, né gli altri con i quali sono in relazione. Questo e solo questo, dice Maritain, è l’unico stato in cui io posso conoscere la beatitudine invece dell’ineluttabile dannazione; che invece scaturisce sempre dal confronto tragico con i miei atti separatisi da me stesso (proprio in quanto oggetti di un soggetto). Infatti, egli dice, i nostri «atti» (negativi per definizione) sono ciò che più ci annienta. Ed essi possono quindi venire tollerati solo perché l’esperienza della soggettività è per definizione «oscura» (tanto che sempre li dimentichiamo, ma intanto quando riemergono ci assalgono e ci annientano con la loro bruttura). Dunque, solo «vedendosi in Dio», ossia in un «istante eterno» – ossia solo vedendo la propria intera vita ricapitolata in un attimo, e cioè ormai «nell’eternità divina» –, noi possiamo conoscere tutti i nostri atti.

Su questa base Maritain istituisce un’equivalenza tra l’universalità dell’essenza e quell’oggettivazione che inevitabilmente tradisce la soggettualità. Il che significa che l’oggetto reso intelligibile per questa usuale via (quella corrente della conoscenza e della teoria della conoscenza) diviene di fatto un non conosciuto, ossia diviene appena un ordinarissimo e banalissimo «determinato oggetto» (affatto invece tutto il possibile, ovvero l’esistente inesauribile nella sua conoscibilità). E questo «determinato oggetto» è il solo del quale abbiano conoscenza i filosofi moderni nell’indagare il soggetto – in alcun modo la «persona» in quanto sostanziale «soggetto» (o «suppositum»). Tuttavia solo nell’esistenzialismo tale oggetto, che è l’Io (quale punto di riferimento dell’intera filosofia moderna), ha assunto la franca forma di un insondabile abisso – esso è qui una «profondità inesauribile» sono nel senso negativo di un «abisso di pura e informe libertà». Nella sua corretta concezione, invece, il soggetto è una profondità che ha una precisa struttura, e cioè quell’»anima spirituale» che poi costituisce la sua più autentica «struttura». Ma in fondo il soggetto quale oggetto resta sempre l’Io del tipico egocentrismo filosofico-moderno. Non è invece affatto quella persona che è tale (in quanto soggetto che non è oggetto) in quanto resta immersa in un Essere supremamente personale nel quale domina solo e soltanto la relazione. La sua libertà non è quindi altro che la libertà di «comunicare con l’altro». Pertanto, quando questo genere di soggetto si rivela a sé stesso (ovvero si auto-conosce entro gli stessi identici termini della conoscenza divina che lo ha concepito fin dall’inizio dei tempi), si intuisce in primo luogo come una «totalità segreta» sovrabbondante d’amore. Affatto invece come un abisso filosofico o psicologico (inconscio).

E così, in questa totalità profonda e misteriosa, egli scopre le riserve inesauribili dell’amore da donare. Ed è in tal modo che esso scopre allora di possedere l’intelligenza solo per riconoscere ciò che riceve dal mondo per poi «traboccare» nuovamente nell’amore verso gli altri esseri. L’esistente, insomma, è da considerare un soggetto (e quindi è un ente intellettuale nello stesso momento in cui è un ente infinitamente conosciuto da Dio) solo e soltanto in quanto è fatto per accogliere in sé un mondo di soggetti solo per poi ad essi donarsi. E così il soggetto è fatto com’è fatto sostanzialmente per dare (dopo aver ricevuto). Ne deriva che la più integrale concezione del soggetto è in verità tutta etico-teologica, invece che filosofica. Ed allora bisogna ammettere che ciò svaluta perfino la così filosoficamente agguerrita dottrina steiniana dell’unicità individuale quale perfezione del soggetto. Ecco allora che consiste in questa serie di costatazioni ed esperienze, l’essere «stato realmente destato al senso dell’essere o dell’esistenza». Consiste solo in questo il cogliere «intuitivamente l’oscura e viva profondità dell’io e della soggettività». Consiste nello scoprire che è solo «l’amore» la «ragione fondamentale del suo stesso essere», ovvero la ragione «per la quale egli vive». È per questo, e solo per questo, che l’esistente è ciò che è, ovvero l’Essere nel quale Conoscenza ed Amore sono inscindibilmente fusi. Infatti proprio l’amore rende impossibile conoscere gli altri appena come mero oggetto. L’esistente è cioè sempre un radicale «altro noi per noi» (che totalmente ci trascende), e quindi non potrà mai in alcun modo essere assimilabile alla soggettualità conoscente. E tale è anche l’Essere che lo sorregge. Quindi, in definitiva, il definirci come soggetto lo può fare solo l’altro, e non noi; ossia lo può fare solo un davvero integrale ed incondizionato «esistente».

Egli ci riconosce infatti come persona allo stesso modo in cui riconosce sé stesso come tale. Ecco allora che l’auto-consapevolezza (inevitabilmente autarchica) rischia sempre troppo di essere appena un’illusione titanica. Eppure essa rappresenta il vero e proprio mito veneratissimo della nostra epoca. Esso equivale alla fede incrollabile nell’Io – sia che lo si sopravvaluti (come facevano i filosofi idealisti) sia che lo svaluti profondamente (come, dall’esistenzialismo moderno in poi, hanno iniziato a fare i filosofi realisti, finendo poi per definirsi perfino «religiosi» in quanto buddhisti). Ebbene di tutto ciò la Stein ebbe una profondissima intuizione già dagli inizi del suo pensiero, e cioè entro la dottrina dell’empatia (quale intuizione della vita psichica dell’altro). Ma questa dottrina non cessò mai di riposare sulla dottrina husserliana dell’inter-soggettività, e quindi sulla dottrina della Riduzione Trascendentale con tutti i suoi correlati; in primis il fondamentale atto auto-costitutivo che fa dell’Io cosciente il cardine dell’essere. Tuttavia proprio quanto Maritain afferma, ci mostra che, per quanti sforzi si possano fare per sottrarre questa dottrina all’egocentrismo filosofico (e la Stein si sforzò moltissimo in questo senso), essi restano del tutto vani. E ciò avviene semplicemente perché si manca di compiere l’atto più semplice ed ovvio, per rendere possibile la confutazione dell’egocentrismo, ossia il riconoscimento dell’esistente come l’unica entità irriducibile che possa mai venire concepita.

Su queste basi il pensatore giunge pertanto alle sue estreme conseguenze della sua critica alla filosofia moderna.60 Si tratta di un attacco davvero diretto, che viene sferrato dal pensatore contro il culto moderno della Ragione. E per la verità è davvero difficile immaginarsi che la Stein (conoscendo da vicino Maritain e partecipando ai dibattiti in cui egli fu coinvolto) non abbia condiviso (anche solo in pectore) molti dei così duri accenti di tale critica. Abbiamo comunque già commentato quello che è il nucleo della critica maritainiana, e cioè l’accusa di sequestro e svuotamento totale del concetto di esistente, che egli rivolge alla Filosofia accademica. Quest’ultima infatti avrebbe illegittimamente trasformato in «sapienziale» (ispirata a Minerva) una presa di posizione in sé «imprecativa» (ispirata a Giacobbe) e quindi religiosa. La conseguenza di ciò è stata poi la trasformazione dell’anelito alla «salvezza del proprio unico» nella proclamazione della potenza titanica di quest’ultimo. La quale poi, per poter venire sostenuta, richiedeva l’atto definitivo di strappo dell’esistente umano-mondano dall’Essere divino che lo sorregge. Ciò richiedeva insomma il decreto nietzschiano della morte di Dio. In tal modo l’atto di esistere cessava di essere vincolante in nome del mistero religioso del suo insorgere e sussistere, e diveniva invece vincolante unicamente in nome della sua evidenza riconosciuta per via laico- filosofica (evidenza ovviamente solo riduzionistica). Ed emblematico in questo è stato lo sforzo heideggeriano per riportare l’evidenza costituita dall’esistente alla sua radice greco-pagana. Tuttavia le colpe dell’esistenzialismo filosofico-accademico risalgono a colpe ben più antecedenti ad esso, e cioè quelle dell’intero pensiero moderno. Il quale per Maritain si era fatto promotore di «totalitarismo della ragione» che vide poi in Hegel il suo culmine. Per mezzo di tale presa di posizione era stato dissipato per sempre il tesoro, accumulato dalla Scolastica (con al centro Tommaso) per mezzo della concezione della Ragione umana quale dono divino. L’esistenzialismo moderno e «ateo» completò tale opera demolendo le ultime tracce di tale concezione, e quindi smantellando la natura spirito-animica dell’uomo (specie nella sua dimensione interiore). E fu così quindi che, a causa della sparizione del concetto di ferita interiore dell’anima a causa del peccato (ben presente nell’originario esistenzialismo religioso di impronta kirkegaardiana), «il nulla nell’esistente» venne per sempre «sostituito dal nulla dell’esistente».

In tal modo, dunque, quel «primato dell’esistere» – che in Tommaso aveva posto in luce la sostanziale positività del fenomeno-esistente (nonostante il peccato) – si trasformò via via (passando dall’esistenzialismo religioso a quello filosofico) nel totale non senso sia dell’esistente che dell’esistenza. Si tratta per la precisione dell’»assurdità radicale dell’esistenza sradicata da Dio». Ma ancora più paradossale è il fatto che il «negativo» così affermato, ossia l’esistente, ritornava a costituire un «positivo» nel modo più illegittimo possibile, ossia come oggetto e nucleo di un’intera scuola filosofica. Ed è in relazione a questo che quindi Maritain si sente autorizzato ad invocare una rinascita della filosofia (giunta intanto nell’esistenzialismo al punto più basso del suo percorso) per mezzo del recupero ad essa della »teologia» (eliminando intanto la «teologia capovolta» dell’esistenzialismo, ossia l’’»a-teo-logia»), e di conseguenza per mezzo del recupero ad essa di una metafisica davvero «autentica». A tale proposito bisogna dire che la Stein fu forse ancora più radicale di Maritain. In quanto ella sostenne (contraddicendo i limiti da lui assegnati alla Ragione naturale sulla base di Tommaso) che la teologia doveva condurre la filosofia alla sua pienezza in quanto conoscenza della verità assoluta, indubitabile ed oggettiva («perfectum opus rationis»), e cioè alla più piena contemplazione metafisico-religiosa (vedi nota 56). Tuttavia va anche detto che l’entusiasmo dell’autentico filosofo religioso, a fronte di tale idea, finisce per risultare notevolmente ridimensionato se si tiene conto di quanto abbiamo evidenziato finora. In verità infatti la Stein fu sempre polarizzata molto più dal valore della filosofia, che non da quello di un’effettiva filosofia religiosa. E qui il valore di quest’ultima viene invece riaffermato da Maritain nel riproporre la primarietà della teologia quale punto di partenza per la riflessione filosofica.

In ogni caso, però, anche a tale proposito bisogna in parte moderare l’ipotetica insufficienza della visione steiniana (rispetto alla condanna di questo complessivo sviluppo filosofico). Perché non si può assolutamente sostenere che ella abbia appoggiato in qualunque modo quella de- umanizzazione, che Maritain constata quale estremo sviluppo della naturalizzazione dell’uomo (già avvenuta con il razionalismo metafisico) entro quel pensiero moderno in cui (tra XIX e XX secolo) vissero tanto l’esistenzialismo filosofico quanto anche lo pseudo-umanesimo ateo del marxismo.61 In tale contesto si delineò di fatto la prima affermazione della morte di Dio (che sarebbe stata riecheggiata poi ancora più possentemente da Nietzsche), e quindi venne decretata la definitiva separazione dell’uomo da Dio. E sarebbe davvero troppo annoverare la visione steiniana a tale ambito di idee. Colpisce però non poco la nostra immaginazione il fatto che Maritain abbia sentito la necessità di attaccare la visione marxista, mentre la Stein (che intanto aveva attaccato frontalmente non poche visioni moderne, come l’evoluzionismo e la psicanalisi) non si produsse mai in affermazioni di questo genere. Peraltro le riflessioni del filosofo francese62 evidenziano

un’ulteriore stranezza della visione steiniana, nel sottolineare che entro lo pseudo-umanesimo marxista avviene una paradossale immanentizzazione totale del valore attribuito all’»atto di esistere» umano – al quale viene attribuita di fatto la stessa valenza dell’»aseità» divina, ma sul piano unicamente immanente, naturale e materiale. Vengono così poste le premesse di qualunque genere di deificazione ascensivo-titanica; che necessariamente deve prendere le mosse dall’uomo totalmente naturalizzato, e quindi concepito come l’esatto contrario dell’uomo trascendente, ovvero la persona. Ciò che risulta strano è insomma che, pur sostenendo un così radicale personalismo, la Stein non abbia sentito la necessità di prodursi in una simile critica allo sviluppo storico-filosofico dell’umanesimo fino alla sua forma marxista.63 Quello che è certo è che per Maritain la teologia influenza positivamente il pensiero esclusivamente entro una «filosofia dell’essere»; la quale sussiste poi solo e soltanto allorquando non vengono sbarrate le «strade dell’essere» che permettono di approdare così all’»Essere trascendente». E questa opera di sbarramento è esattamente quella in cui si è prodotto l’esistenzialismo filosofico- ateo moderno. È su questa base che Maritain propugna il ritorno a Tommaso come ad un insuperato paradigma del filosofare e della filosofia. Solo in tal modo è possibile infatti per lui superare in un sol colpo i pensatori demoliti dall’esistenzialismo (i grandi protagonisti di quello che fu effettivamente un «imperialismo filosofico» già preconizzante una presa di posizione a-religiosa o anti-religiosa) ed insieme anche i pensatori che hanno posto in atto tale demolizione (ossia i protagonisti della «disperazione della ragione»). Tuttavia è significativo il fatto che egli coinvolge nell’accusa anche buona parte dei moderni tomisti (ossia quei gelidi dissettori anatomici del pensiero di Tommaso, che in verità sono molto più filosofi militanti che non invece seguaci dell’Aquinate). E questo riabilita non poco l’opera steiniana in questo contesto critico, dato che anche lei si schierò contro tali interpreti di Tommaso. In questo è probabile che ella sia stata solidale con Maritain, con il quale come si sa ebbe contatti piuttosto stretti. Su questa base il pensatore francese sintetizza l’aspetto motivazionale più caratteristico di un’autentica filosofia dell’essere, e cioè lo «zelo per l’essere». È proprio questo che rende per lui il pensiero di Tommaso «disperatamente necessario» al giorno d’oggi. Nello stesso tempo però bisogna prendere pienamente atto del fatto che esso risulta «estraneo e intollerabile alla ragione d’oggi, ammalata, vuota ed esasperata». Infatti esso «è operatore di unità, e noi vagheggiamo la dispersione; è operatore di libertà, e noi andiamo alla ricerca di un qualsiasi giogo collettivo; è operatore di pace, mentre quel che ci occupa è la violenza». Ci sembra proprio questo il culmine della critica maritainiana alla Ragione nella sua moderna concezione. Ma non ci sembra che la Stein si sia mai espressa in termini così netti ed espliciti.

5. Conclusioni.

Ciò che assolutamente non vorremmo avvenisse, in base a quanto finora abbiamo posto in luce, è che, dalla nostra disamina (della relazione di pensiero esistente tra Stein e Maritain) emergesse un’immagine negativa della visione della pensatrice tedesca. Abbiamo dedicato al suo pensiero la gran parte dei nostri studi filosofici, e ciò sarebbe quindi assurdo. Del resto proprio la Borden64 testimonia che il pensiero steiniano ha un enorme valore oggettivo proprio in quanto esso è «unico» nel senso della sua «sofisticazione filosofica». E quest’ultima concerne proprio la relazione tra l’essenza e l’atto di esistere individuale. Si può quindi ben presumere che, per quanto totalmente fondato sull’essenza, l’individuo unico-personale della Stein equivalga piuttosto bene (in termini soprattutto metafisici e teologici) all’atto di esistere maritainiano – sebbene tale equivalenza sussista solo nella differenza. Peraltro negli antecedenti nostri scritti (già menzionati) abbiamo sostenuto che l’intuizione dell’Essere è forse il più intimo ed autentico nucleo della visione steiniana. Dunque è forse proprio la sorpresa suscitata in noi da tale costatazione, l’elemento che bisogna tenere presente per comprendere ciò che intendiamo dimostrare con l’attuale indagine.

Si tratta di quanto ora cercheremo di spiegare. Come abbiamo sostenuto in più sedi, a noi sembra che lo spirito nel quale la Stein filosofò fu ben più «platonico» che non invece «tomistico- aristotelico». Ed infatti la veste platonica si attaglia benissimo al suo pensiero sia nella sua forma (iniziale) più rigorosamente filosofica e filosofico-moderna (quella più in linea con la Fenomenologia husserliana), sia nella sua forma (finale) ormai apertamente mistico-contemplativa e quindi intensissimamente religiosa. Questo viene del resto chiaramente attestato dalla stessa Borden65 (che proprio su questa base sottolinea peraltro il distanziamento sempre maggiore della Stein da Husserl). Eppure tra queste due fasi si interpose quella riflessione che è universalmente ritenuta la fioritura più doviziosa del suo pensiero, ossia quella sviluppatasi a margine del pensiero di Tommaso (e che include gli scritti Der Aufbau der menschlichen Person, Potenz und Akt, e Endliches und ewiges Sein). Fu in questa fase (con centro nei materiali che si estendono da Potenz und Akt alla prima parte di Endliches und ewiges Sein) che la Stein prese contatto con la problematica dell’essere; e quindi, conseguentemente, sviluppò un’incontestabile filosofia dell’essere. La quale poi per certi versi va considerata davvero esemplare nel contesto storico-filosofico del XX secolo. La lettura di Maritain ci ha però suggerito che in tal modo la pensatrice appena si affacciò su uno scenario di riflessione filosofico-metafisica che appare aver trovato il suo sviluppo solo presso i pensatori che non frapposero alcun ostacolo di sorta tra la loro presa di posizione e l’onto- metafisica ripresa nella sua forma integralmente tradizionale. E ciò viene confermato dal fatto che solo presso costoro (come avviene appunto in Maritain) noi giungiamo a comprendere davvero fino in fondo cosa avesse significato, a quell’epoca, l’atto del riprendere in mano il tema e problema dell’Essere. Naturalmente, per tutto ciò che abbiamo evidenziato finora, appare chiaro che bisogna decisamente escludere da tale ambito pensatori del genere di Heidegger. I quali svolsero invece un’operazione filosofica radicalmente diversa, anzi in verità diametralmente opposta. Essi insomma impiegarono il concetto di «essere» appena come un pretesto per la loro opera di sostanziale distruzione dell’ontologia.

Ebbene – per quanto noi ci riconosciamo personalmente in pieno nella visione filosofico-metafisica platonica, e per quanto restiamo convinti che in verità Platone fu forse un pensatore dell’essere ancora maggiore di Aristotele66 – bisogna ammettere che il platonismo costituisce effettivamente un ostacolo nel porre la questione dell’essere alla maniera davvero convincente con la quale essa viene posta da Maritain sulla base di Tommaso. Infatti solo contraddicendo alcuni tipici punti di vista platonici è possibile porre l’esistente come «atto di esistere» con la forza e nettezza, in assenza delle quali sembra che per davvero un’autentica filosofia dell’essere non si delinei. Ed anche questo viene attestato dalla Borden nel sottolineare la natura platonica (ben più che husserliana) del concetto di essere ideale steiniano, ossia il trascendente e divino «essere essenziale» (o Logos). A moderazione di tale affermazione va solo detto che (com’è del resto ben noto)67 l’insegnamento scritto (essoterico) di Platone restò molto al di sotto del suo insegnamento orale (esoterico).

E quindi è probabile che solo in quest’ultimo il pensatore ateniese abbia posto quelli che sono i veri principi della sua visione, ossia di ciò che si può intendere come «platonismo». Ed infatti (come abbiamo ribadito anche negli scritti dedicati al pensiero steiniano) noi siamo convinti che l’Idea quale cosa nella sua pienezza trascendente equivalga in Platone all’atto di essere stesso (nella forma di supremo individuo indipendente, ovvero «perseità» o «kat’autò») in quanto suprema oggettualità esteriore trascendente. Sta di fatto però che, da Aristotele in poi, i principi platonici presi in considerazione dai filosofi furono quelli propri dell’insegnamento scritto, e quindi quelli più riduttivi e forse più sterilmente schematici e superficiali. Posto questo, bisogna allora doverosamente registrare che, laddove nel pensiero steiniano appare condizionante il pregiudizio filosofico-moderno (sempre sbilanciato dal lato epistemologico- gnoseologico a danno di quello ontologico), è condizionante anche quel «platonismo» contro il quale Maritain invece si scaglia con grande decisione. Possiamo averne la misura (solo per fare alcuni esempi) laddove egli tocca il tema degli Universali e dei Trascendentali; affermando che a quel livello ontologico si configura l’Essere nella sua pienezza in quanto Totalità omni- abbracciante.68 Si tratta precisamente di quella «cosa metafisica» (ossia l’atto di esistere nella sua forma più trascendente ed universale) che può venire colta solo se si astrae dalle cose materiali. E proprio a tale livello emerge il «concetto metafisico dell’essere», ovvero l’Essere in tutta la sua astrattezza (esattamente quello che Heidegger rigettò sdegnosamente). La Stein in effetti sostenne la stessa cosa, ma arrivò a questo risultato ben più per via platonica che non per via tomistico- aristotelica; e cioè prendendo in considerazione l’Essenza in veste di Essere nella forma specifica di Logos, ossia di Idea in quanto suprema oggettualità. E bisogna a ciò aggiungere che per lei l’«essenza» non fu mai l’esse (come in Tommaso e Maritain) – ossia la premessa in primo luogo dell’esistenza –, bensì invece fu molto più il «ciò che è». Cioè l’essenza ebbe una valenza ontologica solo in quanto essa aveva in primo luogo una valenza epistemologica. Cosa che ricostituisce inevitabilmente più i termini dello schema platonico, e non quelli dello schema tomistico- aristotelico.

Un ulteriore esempio dell’ostacolo rappresentato dal platonismo, può essere costituito dalla dottrina esposta da Maritain a proposito della formazione della Materia prima da parte dello Spirito divino «forma che è uno spirito». Qui più che mai è in causa un’essenza che proprio quale forma deve tendere all’esistenza per potere essere davvero un «qualcosa». Ebbene la Stein sviluppò proprio su questo una delle parti più suggestive del suo Potenz und Akt, ossia quella in cui ci mostra che la formazione spirito-animica della materia (all’opera a partire dall’interiorità soggettuale) non è comprensibile se non nel contesto del vastissimo scenario configurato dall’azione dello Spirito divino sulla Materia. Inoltre anche la pensatrice afferma, come Maritain, che tale azione trascendente trapassa da parte a parte quella che è l’»anima spirituale» umana. Tuttavia anche qui giocano un ruolo decisivo gli elementi dottrinari husserliano-agostiniani (e di forte stampo platonico), che pongono in primo piano l’atto di auto-costituzione dell’Io cosciente quale fulcro dell’intero processo di formazione. Insomma, sebbene la Stein sottolinei con forza simile a Maritain che l’idea-essenza-forma resta un nulla di essere finché non sia passata ad esistere in maniera incarnata, comunque ciò che presso di lei sta in primo piano è e resta il valore della dimensione potenziale-ideale-interiore, e non quello della dimensione attuale-esteriore. Ebbene, a tale proposito dobbiamo dire che noi personalmente sottoscriviamo in pieno il valore attribuito dalla pensatrice alla dimensione potenziale-ideale- interiore (ed anche all’ontologia che così si configura). Tuttavia non vi è dubbio che, finché non si pongono le cose come le pone Maritain, non si perviene mai alla formulazione davvero definitiva di ciò che è «atto di esistere». E non vi è dubbio che in tal modo la filosofia dell’essere resta gravemente monca in quanto non emerge come dovrebbe l’effettiva impositività della dimensione oggettuale mondano-esteriore. Del resto, come ci fa vedere il pensatore francese, quest’ultima costituisce un profondo mistero non meno di quanto lo sia la dimensione interiore. Il che quindi ricostituisce i termini della metafisica in una maniera senz’altro più radicale di quanto avvenga quando invece ci si muove sul piano prevalentemente interioristico.

Ciò va assolutamente detto sebbene abbiamo mostrato (specie sulla base delle sollecitazioni intellettuali indotte in noi dalla Borden) che anche il concetto di «atto di esistere» conosce i suoi be precisi limiti nel fondare una filosofia dell’essere. Ed una volta posto questo bisogna quindi attribuire il giusto valore che ha anche una filosofia dell’essere di tipo essenzialista, com’è quella steiniana. È possibile quindi, anzi è doveroso, riconoscere un certo equilibrio nel confronto di valore tra le due filosofie dell’essere. E ciò significa allora che la relativa «superiorità» della filosofia dell’essere maritainiana può e deve venire riconosciuta non tanto sul piano filosofico, quanto invece molto più sul ben più generale piano etico-metafisico e perfino anche culturale. Infatti la nettezza (perfino dogmatica) di tale concezione dell’essere appare essere assolutamente indispensabile per rintuzzare quella tendenza filosofica moderna che poco a poco ha indebolito talmente il concetto di «essere», da aprire infine la strada alla sua radicale negazione. E ciò (come viene ottimamente sottolineato da Maritain) non ha avuto aspetti devastanti soltanto dal punto di vista religioso, ma anche (e forse addirittura soprattutto) sul piano del comune sentire individuale, ed inoltre anche del vissuto collettivo, ossia sul piano dell’integrazione psicologica e spirituale della società.

E con questo crediamo che possa essere stata pronunciata davvero l’ultima parola sulla complessiva questione da noi indagata in questo scritto. Infatti, come abbiamo udito dire a Maritain, non si può essere realmente filosofi dell’essere se non si è intanto radicalmente metafisici. Va però ancora ricordato che comunque vanno tenute in considerazione tutte le precisazioni specificamente teologiche che abbiamo proposto nel moderare il giudizio di insufficienza che potrebbe venire formulato sulla metafisica interioristica steiniana. Abbiamo visto infatti che, quando ci si sposta dal piano filosofico al piano puramente teologico, ciò che emerge con grande chiarezza anche nella visione steiniana è l’importanza decisiva che ella attribuì all’«essere» nella sua pienezza in quanto divino.


  1. Le sue lettere testimoniato di diversi generi di contatti tra i due pensatori, ed anche della piena condivisione di una fede molto intensa. Essi si incontrarono non solo a Juvisy [Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Maria Amata Neyer, Selbstbildniss in Briefe. Erster Teil 1916-1933, ESGA 2, Herder, Freiburg Basel Wien 2010, 211 p. 227-229] ma anche in occasione del viaggio della Stein a Parigi nel 1932 [ibd. 217 p. 235-236]. Inoltre i due restarono anche in corrispondenza, con il coinvolgimento anche della stessa Raissa Maritain [ibd. 228 p. 252, 263 p. 293-294]. ↩︎

  2. Vincent Aucante, “Foi et raison selon Edith Stein”, Gregorianum, 87 (3) 2006, 522-543; Xavier Tilliette, “Edith Stein et la philosophie chrétienne: a propos d’Être fini et Être éternel”, Gregorianum, 71 (1) 1990, 97-113, Francesco Valerio Tommasi, “L’analogia della persona in Edith Stein”, Archivio di Filosofia, 79 (3) 2011, I, 5 p 68-75; Christof Betschart, Christliche Philosophie nach Edith Stein, Lizentiatsarbeit, Theologische Fakultät Freiburg/Schweiz Freiburg 2004, 2 p. 17-28; Chantal Beauvais, “Edith Stein et la modernitè”, Laval théologique et philosophique, 58 (1) 2002, 117-136. ↩︎

  3. 3Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tesi di Dottorato in Filosofia, FLUL Lisbona 2018 (in via di pubblicazione); Vincenzo Nuzzo, “L’orizzonte platonico del pensiero steiniano. Anima, ragione e spirito”, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, IX, 2016, 129-170; Vincenzo Nuzzo Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero (testo non pubblicato, presentato in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/24/il-platonismo-di-edith-stein-dal-punto-di-vista-della- fase-mistica-del-suo-pensiero/ ). ↩︎

  4. Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein (testo non pubblicato, presentato in: https://cieloeterra.wordpress.com/2018/12/11/tentativo-di-sintesi-esplicativa-del-pensiero-di-edith-stein/↩︎

  5. Vedi nota 3. ↩︎

  6. Sara Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholic University of America Press, Washington 2010, Introduction, p. XV-XXVII. ↩︎

  7. Sara Borden Sharkey, Thine own self… cit., 1 p. 1-25. ↩︎

  8. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XV-XXVII, 1 p. 2-12, 2 p. 36-48, 4 p. 104-115 ↩︎

  9. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 2 p. 36-48, 3 p. 65-72, 4 p. 86-82, 5 p. 126-143, 5 p. 147-151. ↩︎

  10. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 2 p. 20-22. ↩︎

  11. Appartenenza di campo che per la Borden spiega la resistenza della pensatrice alla dottrina dell’individuazione sia tomista che scotista; e ciò perché entrambe riconducono l’unicità individuale all’universale umano in quanto “specie” fissata eternamente e trascendentemente [Sara Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XX-XXIV]. ↩︎

  12. Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014; Jacques Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Torino 1962. ↩︎

  13. Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia 2009. ↩︎

  14. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., Premessa, 1-2 p. 37-44. ↩︎

  15. Tale obiezione viene però decisamente relativizzata (se non confutata) invocando la differenza da fare (che la Borden sottolinea entro il pensiero steiniano) tra essenza-forma intesa come “potenza” e l’essenza-forma intesa come “possibilità” [Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 4 p. 82- 103]. Nel primo significato (di “potenza”) la forma si presenta infatti come “ripetibile” per definizione (coincidendo in tal modo con l’universale in quanto non-individuale, o singolare, ma invece generale); e quindi non può effettivamente mettere capo all’individualità. Nel secondo significato (di “possibilità”) la forma si presenta però come l’insieme trascendente e eterno di tutte le possibilità di esplicazione dell’individualità. Ed in tal modo l’essenza cessa del tutto di essere un’istanza insufficiente nel fondare l’atto di esistere. ↩︎

  16. E il pensatore ci mostra come poi questa tendenza abbia configurato un sostanziale “agnosticismo” il cui esito naturale fu poi il concetto di “morte di Dio” [Jacques Maritain, Umanesimo integrale… cit., I, IV p. 81-86]. ↩︎

  17. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 3 p. 45-47. ↩︎

  18. Angela Ales Bello, Il senso delle cose, Castelvecchi, Roma 2013, III, 1-5 p. 51-74. ↩︎

  19. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XV-XXVII. ↩︎

  20. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., Premessa, 1 p. 37. ↩︎

  21. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., V, 33 p. 149-155. ↩︎

  22. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 4-8 p. 47-68. ↩︎

  23. Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, I p. 29-34, I, I, III p. 81-97. ↩︎

  24. Non a caso la Borden sottolinea il fatto che la pensatrice risolse l’evidente problematicità rappresentata dalla dimensione ontica ed insieme conoscitiva dell’”essere essenziale” (quale equivalente trascendente della forma vuota, ossia l’”essere mentale”) proprio sostenendo che quest’ultimo non è altro che l’insieme delle Idee di esseri individuali che si trovano ab aeterno nella mente divina [Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 4 p. 82-103]. E questa senz’altro fu una concezione che ella desunse dal Tommaso più platonico. ↩︎

  25. “Dio”, egli dice “è presente come niente e nessuno lo sono” [Romano Guardini, Introduzione… cit., I, 4-5 p. 24-33]. Non lo è come la “pianta” ed il “tavolo” che stanno intorno a noi nel mentre ci mettiamo in contatto con Lui. Dio quale Essere è Presenza assoluta in quanto è irriducibile a qualunque genere di «qualcosa». Egli infatti “deve l’essere a sé stesso”, e solo a sé stesso. È il Signore. Eppure i nostri sensi ci tradiscono e molto! Infatti, mentre parlo con Lui, intorno a me c’è per davvero solo il “vuoto”, ed il mio è quindi solo un “monologo”. Nonostante intanto sia evidente che “Egli è dovunque”. Devo quindi continuamente ricordarlo a me stesso per non scivolare nel non-senso e nella banalità, ossia “devo credere nel Suo volto”. Insomma, a fronte di questa presenza tanto ovvia quanto ultra-sensibile, io ho assolutamente bisogno della fede, e pertanto ho bisogno dell’amore anelante. Il puro pensiero invece non basta affatto. Né ovviamente basta la pura superstizione. ↩︎

  26. La studiosa sottolinea infatti che la Stein pone l’accento sulla sostanziale “intelligibilità” dell’individuo unico in quanto primario atto di esistere, ossia quell’Essente che è decisamente molto più che l’atto di esistere universale e naturale, e cioè il generico ente [Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XV-XXVII, 1 p. 16-25]. In altre parole l’individuo nella sua pienezza sussiste solo allorquando esso pone sé stesso per mezzo dell’auto-consapevolezza (auto-conoscente ed auto-riflessiva). Il che accade solo quando esso si pone come un’egoicità, che per definizione è cosciente di sé. Tale individuo sussiste pertanto non in forza del mero esistere (che invece è solo dell’ente), bensì invece unicamente in forza del proprio stesso auto-porsi in quanto ente intellettuale, ossia in forza di un atto di auto-formazione che è possibile solo all’ente egoico. Ecco allora che l’ente (quale semplice ed assoluto atto di esistere) diviene decisamente secondario in senso ontologico rispetto a quell’Essente nella cui costituzione è di importanza critica proprio il possesso totale del proprio «cos’è?». Questo ente davvero pienamente individuale insorge e sussiste, quindi, unicamente in forza dell’essenza che lo costituisce interiormente. E bisogna inoltre dire che in tal modo la Stein attribuisce all’essenza una valenza ontologica che va ben oltre il senso puramente epistemologico che essa ha sia in Husserl (quale “essere mentale” solo metaforicamente onto-costituente) sia in Tommaso (quale astratto universale-comune, ossia generale, che poi ha urgente bisogno della materia per mettere capo all’individualità). Qui insomma la filosofia dell’essere essenzialista (e non esistenzialista) della Stein assume tutta la sia primarietà e perfino paradigmaticità. Mentre la filosofia dell’essere (esistenzialista ed anti-essenzialista) di Maritain e Tommaso diviene decisamente secondaria, in quanto essa si limita a parlarci dell’essente meno primario che sia, ossia l’ente universale (che esso venga concepito in termini naturalistici o anche metafisici). ↩︎

  27. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, Introd. 6 p. 29-33, II, I, 2 p. 117-123, II, I, 4-5 p. 135-144, II, II, 2 p. 169-189, III, II, 1 p. 354-389. ↩︎

  28. Il pensatore ci mostra infatti come Sarte non faccia altro che constatare il ”non-essere naturale”, nullificando così non solo il soggetto-essenza ma anche lo stesso oggetto-esistente [Jacques Maritain, Breve trattato… cit., V, 33 p. 149-155]. E cosi egli non fa altro che teorizzare l’”impotenza del per-sè” di fronte alla “stupida gratuità dell’in-sé”. In questo modo, quindi, l’esistente potrà essere anche schiacciante, ma intanto non rappresenterà né significherà assolutamente nulla, ossia non avrà alcun valore né ontologico né etico né conoscitivo. ↩︎

  29. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 10 p. 70-74. ↩︎

  30. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introd. p. XV-XXVII, 3 p 56-80, 4 p. 82-103 ↩︎

  31. Romano Guardini, Introduzione… cit., III, 4 p. 104-107. ↩︎

  32. Io esisto, dice Guardini, solo perché Lui “mi conosce e mi pensa” [Romano Guardini, Introduzione… cit., I, 5 p. 28-33]. Altrimenti sono solo un nulla. Per quanto ciò (entro l’esistenza concreta) venga nascosto dall’apparenza corporeo-materiale-sensibile. Su questo piano, insomma, io sembro un «qualcosa», ma sono invece solo un «esser-ci», un «gettato nel mondo», abbandonato all’esistenza temporale; ossia il mio esistere non ha alcun senso. Posso anche vivere intensamente, avere successo, essere ricco, ma intanto (in virtù del solo me stesso) io mai esisterò per davvero. ↩︎

  33. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., III, 16-17 p. 93-99. ↩︎

  34. Edith Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma 2003, VI p. 344-387. ↩︎

  35. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 8-11 p. 60-78. ↩︎

  36. 36Angela Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare Dio – Credere in Dio, Messaggero, Padova 2005, II, 1-5 p. 37-80; Edmund Husserl, Natur und Geist. Vorlesungen Sommersemesterferien 1919, in: Michael Weiler (Hrsg), Edmund Husserl. Materialienbände, IV, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht Boston London 2002. ↩︎

  37. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., Premessa, 1 p. 37, V, 35 p.166. ↩︎

  38. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., III, 1-19 p. 93-102. ↩︎

  39. Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 3, 4 p. 318-321, VII, 6-7 p. 352-358, VIII, 2, 3 p. 399-401;Edith Stein, Übersetzungen IV. Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 2. ESGA 24, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, XXII, 1- 4 p. 568-580. ↩︎

  40. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 2 p. 36-48, 4 p. 86-82. ↩︎

  41. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., Premesse, 1 p. 37-44. ↩︎

  42. Della quale egli registra puntualmente la tendenza ad un astruso, inutilmente complesso e falsificante neo-linguaggio (“…quel linguaggio ineguagliabile di cui si compiace la filosofia odierna”) ↩︎

  43. E tra l’altro il pensatore francese [Jacques Maritain, Breve trattato… cit., V, 34 p. 156-157] non esita nemmeno a considerarlo come un opportunista (un pensatore al quale “non manca il senso dell’opportunità”); nel contesto di un esistenzialismo dal linguaggio e pensiero “scaltro ed artificioso” che non si è fatto alcuno scrupolo di “mascherare e dissimulare” quella che era stata l’intuizione esistenzialista originaria di Kirkegaard. ↩︎

  44. Ernst Jünger - Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 2010. ↩︎

  45. Egli chiarisce infatti che l’amore divino deve venire inteso in primo luogo come un Dio vivente che, in Cristo, è l’unica divinità sicuramente vicina al mondo e all’uomo; ossia è quel Dio con il quale ci si pone in relazione (per quanto rigorosamente invisibile) mediante l’imitazione del Cristo [Romano Guardini, Introduzione… cit., III, II p. 98-102]. Ebbene questo è il Dio che, con Cristo, è venuto nel mondo allo scopo di restarvi per sempre (“…non è una semplice figura della storia, apparsa un giorno sulla terra, della quale siano rimaste solo le tracce che essa ha lasciate con l’opera e l’azione, bensì Egli vive”). ↩︎

  46. Romano Guardini, Introduzione… cit., I, IV p. 104-107. ↩︎

  47. Jacques Maritain, Umanesimo… cit., I, II p. 71-78. ↩︎

  48. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 7 p. 56-60. ↩︎

  49. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 10 p. 70-74. ↩︎

  50. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 7 p. 153-184. ↩︎

  51. 52Hanna-Barbara Gerl-Falkowitz, Maria Amata Neyer, Sebstbildniss… cit., 123 -127 p. 144-149, 173 p. 191-192; Edith Stein, Potenza e atto… cit., VI, 11 p. 270-280; Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, IV, 8 p. 55-56, V, II, 1 p. 59-61, V, II, 7 p. 68-69. ↩︎

  52. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., II, 12 p. 79-81. ↩︎

  53. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., II, 17 p. 87-92. ↩︎

  54. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., 20- p. 102-114. ↩︎

  55. Edith Stein, “Husserls Phänomenologie und die Philosophie des hl. Thomas v. Aquino. Versuch einer Gegenüberstellung“, N. Niemeyer Verlag Tübingen 1929, p. 315-338. ↩︎

  56. Non a caso la riflessione steiniana svolta a tale proposito [Edith Stein, Potenza ed atto… cit., VI p. 380-387] viene a chiudere le sue definitive critiche all’idealismo in tutte le sue possibili forme (incluso l’idealismo trascendentale); ponendo così un mondo esteriore (incondizionabile alla coscienza) la cui dinamica profonda è poi proprio l’amore circolante nel Corpo Mistico di Cristo (del quale ogni soggetto è “membro” esattamente in quanto esistente). ↩︎

  57. Oren Hanner, “Buddhism as reductionism: personal identity and ethics in parfitian readings of buddhist philosophy: from Steven Collins to the present”, Sophia, 57 (2) 2018, 211-231; Bobby Bingle, “Blaming Buddha: buddhism and moral responsibility”, Sophia, 57 (2) 2018, 295-313 ↩︎

  58. Jacques Maritain, Umanesimo… cit., II, IV p. 117-118. ↩︎

  59. Edith Stein, Endliches… cit., III, 2 p. 63-68, VI, 4, 3 p. 293-296. ↩︎

  60. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., V p. 149-173. ↩︎

  61. Egli sostiene infatti che, dopo aver rinunciato alla propria natura divina (entro il razionalismo metafisico), l’uomo con il marxismo scelse infine di ridurre la propria sostanza alla Materia, e quindi alla più immediata Natura [Jacques Maritain, Umanesimo… cit., I, IV p. 81-86]. E pertanto rinunciò definitivamente perfino a sé stesso. Cosa che poi avrebbe trovato poco dopo una chiara eco nella demolizione del concetto di “natura umana” da parte di Heidegger. Per Maritain si tratta in tal modo dell’inversione stessa dell’umanesimo pur affermato così orgogliosamente dopo il Medioevo. ↩︎

  62. Jacques Maritain, Umanesimo… cit., II, I p. 98-105. ↩︎

  63. Una parziale spiegazione di questo può forse risiedere in quanto precisa lo stesso Maritain, e cioè che il riduzionismo marxista dell’uomo è riconducibile al “materialismo” e non invece al “realismo”. È quindi opinabile che i filosofi che allora furono inclini al realismo (come la Stein fu senz’altro almeno in parte) potrebbero non essersi sentiti nemmeno toccati da lontano dalle minacce della sfera marxista di idee. ↩︎

  64. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., Introduction, p. XXI. ↩︎

  65. Sarah Borden Sharkey, Thine own self… cit., 3 p. 65-80, 4 p. 101-103, 4 p. 109-115. ↩︎

  66. Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017. ↩︎

  67. Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015; Alexandre Koyré, Discovering Plato, Columbia Papekback Edition, New York 1960, p. 1-7; Friedrich Wilhelm J. Schelling, Philosophy and Religion, Spring Publication, Putnam, Conn. 2010, p. 7-10, Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, IV, 4 p. 134-136, II, V p. 167; Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 3 p. 45-52, 5 p. 63-67, 6 p. 77-84; Paul Friedländer, Platone… cit., I, II, VI p. 151-160; Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3) 2005, 253-276. ↩︎

  68. Jacques Maritain, Breve trattato… cit., I, 8 p. 60-68. ↩︎