Antonio Gramsci e Giovanni Gentile. Spunti di discussione tra politica, filosofia ed educazione

All’epoca dell’Ordine Nuovo gramsciano eravamo tutti gentiliani. — A. Tasca

1. Alcune premesse

A più riprese, più o meno di recente, ha fatto la sua fugace apparizione su alcuni quotidiani italiani una discussione, non nuova in verità, sulla possibilità che le posizioni del giovane Antonio Gramsci in fatto di interpretazione del concetto di democrazia, di atteggiamento verso la teoria del liberalismo-liberismo, o della posizione da assumere nei confronti del primo conflitto mondiale, fossero state, almeno sino al 1914-1916, a secondo dei punti di vista, non del tutto lontane da quelle della parte più moderata e finanche di destra della politica e della cultura dell’epoca, o, per altri versi, non propriamente allineate alla visione socialista contemporanea al politico sardo.

La questione dunque, come si diceva, ha riguardato ancora una volta, la presunta e dibattuta esistenza di un «Gramsci di destra» o, se si vuole, la possibilità che nel «viaggio di Gramsci dal Socialismo al Comunismo ci sia stato nel mezzo il mussolinismo».1 Già, Benito Mussolini. Il fondatore del partito fascista come uno degli interlocutori nella formazione e nello sviluppo del pensiero gramsciano nel periodo immediatamente precedente e immediatamente successivo al primo conflitto mondiale. Una tesi rischiosa, si direbbe, e non facilmente sostenibile, ma che tuttavia potrebbe avere un suo fondo di verità nella constatazione di come il fascismo sia stato inevitabilmente un interlocutore, scelto o solamente subito, consapevolmente o inconsapevolmente, di gran parte della cultura italiana e dei suoi più illustri rappresentanti in quel periodo.

Mussolini ha avuto un influenza su Gramsci? In quale periodo e con quali esiti? E quale tipo di influenza? Questo è il primo problema che è stato posto e che si pone ancora oggi. […] Nel corso del biennio 1912-1914 […], l’influenza del futuro duce sulla maggioranza della gioventù orientata verso il socialismo è documentata ed indiscutibile. Non solo nelle grandi città del Nord ma anche nel Mezzogiorno, nelle grandi isole del socialismo esistenti. […] Non pochi giovani videro la possibilità di una sintesi teorico-pratica di un rivoluzionarismo più moderno, in grado di presentarsi finalmente come revisionismo di sinistra del marxismo, sia contro il positivismo dei vecchi dirigenti, sia contro le altre forme di revisionismo riformistico borghese. […] Mussolini, dalle colonne dell’Avanti esercitava la sua influenza, con la polemica aspra, spietata, condotta con grande abilità giornalistica, contro il riformismo, il collaborazionismo di classe, contro il giolittismo […]. Così sia Gramsci che Togliatti sono influenzati, sopratutto negli anni universitari, dal movimento di rinascita filosofica promosso da Benedetto Croce, che portava direttamente allo studio di Hegel, e, per questa via a Marx. Mentre era incisiva, sui loro orientamenti, l’influenza di Gaetano Salvemini, che introduceva uno stile nuovo di indagine della realtà meridionale e nazionale.2

In questo senso il pensiero corre ad un altro «contemporaneo» di Gramsci: Giovanni Gentile. L’accostamento tra Gramsci e il fascismo rispetto a Gentile, in una chiave di sviluppo parallelo e convergente verso un fervore attivistico e totalitario che sarebbe il risultato di una interpretazione distorta dell’attualismo del filosofo siciliano, era stata proposta ufficialmente da Augusto del Noce; ma, come è stato in seguito osservato, in maniera più meditata, quello stesso fervore era piuttosto una costante di tutte le ideologie del tempo, correlata ad eventi eccezionali quali la guerra, la mobilitazione bellica e gli eventi della Rivoluzione russa.

Ed è su questo ultimo punto in effetti che vanno forse maggiormente concentrati gli sforzi di una lettura del primo Gramsci, dei suoi rapporti ma anche del suo innegabile interesse per il pensiero di Gentile, nonché dell’influenza di quest’ultimo sul futuro leader comunista.3

Su questa strada sembra possibile, ma allo stesso tempo interessante, soffermarsi — ed è l’intenzione di questo contributo — su una serie di concetti che da diversi punti di vista accomunano i due intellettuali, sullo sfondo di una società italiana, e non solo, in profonda e travagliata trasformazione. Nozioni come quelle di patria, nazione, popolo ma anche la visione politica e culturale di Gramsci e di Gentile rispetto ai concetti di Democrazia o di liberalismo, l’atteggiamento verso l’età giolittiana ed il giolittismo in genere, verso il fascismo e il socialismo, non sono soltanto tematiche da affrontare per approfondire la personalità e l’opera di due tra le figure che più hanno inciso sullo sviluppo storico e culturale del nostro Paese, ma anche il modo per affrontare, con una certa serenità ed oggettività, problematiche di carattere più strettamente teoretico legate ai due pensatori e al loro tempo.

Scrivendo alla cognata Tania nel giugno del 1932, Gramsci si pronuncia (e siamo ormai nella fase matura del suo pensiero) abbastanza chiaramente sul significato del concetto di «religione della libertà» che, è sua convinzione, appartiene a Croce così come a Gentile; e sembra questo un passo non trascurabile degli scritti dal carcere del politico sardo:

La rottura col Gentile — scrive Gramsci — è avvenuta nel 1912, ed è il Gentile che si è staccato da Croce, che ha cercato di rendersene filosoficamente indipendente. Non credo che il Croce abbia mutato orientamento da quel tempo in poi, sebbene abbia definito meglio le sue dottrine; […] la così detta «religione della libertà» non è una trovata di questi anni, è il riassunto in una formula drastica del suo pensiero di tutti i tempi […]. Né in questo il Gentile mi sembra in disaccordo con il Croce. […] Religione della libertà significa semplicemente fede nella civiltà moderna, che non ha bisogno di trascendenze e rivelazioni ma contiene in se stessa la propria razionalità e la propria origine.4

Partendo da questo concetto, espresso in maniera semplice ma incisiva, cerchiamo dunque di incamminarci sul terreno scivoloso di quel dibattito che riguarda il liberalismo di Gramsci, o per meglio dire di quella componente del suo pensiero che può risultare scomodo o decisamente improprio, secondo i punti di vista, affrontare, ma che tuttavia sarebbe non produttivo ignorare del tutto. Ed è in questo senso che si può inquadrare, studiare e spiegare al meglio il rapporto diretto e indiretto tra Gramsci e Gentile ricollegandoci, come abbiamo sopra accennato, ad un contesto storico comune ai due pensatori. Lo stesso Rapone ha scritto che

il pensiero di Gramsci, così come si forma e si assesta durante la Prima Guerra Mondiale […] è una risposta alla nuova modernità generata dalla Guerra, è un tentativo di interpretazione dei cambiamenti in atto e di individuazione delle forme dell’azione politica nel nuovo quadro sociale e psicologico suscitato dalla Guerra. […] Troppo spesso la maturazione intellettuale e politica del giovane Gramsci è stata presentata alla stregua di un processo che si autoalimenta […] e anche quando si è messo in risalto che il suo pensiero matura nel confronto critico con i problemi del suo tempo […] ci si è preoccupati più di ricostruire i fili che legano Gramsci alle problematiche culturali degli intellettuali italiani del primo Novecento che di mettere il suo pensiero in rapporto con le modificazioni epocali suscitate dalla Guerra.5

Giova precisare, all’inizio di questa riflessione, alcuni punti attraverso i quali essa vuole snodarsi e che saranno lo strumento per poter tenere insieme i fili di un discorso che potrebbe sembrare non del tutto coerente, o non sorretto da una necessaria impostazione generale.

Ci sono intanto alcuni concetti nel pensiero di Gramsci e di Gentile che, al di là di un loro confronto diretto o indiretto, corrono parallelamente e nello stesso tempo si incontrano, o finiscono per incontrarsi, in maniera del tutto naturale; e sono poi quegli stessi concetti che sorreggono e caratterizzano gran parte della riflessione e del dibattito culturale a cavallo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo.

L’idea di Nazione piuttosto che il tema del liberalismo, il rapporto tra autorità e libertà accanto alla discussione sul significato del termine Democrazia, fino al confronto con le idee del socialismo, sono punti irrinunciabili e problematici all’interno della riflessione e formazione di Gramsci, non meno e non diversamente da quanto accade per Gentile; e sullo sfondo di entrambe interviene in maniera non certo spuria l’esperienza della Guerra, che sembra essere — e si può dire che per molti versi è — l’atto concreto che trasforma le riflessioni del periodo precedente in un decalogo di azioni da intraprendere per far iniziare un nuovo periodo della storia italiana e creare quella salda coscienza nazionale, necessaria premessa per fare della Nazione uno Stato, che sia esso liberale o socialista.6 È in questo senso, si è detto, che le diverse nozioni e i diversi significati che i due pensatori attribuiscono a concetti come cultura, Stato, Democrazia, autorità, libertà, ma anche popolo o nazione, finiscono per incontrarsi o per lo meno avvicinarsi, a conferma di un sentire comune, almeno nel periodo tra il 1914 ed 1922, che scaturiva dall’esigenza diffusa di un rinnovamento e finanche di una rivoluzione culturale, che precedesse e non seguisse quella politica.

2. Il liberalismo tra Gramsci e Gentile

Vale per Gentile quanto è stato osservato anche per Gramsci circa la necessità di non presentare l’evoluzione del loro pensiero come «un processo che si autoalimenta, che cresce su stesso attraverso uno schiarimento progressivo dei problemi e delle situazioni», ma piuttosto considerarlo in rapporto con le modificazioni epocali suscitate dal periodo precedente e seguente la Prima Guerra Mondiale.

È in questo quadro, e forse solo in questo, che può essere interpretato l’articolo uscito sul Grido del Popolo il 31 ottobre 1914 con il titolo Neutralità attiva ed operante, uno degli scritti più controversi della produzione giornalistica di Gramsci, nel quale egli giudica esaurita la formula della neutralità assoluta adottata dal PSI dell’epoca e «mostra» di apprezzare il tentativo di Mussolini di aprire nuove strade nella direzione di una neutralità attiva ed operante.7 È interessante inoltre notare che è di questi anni l’incontro indiretto tra Gramsci e Gentile, tra la visione socialista rivoluzionaria e quella liberale innovatrice, sulla rivista di Piero Gobetti Energie Nove, sulla quale nel 1919 sarà ripubblicato uno scritto di Gentile sull’insegnamento della filosofia e quasi contemporaneamente uno scritto di Gramsci in forte dissenso, sul tema del socialismo, con Balbino Giuliano. Entrambi gli scritti avevano però avuto sullo sfondo la battaglia «comune», anche se combattuta su fronti contrapposti, contro il trasformismo di marca giolittiana da una parte e il riformismo socialista dall’altra.8 Sulla questione ci si è soffermati anche di recente notando come le modalità dell’invettiva di Gramsci contro Giolitti

diventeranno uno schema che si ripresenterà più volte, anche dopo la sua morte e quando di Giolitti si sarà quasi persa memoria […]: ottimo era il liberalismo autentico di Cavour, pessimo «quello dei tempi in cui viviamo», in un’Italia in cui «i liberali hanno preferito mandare Cavour in soffitta» e «i partiti politici non perseguono programmi di politica generale, ma seguono singoli individui, i cacicchi come li chiamano in Ispagna».9

Per Gramsci, Giolitti ed il giolittismo non avevano nulla a che vedere con il liberalismo.

Comune alla posizione di Gramsci e di Gentile nei confronti del politico di Dronero sembra essere la critica al giolittismo come «critica di classe e denuncia morale» di un metodo politico che incarna i mali dell’Italia del primo Novecento.

Il rigetto che Gramsci prova nei confronti della politica di Giolitti non è semplicemente frutto della critica del decennio giolittiano da parte di un socialista, profondamente calato, come Gramsci, nel nuovo spirito intransigente del socialismo. […] Giolitti è per Gramsci, oltre che una politica, un simbolo, il simbolo di tutto ciò che testimonia della corruzione dell’organismo nazionale e che fa diversa l’Italia da un vero Stato liberale. […] Il giolittismo — erompe in uno dei suoi articoli prendendo a prestito il lessico del fondatore dell’Esercito della Salvezza — è la marca politica del decimo sommerso italiano: l’insincerità, l’affarismo, il liberalismo clericale, il liberalismo protezionistico, il liberalismo burocratico e regionalista.10

Sul discorso della critica al giolittismo tout court si innesta un ulteriore filone di riflessione, anch’esso non scontato, che riguarda il più generale rapporto, soprattutto dal punto di vista di Gramsci, tra socialismo e neo-idealismo e la loro appartenenza ad una comune dimensione della modernità.

In questo senso va ricordato quanto è stato già notato sulla funzione emancipativa che Hegel ed il neo-idealismo hanno svolto per il giovane Gramsci e in particolare per la sua critica ad un’Italia ancora incrostata di feudalesimo e di Controriforma; ma anche sulla vicinanza, da più parti riconosciuta, di Gramsci a quel filone liberale di matrice tardo risorgimentale dapprima anti Crispi, poi anti Giolitti. E su questa strada andrebbe letta anche la vicinanza tra Gramsci e Gobetti e le posizioni di simpatia per il liberoscambismo adottate da Gramsci sulla scia di quelle espresse da Marx. L’idea era forse quella di affermare un liberalismo realmente emancipativo, sul modello di quello che nei paesi anglosassoni aveva permesso la nascita ed il rafforzamento del blocco laburista e non solo in contrapposizione al conservatorismo politico. Si spiega forse anche così la giovanile «simpatia» di Gramsci per un liberale come Luigi Einaudi e per le sue polemiche antiprotezionistiche.11

La concezione del comunismo leninista come teoria forte della soggettività e della centralità dello stato si era incontrata in effetti nel giovane Gramsci, con la lezione della rinascita idealista italiana di inizio secolo, assumendo come sfondo comune il rifiuto del determinismo positivistico […]. Ad esempio sono vistosi i tratti hegeliani di una tale assunzione della centralità dello Stato che, a sua volta, fonda la stessa questione degli intellettuali: […] c’entra, con questo, anche la mediazione egemonica di Benedetto Croce: è Croce che, ponendosi come centro promotore e coordinatore dell’intero processo di liquidazione teorico-pratica del marxismo che si svolse in Europa a cavallo dei due secoli, da Sorel, a Bernstein, a Gentile, sente il bisogno di affermare la sostanziale identità delle sue posizioni con quelle di Sorel e Gentile […]: l’originale e determinante intreccio fra leninismo ed idealismo è del tutto evidente nell’articolo scritto da Gramsci immediatamente dopo l’ottobre sovietico, dal titolo La Rivoluzione contro il «Capitale».12

Gramsci sembra riconoscere che la polemica antistatalista del liberismo esercita sulla società italiana, arretrata perché ancora basata su strutture semifeudali, una funzione rivoluzionaria, caratterizzandosi come un potente alleato percombattere il riformismo.13 Bisogna porre attenzione, a parere di chi scrive, a questo parallelo gramsciano tra liberismo-liberalismo e socialismo, così come emerso sin qui; e questo perché sulla base di tale attenzione, si può evitare il rischio di banalizzare o, peggio, forzare in maniera totalmente arbitraria un tale accostamento, che deve tenere sempre presente le innegabili comuni premesse del diverso percorso teoretico di Gramsci e Gentile, ma anche le diverse e contrapposte conclusioni e soluzioni al problema dello sviluppo politico-culturale dell’Italia del primi decenni del Novecento.

Sembra abbastanza agevole poter affermare che c’è, sia in Gramsci che in Gentile, una consapevolezza, sia pure in forme diverse; la consapevolezza della necessità di costruire lo Stato, socialista o liberale, partendo da una rielaborazione degli ideali risorgimentali e dalla costruzione di un progetto di educazione nazionale che serva da strumento di rafforzamento delle coscienze: in questo senso si potrebbe azzardare una considerazione sul fatto che esiste in Gramsci un problema di coscienza di classe così come per Gentile si potrebbe parlare dell’esistenza di un problema di coscienza dello Stato. In un passo dei Quaderni si legge che

in Italia l’unità politica, territoriale, nazionale ha una scarsa tradizione […]. L’Italia ebbe e conservò però una tradizione culturale che non risale all’antichità, classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e che fu ricollegata all’età classica dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Questa unità culturale fu la base, molto debole invero, del Risorgimento […] ed è anche il sostrato del nazionalismo popolare […]; la Nazione non è il popolo, o il passato che continua nel popolo, ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato.14

E ancora più avanti, analizzando la differente funzione degli ideali di Gioberti da una parte e di Mazzini dall’altra, Gramsci osservava che il primo «offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare una nuova dignità al pensiero italiano»; il secondo invece, «offriva solo delle affermazioni nebulose, e degli accenni filosofici che a molti intellettuali […] dovevano apparire come vuote chiacchiere».15 Gentile, dal canto suo, scrivendo a Croce nel 1898 aveva già allora affermato come «lo spirito nazionale non si improvvisa […] E senza di esso, o almeno senza intima comunanza di spiriti, senza coscienza comune, non può esserci filosofia».16

È il tema dell’unità inscindibile tra il sapere, come cultura, e la politica ciò che interessa il pensatore sardo e quello siciliano; in particolare, Gentile alla vigilia della Prima Guerra Mondiale manifestava le proprie incertezze più verso la situazione politico-culturale che verso la guerra stessa e finiva per ricordare con fermezza che «la cultura è il centro del mondo […] e per far politica l’uomo non ha altro mezzo che la cultura, intorno al quale il mondo gira, si articola, si organizza. La civiltà che il complesso in cui si viene dispiegando la potenza dell’uomo come trionfo della libertà, ossia dominio dello spirito nella natura, ha la sua base ed il suo principio nella natura»; la cultura dunque non poteva restare chiusa nei recessi dell’intelletto puro, ma doveva calarsi nella realtà ed essere essa stessa realtà consapevole e criterio d’azione.17 Da questo punto di vista vale la pena di riportare ancora le parole di Rapone sul tema:

La convinzione dell’appartenenza del socialismo e del neo-idealismo ad una comune dimensione della modernità è un elemento decisivo nella formazione intellettuale di Gramsci: il socialismo, con la sua opposizione ad ogni forma di trascendentalismo, con la sua visione della storia come opera di «forze attive», contrapposte ai principi astratti, con la sua fiducia nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale, muove da quella stessa esigenza di «realismo storico» che trova la sua giustificazione nel più recente idealismo filosofico di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.18

3. La cultura dell’educazione nel nuovo Stato

A questo punto il tema dell’educazione e della formazione come fattore di emancipazione, pur avendo inevitabilmente sbocchi diversi, sembra però, dal punto di vista di Gramsci e Gentile, trovare una inscindibile connessione con le tematiche della libertà, del concetto di democrazia, di quello di Stato e della sua organizzazione; lo Stato etico o quello socialista che sia. Il tutto passa anche attraverso una riflessione sul ruolo ed il significato storico del Risorgimento italiano per quanto riguarda in particolare i destini del nostro Paese, prima e dopo il primo conflitto mondiale. Da questo angolo di visuale potrebbe essere interessante analizzare il comune interesse di Gramsci e Gentile per lo studio di quella parte della cultura, anche popolare, intesa come tradizione, leggende, dialetti e folklore; e più in generale le rispettive analisi storico-politiche dello sviluppo e della tradizione culturale italiana. Già nella riflessione del giovane Gentile si può ritrovare quella idea di cultura policentrica che vede come risultato la valorizzazione della filosofia, della letteratura, della storia, della politica come componenti diversificate di una nuova visione del rapporto tra storia e filosofia, tra idealità e realtà, tra universale e particolare; si tratta in questo senso di maturare la consapevolezza di un rapporto inscindibile tra cultura e Stato, tra formazione umana e identità nazionale. Una consapevolezza che, in Gentile non meno che in Gramsci, caratterizzerà il periodo precedente e seguente la Prima guerra mondiale, fino ad arrivare all’incontro con il fascismo per l’uno, e, in seguito all’esperienza carceraria, alla redazione dei Quaderni per l’altro.

Anche il dibattito interventisti-neutralisti sembra porsi per entrambi come elemento che rafforza il concetto militante di cultura e consoliderà definitivamente, nei due pensatori, il binomio cultura/politica, cultura/formazione che avrà come risultato, per Gentile, la definitiva accettazione dello stato etico, mentre servirà a Gramsci per strutturare meglio la sua idea di Comunismo.

Da questo punto di vista è utile richiamare la riflessione che Gramsci fa, sin dal primo Quaderno, sulla formazione degli intellettuali come motore di cambiamento e di trasformazione della società, richiamando a questo proposito, dal canto suo, il difetto di un tipo di cultura tutta italiana, inquinata da una concezione cosmopolita; cosmopolitismo però che nasce come continuazione della visione, in età medioevale, della Chiesa e dell’Impero concepiti come universali. È anche da ciò che deriverebbe la costruzione di uno spirito nazionale debole; ed il Risorgimento avrebbe dovuto «lavorare» alla costruzione di un nuovo cosmopolitismo che presupponesse però come soggetti attivi «il popolo lavoratore» e i suoi «intellettuali».

Il problema torna ad essere, per Gramsci, quello di creare una similitudine tra il concetto di popolo e quello di nazione, come avviene per altri paesi europei in cui gli intellettuali si sentono parte della stessa entità politico-sociale del popolo.19 Il discorso si potrebbe fare interessante a patto di tenere contemporaneamente presente i diversi livelli teoretici che lo compongono, e ciò non sembra cosa facile, almeno a giudizio di chi scrive. Per ovviare a questo tipo di difficoltà si possono tenere presente alcuni spunti utili ad approfondire e chiarire i concetti espressi sin qui.

Intanto è da tener presente l’attenzione che Gramsci pone alla necessità di una scuola che si adoperi per stimolare e soddisfare il bisogno di acculturazione delle masse, individuando in questo senso il nesso che dovrebbe caratterizzare l’educazione e la politica, e, pur nella polemica aspra con la pedagogia gentiliana e con la Riforma della scuola che ne è stata la concreta applicazione, Gramsci sembra indirettamente avere la stessa convinzione gentiliana e la stessa esigenza di costruire una educazione nazionale quale strumento di trasformazione della società italiana. Il tema educativo diventa, in seguito soprattutto alle conseguenze del primo conflitto mondiale, essenziale all’interno del consolidamento del sistema di pensiero dei due intellettuali; rafforza in essi la convinzione della necessità di una convinta azione di natura pedagogica, che fornisca una salda coscienza dello Stato, giacché «senza siffatta coscienza non c’è moralità vera, intelligente, non c’è economia sagace, non c’è politica chiaroveggente; come non c’è la scienza […]. La cultura che si richiede non può essere altro che educazione dello spirito».20

In questa direzione sono da sottolineare anche alcune considerazioni comuni — pur nella differenza di spunti, considerazioni e conclusioni — sul tema più generale della critica al concetto di democrazia e alla funzione massificatrice (intesa come confusione dei ruoli e astrattismo politico-culturale) che questa sembra esercitare, da un punto di vista educativo, sulle masse popolari.

Certo, a Gentile stava a cuore soprattutto la formazione di quelle élites capaci di assicurare continuità allo stato liberale e borghese; anche per il filosofo siciliano si trattava, tuttavia, di contrastare la richiesta di una società democratica, volta alla massificazione della cultura e a cui, quasi gramscianamente parlando, «bisognano gli automi dell’industria e le volpi del commercio; le pecorelle dei partiti politici e della chiesa e i famelici lupi delle amministrazioni e delle sacre gerarchie, tutt’al più qualche topo da biblioteca e qualche ragno faticone intento a tessere e ritessere le penelopee tele sociologiche». In altro luogo, e a distanza di tempo, Gentile, insistendo nuovamente sulla funzione emancipatrice dello Stato, fondata sullo «sviluppo autonomo della scienza», ancora una volta evidenziava un modello pedagogico «rivolto alla costruzione della coscienza nazionale e che vede nel risveglio della vita spirituale e nella scuola come agenzia delegata a realizzare tale risveglio gli strumenti fondamentali ed insostituibili della rinascita collettiva».21

La critica al concetto di democrazia, insieme all’antigiolittismo, era sicuramente, anche nell’ottica di un rinnovamento della scuola e dei suoi metodi tradizionali, un punto di raccordo per le culture radicali italiane di quel periodo. Lo stesso Gramsci tornerà nei Quaderni a ricordare la necessità che l’Italia aveva di una riforma «intellettuale e morale» nel periodo precedente la Grande Guerra. La ricerca intellettuale e politica di Gramsci, così come quella di Gentile, muoveva

dal riconoscimento di esigenze di rinnovamento morale che egli sentiva vive attorno a sé, in territori anche lontani dal socialismo, ma a cui il suo socialismo ambiva a dare una risposta, pronto a mettere a frutto le acquisizioni esterne che potessero concorrere alla particolare ricostruzione spirituale del Paese. Il primo Gramsci, insomma, per l’attenzione che riserva agli aspetti della vita morale, è portato a muoversi da socialista, in uno spazio al cui interno gli si offre ampia possibilità di incontri e confronti, dai quali ricavare stimoli e assorbire suggestioni da trasfondere nella concezione che egli andava allora formandosi dei fini dell’azione socialista.22

In questo contesto Gramsci, come è stato ricordato, portava avanti dal suo punto di vista, ancora nel 1918 su «Il Grido del popolo», una critica a quella democrazia che «esplica una funzione morbosa di confusionismo, di scrocco, di predicazione dell’incoerenza. È impaludamento più che effettivo progresso».23

Verrà la pena a questo punto evidenziare un punto nella riflessione che stiamo portando avanti e che non sembra essere secondario nei concetti che la riguardano, e cioè che sia Gramsci che Gentile affrontano «insieme», anche se per motivi sicuramente diversi e per nulla assimilabili tra loro, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, un periodo di isolamento politico e culturale che rappresenterà anche una delle cause della loro tragica fine. L’imputazione rivolta da Gramsci alla democrazia del vizio dell’astrattismo politico, che rimanda alla polemica crociana della «cultura sommaria» riferita ai democratici francesi e italiani, può essere accostata in qualche modo alla convinzione gentiliana che la cultura debba servire a vivere consapevolmente nella società, per rivendicare ed ottenere diritti, a rendere l’uomo realmente libero. Il significato classico del termine cultura, nel senso di paideia, conoscenza, si accompagna, nei due pensatori e politici, alla funzione militante che essa deve avere; anche in questi termini si deve analizzare l’aspra e inusuale critica ad una certa interpretazione del concetto di democrazia che viene dagli scritti del giovane Gramsci e che guarda con fastidio al «feticismo sentimentale per il popolo», alle «prediche sociali», oppure è sprezzante verso quegli «ideologhi astratti, senza concretezza di pensiero politico» che sono i politici repubblicani.24

Dal punto di vista pedagogico viene in questo senso alla mente una particolare riflessione che Gramsci, nei suoi riferimenti educativi consegnati alle Lettere, espone riportando anche in primo piano il problema del «principio di autorità» nel metodo educativo. Parlando delle piantine che sta cercando di far crescere in carcere, confessa alla cognata:

a me ogni giorno viene la tentazione di tirarle un po’ per aiutarle a crescere, ma rimango incerto tra le due concezioni del mondo e dell’educazione: se essere roussoiano e lasciar fare la natura che non sbaglia mai ed è fondamentalmente buona o se essere volontarista e sforzare la natura introducendo nell’evoluzione la mano esperta dell’uomo e il principio d’autorità. Finora l’incertezza non è finita e nel capo mi tenzonano le due ideologie.25

Anche nei Quaderni Gramsci torna a confrontarsi indirettamente e da un punto di vista educativo con il concetto di «Stato etico», in particolare quello espresso da Gentile; dopo aver descritto lo Stato come «egemonia corazzata di coercizione», egli scrive:

In una dottrina dello Stato che concepisca questo come passibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione della società regolata, l’argomento è fondamentale. L’elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile).26

Egli riprende il concetto di Stato etico dalla filosofia gentiliana: «ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni più importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alla necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti».27

L’assunzione del concetto di Stato etico nei Quaderni deve essere ricondotto al tentativo di articolare una teoria dello Stato che non si basi solamente sull’aspetto coercitivo, ma che comprenda al suo interno gli elementi del consenso, dell’educazione, della mediazione politica ed economica. Gramsci usa Stato etico più come segno del mutamento del ruolo dello Stato che per prospettare uno scenario rivoluzionario che veda il dissolvimento dello Stato stesso. Il medesimo uso ne viene fatto nel Quaderno 8, in una nota dedicata interamente al concetto:

Stato etico o di cultura. Mi pare che ciò che di più sensato e concreto si possa dire a proposito dello Stato etico e di cultura è questo: ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni più importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti.28

Sempre da questo punto di vista risulta giusto, in conclusione, notare, come è stato fatto, che

le distinte elementarità didattiche, dalla scuola elementare alla media superiore, dal punto di vista di Gramsci critico del Gentile riformatore della scuola, finiscano variamente con il coincidere: ed in primo luogo sul terreno della «attività» (reale) del soggetto intellettuale (sociale), cioè della sua non passività, della sua reattività critica ed autocritica nel corso del lavoro necessario a raggiungere determinati obiettivi di studio ed insieme etico-politici.29


  1. Si veda M. Veneziani, Gramsci? Mussoliniano. Il leader dei comunisti era vicino al fascismo, in Il Giornale, 25-10-2011. L’articolo di Veneziani, comparso su un quotidiano politicamente schierato, non può naturalmente avere la sobrietà e la mediazione che si richiede ad un contributo di carattere scientifico, ma ha, proprio per questo, a giudizio di scrive, il pregio di fornire una serie di provocazioni e spunti di riflessioni utilmente e criticamente approfondibili. Il tema più in generale ci riporta anche ad un altra considerazione che in questa sede non può essere sviluppata ma alla quale va sicuramente fatto cenno: e cioè quella che è stata definita, in modo felice, l’infinita scoperta di Gramsci, che periodicamente, ma in modo sinora ininterrotto, ha caratterizzato il dibattito politico-culturale nel nostro Paese, da diversi punti di vista e con diverse motivazioni. Si veda a tale proposito A. Orsi, L’infinita scoperta di Gramsci, in «Micromega», 9-5-2011. Sulla definizione di un «Gramsci di destra» si veda B. Gravagnuolo, Il Gramsci di Destra? Mai esistito., in L’Unità, 25 ottobre 2011, pp. 38-39. Ma su tutto l’argomento, a conferma anche della non-novità della questione in una prospettiva storica, cfr. M. Pistillo, Mussolini-Gramsci. La Destra alla ricerca di una identità culturale, in «Critica Marxista», n. 1-2 1996, pp. 73-83. In realtà tutto il 2012 si è segnalato per una certa consistenza di saggi, articoli e polemiche su Gramsci. Cfr. al riguardo G. Liguori, Il ritorno al futuro di Gramsci, in Il Manifesto, 3-7-2012. L’articolo, anche se di parte, propone una valida panoramica sugli studi più recenti che hanno riguardato la figura di Gramsci ed il suo pensiero. Da ultimo vogliamo citare anche N. Siciliani De Cumis, Prime note per una ricerca didattica su Gramsci, Gentile, l’educazione, in G. Spadafora (a cura di), Giovanni Gentile. La pedagogia. La scuola, Roma, Armando Editore, 1997, pp. 565-580, contributo al quale chi scrive è debitore di più di un suggerimento. ↩︎

  2. M. Pistillo, art.cit., pp. 76-77. ↩︎

  3. Cfr. A. del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978. Sempre in questo contesto può essere inquadrata la discussione sulla componente liberale del pensiero di Gramsci; giacché proprio l’influenza di Gentile ma anche di Benedetto Croce, il loro liberalismo ed hegelismo, assunti a modello storico della modernità che si opponeva alla componente più conservatrice e reazionaria della società italiana, l’analisi non banale e non strumentale delle motivazioni date al loro interventismo, dovettero essere per il primo Gramsci un bagaglio culturale e teoretico non lontano da quella che era la visione libertaria, anti-statalista ed emancipatrice, ma anche di ordine e disciplina, che avrebbe dovuto caratterizzare la lotta operaia. Cfr. D. Losurdo, Antonio Gramsci, dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, Roma, 1997. Ma si veda anche il Quaderno 13 in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, insieme a D. Fertilio, Gramsci e Gentile, stesse idee, in Corriere della Sera, 24 dicembre 1992, p. 12. ↩︎

  4. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996. È stato in questo senso ricordato di recente che la cultura italiana tra età giolittiana e dopoguerra «s’incentra sulla contrapposizione tra due archetipi: la filosofia della rivoluzione, a cui è riconducibile Gramsci, ma della quale si impongono anche altre varianti (da Gentile ai vociani e a Gobetti), tutte caratterizzate da una volontà di rifondazione spirituale della nazione, e la filosofia della realtà, impersonata in solitario da Croce, intesa come cultura che aspira a equilibrare e a dirigere i processi vitali della società, senza contemplare palingenesi di sorta». Si veda L. Rapone, Gramsci giovane. La critica e le interpretazioni, in «Studi Storici», n. 4/2011, pp. 975-991. Cfr L. Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, in G. Furiozzi (a cura di), Le sinistre italiane tra guerra e pace (1840-1940), Franco Angeli, 2008. Su tutto l’argomento delle posizioni «scomode» che hanno riguardato il pensiero di Gramsci è da citare il saggio di P. Anderson, The invertebrate left, in London Rewiew of books, 12 marzo 2009, uscito in traduzione parziale su Internazionale, maggio 2009, pp. 32-40. Il saggio si segnala se non altro per l’evidenziazione della scarsa sensibiltà e scarsa «simpatia» di una larga parte della cultura italiana di sinistra per le componenti «problematiche» del pensiero di Gramsci. Cfr. G. Polizzi (a cura di), Tornare a Gramsci. Una cultura per l’Italia, Avverbi, 2010. ↩︎

  5. Cfr. L. Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, in G. Furiozzi (a cura di), Le Sinistre italiane tra guerra e pace (1840-1940), cit., pp. 134-136. ↩︎

  6. La Grande Guerra rappresenta all’interno del pensiero di Gentile un ulteriore punto di svolta che lo porta a rielaborare e a chiarire ulteriormente le forme ed i contenuti del proprio pensiero; riflettendo sul significato dell’evento bellico Gentile scrive che «il problema della guerra era un problema superiore alla guerra stessa, e tale da impegnare tutto l’avvenire della vita italiana […]; il bisogno di non guardare al passato […] ma di rivolgere piuttosto lo sguardo all’avvenire, all’ideale, alla metà […]. Problema politico che è problema morale». Cfr. A. H. Cavallera (a cura di), G. Gentile, Guerra e fede, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. V-VI. Il primo conflitto mondiale come un problema di posizioni anche culturali, dunque, per Gentile come per Gramsci, da due punti di vista diversi, ma anche come un punto di svolta per entrambi che, nell’incontro dell’uno e nello scontro dell’altro con il fascismo, sarà foriero di novità, ripensamenti e aggiustamenti teoretici. Sul tema ci permettiamo di rimandare, in questa sede, a V. Gabriele, Giovanni Gentile, produttore, imprenditore, organizzatore di cultura, in M.A. D’Arcangeli (a cura di), Pedagogia in circolo. Percorsi, profili, prospettive di teoria e storia dell’educazione, Murgo Editore, L’Aquila, 2008. ↩︎

  7. L’argomento è quello da cui sono scaturite diverse e ricorrenti polemiche, l’ultima delle quali è quella cui abbiamo fatto cenno all’inizio di questo contributo (si veda la nota 1). La letteratura in tal senso è svariata; per convenienza rimandiamo a L. Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, 2011. Lo stesso autore ha osservato, tra l’altro, che «molti sindacalisti rivoluzionari ed anarchici, nell’abbracciare la causa dell’intervento, avevano motivato e razionalizzato la loro conversione, immaginando che la guerra sarebbe stata il detonatore terrificante e distruttivo […] della società borghese. La visione di Gramsci non ha nulla in comune con questa concezione catastrofica della guerra rivoluzionaria. Su questo non possono esserci dubbi, perché nulla nel suo scritto fa pensare che egli si raffigurasse una implosione della società borghese per effetto della guerra o che egli vedesse nella azione distruttiva della guerra un surrogato della azione rivoluzionaria autonoma del proletariato; non è agevole ricavare dal suo discorso ciò che egli intendesse per «neutralità attiva ed operante» ed il nesso storico che egli stabiliva tra questa neutralità e lo sviluppo dell’iniziativa politica della classe proletaria». L. Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, cit., pp. 10 e sgg. ↩︎

  8. Anche Eugenio Garin aveva parlato di questa circostanza come di un «aneddoto». Si veda M. Torrini e F. Verlaine (a cura di), Nota introduttiva al Giornale Critico — Indici 1920-1985, Sansoni, Firenze 1987, p. 4. Ma lo stesso Rapone nota che si tratta di antigiolittismi che muovevano da fronti politici opposti. Cfr. L. Rapone, op. cit., pp. 205-207. Sul tema del presunto liberalismo gramsciano, almeno di quello del primo Gramsci, si ritrovano, periodicamente, accenni ad un dibattito che ha interessato, a fasi alterne, anche il confronto politico nazionale: in questa sede per brevità vogliamo citare in particolare C.A. Viano, Compagni, non travestite il nonno Gramsci da liberale, in Corriere della Sera, 29 aprile 1997, p. 29; e D. Cofrancesco, Gramsci liberale ad honorem, in Corriere della Sera, 1 agosto 1997, p. 27. Da tenere presente anche il saggio di A. D’Orsi, L’infinita scoperta di Gramsci, in F. Chiarotto, Operazione Gramsci: Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, Mondadori, 2011. ↩︎

  9. Cfr. P. Mieli Il giovane Gramsci contro la democrazia, in Corriere della Sera, 11 ottobre 2011. ↩︎

  10. Cfr. L. Rapone, Critica dell’Italia (e degli italiani) e antigiolittismo nel giovane Gramsci, in F. Giasi (a cura di), Gramsci nel suo tempo, Carocci, Roma 2009. «Gramsci riconosce che la polemica antistatalista del liberismo esercita sulla società italiana, arretrata perché ancora basata su strutture semifeudali […], una funzione rivoluzionaria, caratterizzandosi come un potente alleato per combattere il riformismo che invece si fonda sul riconoscimento e la difesa di interessi particolari. Questo elemento non sfuggirà a Piero Gobetti che proprio sull’idea di un liberalismo rivoluzionario dialogherà con Gramsci, comprendendo che l’unico vero programma di emancipazione liberale poteva essere realizzato solo con la la rivoluzione socialista». R. Patalano, Il giovane Gramsci tra liberismo e socialismo, in Micromega-online, 1/2012. Per un ulteriore sviluppo della posizione di Gramsci si veda il suo Né fascismo, né liberalismo: soviettismo!, in L’Unità, 07 ottobre 1924. ↩︎

  11. Su questo punto si veda G. Bedeschi, Ma Gramsci non è un maestro di liberalismo, in Corriere della Sera, 12 gennaio 2011, insieme a L. Michelini, Marxismo, liberismo, rivoluzione: saggio sul giovane Gramsci 1915-1920, La città del Sole, Napoli 2011. Delle accentuazioni idealistiche di Gramsci, soprattutto del suo rapporto con l’idealismo gentiliano, ha parlato di recente ancora lo stesso Raponi, ricordando in particolare le tesi di Eugenio Garin e la sua convinzione che questa «vicinanza» fosse «espressione della reazione antideterministica comune a larga parte della cultura europea protonovecentesca, che in Gramsci si manifestava però in una attenzione tutta rivolta al terrestre mondo dell’uomo come mondo della storia, sicché sin dalla fase giovanile si rivela lo sforzo di Gramsci, attraverso il rapporto con Croce, di farne riemergere una filosofia della prassi». In questo senso si può ridimensionare l’immagine di un Gramsci giovane interno al cerchio teoretico dell’idealismo e parlare piuttosto di utilizzazione politica dell’idealismo, allargando peraltro il discorso oltre Croce e facendo emergere anche il ruolo della filosofia di Gentile nella enucleazione di un diverso concetto di prassi. Cfr. L. Rapone, Gramsci giovane: la critica e le interpretazioni, in Studi storici, ott.-dic. 2011. Da ricordare, però, a completezza dei termini del problema, la posizione di Gramsci nei confronti di Luigi Einaudi espressa nel 1917 sulle pagine dell’Avanti!. Si veda A. Gramsci, Sotto la Mole, Einaudi, Torino 1960, pp. 314-315. ↩︎

  12. R. Mordenti, «Quaderni dal carcere» di Antonio Gramsci, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana Einaudi. Le Opere, vol. IV, Einaudi, Torino 1996, pp. 42-43. ↩︎

  13. Cfr. R. Patalano, art. cit. ↩︎

  14. V. Gerratana, Quaderni dal carcere, cit., Q 5, 32, 569, B. Da richiamare in questo senso la definizione gentiliana dello Stato come «volontà di un popolo che si sente nazione». Era il tema dell’unità gentiliana tra politica e cultura che, nel 1914, all’annuncio delle dimissioni di Salandra gli aveva fatto manifestare «la propria angoscia perché noi non siamo uno Stato se non in apparenza»; e richiamandosi alla visione politica di Rosmini e Gioberti aveva sottolineato la necessità di «dare forma nazionale a una cultura che fosse universale nel contenuto». Cfr. G. Turi, L’intellettuale Giovanni Gentile, in Belfagor, 1994, pp. 129-148. Si veda anche M.A. D’Arcangeli, op. cit., p. 83. ↩︎

  15. V. Gerratana, op. cit., Q 19, 27, 2046-7. Un discorso a parte meriterebbe certamente l’analisi delle posizioni gramsciane e gentiliane nei confronti di Gioberti e di Mazzini, un discorso anch’esso foriero di interessanti spunti. ↩︎

  16. S. Giannantoni (a cura di), G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, vol. I, Sansoni, Firenze 1972. ↩︎

  17. Cfr. G. Gentile, L’ideale della cultura e l’Italia presente, in G. Gentile, Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze, 1936. Su tutto l’argomento si veda anche G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, UTET, Torino 2006, II edizione; insieme a G. Galasso, Il debutto politico di Gentile. Introduzione agli scritti sulla Prima Guerra Mondiale, in Giornale critico della filosofia italiana, 1994, pp. 401-413. ↩︎

  18. L. Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, cit., p. 71. ↩︎

  19. Scrivendo a Benedetto Croce nel 1898 Gentile aveva affermato che «lo spirito nazionale non si improvvisa […]. E senza di esso, o almeno senza intima comunanza di spiriti, senza coscienza comune, non può esserci filosofia». Sul tema ci permettiamo di rimandare a V. Gabriele, Giovanni Gentile produttore, organizzatore, imprenditore di cultura, in M.A. D’Arcangeli, op. cit., p.84. ↩︎

  20. G. Gentile, La riforma della scuola media, in H. A. Cavallera (a cura di), La nuova scuola media, Opere, vol. XL, Le Lettere, Firenze 1988, pp. 75-76. Cfr. anche R. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile, in Giornale Critico della Filosofia Italiana, 1999, p. 137. Cfr. anche la nota 11 di questo contributo. ↩︎

  21. Su tutto l’argomento ci permettiamo di rimandare ancora in più punti a V. Gabriele, Giovanni Gentile, produttore, imprenditore, organizzatore di cultura, in M.A. D’Arcangeli (a cura di), op. cit. ↩︎

  22. L. Rapone, Critica dell’Italia (e degli italiani) e antigiolittismo nel giovane Gramsci, cit., pp. 28-29. ↩︎

  23. Si veda P. Mieli, art. cit. ↩︎

  24. Sull’argomento si veda tra gli altri G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Laterza, Bari 2005. Cfr. ancora Paolo Mieli, art. cit.; ci permettiamo poi di rimandare ancora in più punti a M.A. D’Arcangeli, op. cit.; interessante e utile, anche se datato, resta lo studio di C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1976. ↩︎

  25. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit. «Le «trasformazioni molecolari» sono sempre frutto dell’imposizione coercitiva di una parte della società sull’altra e Gramsci non manca di sottolinearlo financo a proposito del problema dell’educazione dei figli, accostando anzi il ruolo dei genitori a quello svolto dallo Stato nel processo di trasformazione» (L. Cavallaro, La «trasformazione molecolare». Sul concetto di persona in Gramsci, in «Critica marxista», 1, 2001, pp. 51-60). ↩︎

  26. Q 6, 88, p. 764. ↩︎

  27. Q 8, 179, p. 1049. ↩︎

  28. Q 8, 179, p. 1049. Per una diversa interpretazione della tematica, più propensa ad avvicinare la concezione di Gramsci a quella di Gentile, si veda D. Schecter, Gramsci, Gentile and the theory of the ethical state in Italy, «History of Political Thought», 11, 1991, pp. 491-508. ↩︎

  29. N. Siciliani de Cumis, op.cit., p. 573. ↩︎