Forza teoretico-pratica dell’antropologia filosofica di Paul Ricœur

Agir fait que le monde n’est pas fini.

— Paul Ricœur

Che nell’opera di Ricœur vi sia colleganza tra, da una parte, il personalismo e l’uso del concetto di persona e, dall’altra, una «fenomenologia ermeneutica del sé» (sviluppata nella grande opera di sintesi tematica Soi-même comme un autre [1990]) ed una filosofia della persona, sono entrambi aspetti facilmente constatabili prendendo in visione i suoi testi di riferimento autobiografico — Autobiographie intellectuelle1 (1995) e La critique et la conviction2 (1995) — e saggi quali Meurt le personnalisme, revient la personne… e Approches de la personne, rispettivamente del 1983 e del 1990, entrambi editi nella rivista filosofica Esprit3 fondata da Emmanuel Mounier, padre del personalismo francese [più tardi ripresi in Lectures 2. La contrée des philosophes4]. Meno esplicita ed agevole risulta l’analisi valutativa della pregnanza, attualità ed utilizzabilità teoretica della filosofia della persona di Paul Ricœur — probabilmente, sia in forza delle tendenze e varianze dell’arcipelago filosofico interessato al tema della persona sia in forza di una certa considerazione parziale dell’opera antropologica ricœuriana da parte degli studiosi. (Di fatto, solo negli ultimi anni è andata sviluppandosi una riconsiderazione sistematica, dettagliata ed approfondita della sua vasta opera). Certo, la ricorrenza del tema nella frammentarietà e variazione della ricerca (caratteristica propria del lavoro speculativo del Nostro) non aiuta il lettore, neppure l’esperto; e, ancora, si aggiunga che un certo fraintendimento può ascriversi, in qualche modo, anche a quel lien della filosofia della persona di Ricœur con il personalismo e con la tradizione di Esprit. Cercheremo di approfondire e chiarificare questo punto, mentre al lettore lasceremo la pronuncia finale circa il dilemma se questa concezione dell’uomo abbia avuto, poi, maggiore incidenza nel quadro della ricerca filosofica contemporanea in quanto filosofia della persona piuttosto che fenomenologia ermeneutica del sé, e se prometta di valere oggi più produttivamente per l’una o per l’altra.

1. Dal personalismo alla persona

Nella sua ricca e dettagliata biografia intellettuale, Paul Ricœur. Les sens d’une vie, lo storico François Dosse offre una precisa collocazione dell’esperienza del personalismo nel parcours ricœuriano, tra la giovanile filiazione al circolo riflessivo di Gabriel Marcel ed il suo impegno da socialista militante5 [«parce que chrétien»]. Ma è lo stesso Ricœur a tracciare un quadro del ruolo e della valenza del suo legame con Mounier e con la rivista Esprit rispetto al proprio cammino filosofico, cammino già allora «sufficientemente strutturato» tra tradizione riflessiva, esistenzialismo (Marcel e Jaspers) e fenomenologia (Husserl), ma ancora non pienamente sostanziato sul piano del nesso tra contenuti riflessivi, convinzione spirituale e posizione politica [e ciò nonostante l’esperienza socialista, da lui anteposta a quella personalista]. Scrive Ricœur (Autobiographie intellectuelle):

Militante: questo aggettivo […] mi dà l’occasione di dire qualche parola sull’influenza che ho ricevuto da Emmanuel Mounier e dalla rivista «Esprit» negli anni d’anteguerra. […] Gli orientamenti filosofici e cristiani di Mounier mi erano familiari. La nozione di persona, cara a Mounier, trovava una articolazione filosofica, soltanto più tecnica se così posso dire, nei pensatori richiamati sopra [Marcel, Jaspers, Husserl]. Il congiungimento fra persona e comunità, di contro, rappresentava un progresso inedito rispetto a quella sorta di riserva, che veniva incoraggiata dai filosofi di mestiere. Inoltre, alla sequela di Mounier apprendevo ad articolare le convinzioni spirituali con certe prese di posizione politiche, che erano rimaste fino ad allora giustapposte ai miei studi universitari e al mio impegno nei movimenti giovanili protestanti.6

Ricœur si ascrive certamente alla tradizione del personalismo, ma col tratto del limite di una differenza plurima: (1) dell’itineranza di un pensiero anzitutto e per lo più speculativo, (2) non uni-lineare ma in dialettica con tradizioni, metodi e scuole di diversa natura ed orientamento; e, ancora, (3) dell’episodicità dell’esperienza personalista e (4) della relativa, parziale, afferenza del tema della persona alla tradizione del personalismo. Nel libro-intervista La critique et la conviction si legge:

Negli anni 1947-1950 ho scoperto il gruppo «Esprit», che avevo conosciuto male prima della guerra, poiché ero molto più impegnato nel socialismo militante e consideravo i membri di «Esprit» troppo intellettuali. Mi sono, dunque accostato molto a questa rivista e vi ho pubblicato. […] La persona di Mounier mi aveva davvero conquistato, meno le sue idee che lui stesso: ero già sufficientemente strutturato da un punto di vista filosofico per essere uno dei suoi discepoli, ma ne sono stato comunque compagno. Egli stesso era d’altronde in cerca di un filosofo professionista in grado di spalleggiarlo.7

A ben vedere, persino il tema della persona (molto discusso tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso) compare nell’opera ricœuriana già prima del legame con Mounier ed Esprit — al tempo dell’insegnamento del Nostro presso i licei di Colmar e Lorient, intorno al 1935-36. Il poco conosciuto articolo Note sur la personne, pubblicato nel 1936 presso la rivista Le Semeur (destinato a liceali e studenti cristiani), presenta già non solo un notevole livello di problematizzazione ma alcuni importanti esiti. Alla domanda “Che cos’è la persona? ” segue, nello stile di scrittura proprio di Ricœur (per dialettica di prospettive), l’individuazione di più direttrici comprensive (previa la chiarificazione di volersi attenere al campo della sola indagine speculativa). Biologico, psicologico e sociologico: questo il sistema ternario di forze su cui si radica il «chi». Le forze biologiche determinano il temperamento, ma la persona non è solo il suo temperamento; le forze psicologiche (che siano ereditate o acquisite nel corso della vita) determinano il carattere, ma la persona non si riduce al solo suo carattere; quelle sociali, poi, altrettanto costitutive delle precedenti, concorrono a formare la persona nella mentalità, ne influenzano il carattere, al pari delle forze economiche e morali, ma non determinano la persona in quanto tale. La persona non è l’individuo: «Se chiamo individuo il temperamento prolungato attraverso il carattere, coronato dalla mentalità, dirò che la persona non è l’individuo».8 Certamente, il temperamento, il carattere e la mentalità di un individuo possono diventare oggetto di una ricerca scientifica; la persona, invece, non può diventare mai oggetto di scienza, anzi è «capace di mettere in scacco le previsioni della caratterologia e della sociologia»,9 come nel caso di un uomo alcolizzato che contro tutte le previsioni scientifiche un giorno decide e riesce a metter fine al bere. Di fatto, si può giungere a dire così: «l’uomo è personale nella misura in cui impedisce alle scienze dell’uomo di essere rigorose».10 Se la persona non è né individuo né oggetto scientificamente conoscibile, come si può sapere della persona? cosa determina una persona? Ricœur risponde (schelerianamente) che una persona si determina e si conosce attraverso le sue azioni: «Sono persona quando io faccio quel che faccio, nel senso radicale e radicalmente attivo della parola fare, quando ciò che faccio non si esplica attraverso tutte le forze determinate, ma attraverso me, attraverso la mia libera decisione».11 La libertà mi rende capace di riconoscere i miei atti come atti miei, cioè espressivi di ciò che sono, ed allo stesso tempo come atti a me imputabili, cioè di cui devo prendermi la responsabilità: «La persona agisce e non è agita. […] La persona è quella che rivendica un certo atto, quella che solidarizza con tale atto, assumendone le conseguenze, essendone responsabile».12 Epperò, non può darsi opposizioni radicale tra individuo e persona, anzi, non può darsene affatto: l’uomo, infatti, non è da un lato corpo e dall’altro spirito, da un lato individuo e dall’altro persona: «Io sono un tutto unificato»,13 sono un essere incarnato. Se questo tema della «natura corporale della persona» / della «natura personale della carne» ritornerà a più riprese nell’opera fenomenologica ed ermeneutica ricœuriana (divenendo una costante della sua lunga ed articolata ricerca intorno all’uomo), la questione della persona in quanto tale entrerà sin da subito in risonanza con le “corde” del personalismo, dapprima [in qualche modo] attraverso un breve saggio sull’educazione,14 poi, più direttamente in Masse et personne (1951), scritto con J. -M. Domenach per Esprit — articolo mirante a porre in dialettica positiva e produttiva la prospettiva personalista con quella dei militanti in movimenti di massa.15 Questo carattere propositivo e di sollecitazione, quando non di [fraterna] provocazione, nei confronti del personalismo permarrà nel suo lavoro, come dimostra bene nel titolo e nel contenuto, il suo saggio Meurt le personnalisme, revient la personne… presentato all’occasione di una conferenza organizzata dall’Associazione degli amici di Emmanuel Mounier (Dourdan, 1982), edito poi nel numero monografico dedicato al cinquantenario di Esprit (gennaio 1983). Nel lavoro successivo Approches de la personne (posto da Ricœur stesso in continuità con il precedente) si legge in apertura: «In un saggio espressamente provocatorio […] ho arrischiato la formula: “Muore il personalismo, ritorna la persona”. Intendevo suggerire, che la definizione di personalismo data da Mounier era, come di buon grado lui stesso riconosceva, connessa ad una particolare costellazione culturale e filosofica che non è più, oggi, la nostra: l’esistenzialismo e il marxismo non sono più gli univoci rivali, ovvero non sono più in termini assoluti dei rivali in rapporto ai quali il personalismo dovrebbe definirsi, correndo il rischio di iscrivere se stesso tra i sistemi in -ismo».16 D’altra parte, «il personalismo non è stato così competitivo da vincere la battaglia del concetto»17: questa corrente è stata superata dalla storia perché non si è saputa elevare a filosofia.18 Anche la nozione di persona — che in essa ha giocato un ruolo ambivalente — ha concorso alla disfatta poiché ha esposto, da un lato, il personalismo ad una plurima possibilità di lettura della persona (essendo già allora termine d’impiego diverso), ha costretto, dall’altro, Mounier a percorrere la via di un disegno ibrido, tra costruzione ideale e trascendenza, esposto alle strali del nichilismo nietzschiano: nel suo Manifeste au service du personnalisme (del 1936) coesistono «una ontologia della sussistenza, un riferimento a un ordine gerarchico dei valori e un senso acuto della singolarità e della creatività. Ma la trascendenza verticale, che Mounier tentò sempre di mantenere nell’indecisione, allo scopo di non costringere i personalisti a scegliere tra la lettura cristiana e la lettura agnostica, si trovava attaccata, nelle sue due versioni, dalla predicazione nietzschiana del nichilismo».19

Epperò, l’ambivalenza della nozione di persona non è propriamente da riferire a questa oscillazione e sovraccarico storico del concetto: tale aspetto è un lato, quello appunto connesso alla morte del personalismo. L’altro lato è l’intramontata pertinenza e pregnanza della nozione di persona — che oggi più che mai va imponendosi nei diversi campi della politica, dell’economia e della società (si pensi ad esempio alla questione dei diritti dell’uomo) — e che fa si che, in qualche modo, resti del personalismo un lascito vivo. In tal senso Ricœur dice: «ritorna la persona». Il concetto — esaminato in prospettiva squisitamente filosofica — gli pare ancora del tutto appropriato, «un candidato migliore rispetto a tutte le altre entità ereditate dalle bufere culturali»20 del passato: coscienza, soggetto, io21 Ma si va a porre il problema dell’individuazione di un linguaggio adeguato per una nozione di persone che non ha più il riferimento del personalismo. E Ricœur trova soluzione attraverso una ritessitura concettuale, di carattere speculativo, tratta dalla sua stessa concezione filosofica dell’uomo e (come si vedrà più chiaramente rapportando il saggio Approches de la personne a Soi-même comme un autre) dalla sua «fenomenologia ermeneutica del sé». Nel saggio che stiamo esaminando, il Nostro propone di tornare a riferirsi alla persona nel senso di attitudine-persona: «innanzitutto, è persona quella entità per la quale la nozione di crisi è il segno di riferimento essenziale della sua situazione»;22 in secondo luogo, data la costitutività della condizione di crisi, l’attitudine della persona si rivela attraverso l’impegno, sua controparte [se nutrito dalla convinzione, addirittura, risposta perpetua ad essa] — da non intendersi, l’impegno, “alle Spinoza” come attributo di una qualche entità sostanziale.23 La persona, infatti, non è compiuta, non è sostanza. Piuttosto — come rivela il primo dei corollari sviluppato da Ricœur, ed in qualche modo la nozione stessa di impegno — la persona esprime se stessa attraverso la «durata» del suo comportamento nel tempo. Alla nozione di identità, poi, deve correlarsi il secondo corollario della differenza, in quanto l’«alterità [è] legata indissolubilmente a ogni assunzione d’identità».24 Infine, «la coppia crisi/impegno suscita un terzo corollario: il raccoglimento della durata in una interiorità, il riconoscimento e l’amore per le differenze, richiedono l’orizzonte di una visione storica globale».25

Più dettagliata e solida la filosofia della persona dello scritto Approches de la personne, chiaramente frutto di un più ampio sviluppo della ricerca sul tema — quella confluita in Soi-même comme un autre [entrambi gli scritti sono del 1990]. Qui non solo Ricœur parla di una «fenomenologia ermeneutica della persona» — che, come vedremo sùbito, ricalca la «fenomenologia ermeneutica del sé» — ma, in qualche modo, la pone in alternativa a quel tentativo di fondazione etico-speculativa della persona compiuto da E. Mounier nel suo Traité du caractère. Questi aveva trovato appoggio nella caratterologia, Ricœur lo trova nella filosofia del linguaggio, dell’azione e nella teoria narrativa. «Ho designato quattro piani — spiega —, o quattro strati, di ciò che potrebbe costituire una fenomenologia ermeneutica della persona: linguaggio, azione, racconto, vita etica; d’altronde, si dovrebbe più correttamente parlare di: uomo parlante, uomo agente (e aggiungerei uomo sofferente), uomo narratore e personaggio del suo racconto di vita, e infine uomo responsabile».26 Il Nostro riproduce qui lo stesso schema sviluppato nel libro (e mantenuto fino al Parcours de la reconnaissance [2004]), determinando una chiara sovrapposizione del concetto di «sé» [soi-même] e del concetto di «persona». Parlare di «filosofia dell»uomo’ o parlare di «filosofia della persona» diverrebbe la stessa cosa in Ricœur,27 con la sola differenza della linea e dell’andamento espositivo (probabilmente per l’invincibile, immediato, riferimento pratico la nozione di persona comanda). Mi trovo in sostanziale accordo con la linea di lettura di M. Buzzoni, secondo il quale «la persona compare nella riflessione ricœuriana soltanto, o meglio essenzialmente, come categoria pratica e non ontologica»;28 d’altra parte, però, rilevo una stretta colleganza tra piano di analisi pratico e piano di analisi teoretico non ascrivibile ad una occasionalità dell’articolo e non riducibile al solo elemento di una «diversa concezione della dimensione trascendentale della persona» (per cui, intesa come «coerentemente funzionale, consente […] di dimostrare che la dimensione trascendentale, ontologica ed etico-ermeneutica della persona coincidono nella sua libertà in quanto libertà d’un essere finito»).29 Nel saggio che abbiamo in esame il filosofo procede in parte a ritroso, rispetto a Sé come un altro, dall’ultimo stadio della sua ricerca, stabilendo preliminarmente la differenza tra etica e morale sulla ridefinizione della nozione di ethos (in Ricœur, «auspicio di una vita compiuta — con e per gli altri — all’interno di istituzioni giuste»);30 con ciò egli traccia il quadro dell’etica della persona, data la quale procederà all’esame fenomenologico-ermeneutico della persona sul piano del linguaggio, dell’azione, del racconto. Perché, anzitutto, il linguaggio? Perché «se non tutto si riduce a linguaggio, tutto, nell’esperienza, accede al senso solo se è portato al linguaggio».31 Condizione prima dell’uomo in quanto tale diviene il poter parlare: di fatto, esso precede lo stesso agire [«la categoria più importante della condizione umana»] in quanto l’agire, anche quando solo movimento, «deve essere detto» nell’uomo, differentemente dall’animale, ossia deve essere «portato al linguaggio, in modo da risultare significante».32 Ora, il linguaggio — in quanto semantica — ci rende possibile l’identificazione — che da un lato dice dell’individuo (che non è persona), dall’altro risponde a quell’«intento individualizzante» che permette la determinazione di una «singolarità» e che precede il riconoscimento della singolarità della persona. In quanto pragmatica, invece, ossia realtà discorsiva in situazione [interlocutoria], il linguaggio può inquadrare la singolarità come differenza di un io da un tu; e, collegata alla teoria degli speech acts, posta la distinzione tra atto locutorio [la proposizione semplice] ed atto illocutorio [il fare proposizionale, es. la minaccia], il linguaggio può già riflettere la persona (tanto più che, in Ricœur, diretta è la connessione tra il valore dell’atto illocutorio ed il piano della costituzione etica personale): «sul piano della pragmatica la persona è immediatamente designata come , nella misura in cui il soggetto parlante designa se stesso tutte le volte che specifica l’atto illocutorio in cui impegna la propria parola».33 Dal piano del linguaggio si genera una triade — locuzione, interlocuzione, linguaggio - «omologa» alla triade stima di sé, sollecitudine, istituzioni giuste emersa dall’analisi dell’ethos morale. L’esame fenomenologico-ermeneutico della persona prosegue passando al piano dell’agire ed alla teoria dell’azione — piano congiunto al piano del linguaggio, come in parte si è visto. Per Ricœur, «il chi? dell’azione mostra la medesima struttura triadica dell’ethos morale. Da un lato non c’è agente che non possa designare se stesso in quanto autore responsabile dei propri atti»; da un altro lato, «l’azione umana si concepisce solo come interazione, sotto innumerevoli forme che vanno dalla cooperazione alla competizione ed al conflitto»;34 ma è proprio da qui che ancora procede la terza componente dell’ethos, in quanto le azioni son riferite/riferibili sempre a degli istituzionali étalons d’excellence [nei mestieri, nei giochi, nelle arti], i quali a loro volta non rispondono strettamente alla sola “logica” della praxis. Spiega Ricœur:

A permettere che la praxis si presti a considerazioni etiche è una particolarità fondamentale dell’interazione umana: per un agente, agire significa esercitare un potere-su un altro agente. Più precisamente, questa relazione, espressa con il termine potere-su, mette l’uno di fronte all’altro un agente e un paziente; è fondamentale per la teoria dell’azione completare la disamina dell’agire con quella del patire; l’azione è subita da qualchedun altro.35

Si giunge, infine, al piano della narrazione, dove essenzialmente la questione della persona si chiarifica in relazione al ruolo costitutivo del tempo, e l’interrogativo del chi? imbocca una nuova, più profonda, problematizzazione: «Cosa permane identico nel corso di una vita umana?».36

Tale dilemma — che riassume, in qualche modo, tutto il problema moderno dell’identità — ci richiede un particolare approfondimento dell’esame ricœuriano attraverso Sé come un altro. Nel saggio Della persona, infatti, gli elementi ed aspetti a noi utili sono comprensibilmente riproposti in modo solo parziale, sebbene essenziale.

2. Filosofia della persona come «fenomenologia ermeneutica del sé»

Se il saggio Approches de la personne conferisce alla nozione di persona una chiara matrice teoretica, nelle Conclusioni generali di Temps et récit — dove si stabiliscono le basi di quella soluzione narrativa alle antinomie moderne dell’identità personale individuate e trattate nell’opera del 1990 —, si legge che «“identità” è […] preso nel senso di una categoria della pratica».37 La prossimità/sovrapponibilità dei due termini sarà confermata dalla ricorrenza della nozione di «identità personale» (oltre che, come si è visto, dall’introiezione dell’istanza etica tra i costituenti fondamentali propri dell’homme capable; e ancora… dall’innesto della stessa funzione narrativa). Già in queste Conclusioni si legge che

senza il soccorso della narrazione, il problema dell’identità personale è […] votato ad una antinomia senza soluzione: o si pone un soggetto identico a se stesso nella diversità dei suoi stati, oppure si ritiene, seguendo Hume e Nietzsche, che questo soggetto identico non è altro che una illusione sostanzialista, la cui eliminazione lascia apparire solo un puro diverso di cognizioni, di emozioni, di volizioni. Il dilemma scompare se, all’identità compresa nel senso di un medesimo (idem) si sostituisce l’identità compresa nel senso di un se stesso (ipse); la differenza tra idem e ipse non è altro che la differenza tra una identità sostanziale o formale e l’identità narrativa.38

Questa articolazione dell’identità in identità-medesima ed identità-stessa sarà ribadita talis qualis in Sé come un altro (e più tardi nei Percorsi del riconoscimento). Ebbene, è questa connessione qui stabilità tra dimensione dell’ipseità e piano dell’identità narrativa a rafforzare ulteriormente l’intreccio di pratico e teoretico, in quanto narrativo è l’approccio non solo conoscitivo di sé a se stessi, ma pratico emancipativo: «Il sé della conoscenza di sé — si legge ancora nelle Conclusioni — è il frutto di una vita sottoposta ad esame, secondo l’espressione di Socrate nell’Apologia. Ora una vita sottoposta ad esame è, in larga parte una vita depurata, chiarificata grazie agli effetti catartici dei racconti sia storici che di finzione portati dalla nostra cultura. L’ipseità è così quella di un sé istruito dalle opere della cultura che si è applicato a se stesso».39 Si tratta di qualcosa di analogo a ciò che entra in opera nel processo della terapia psicoanalitica che può intendersi — e, di fatto, così Ricœur interpreta — come una successione terapeuticamente organizzata di rettificazioni applicate a dei racconti brevi (sogni, ricordi, rappresentazioni, immagini) che riorganizzano il senso del vissuto, il senso stesso di sé e l’idea e immagine di sé in un tutto coerente, unificato, accettato, riconosciuto… pacificato.

In Sé come un altro, lo studio dell’identità narrativa è condotto riprendendo la problematica dell’identità personale (così come sin dai tempi di Hume e Locke si è andata configurando), in quanto «il problema dell’identità personale costituisce il luogo privilegiato di confronto fra i due principali usi del concetto d’identità»,40 identità-idem ed identità-ipse; usi entro cui la funzione narrativa va a inserirsi in quanto funzione mediativa «fra due limiti, un limite inferiore, in cui la permanenza nel tempo esprime la confusione dell’idem e dell’ipse, e un limite superiore, in cui l’ipse pone la questione della sua identità senza il soccorso e l’appoggio dell’idem».41 Certo, la soggettività personale non esprime il suo carattere di permanenza attraverso la specifica funzionalità narrativa: è, da un lato, il carattere e, dall’altro, il mantenimento della parola data42 a darsi come espressione propria, unica/univoca, delle due suddette dimensioni dell’identità. Ma «permanenza», solo nel senso della temporalità, ed ancora su piani divisi: la medesimezza del carattere ed il mantenimento della parola data riproducono, in qualche modo, un dualismo, un esito frammentario dell’esperienza d’essere persona che solo la mediazione della narrazione riporta ad unità. La narrazione, operando «fra teoria dell’azione e teoria morale»,43 è in grado di restituire la storicità delle espressioni individuali di permanenza nel tempo, conferendo ad esse una articolazione compiuta sia nel senso esperienziale e pratico d’esser persona “che ha una propria storia, che è la propria storia”, sia nel senso teoretico-analitico dell’individuazione di una nozione — quella di identità narrativa — capace di interporsi mediativamente tra gli aspetti identitari connessi e largamente dipendenti dalla funzionalità organico-psichica e gli aspetti identitari esplicabili in termini di esperienza, contesto sociale ed inter-relazionale, scelte d’azione e moralità. Per Ricœur il racconto è la via maestra per dire la «storia di una vita». Non solo la narrazione permette di rendere esplicitamente conto delle «concatenazioni temporali» dell’azione e, dunque, rendere effettivamente la dimensione storica della soggettività — interrelando concatenazioni temporali e senso del vissuto — ma l’atto del racconto permette all’individuo di comprender-si e ri-comprendersi. Qui non vi è in gioco la sola funzione dell’innovazione semantica, propria delle operazioni linguistico-narrative, ma la capacità e possibilità del singolo di creare e ricreare significato (come dimostra la clinica psicoanalitica), di ripercorrere e ricucire le trame del proprio vissuto secondo una nuova organizzazione di significato — sempre e comunque, però, come racconto storico, come racconto “del vissuto che mi appartiene, e che dice di me”. La narrazione non è solo «creazione di significato», dunque, è espressione della persona nella sua storicità, nella sua particolarità/unicità e nella sua totalità.

Qui si potrebbe avanzare l’obiezione che neppure la via narrativa restituisce alla persona una totalità unitaria. Ricœur stesso ha discusso il problema messo a fuoco da McIntyre dell’«unità narrativa di una vita»: di fatto, l’inizio della mia storia di vita è storia d’altri (la nascita è raccontata dai miei familiari), come anche la storia della mia morte. Ma qui, accanto alla soluzione pratico-sociale, ricca di implicazioni etiche — per cui, persona si è nella relazione con l’altro, in una comunità sociale [in un determinato tempo, in una determinata cultura, in una determinata tradizione], entro un contesto di mutuo riconoscimento —, ebbene, accanto a questa via si colloca quella teoretico-ontologica che lo stesso Ricœur profila nello studio esplorativo finale di Sé come un altro. In qualche modo, il nostro permette di legare la sua antropologia filosofica ad una bozza di concezione ontologica riconducibile all’ontologia dell’essere di Aristotele, ovvero essere come dinamismo di potenza-atto. Dopo Hume, Locke, la «scuola del sospetto» ecc., non è più ammissibile l’idea della sostanzialità del soggetto, neppure della persona. D’altra parte, l’ontologia aristotelica dell’essere pare proprio espressiva di una formula identitaria capace di ritenere ed esprimere i caratteri della permanenza e del mutamento, la dialettica tra da una parte possibilità, potenzialità e [come immediatamente direbbe Ricœur] capacità, e dall’altra realizzazione, attività, espressione. Non è contraddittorio, così, che il Nostro possa dire in un suo intervento (a proposito del capolavoro del 1990) che «l’opera […] è […] organizzata attorno a quattro usi principali dell’“io posso”; io posso parlare, posso agire, posso raccontare, posso considerarmi responsabile delle mie azioni»,44 e altrove che «la problematica del sé […] [proposta] in Sé come un altro, si dispiega su diversi livelli di accezione del verbo agire».45

Stando a tutto ciò, la problematica dell’identità personale trova risoluzione nell’idea di persona come potenza espressiva, come processo dialettico, come dialettica di espressione ed emancipazione, come processo di riconoscimento di sé-a-se-stessi e di sé-con-l’altro e per-l’altro [entro istituzioni giuste…] . Insomma, individui si nasce, persone si diventa. Ma si diventa persone non solo in virtù del potenziale del sé, delle azioni espressive e della storia di atti e di vita. Non sei persona se quel dinamismo di potenza-atto non è calato entro una qualche forma, espressione e manifestazione [anche negativa] di dialettica del riconoscimento. In un certo senso potremmo dire: si diventa persone nella comunità delle persone… (ritorna il personalismo?).

3. Forza di un metodo, forza di una visione

Oggi l’articolazione disciplinare e tematica degli studi afferenti alla filosofia della persona è tale da rendere impossibile qualunque tentativo di sintesi unitaria, se non in forma enciclopedica o, comunque, attraverso l’intervento di teste con diversa formazione e competenza. La complicazione è aggravata dallo stato attuale dei saperi intorno all’uomo (fatto che già Ricœur, tra gli altri, rilevava, negli anni ’60 del secolo scorso): non la semplice differenziazione e specializzazione delle discipline, ma l’esplosione e frammentazione del campo conoscitivo, tale per cui non può darsi più un discorso compiuto, uniforme ed unitario sull’uomo. La diversificazione dei discorsi, degli approcci è ricchezza e problema; problema tale per cui la questione moderna dell’identità personale va a caricarsi oggi [più che mai] della (1) complicanza delle forme conoscitive ed approcci posti in campo, (2) di un certo grado di reciproca incompatibilità, (3) della necessità di un’operatività interdisciplinare e collegiale. Altrove ho cercato di mostrare come la filosofia ricœuriana presa nel suo insieme riveli il carattere interessante, del tutto innovativo, di un approccio metodologico rispondente alle esigenze di pluralità epistemologica, procedurale, gnoseologica, disciplinare e di interdisciplinarità e collegialità.46 L’opera ricœuriana è vastissima, attraversala non equivale solo ad attraversare buona parte della storia del pensiero filosofico ma tradizioni e campi molto diversi tra di loro, anche posti al di fuori dei saperi filosofici (tradizione riflessiva, spiritualismo, mitologia, letteratura, fenomenologia, ermeneutica, epistemologia, teologia, linguistica, semantica, filosofia analitica, narratologia, storia, storiografia, psicoanalisi, strutturalismo, filosofia della mente, psichiatria, filosofia della persona, neurobiologia, diritto…). È forse proprio la filosofia, di per sé — in quanto inter-disciplina dotata di un vastissimo apparato concettuale e di un’ampia serie di modalità conoscitive — a poter fornire il miglior contributo di sintesi discorsiva intorno all’uomo (acquisendo continuativamente, come di fatto oggi tende a fare, i dati, i nuovi contenuti e gli esiti delle ricerche scientifiche e delle elaborazioni in diversi campi). Il lavoro ricœuriano ne offre l’esempio ed, al di là dei contenuti e degli sviluppi, il metodo. La sua ermeneutica critica — così ho definito il procedimento ricœuriano — si àncora ad un modello elaborato a partire da minuziose indagini epistemologiche nel campo della psicoanalisi, della storia, della teoria del testo e della filosofia dell’azione. Da ciò, come è noto, Ricœur ha elaborato la sua «teoria dell’arco ermeneutico», ovvero un procedimento a fondamento pluriepistemico in cui l’operazione dell’interpretazione (di contenuti, dati, fenomeni…) raccorda, coordina e sussume le acquisizione recepite attraverso le operazioni esplicative (per estensione, tutte le operazioni conoscitive espletate nel campo scientifico dell’oggettivo) ed attraverso le operazioni comprensive (per estensione, tutte le operazioni conoscitive espletate nel campo scientifico, e non, del soggettivo).

Ora, il tema che abbiamo in esame ci permette in qualche modo di sviluppare questo discorso nell’intreccio con la disamina delle possibilità di contenuto che il lavoro ricœuriano offre nel campo della filosofia della persona. Al riguardo, ci pare del tutto utile un confronto con il lavoro di R. De Monticelli, La novità di ognuno. Persona e libertà47 in cui sono toccate e discusse alcune delle questioni più attuali e spinose della filosofia della persona. Tra di esse, anzitutto, l’intramontata questione del libero arbitrio, il cui dilemma d’entità fa tutt’uno con la dialettica tra determinismo scientifico e concezioni non deterministiche, e con la stessa problematica dualistica di cartesiana memoria — oggi sofisticata/complessificata dagli apporti tecnico-conoscitivi di branche del sapere come la neurobiologia. Discutendo con il neurobiologo eliminativista J. -P. Changeux Paul Ricœur riconsidera il dilemma dell’identità personale dal lato problematico del rapporto mente-cervello, secondo un approccio che richiama quella linea metodologica e discorsiva posta in atto circa cinquant’anni prima nella Philosophie de la volonté, ovvero di una fenomenologia [del Cogito integrale] raccordata alla scienza empirica [nel caso specifico, alla psicologia empirica] e sviluppata secondo la doppia linea di una filosofia d’indirizzo riflessivo-ermeneutico e di una prospettiva di poetica dell’umano. Quest’ultima è generativa di quello che Ricœur, nel dialogo con Changeux, definirà «un terzo discorso che va al di là tanto della filosofia fenomenologica quanto della scienza»,48 ovvero di un discorso che può neutralizzare e superare i contraccolpi del dualismo semantico e conoscitivo dei saperi sull’uomo (e, dunque, su problematiche quali quella del rapporto mente-cervello).

Facilmente riconducibile a tale problematicità d’ordine ontologico e gnoseologico è la trattazione critica degli approcci del determinismo, dell’indeterminismo e del naturalismo sviluppata da De Monticelli — che riassume il dibattito plurisecolare intorno alla persona ed al libero arbitrio ricorrendo alle tre immagini dell’uomo che spezza le catene, dell’uomo al bivio e della danzatrice (rispettivamente, l’agire per propria volontà, il dilemma dell’autodeterminazione, l’azione libera come innovatrice e come tratto della novità personale). Al dualismo semantico si riferisce ancora Dennett quando distingue tra spiegazioni naturalistiche e spiegazioni intenzionali; ed ancora alla linea ricœuriana può accostarsi la constatazione che la fenomenologia rende conto solo di «“un pezzo di comportamento, un’azione, o un intervallo di inazione rendendolo ragionevole alla luce di determinate credenze, intenzioni, desideri attribuiti all’agente”»,49 senza con ciò dover ricorrere alla nozione di agente personale, piuttosto che agente naturale.50 Certo, De Monticelli non guarda all’alternativa di un “terzo discorso”, insiste sull’unilateralità e vaghezza del riduzionismo naturalistico, oggi pervasivo, e riproponendo la domanda che oltre cento anni fa fu di Husserl — «ci sono o non ci sono enti di tipo essenzialmente nuovo rispetto a quelli studiati da una data scienza naturale?»51 — indica la prospettiva della novità di ognuno per la duplice via della unicità e della creatività. L’avvio della seconda parte del libro (che sviscera le implicazione tematiche connesse all’immagine dell’uomo che spezza le catene) permette un rimando ulteriore al primo libro ricœuriano della Philosophie de la volonté (Le volontaire et l’involontaire, 1950), in quanto nella fenomenologia della volontà in essa contenuta si profila già una certa linea speculativa sull’uomo che intreccia la questione della volontà a quella della libertà personale — e con De Monticelli sappiamo che «una teoria della volontà» che si voglia esplicativa del potere «di determinarsi a un’azione» quale «libertà della persona» deve ad un tempo render conto dell’entità dell’azione quale espressione della libera volontà e della libera volontà quale espressione della persona. In Le volontaire et l’involontaire si mostra, anzitutto, come al «ciò che io decido», prima determinazione del «voluto», segua la motivazione, «prima struttura di raccordo fra l’involontario ed il volontario»,52 in quanto la volontà è volontà incarnata. La corporalità, espressa attraverso l’involontario del bisogno, del piacere, del dolore ecc. è coinvolta nel processo di volontà, è parte della costruzione motivazionale che porta al decidere. L’alternanza e l’interazione è complessa anche per via della frattura comprensivo-conoscitiva tra piano oggettivo del corporale (studiato dalla scienza) e piano soggettivo esperienziale (vissuto dal singolo), e, ulteriormente, tra dualismo esistenziale ed etico. Nel quadro del dualismo d’esistenza la libertà si configura come libertà umana, come libertà «che è nello stesso tempo attività e passività, “indipendenza dipendente” e “iniziativa recettrice”».53 Nella sezione conclusiva del saggio questa lettura trova ulteriore elementi di approfondimento attraverso la critica filosofica del freudismo. Ma qui è messo ulteriormente a fuoco anche il carattere di paradossalità della libertà umana, addirittura della stessa condizione d’esser persona. In sé la persona fa esperienza della forza della necessità passiva e retroattiva sempre in opera contro l’iniziativa della volontà libera e contro l’iniziativa d’azione. La persona non è l’uomo liberatosi dal peso del corpo e dal giogo dei desideri, delle passioni e dalla tirannide della nolontà; è l’uomo che (drammaticamente) sta nella sfida perpetua di farsi persona.

Il tema del rapporto volontà/libertà ed il tema dell’azione si legano strettamente — come meglio emerge, rispetto la libro del 1950, nel ricœuriano Discours de l’action (1972). Anche De Monticelli rileva la centralità della teoria dell’azione nella filosofia della persona, procedendo anzitutto dall’analisi della volontà dal punto di vista della decisione.54 La lettura fenomenologica si trova particolarmente impegnata sul nodo della determinazione ontologica della decisione quale «atto che trasforma un motivo possibile in un motivo efficace d’azione», ossia «atto che conferisce efficacia causale al motivo, che di per sé ne manca»;55 per il determinista la “struttura” della decisione è causale come un qualunque evento, ma proprio qui si colloca il limite dell’approccio determinista, incapace di riconoscere la differenza tra causa e motivo. «Trascurare questa distinzione — scrive — significa condannarsi a non poter rendere conto delle differenze apparenti, sottili o enormi che siano: per esempio, fra decidere di andare a dormire e crollare addormentati».56 Esistono stati dotati della capacità di operare causalmente, ed anche stati che dall’operatività e rispondenza meccanica passano alla disposizione motivazionale. E ciò non si spiega — come farebbe il determinista — attraverso la trasposizione del causale al vertice stesso dell’agire, ovvero come/quale modalità propria e unica dell’agente. «Una decisione […] è un atto», ma «atto» implicante l’agire in un senso non riducibile alla sola esecuzione d’azione. Si danno, infatti, diverse classi o sottoclassi di azioni: le «azioni puntuali» (es., l’allargare le braccia); le azioni espressive di «atteggiamenti o disposizioni» [dotate anche di valore o “ritualizzate”]; le «azioni immediatamente istitutive di realtà» (atti linguistici, generalmente gli atti sociali). Accanto a tali gruppi (che sono i principali) sta un gruppo minoritario, ma non ignorabile, di tipi di atti che azioni non sono: gli atti mentali. In riferimento a questo quadro De Monticelli difende con efficacia una serie congiunta di tesi atte a marcare la specificità e novità/innovazione di persona e libertà: la tesi che (1) «essere una persona è emergere sui propri stati mediante i propri atti», che (b) «una persona è un soggetto d’atti», la tesi che (c) «gli atti costitutivi di una vita personale si dispongono in una gerarchia di atti di base e atti liberi», infine, la tesi che (d) «c’è una sottoclasse di atti richiesta per l’emergenza di una identità personale, ed è la classe degli atti liberi».57 Per il Ricœur del Discours de l’action è la nozione stessa di agente a far saltare «tutte le dicotomie […] tra motivo e causa». Inoltre, l’idea del «potere di produrre l’azione»58 esplicita la nozione di «agente» quale «persona» in una forma del tutto unica, non recepibile/esprimibile dalla nozione moderna, scientifica, di causa. Questo discorso si allaccia strettamente alla dialettica emancipativa della persona, sia in prospettiva etica — ossia, delle responsabilità individuali, connesse al compito/sfida di diventare persone e di vivere «da persone» —, sia in prospettiva teoretico-ontologica — ossia, della costituzione personale (quale perpetua tensione di nolontà e volontà, per dirla con Le volontaire et l’involontaire, quale perpetua dialettica tra sé e le diverse forme di alterità, per dirla con Soi-même comme un autre). In qualche modo, un’operazione accostabile realizza De Monticelli che lega la sua analisi filosofica dell’azione al discorso della costituzione dell’individuo come persona. È «attraverso […] atti autocostitutivi» che «emerge un’identità personale che si attesta attraverso il tempo con la responsabilità attuale del sé presente, passato e futuro».59 È in virtù della capacità di compiere atti autocostitutivi che un individuo può qualificarsi in senso pieno persona. Cioè, ancora… persona si diventa. «Il gap fra persona e persona in senso pieno […] [va] cercato nel passaggio dagli atti liberi in senso lato agli atti liberi in senso proprio, con la presenza soggettiva alle proprie prese di posizione che essi comportano».60

In definitiva — volendo provare a dare una formulazione di sintesi comprensiva — potremmo dire che sono il corso storico-esperienziale di vita e la maturazione sociale e morale a determinare/favorire la predominanza degli atti auto-costitutivi su tutti gli altri generi di atti (ovverosia la sovranità di sé rispetto a se stessi); atti auto-costituivi che sono testimonianza e prova della capacità creativa ed innovativa dell’uomo. Capacità di portare il nuovo, capacità di vivere come persone.


  1. P. Ricœur, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit, Paris 1995; tr. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998. ↩︎

  2. P. Ricœur, La critique et la conviction. Entretien avec F. Azouvi et M. de Launay, Calmann-Lévy, Paris 1995; tr. it. di D. Iannotta, La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997. ↩︎

  3. P. Ricœur, Meurt le personnalisme, revient la personne…, in «Esprit» (Cinquantenaire. Des années 30 aux années 80), n. 1, 1983, janvier, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona…, in P. Ricœur, La persona, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 21-36. P. Ricœur, Approches de la personne, in «Esprit» (À quoi sert le Parti socialiste?), n. 160, 1990, mars-avril, pp. 115-130; tr. it., I. Bertoletti, Della persona, in Ibidem, pp. 37-71. Molti scritti direttamente o indirettamente legati al tema della persona sono stati raccolti — come ricorda M. Buzzoni nel suo studio Paul Ricœur. Persona e ontologia, Edizioni Studium, Roma 1988 [p. 8n] — in P. Ricœur, Histoire et vérité, Seuil, Paris [1955] 1967³ (tr. it. di C. Marco e A. Rosselli, Storia e verità, Marco editore, Cosenza 1994); ad essi si aggiunga: P. Ricœur, L’“Essai sur l’expérience de la mort” de P.-L. Landsberg, in P. R., Lectures 2. La contrée des philosophes, Seuil, Paris 1992, pp. 191-194. Altri titoli ricœuriani (meno noti) esplicitamente riferiti al tema della persona: Note sur la personne, in «Le Semeur», n. 38/7, 1936, mai, pp. 437-444; [con J.-M. Domenach], Masse et personne, in «Esprit» 19, n. 1, 1951, janvier, pp. 9-18; Philosophie de la personne, in «Esprit» 22, n. 2, 1954, février, pp. 289-297; Sympathie et respect. Phénoménologie et éthique de la seconde personne, in «Revue de métaphysique et de morale» 59, n. 4, 1954, octobre-décembre, pp. 380-387; La persona tra memoria e creatività, in «Nuova umanità», n. 27, 1983, pp. 89-107; L’etica ternaria della persona, in AA.VV., Persona e sviluppo. Un dibattito interdisciplinare, Dehoniane, Roma 1991, pp. 65-86; L’identità personale. Il Self, in «Prospettiva persona» 2, n. 5-6, 1993, juillet-décembre, pp. 10-17; Chi è il soggetto del diritto, in «Prospettiva persona» 3, n. 7, 1994, janvier-mars, pp. 11-16; (titoli in italiano raccolti in A. Danese [a cura di], Paul Ricœur. Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1994); Individu et identité personnelle, in AA.VV., Sur l’individu, Seuil, Paris 1987, pp. 54-72; Mon point d’ancrage, la personne qui s’interroge [entretien avec P. Ricœur recueilli par Gw. Jarczyk], in «La Croix» 109, n. 32474, 1989, 20 décembre, p. 18; La persona: desarrollo moral y político, in «Revista de occidente», n. 167, 1995, pp. 129-142; Ritorno alla persona, l’Io è troppo limitato, in «Il Sole 24 Ore» 1997, 22 giugno / 1° ottobre. ↩︎

  4. P. Ricœur, Lectures 2, cit., pp. 195-202 e pp. 203-221. ↩︎

  5. F. Dosse, Paul Ricœur. Les sens d’une vie, La Découverte, Paris 2001²; Cap. 3. La troisième voie personnaliste, pp. 32-40. ↩︎

  6. P. Ricœur, Autobiografia intellettuale, cit., pp. 28-29 (18). ↩︎

  7. P. Ricœur, La critica e la convinzione, cit., p. 48 (41). ↩︎

  8. P. Ricœur, Note sur la personne, cit., p. 438; tr. it. mia, come le successive. ↩︎

  9. Ibidem, p. 441. ↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. Ibidem, pp. 438-439. ↩︎

  12. Ibidem, p. 439. ↩︎

  13. Ibidem, p. 440. ↩︎

  14. In un breve articolo scritto una dozzina d’anni più tardi (altrettanto poco conosciuto) — Comment respecter l’enfant? (1948), ospitato su Foi-Éducation [rivista trimestrale della Federazione protestante dei membri dell’insegnamento] — Ricœur approccia il tema della persona sotto una chiave differente, ma confermando, nella sostanza, una medesima linea di lettura. Procede, in prima battuta, ad identificare la caratterizzazione più diffusa dell’idea di insegnamento. Esso persegue l’obiettivo di trasformare gli allievi in esseri ben adattati sia alle funzioni biologiche e professionali sia al contesto sociale di appartenenza. Ma l’allievo è una persona, rileva Ricœur, ossia ben più di un semplice fascio di funzioni biologiche e di un insieme di compiti socialmente definiti. La persona è compito infinito, non è istruibile/determinabile secondo principi di utilità. L’insegnate deve considerare non solo le caratteristiche specifiche di un allievo ma tenere ben presenti le condizioni generali del suo sviluppo e le sfide proprie alla sua età. Di fatto, l’allievo è sottoposto ad una doppia tensione evolutiva/emancipativa: da un lato è chiamato a diventare uomo, dall’altro a realizzarsi pienamente per il giovane che è. Occorre dunque una riforma dell’insegnamento perché l’insegnante diventi capace di rispettare la vocazione di un giovane ed entrare adeguatamente e favorevolmente nella dialettica tensionale propria della sua età. ↩︎

  15. Eccellente la sintesi che ne offre F. Dosse: «Leur contribution commune — scrive — vise à complexifier l’opposition usuelle et frontale entre ces deux notions. Ils décrivent les divers aspects de la civilisation de masse qu’impose le modèle bourgeois et confrontent celle-ci avec les exigences de réalisation de la personne comme visée civilisatrice. Il est impératif que les singularités dans leur richesse et leur pluralité ne se laissent pas absorber par l’anonymat. Ces deux notions ne s’opposent pourtant pas aussi radicalement. L’épanouissement de la personne passe le plus souvent par la mobilisation de masse, par l’existence de collectivités organisées. Un clivage interne à la notion de masse distingue les moyens de massification et la réaction en faveur de valeurs humaines animées par des masses “pour-soi”, agglomérées dans une perspective militante. Il en résulte une positon paradoxale qui permet de dénoncer les périls encourus par le processus de massification, tout en se situant à l’intérieur même du mouvement de la civilisation de masse […]. Un double processus d’éducation mutuelle entre personnalistes et militants de mouvements de masse peut en résulter. La voie définie est particulièrement difficile car elle se trouve sur la ligne de crête de contradictions assumées qui ne doivent pas glisser dans un simple concordisme» (F. Dosse, Paul Ricœur. Les sens d’une vie, cit., pp. 168-169). ↩︎

  16. P. Ricœur, La persona, cit., p. 37 (203). ↩︎

  17. Ibidem, p. 22 (195). ↩︎

  18. Cfr., F. Dosse, Paul Ricœur. Un philosophe dans son siècle, Armand Colin, Paris 2012, p. 26. ↩︎

  19. P. Ricœur, La persona, cit., p. 25 (197). ↩︎

  20. Ibidem, p. 27 (198). ↩︎

  21. «Coscienza? Come si potrebbe credere ancora all’illusione di trasparenza legata a questo termine, dopo Freud e la psicoanalisi? Soggetto? Come si potrebbe nutrire ancora l’illusione di una fondazione ultima in qualche soggetto trascendentale, dopo la critica delle ideologie della Scuola di Francoforte? L’io? Chi non prova l’impotenza del pensiero a fuoriuscire dal solipsismo teorico, posto che esso non prenda le mosse, come Emmanuel Levinas, dal volto dell’altro, eventualmente in un’etica senza ontologia? Ecco perché preferisco dire persona piuttosto che coscienza, soggetto, io» (Ibidem). ↩︎

  22. Ibidem, p. 28 (199). ↩︎

  23. Cfr., Ibidem, p. 31 (200). ↩︎

  24. Ibidem, p. 33 (201). ↩︎

  25. Ibidem, p. 34 (ib.). Pur collocandosi al di fuori della sua analitica della persona, qui Ricœur propone il suo punto di vista pratico, in risposta alla soluzione “trascendente” di Mounier: «Da parte mia — scrive —, non credo sia possibile avere un impegno per un ordine astratto di valori, se non posso pensare quest’ordine come un compito per tutti gli uomini. Il che implica una formidabile scommessa. La scommessa che il meglio di tutte le differenze converga» (Ibidem). ↩︎

  26. Ibidem, p. 39 (204); puntegg. legg. modif. ↩︎

  27. E non solo dal 1990 in poi: Sé come un altro, infatti, è notoriamente sintesi speculativa dei precedenti quarant’anni della ricerca ricœuriana. ↩︎

  28. M. Buzzoni, Paul Ricœur. Persona e ontologia, cit., p. 19. ↩︎

  29. Ibidem, 10. ↩︎

  30. P. Ricœur, La persona, cit., 39 (204); in corsivo nel testo. ↩︎

  31. Ibidem, p. 48 (209). ↩︎

  32. Ibidem, p. 49 (ib.). ↩︎

  33. Ibidem, p. 53 (211). ↩︎

  34. Ibidem, p. 59 e 60 (215). ↩︎

  35. Ibidem, p. 62 (216). ↩︎

  36. Ibidem, p. 64 (217). ↩︎

  37. P. Ricœur, Tempo e racconto III, Jaca Book, Milano 1988, p. 375; orig., Temps et récit III, Seuil, Paris 1985, p. 442. ↩︎

  38. Ibidem, pp. 375-376 (443). ↩︎

  39. Ibidem, p. 376 (443-444). ↩︎

  40. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 204; orig., Soi-même comme un autre, Paris, Seuil 1990, p. 140. ↩︎

  41. Ibidem, p. 214 (150). ↩︎

  42. Ibidem, p. 207 (143). ↩︎

  43. Ibidem, p. 231 (167). ↩︎

  44. P. Ricœur, Il mio cammino filosofico, in. D. Jervolino, Introduzione a Ricœur, Morcelliana, Brescia 2003, p. 132; puntegg. legg. modif. ↩︎

  45. P. Ricœur, Dalla metafisica alla morale, in P. R., Riflession fatta, cit., p. 110. ↩︎

  46. Cfr., V. Busacchi, Per una ermeneutica critica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. ↩︎

  47. R. De Monticelli, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano 2012². Per un confronto più dettagliato mi permetto di rinviare a V. Busacchi, La capacità di ognuno. Conoscenza, rappresentazione, capacità in Paul Ricœur, prefaz. di S. Borutti, Carocci, Roma 2014. ↩︎

  48. J.-P. Changeux, P. Ricœur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, RaffaelloCortina, Milano 1999, p. 27; orig., Ce qui nous fait penser. La Nature et la Règle, Ed. Odile Jacob, Paris 1998, pp. 36-37. ↩︎

  49. R. De Monticelli, La novità di ognuno, pp. 100-101. ↩︎

  50. Cfr., Ibidem, pp. 101-102. ↩︎

  51. Ibidem, p. 106. ↩︎

  52. P. Ricœur, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, p. 11; orig., Philosophie de la volonté 1. Le volontaire et l’involontaire, Aubier Montaigne, Paris 1950, 1988, p. 10. ↩︎

  53. D. Jervolino, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricœur, Marietti, Genova 1993², p. 13. ↩︎

  54. Cfr., R. De Monticelli, La novità di ognuno, cit., p. 149. ↩︎

  55. Ibidem↩︎

  56. Ibidem, p. 155. ↩︎

  57. Ibidem, p. 188. ↩︎

  58. P. Ricœur, La semantica dell’azione. Discorso e azione, Jaca Book, Milano 1986, p. 123; orig., Le discours de l’action, in D. Tiffeneau (a cura di), La sémantique de l’action, CNRS, Paris 1977, p. 85. ↩︎

  59. R. De Monticelli, La novità di ognuno, cit., p. 204. ↩︎

  60. Ibidem, p. 206. ↩︎