Dell’estasi razionale: intorno all’ipermetafisica dell’ineffabile dentro l’esperienza del mondo. Presenza di Plotino in Pareyson e il caso poziore di Damascio

1. Ouverture

«Abbiamo messo in luce il carattere abissale del principio. Il carattere abissale del principio è stato affermato da due filosofi piuttosto importanti della storia della filosofia, ai quali rimando anche se sono divisi da tutta intera quasi la storia della filosofia occidentale: Plotino e Schelling.»1 Queste parole2 valgono a significare il credito di stima che Luigi Pareyson doveva nutrire nei confronti di Plotino, un filosofo il cui pensiero – a un tempo vertiginosamente abissale e prossimo remotamente – ha striato con frequenti riferimenti e citazioni la pagina del Nostro. Se è dunque vero che per Pareyson il pendolo della storia filosofica ha in Plotino un suo referente di rilievo, consta tuttavia che il carattere della presenza nei suoi testi di Plotino – sia quoad se sia in quanto espressione sintetica della temperie teoretica neoplatonica – a oggi raramente è stato oggetto di indagine diretta, vòlta a significare in modo esplicito il retaggio plotiniano nel filosofo di Piasco e quale declinazione avesse nella sua riflessione.3

2. Intorno al procosmismo plotiniano e Pareyson

Plotino, infatti, non si configura per il Nostro come un recupero dotto e/o improntato a una mera curiositas erudita bensì campeggia come la stella cometa di una stagione di pensiero per nulla estinta nella dinamica teoretica delle questioni agitate, così come è possibile dedurre dalla frequenza e soprattutto dall’intensità dei richiami che Pareyson opera del filosofo-mistico di Licopoli. Pareyson non indulge alla sola interpretazione vulgata della filosofia di Plotino come espressione possente di un emanazionismo capace di operare una com-plessa reductio in unum dei diversi piani ontologici del reale, bensì procede oltre lo svilimento gnostico della decaduta dell’ entro le maglie del cosmo, privilegiando il paradigma che coglie in Plotino il riflesso fulgido e però carsico della condiscendenza dell’Uno nella sua energia e nella potenza della sua attività; si tratta di una lettura molto fine che urge a far intervenire nell’ermeneusi della protologia di Plotino una categoria molto circostanziata qual è quella della συγκατάβασις (synkatabasis), tolta dalla teologia cristiana e sfruttata da Karl Barth (da cui Pareyson doveva attingerla)4 ma già fecondamente esemplata a livello patristico nell’opera di Giovanni Crisostomo.5 L’intendimento che qui si prospetta va nel senso di una comunicazione dell’Uno nell’altro da sé, senza che questo scatto teoretico possa inficiare l’abissale extraneità che separa il divino e l’uomo grazie all’atto di benevolenza con cui Dio si produce alla e nella creazione. L’Uno non reca in sé alcuna necessità a estroflettersi ma, per effetto di un libero moto di coabbassamento, si pro-muove a discendere fino a lambire il tratto materiale dell’eidos. Occorre qui una concezione kenotica di matrice cristologica in cui paolinamente6 l’uno svuota e umilia (ἐκένωσε [ekenose], exinaniuit) se stesso senza con questo perdere la propria natura irresarcibilmente altra né fondendosi nella natura del circostante materiato.

Queste prime osservazioni mettono in luce il duplice e antinomico stigma con cui Pareyson legge Plotino e scorge nel medesimo un centrale fuoco di interesse: dall’una parte, Plotino7 è il pensatore che, in linea col Parmenide, non si perita di affermare

ψεῦδος καὶ τὸ ἓν εἶναι, οὗ μὴ λόγος μηδὲ ἐπιστήμη

(pseudos kai to hen einai, hou me logos mede episteme)

ma, dall’altra parte – nel corso dello stesso luogo, súbito dopo –, asserisce anche che Esso si dice essere al di là della sostanza (ἐπέκεινα λέγεται εἶναι οὐσίας [epekeina legetai einai ousias]).8 Pareyson avvista in Plotino la formulazione di un duplice movimento in sé confliggente, senza peraltro che da questa paradossalità possa patire detrimento teoretico: Plotino muove verso la regione iperontologica di quanto Platone diceva essere sopra la sostanza (ἐπέκεινα τῆς οὐσίας [epekeina tes ousias])9 ma, al tempo stesso, rifiuta che di tale oggetto – quantunque per sua natura ineffabile – si dia solo un accesso preterrazionale o destinato al silenzio.

Vanno allora qui profilandosi le tre direttrici fondamentali dell’interesse pareysoniano verso Plotino: i) esercitare una protologia che indaghi il principio nella sua consistenza ipermetafisica, stante che il principio eccede e supera l’ordine delle essenze; ii) correlativamente, la filosofia è così provocata su un terreno che sfiora e sfida la mistica pur non con-fondendosi con la medesima; la filosofia è, infatti, vocata a esprimersi su un terreno non del tutto di pertinenza al logos (ché essa è chiamata a provarsi su una humus superiore al piano della sostanza) ma tuttavia non rinuncia al discorso rigoroso che pertiene all’istanza della ricerca filosofica (né tampoco deve farlo, se vuole restare fedele al suo anelito più alto); da ultimo, iii) la paradossalità della dialettica istruita in questi termini non sarà un vulnus al logos ma costituirà piuttosto la possibilità per il logos di superare se stesso, guardando a ciò che lo sovrasta.

Cade opportuno precisare a questo proposito che Pareyson vede in Plotino la possibilità di plasmare una filosofia mistica che non ricada eo ipso nella mistica; il displuvio tra le due è infatti sottile e delicato e Plotino – insieme con pochi, forse col solo Cusano, per ammissione dello stesso Pareyson – è riconosciuto essere un pensatore capace di far filosofia anche quando l’oggetto non rientra per intiero nell’alveo della filosofia ma sporge come un fiordo sull’abisso della mistica.10 Ma come è possibile trattare razionalmente di ciò che supera la ragione? Altrimenti detto, come è possibile accostare e riferire l’ineffabile, lasciandolo tuttavia tale? La risposta è contenuta nella curvatura specifica con cui Pareyson legge ed esplica Plotino; con raffinata osservazione Pareyson riscontra che iteratamente nelle Enneadi Plotino usa riferirsi all’Uno con un’oscillazione all’apparenza minima ma densa di implicazioni, giacché il primo principio viene appellato sia ἐκεῖνο ([ekeino], ‘quello/quell’ente’) sia ἐκεῖνος ([ekeinos], ‘quegli’). Nel primo caso siamo in presenza di una designazione neutra, che rinvia all’Uno come a un ente, inserendolo nell’interno di una trama tutta ontologica di investigazione dell’essere; nel secondo caso, invece, Plotino parla dell’Uno come riferendosi a persona, animandolo e facendone un Egli, calandolo in un àmbito di esperienza e di vita.11 I due poli sono compresenti, non si elidono perché la geometria disegnata dalla metafisica di Plotino è assimilabile a un’ellissi, piuttosto che a un cerchio: i due fuochi generano l’ellissi nella loro tensione intrinseca, quando invece in una circonferenza l’unicità del centro si connota staticamente dell’assenza di alternative. L’Uno plotiniano, dunque, è anche Persona, non solo Persona, conservando pure l’intiera cifra del puro oggetto di pensiero; sotto tale rispetto consta che Pareyson avvertiva nelle pagine rutilanti delle Enneadi tutta la forza della modulazione di pensiero di un personalismo agostiniano e pascaliano ma, in una con questo, percepiva anche il carattere di un’investigazione filosofica che, incardinata in modo saldo nei protocolli neoplatonici, non sdrucciolasse nella fede. Di qui piace a Pareyson di avere a riferimento due luoghi di Plotino che potrebbero sembrare in contraddizione ed escludersi in modo mutuo ma che, nella prospettiva appena delineata, risulteranno piuttosto completarsi come due semicerchi: Pareyson ricorda che la quinta Enneade si apre argomentando

τὸ ἓν πάντα καὶ οὐδὲ ἕν

(to hen panta kai oude hen)

ma prosegue12 sottolineando che per Plotino

ἀρχὴ [γὰρ] πάντων οὐ πάντα ἀλλ’ ἐκείνως πάντα13

(arkhe [gar] panton ou panta all’ekeino panta).

Pareyson scorge in Plotino questo movimento in sé confliggente ma non contraddittorio, in forza del quale (prima citazione) l’Uno è sì tutto ma la sua eccellenza è tale che lo porta a non essere neanche uno – se l’Uno fosse uno, infatti, non sarebbe infinitamente superiore a tutto e si ridurrebbe all’ordine ontico, in ultima istanza – e per converso (seconda citazione) il principio di tutto non si identifica sic et simpliciter con il tutto che ne origina poiché, se si può dire che sia tutto, lo è in un modo del tutto particolare e irriducibile, cioè Quellamente (ἐκείνως [ekeinôs]). Plotino sta strutturando una riflessione che contemperi la tuttità dell’Uno con la sua ineffabile trascendenza, il che reca la difficoltà intrinseca di comporre l’idea di un ente che sia tutto e che ricomprenda tutto in sé con l’idea di un’altra specie di eccellenza, quella per cui l’Uno è superiore perché non è nulla del tutto, superandolo in ogni suo aspetto.

Si tratta certamente di due linee compresenti in Plotino (ipertrascendenza dell’uno e, per contro, contenzione del tutto nell’Uno), linee che questi spesso gestisce non senza difficoltà e resistenze teoretiche; Pareyson avvista in tale crinale della ricerca neoplatonica il varco per un approfondimento personale del dettato neoplatonico, arguendo che il fondamento può trovare nell’abisso non il proprio limite escludente ma quel limite che è capace di generare la realtà: non benché antinomico ma proprio perché antinomico l’abisso rientra nel potenziamento della dialettica dell’essere,

perché l’essere ci appare come non-essere, quando si dice che l’essere iniziale è abissale, cioè non se ne può dir nulla, e si parla di ineffabilità, e così via, ebbene a parer mio questa non è vera dialettica. Qui siamo su un campo diverso, che si può e si deve trattare in un modo diverso. Perché qui quando si fa distinzione tra essere e superessere e si dice che l’essere vero non è soltanto essere, è qualcosa di più dell’essere – come dice Plotino – allora in fondo si allude a quella che Heidegger chiama la differenza ontologica, cioè la differenza fra l’essere e gli enti, che non si possono mettere sullo stesso piano e non se ne può parlare nella stessa maniera […] Dio non è solamente essere, ma è superessere. In fondo questo si dice, che c’è una differenza ontologica, che dell’essere non si può parlare come se fosse un ente. E quando si parla del nulla, dell’essere che è il nulla, quando si parla del non-essere del sapere, quando si dice che dell’essere non si può dir nulla perché è informe, non è un ente, in fondo lo si affida a una forma di conoscenza che è quella che io chiamo interpretazione14

Questa pericope illustra come Plotino costituisca un riferimento diretto dell’attenzione di Pareyson, in quanto il filosofo greco riformula dall’interno l’indicibilità del principio intrascendibile, senza relegarla al silenzio contemplante ma ricomprendendola nell’interno di una ricerca altra, capace di convivere e anzi di sostanziarsi della natura del contraddittorio. Sarà proprio in questa luce che Pareyson adduce la testimonianza di Plotino, allorché legge che

θαῦμα δή, πῶς οὐκ ἐλθὼν πάρεστι, καὶ πῶς οὐκ ὢν οὐδαμοῦ οὐκ ἔστιν ὅπου μὴ ἔστιν15

(thauma de, pos ouk elthon paresti, kai pos ouk on oudamou ouk estin hopou me esti).

La meraviglia plotiniana è altro dal più noto stupore filosofico di Aristotele,16 giacché consiste non del motore dell’indagine speculativa ma piuttosto del suo punto di arrivo; Plotino, al cuore della sua ruminatio teoretica, stupisce grandemente che l’oggetto ultimo di pensiero, quantunque non sia venuto, è qui presente e, pur non essendo da alcuna parte, non esiste luogo dove esso non sia. L’aporeticità del primo principio si manifesta presso Plotino come il natale dell’Uno:17 l’Uno nasce fenomenicamente pur senza avere un pregresso di coordinate, così da essere ed esserci sebbene inoriginato, giacché si dà tra ciò che è ma senza deflettere dalla sua sovreccellenza (c’è e però non si risolve nell’esserci ma è capace anche di essere stricto sensu, infinitamente trascendente). Plotino illustra dunque in tutta la sua forza il caso di una potenza che non sia la potenza aristotelica bensì una ἀμήχανος δύναμις [amekhanos dynamis], che spinga lo sguardo della filosofia ai suoi estremi confini, filosofando non solo entro il perimetro della regione ontologica che la ragione domina ma anche spingendo lo sguardo fino a quella zona grigia in cui il logos può avventurarsi e guardare fuori da sé ma senza entrarvi, alla maniera di Mošè arrestatosi all’ingresso della Terra Promessa.

Pareyson vede quindi in Plotino il pensatore che meglio e in modo più convincente ha provocato la speculazione sul terreno dell’ineffabile; non è il Plotino dialettico ad affascinare Pareyson, non è la grammatica delle processioni dell’Uno a interessare in prima istanza Pareyson né il suo prelievo va in direzione – quello che è lo stesso – dell’aspetto procliano e idealistico18 della metafisica neoplatonica (la processione dell’Uno verso l’altro da sé, anche nella sua natura ilica). Pareyson si rivela orientato a privilegiare in Plotino l’iperdialettica (o dialettica potenziata) rispetto alla dialettica propriamente considerata o, parimenti, a valorizzare l’aspetto della dialettica ascendente dall’Uno in su (l’ineffabilità del Primo) rispetto alla discesa dell’Uno in giù (lo statuto autopoietico e l’autoktisi dell’origine in quanto capace, ponendo se stessa, di produrre il mondo).

Qui pervenuti, si staglia con chiarezza che è il Plotino protologico a incontrare l’arsi dell’attenzione del Nostro, a condizione che si operi una precisazione irrinunciabile: Plotino non è presentabile semplicemente come il filosofo del Totalmente Altro ma anche come il filosofo che presenta il principio originante come vivente e personale (la dimensione del Quegli di cui sopra). Deve essere stato questo aspetto a traversare l’orizzonte filosofico di Pareyson, giacché in questo modo viene portato a deflagrare l’aspetto del parossismo sovraontologico del fondamento19: esso è tanto superiore al tutto da essere fittamente embricato dentro le maglie di quel tutto da cui pure è altro. Pareyson coglie un ganglio pulsante in Plotino, per quanto spesso non ridotto a chiara espressione nelle Enneadi, dove resta per sotto allo stato di sue condizioni sì (com-)presenti ma irrelate. Ed è specificamente in questo aspetto che Pareyson articola la propria ermeneutica dell’ineffabile. Resta infatti in implicito presso Plotino come si possa ragionare dell’ineffabilità dell’Uno, se è vero che discorrendone se ne abbassa l’impensabilità e inconoscibilità al piano riduzionistico di una qualsiasi metafisica. Al tempo stesso, questo modo di procedere incontra la questione della natura vitalistica dell’Uno: che vita si agita nell’Uno? Che cosa distingue la Vita dell’Uno dalla vita promanata dall’Uno e comunicata alla taxis del cosmo?

Pareyson ha ben presente che può essere elevata a divise di Plotino l’epifonema che esorta a eliminare tutto (ἄφελε πάντα [aphele panta]) nell’effigiare la tua statua ([τεκταίνων] τὸ σὸν ἄγαλμα)20 ([tektainon] to son agalma); Plotino esplora l’abisso del Quello al netto del suo autodispiegamento e autodifferenziazione, collocandoLo – giacché non è sostanza – al di sopra di questa e al di sopra dell’autosufficienza:

δηλονότι ποιητικὸν οὐσίας καὶ αὐταρκείας ἐκεῖνο αὐτὸ οὐκ ὂν οὐσία, ἀλλ’ ἐπέκεινα ταύτης καὶ ἐπέκεινα αὐταρκείας21

(delonoti poietikon ousias kai autarkias ekeino auto ouk on ousia, all’epekeina tautes kai epekeina autarkeias).

Emerge ancora una volta il tratto dell’ipertrascendenza e, insieme con questa, la necessità di rifugiarsi in una dimensione sottrattiva dell’intelletto; Plotino invita a detrarre ogni pertinenza ontica all’oggetto di conoscenza, se si vuole procedere in direzione di un’intuizione del principio primo. Questo, infatti, si presenta come ciò che di più puro sia concepibile, motivando pertanto la via aferetica del sottrarre ogni cosa. Con tale procedere da scultore – che plasma il simulacro eliminando ogni eccesso e ogni superfetazione dal blocco su cui si applica – resta tuttavia problematico, nel cono di luce della teoresi, come sia possibile pervenire a un esito apofatico e non solo, per uiam eminentiæ, a un’eccellenza catafatica. Il rischio cui si affaccia Plotino e il neoplatonismo tutto, infatti, è quello di con-fondere il vertice apofatico – per sua natura inattingibile – con il culmine del processo catafatico, cioè del più depurato degli enti di ragione, il quale cionondimeno – per quanto sublimato da ogni retaggio di una gnoseologia del contingente – sarà pur sempre il più puro degli enti di ragione e non il totaliter aliud che si ricerca. Il punto è problematico in Plotino e la linea che, non senza ambagi, di qui transiterà attraverso Giamblico, perverrà in Proclo alla sistematizzazione della nozione parafilosofica dell’ ἄνθος τῆς ψυχῆς (anthos tes psykhes) e τοῦ νοῦ22 (tou nou); si tratta evidentemente di nozioni di ascendenza caldaica capaci di tutelare la trascendenza del fondamento a costo di trasferire il piano dell’indagine dall’ordine filosofico a quello para- (ove non extra-)filosofico della teurgia. A questa deriva reagisce Pareyson, rivendicando la piena filosoficità dell’istanza protologica, imprimendo una curvatura alla trajettoria plotiniana in modo da far virare l’aorgica ipermetafisica del principio verso l’irriducibilità che si constata nei fatti della vita. Il che si rende possibile ristrutturando intrinsecamente la nozione dell’ ἄφελε πάντα (aphele panta).

Il metodo aferetico risponde, per sua natura, a una doppia istanza, giacché il fondamento sia non è nulla del tutto in quanto è contrapposto al tutto da cui si distingue ed estolle nella propria alterità (via protologica) sia non è nulla del tutto singolarmente, in quanto è il tutto del tutto, ricomprendendo il tutto nella sua totalità e non nella singola istanziazione particolare; la dinamica così formulata mostra una fallacia patente, stante che nel primo caso la via aferetica corre il rischio di sdrucciolare nel nichilismo (a mano che si depriva l’ente dei suoi nomi, se il procedimento procedesse nella sua applicazione radicale, l’ontologia primissima ricadrebbe nella meontologia) così come, nel secondo caso, l’aferesi conduce a un olismo dell’essere, perdendo di vista la vita che si esprime nella specificità di ogni singolo vivente. È, questa, una difficoltà che molta parte della riflessione neoplatonica lascia aperta e in cui Pareyson si inserisce. Egli infatti rivendica il primato alla libertà ed è proprio in ragione della libertà dell’atto che l’Uno procede da sé fuori di ogni aitiologia di necessitazione. Pareyson trova in Plotino la piena formulazione del problema, allorché legge nell’Enneade V la seguente domanda: πῶς […] οὐκ ἔμεινεν ἐκεῖνο ἐφ’ ἑαυτοῦ23 (pos […] ouk emeinen ekeino eph’heautou). L’interrogativo riguarda perché l’uno non sia rimasto in se stesso, posto che l’autocreazione non avrebbe patito detrimento dalla mancata irradiazione nella realtà. L’Uno plotiniano esce da sé, producendo la Storia e producendosi nel cosmo, perché comunica un sovrappiù non inutile ma sovrabbondante di sé in un atto di liberalità, un’attività non necessitata in cui l’esuberanza dell’Uno si diffonde dal sopraessere all’essere in una degradazione di generosità.24 Questo movimento concentra nell’atto di libertà sia il dinamismo del principio fondamentale sia il polo di attivazione dell’ordine etico, giacché la libertà informa di sé tanto l’Uno quanto la sfera della vita. La libertà è la risposta con cui Plotino affronta la questione per cui l’Uno dà quello che esso stesso non ha25 – preservando la propria eminenza da quanto esso genera – allo stesso modo in cui esempla e foggia l’inesauribile movimento di πρόοδος (proodos) ed ἐπιστροφή (epistrophe) (è la filosofia dell’Eros che fugge sempre dalla Povertà – πενία (penia) – verso una ricchezza – πόρος (poros) – mai raggiunto stabilmente26 ma sempre punto di arrivo e di nuova ripartenza). Così facendo, Pareyson recupera le tre coordinate che abbiamo riscontrato: i) la libertà dell’atto oblativo dell’Uno fonda l’ultrascendenza dello stesso (il dato segna la discontinuità dal dante); ii) la libertà segna la relazione analogica e sostanziale tra l’uno che è al di là di tutto e il cosmo, poiché sono ambedue identicamente liberi (qui intervenendo il tratto della con-discendenza cristologica e patristica: con la libertà l’Uno non produce e, ipso facto, abbandona il creato ma il Primo si fa Emmanuele – dio-con-noi juxta litteram – perché resta con il mondo fino alla fine dei tempi, giacché l’Uno è per sempre libero e la libertà del cosmo non è vocata a esaurirsi); iii) la via aferetica riplasmata nello stigma della libertà elimina radicitus il problema agitato dalla prospettiva per cui il nulla potrebbe sembrare superiore all’essere («poteva sembrare che fosse molto più profondo il nulla che non l’essere, che l’abissale fosse il nulla piuttosto che l’essere; ma si vede che invece l’abissale è la realtà, è l’essere», scrive Pareyson, ibid., p. 52). Infatti, in quest’ottica, Pareyson intuisce che spogliare l’essere dei suoi tratti non porta – o non porta solo – verso un Uno impoverito ma anche verso il tutto della vita, poiché l’Uno inaccessibile esprime tanto il culmine protologico arroccato nella sua ineffabilità quanto il nucleo – diversamente irraggiungibile ma, pur tuttavia, allo stesso modo inesprimibile – che governa dall’interno il flusso della vita. L’ineffabile è sia sopra il tutto sia nel suo cuore stessissimo e in ciò si compie la condiscendenza del fondamento, che «si abbassa, discende, si umilia in quest’atto». Di qui pare a Pareyson che alla domanda del ‘perché’ (perché l’uno crei uscendo dalla sua immacolatezza) l’unica risposta plausibile sarà non tentare di dare un oggetto al perché ma il perché stesso: «il senso della realtà è la domanda ‘Perché’», non già la risposta all’interrogazione.

3. Il Plotino di Pareyson come chiave di violino nella corresponsione vitale tra libertà e protologia

La silloge delle lezioni raccolte in Essere. Libertà. Ambiguità contribuiscono a delineare con nettezza le ragioni dell’interesse di Pareyson verso Plotino, rispondendo alla domanda – per solito trascurata – del motivo per cui proprio il filosofo di Licopoli sia stato prescelto a riferimento della tradizione antica, più di Platone e Aristotele. Le ragioni che si profilano sono dunque strutturali: Plotino è il filosofo che concentra lo sguardo su un fondamento ipertrascendente, collocato al di là di ogni pensabilità, ma al contempo tale ipermetafisica non è declinata solo come infinitamente superiore al tutto ma anche come inserita nella dinamica del tutto, perché la grammatica della vita è, in ultima analisi, inapprensibile. Ciò si riverbera nell’inoggettivabilità della verità poiché, come è infinito il divario che separa il vertice catafatico dall’uno trascendente, così è infinito il logos che indaga la realtà, sempre cangiante nelle proteiformi manifestazioni della libertà: «il discorso che riguarda la verità è sempre molteplice e mai del tutto esplicito».27 Questo è il modo con cui Pareyson poteva leggere il senso poziore delle parole del profeta Isaia, allorché si legge אכן אתה אל םסתתר (vere tu es Deus absconditus).28 Il principio primo si dà in una manifestazione latente, rinserrandosi nel suo nascondimento; come chi è nascosto è presente e però invisibile, così il principio è covato e cuba nel grembo della vita. Altresì, come il Dio della rivelazione nel rovo ardente a Mošè (Es III, 14-15) è invisibilmente presente e a portata di mano, pur essendo infinitamente lontano e inaccessibile, così il principio che Pareyson argomenta e Plotino tratteggia partecipa del carattere antinomico della presenzialità vitale e della verticalità insondabile: abisso dello sprofondamento nella vita e vertigine della scalata titanica alla vetta del principio.

La curvatura della metafisica plotiniana offre a Pareyson la possibilità di intendere nella stagione antica un possente anticipo di quella incommensurabilità tra finito e infinito su cui si concentra molta della sua proposta teoretica; Plotino, infatti, in quest’ottica supera il retaggio platonico di una seconda navigazione che, uscendo dal contingente, ricuperi sul piano delle Idee quanto fa difetto al mondo dell’empiria, sanandolo e provvedendolo di senso. Pareyson vede piuttosto nella lettura delle Enneadi l’inequipollenza e l’incompletabilità mutua di finito e infinito in tanto in quanto il Principio è principio di ambiguità e antinomia e, quo talis, trasmette la sua tensione aporetica anche al mondo della vita, di cui è il cuore pulsante sotto il panneggio fidiaco delle apparenze. L’infinito non verrà quindi a essere sic et simpliciter contrapposto all’infinito – per completarlo nella sua carenza – bensì, in modo ben più radicale, «il finito è la vera realtà dell’infinito, ma nel senso che lo stesso finito […] pur mantenendo i suoi caratteri di finitezza, ha anche la qualità dell’infinito».29

Una consimile concezione dell’infinito inabissato e inoculato nelle fibre vitali dell’esperienza è sicuramente l’aspetto che maggiormente Pareyson coglie e valorizza dalla pagina di Plotino; Pareyson riconosce una specularità piuttosto che un’analogia tra il principio (quoad principio della vita, in quanto protologicamente inteso) e il principio-nella-vita ed è, questo, uno stilema teoretico su cui egli tornerà a ogni pie’ sospinto. Esplicativo del pensiero rivelativo che viene foggiato su questo edificio concettuale può essere intesa la tournure schellinghiana del positivo, giacché con il von Schelling il positivo non sarà da intendere quale l’esser fuori da ogni forma ma è proprio il potersi rinchiudere o non rinchiudersi in una forma («um sich in eine Gestalt einschliessen zu können, muss es freilich ausser aller Gestalt sein»),30 rimodulando in questo modo l’effato di Plotino per cui τὸ εἶδος ἐν τῷ μορφωθέντι, τὸ δὲ μορφῶσαν ἄμορφον [ἦν]31 (to eidos en toi morphothenti, to de morphosan amorphon [en]), citato da Pareyson in Verità e interpretazione.32 Più dei futuri echi di cui è intriso, questo passo plotiniano consente di affrontare una domanda centrale – raramente posta, piuttosto che non risposta – circa l’officina filosofica pareysoniana: cioè a dire, accampato l’interesse per i temi protologici nella loro flessione verso la metafisica dell’ineffabile, perché Pareyson si rivolga così decisamente verso l’opzione plotiniana invece che verso un autore quale Dionigi l’Areopagita, ben più proteso – e spesso con accenti lirici anche più solenni – verso l’ultratrascendenza dell’Originante. Si potrà far osservare, a questo riguardo, che lo ps.-Areopagita – autore che pure è presente nell’opera del Nostro33 – avrebbe comportato non solo la difficoltà di una ‘filosofia battezzata’, in cui il conato ultratrascendente andrebbe ascritto alla vis illuminativa prima che all’impeto della ragione nelle sue forze dialettiche e iperdialettiche, ma anche l’asperità di porre un ineffabile che, per preservarsi nella propria alterità, perdesse di vista la sfera dell’esperienza e del pathico. Pareyson ha presente che Plotino imprime al discorso una traiettoria diversa, ove τὸ γὰρ ἴχνος τοῦ ἀμόρφου μορφή34 (to gar iknos tou amorphou morphe), inquantoché la via anagogica lega gli estremi capi della forma propriamente intesa e la sua traccia calata nel labirintico reticolo dell’esperienza. Il percorso plotiniano che pertiene a Pareyson non è quello del depotenziamento gnostico dell’essere dalla sua purezza alla sua presenza maculata entro il cosmo ma piuttosto quello di una modalità altra del principio, il quale ora si dà per se e ora si manifesta intriso nella fluidità della dinamica esistenziale.35

4. Con Plotino oltre lo hegelismo

Si staglia con chiarezza che quella qui prospettata è una lettura, non l’unica, cui il dettato plotiniano conferisce l’abbrivio, ma è un’interpretazione che coglie almeno due risultati determinanti: i) a livello storico-filosofico ed esegetico, libera Plotino dalla camicia di Nesso rappresentata dalla difficile sintassi delle processioni: l’Uno si staglia così in tutta la sua ieratica possanza, facendo risplendere la centralità dell’aspetto protologico a priori dal carattere emanazionistico delle sue ipostasi (cui Pareyson peraltro mostra di non ascrivere credito: è il Plotino protologico a interessarlo peculiarmente); ii) la preminenza accordata al Plotino protologico sfocia nell’esito di sollevare la progressione della storia del pensiero dalle secche di molto hegelismo. Pareyson è consapevole che coesistono varî neoplatonismi, tra cui ha avuto preminenza il neoplatonismo di marca procliana che, nell’evo moderno, ha fornito le categorie speculative anche alla più parte della dialettica hegeliana;36 a tale impostazione egli reagisce, ricuperando una dimensione fontale del neoplatonismo nella sua scaturigine plotiniana, approfondendo quei tratti che meglio o più direttamente dicono dell’origine nella sua dimensione di libertà, coniugandoli con l’asintoto della vita. Un approfondimento, questo, che individua un abisso thetico (la vita) a fronte di un abisso fondazionale (l’Uno, il dio, l’origine), in cui il primo partecipa della stessa preterconoscbilità del secondo, spalancando una voragine in cui oscilla ed è centrale il dramma dell’uomo. Il retaggio plotiniano porta all’importanza di una rinnovata antropologia, in cui l’uomo sia affacciato ai due abissi (identici per natura ma distinti per interpretazione) dell’origine inoggettivabile e della contraddizione realizzata che è la vita,37 tanto da urgere a prospettare che l’abisso cui l’uomo è destinato è in realtà l’abisso che pascalianamente e già agostinianamente l’uomo stesso è, perché la vita stessa gli è abisso nella sua inesauribile polimorfia di libertà.

Queste istanze mettono in luce che il ricupero plotiniano così descritto apre la via per una posizione critica nei confronti tanto di molto marxismo quanto delle panie del sistema dello Hegel: «il marxismo – dirà infatti Pareyson – è una filosofia che possiede lo strano carattere d’essere per un verso filosoficamente inconfutabile e di lasciarsi poi confutare dai semplici fatti» (quando invece in Pareyson la freccia della filosofia ha come sua direzione il vissuto, in tutte le sue iridescenze). Agli occhi di Pareyson la filosofia dopo lo Hegel si trova innanzi a uno stallo:

tanto per Kierkegaard quanto per Feuerbach la filosofia hegeliana è la filosofia e la soluzione hegeliana è la conclusione. Questa constatazione produce in Kierkegaard la necessità di scegliere tra la filosofia e la non filosofia, e in Feuerbach l’assunto di continuare e realizzare la filosofia, inserendovi la non filosofia. Insomma, questo presupposto produce in Kierkegaard, come già in Jakobi nei confronti di Spinoza, l’abbandono della filosofia e l’elezione della fede.38

La pericope è perspicua per intendere con quali intenzioni Pareyson guardi al passato, poiché egli si propone di dissigillare alla storia del pensiero una nuova primavera; procedere dopo Hegel oltre Hegel gli appare non praticabile così come l’opzione kierkegaardiana reca in sé il uitium di cedere a istanze non filosofiche. L’alveo segnato dal platonismo plotiniano risulta, invece, efficace entro tale ottica di ultimo approdo e prima ripartenza, perché – senza sdrucciolare nella fede – si presta alla triplice istanza di efflorescenza della libertà, di inquisizione di un principio primissimo e di trascendenza della natura pur nel pieno ricupero del pathico.

Pervenuti a questo punto, urge una domanda: che Plotino è il Plotino di Pareyson? Come si è cercato di delineare, Pareyson offre una lettura molto specifica di Plotino, senza tradirne certo le linee di fondo ma, al contempo, focalizzando lo zenith dell’attenzione su aspetti altrettanto circostanziati che parziali. La domanda non vuole essere se il Plotino pareysoniano sia un Plotino (anche) filologicamente corroborato bensì quale filo della speculazione del filosofo greco venga privilegiato nell’interno di una trama così fitta di implicazioni anche distanti l’una dall’altra.

5. Sulla via dell’apofatismo ipermetafisico di Damascio

Sarà allora in questa luce che mette conto di connotare come damasciano lo sviluppo del neoplatonismo che Pareyson trae dalla lettera di Plotino. Una volta aver esibito – dal punto di vista negativo – che non è il neoplatonismo procliano a intervenire in Pareyson, vien fatto di trascorrere al punto di vista positivo, che sarà incardinato nel poco conosciuto Damascio.39 Proprio Damascio infatti, l’ultimo scolarca dell’Academia platonica di Atene al tempo del rescritto di chiusura emanato dalla corte giustinianea (529 p.Ch.), ha portato alle estreme conseguenze le istanze protologiche contenute e, per molto tratto, già sviluppate nelle Enneadi. Il corso della teoresi neoplatonica, uscendo da Plotino, ha conosciuto un displuvio all’altezza della svolta giamblichea (III-IV p.Ch.), allorché viene affrontata direttamente la questione dell’ ἐπέκεινα: il primo principio con Giamblico non sarà più anche al di là del tutto ma, al contrario, esso sarà principio in tanto in quanto capace di presentarsi come del tutto irrelato a quanto vi si contrappone. Questa riforma – che nella sua radicalità trova solo pallide ascendenza nel lacerto taurinense del commento al Parmenide ascritto a Porfirio40 – si confronta col paradosso di un fondamento indicibile perché sovraordinato al tutto ma, al tempo stesso, dicibile perché, se così non fosse, non sarebbe ricomprensibile nel recinto della filosofia, che si vede vocata a muoversi nella regione del conoscibile. Damascio esprime la diapason di queste premesse, giacché si concentra sul sovrapensabile come Giamblico ma, a differenza di quest’ultimo, non condivide il medesimo percorso teurgico: Damascio presenta tratti misteriosofici ma non tali da avere la preminenza sulla componente dialettica e razionale. Così facendo Damascio farà virare l’indagine nell’intiera prima sezione del De principiis sulla sottile e però feconda distinzione tra indicibile e ineffabile (ἀπόρρητον [aporrheton] e ἄρρητον [arrheton]), intendendo integrare il logos con l’aporia, senza mirare a una sostituzione æquo Marte del primo con la seconda. Damascio suggerisce un duplice modo di aprirsi all’inconoscibile, a seconda che se ne consideri l’aspetto di indicibilità in sé o di orizzonte di senso affacciato all’inesprimibile: nel primo caso sarà salvata l’ultrascendenza dell’origine mentre, nel secondo, si gettano le basi per fondare una filosofia dell’indicibile, giacché il logos non potrà né vorrebbe inocularsi nel terreno dell’insondabile ma, riconoscendo un’ulteriortà che gli sfugge, riconosce che esiste un altro a sé superiore – senza peraltro pronunciarsi sui nomi metafisici che connotino tale alterità. Alcuni passi tratti dal De principiis potranno valere a significare la distinzione posta da Damascio tra ineffabile e indicibile e la conseguente tensione che si genera tra i medesimi:

  • come l’uno, l’ ἄρρητον (arrheton) è inconoscibile: ὥστε πολλαχῇ τὸ ἄρρητον καὶ ἄγνωστον […] καὶ μήποτε τὸ μὲν πάντῃ ἀπόρρητον <ἀπόρρητον> οὕτως ὡς μηδ’ ὅτι ἀπόρρητον τιθέναι περὶ αὐτοῦ (hoste pollakhei to arrheton kai agnoston […] kai mepote to men pantei aporrheton <aporrheton> houtos hos med’hoti aporrheton tithenai peri autou) (I, 10, 15-24)

  • ἴστω δὲ καὶ ἡμᾶς τὸ ἀπόρρητον ἐπ’ ἴσης πάντα πρὸ πάντων ὑποτιθεμένους κατὰ τὸ πάντῃ ἄρρητον (isto de kai hemas to aporrheton ep’ ises panta pro panton hypotithemenous kata to pantei arrheton) (II, 12, 12-14)

  • il primo principio, stabile e permanente, che è detto uno-tutto, μὴ προϊὸν ἀπὸ τοῦ ἀρρήτου διὰ προόδου, ἀλλὰ διὰ μόνης (me proion apo tou arrhetou dia proodou, alla dia mones) (II, 13, 14-15) […] εἰ γοῦν ᾗ ἓν ὑπέβη παρὰ τὸ ἀπόρρητον, οὐκ ἔστιν αὐτοῦ πρόοδος ἡ ἀπόβασις (ei goun hei hen hypebe para to aporrheton, ouk estin autou proodos he apobasis) (I, 14, 1-2).

Quanto in questa sede merita sottolineare è che Damascio riconosca una duplicità eidetica all’inconoscibile, statuendo un’ineffabilità che resti tale pur dentro l’indagine della filosofia. Ciò è reso possibile proprio in forza della torsione che egli cerca di imprimere al suo percorso metafisico, laddove percorre il sentiero dell’in-dicazione per scorgere i segni dell’indicibilità calati nel tessuto dell’esperienza, quali il riflesso dell’ineffabile quoad se. Infatti, domandandosi πῶς οῦν ἀποδεικτέον τό γε ὅσον ἐν ἡμῖν συνίσταται περὶ ἐκεῖνο ἀγνόημα; πῶς γὰρ ἐκεῖνο ἄγνωστον λέγομεν; [pos oun apodeikteon to ge hoson en hemin synistatai peri ekeino agnoema? pos gar ekeino agnoston legomen?])41 Damascio tenterà la via non di una di-mostrazione bensì di una in-dicazione, con ciò intendendo il suggerire vettorialmente un ordine eccedente cui si spalanca il piano dell’ontologia, sporgendosi fuori di sé. Scrive il diadoco, confrontandosi teoreticamente con l’oltredicibile come un acrobata che su un filo camminasse sul baratro abissale del nulla (διττὸν καὶ τὸ κενεμβατεῖν, τὸ μὲν ἐκπῖπτον εἰς τὸ ἄρρητον, τὸ δὲ εἰς τὸ μηδαμῇ μηδαμῶς ὑπάρχον [ditton kai to kenembatein, to men ekpipton eis to arrheton, to de eis to medamei medamos hyparkhon])42:

ἐνδεικνύμενος τὴν ἄφραστον ἕνωσιν τοῦ ἡνωμένου ὄντος πρὸς τὸ ἕν (endeiknumenos ten aphraston henosin tou henomenou ontos pros to hen)43

e ancora

βουλόμενοί τι ἐνδείξασθαι ἀφ’ ὧν ἴσμεν περὶ οὗ οὐκ ἴσμεν (boulomenoi ti endeixasthai aph’ hon ismen peri hou ouk ismen).44

Avere distinto ineffabile e indicibile, infatti, ha condotto Damascio a distinguere contestualmente lo statuto della protologia da quello della metafisica, ascrivendo al primo l’Uno in quanto irraggiungibile e al secondo il tratto razionalmente imperscrutabile che giace dentro l’edificio dell’ontologia. Il logos, quando ricerca l’Uno, scopre che l’Uno gli sfugge ad infinitum e, nel fare questo, avvista che nelle cose si riflette un bagliore di un Uno cui non ha accesso. Quest’ottica antinomica è presentata da Damascio non come un ostacolo al logos ma quale l’espressione del logos nella sua apertura all’infinitamente trascendente considerato nella sua assolutezza: l’antinomia è lo strumento ermeneutico che conduce la riflessione filosofica a trascorrere dalla metafisica alla protologia – e a tale rimando dall’uno all’altro ordine compete il nome di in-dicazione, giacché è un segnare la via a un oltre di cui nulla è saputo ma che deve esserci per dare senso e fondamento all’evidenza del subordinato. Così facendo, Damascio concentra l’attenzione sul carattere infinito e contraddittorio che connota l’essere (è tale contraddizione thetica e positiva a spalancare verso il fondamento originante) e porta alle estreme conseguenze la cifra dell’inesauribilità del dato ontologico come accesso all’Uno, tratto e methodus che Plotino presentava pur in forma non esclusiva e meno radicale e in cui Pareyson scorge la traiettoria dell’inesauribilità interpretativa come via rivelativa al fondamento che tutto supera.

6. Per un bilancio: una conclusione senza termine

Il percorso che si è dipanato fin qui ha inteso cogliere in Plotino i segni possenti di quel vortice dell’enantiodromia con cui Pareyson coglie la struttura della vita.45 Pareyson ha presente davanti a sé che esiste una comprensione che significa negare e annullare, fino a sbriciolare e parcellizzare il tessuto dell’esistente in lacerti inerti; questa è la deriva in cui scivola il sistema hegeliano, nella composizione di tesi e antitesi in una sintesi che supera sì la contraddizione ma che, così facendo, perde di vista anche la vita nella sua proiettività esistenziale. In questo quadro Plotino ha offerto a Pareyson il tracciato di una riflessione incentrata sulla filosofia dell’abisso, di un abisso denso di speranza, in cui la somma non fa il totale. Una speranza escatologica viene prospettata in Plotino e per questo le sue pagine dovevano apparire suggestive alla linea schellinghiana portata avanti da Pareyson: ad apparire è l’abisso dell’Uno che precede tutto ed è etimicamente egemone (che sta davanti, guidando alla testa di) rispetto al tutto cui indica la strada. Le lezioni sull’aporeticità del primo principio presso Plotino hanno pertanto de-signato a Pareyson un accesso chiaro e semplificato al groviglio del tema in oggetto e, insieme con questo, al groviglio paludoso che innerva l’esperienza della vita. Plotino, prima e soprattutto meglio di altri pensatori, ha così potuto evocativamente sollevare la questione di un fondamento altrettanto insondabile che calato nelle carni dell’etica, in questo modo mettendo al centro l’uomo in quanto infinitamente superiore a se stesso. Pare ormai evidente che il neoplatonismo plotiniano che Pareyson privilegia in tale lettura va in direzione opposta alla corrente dominante, privilegiando nella sua quête la componente minoritaria che avrebbe avuto a deflagrare proprio al culmine della parabola dell’Academia sotto lo scolarcato di Damascio. I germi damasciani incubano in Plotino nella forma della suprema trascendenza che palpita nella contraddizione del reale e questo provvede a Pareyson l’affaccio a un superamento dall’interno della dialettica della necessità verso una dialettica della libertà. È la struttura del pensiero plotiniano a parlare e agire in Pareyson, ancor più della citazione di Plotino nei suoi scritti, nel convincimento che la vita è contrasto e annullare la contraddizione sarebbe in certa misura come annullare la vita: «la vita è contrasto, la vita è movimento rotatorio, come dice un’antica tradizione che comincia con Böhme e culmina con Schelling, è movimento rotatorio, è un vortice, è il vortice dell’enantiodromía,cioè del rincorrersi dei contrari»,46 proprio come in Plotino il principio di ogni forma intellegibile è del tutto remoto dalla forma intellegibile (πάντῃ ἀπήλλακται καὶ μορφῆς νοητῆς [pantei apellaktai kai morphes noetes]).47


  1. L. Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità (a cura di F. Tomatis), Mursia, Milano 1988, p. 34. Questa silloge delle lezioni dettate da Pareyson a decorrere dalla data 11.I.1983 costituisce una specola privilegiata per esplicare l’acmè della presenza plotiniana in Pareyson giacché esse sono mirate esplicitamente a valutare le istanze che innervano il rapporto tra l’abisso e il fondamento sia perché – in ragione di ciò – il filosofo torinese avverte l’esigenza di richiamarsi a Plotino nei punti di flesso della sua esposizione teoretica. ↩︎

  2. Vale osservare che l’interesse per Plotino nutrito da Pareyson potrà essere presentato come occasionato da Schelling solo juxta modum, giacché la fruizione plotiniana di Pareyson risulta essere avvenuta recta uia quando invece al filosofo tedesco Plotino doveva essere presente solo desultoriamente nella lettera, come il medesimo Pareyson riconosce: «Plotino lo conosceva sì, ma non molto bene, sono molto in dubbio se egli si rifaccia consapevolmente a Plotino, credo anzi che sia così una singolare coincidenza […]» (Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 43); in questi termini si tratterebbe solo di una convergenza teoretica tra Plotino e Schelling e certamente quanto di Plotino vibra in Pareyson muove da una ripresa e da una rivisitazione affatto personali. ↩︎

  3. Tra le non molte eccezioni si segnala – benché non a livello strutturale con netta prevalenza dell’anticipazione schellinghiana e concentrato sul tema del tempo – il sintetico contributo sul Plotino di Pareyson costituito da R. Longo, Il tempo nell’eternità: L. Pareyson lettore di Plotino e interprete di Schelling, in AA. VV., Il concetto di tempo, Atti del XXXII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Loffredo, Napoli 1997, pp. 285-292. ↩︎

  4. Cfr Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 38. ↩︎

  5. C. Scaglioni, Synkatabasis. La condiscendenza divina in Giovanni Crisostomo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011. ↩︎

  6. Fil 2, 5-11. ↩︎

  7. Plot., Enn. V, 4, 1, 9-10. ↩︎

  8. I riferimenti plotiniani sono in Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 40. ↩︎

  9. Si tratta del notorio passo consistente in Rsp. 509B; va ravvisato che questo luogo – in cui Platone dice riferimento al καλόν (kalon) come sovressente, in quanto irriducibilmente superiore all’essere – risulta essere del tutto isolato nel corpus dialogico di Platone, quando invece lo stilema teoretico dell’ ἐπέκεινα (epekeina) sarà pienamente articolato in Plotino (dove infatti se ne computano circa 90 occorrenze), tanto che sotto tale rispetto è proprio quest’ultimo e non Platone ad attirare l’attenzione di Pareyson. ↩︎

  10. Cfr Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 26, ove si esprime il tentativo del pensiero di misurarsi con l’abisso (stilema della mistica) pur attingendo agli strumenti epistemici della concettualizzazione, alla maniera della filosofia. ↩︎

  11. In Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 42 si osserva che col maschile il principio originante (l’Egli dell’Uno) è presentato come persona in quanto inserito nel contesto di un’esperienza religiosa; mentre il Dio di Cartesio, di Malebranche, di Spinoza sono neutri, invece il Dio di Abramo Isacco Giacobbe è un dio del tu, cui dire in te commendo spiritum meum e dal quale implorare miserere mei. Proprio perché Plotino mostra di avvertire una valenza viva e vitale nel principio, Pareyson non esita a scrivere che (ibid.) «in Plotino i due punti di vista, il punto di vista filosofico e il punto di vista religioso, si uniscono», così da prospettare un’insolita e aporetica prospettiva in cui il primum non sia solo persona o solo ente ma ora l’una e ora l’altra, facendo così precipitare la riflessione teoretica nel gorgo di luce che è la vita, capace di ostentarsi al tempo stesso come sistema regolato di concetti e come regime aorgico in cui pulsa l’esperienza. ↩︎

  12. Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 42. ↩︎

  13. Plot., Enn. V, 2, 1. ↩︎

  14. Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., pp. 64-65. ↩︎

  15. Plot., Enn. V, 5, 8, 23-25, in Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 48. ↩︎

  16. Cfr semel pro omnibus Arist., Met. 982b12. ↩︎

  17. Si tratta di uno scatto speculativo usuale in Plotino con questa forma espressiva, tanto che Pareyson (ibid., p. 48) può ricordare a questo proposito anche l’equipollente formulazione concettuale, pochi righi sopra (ibid., ll. 15-17): ὤφθη γὰρ ὡς οὐκ ἐλθών, ἀλλὰ πρὸ ἁπάντων παρών, πρὶν καὶ τὸν νοῦν ἐλθεῖν [ophthe gar hos ouk elthon, alla pro hapanton paron, prin kai ton noun elthein]. ↩︎

  18. Hegel veniva infatti presentato come ‘der deutsche Proklos’ nel XIX secolo, come piace di ricordare anche a Werrner Beierwaltes nella sua introduzione (p. VII) a Proclo, Teologia platonica (a cura di M. Abbate), Bompiani, Milano 2005. ↩︎

  19. Basterà qui ricordare che la stessa riflessione alessandrina (e poi in àmbito siriaco: Isacco di Ninive) si sarebbe interrogata direttamente e a più riprese sullo statuto del metafisico come irriducibile e però a contatto con la coordinata dell’ethico; così capita con il caso della ‘preghiera pura’, secondoché solo l’intelletto silente e nudo possa pregare l’Indicibile e l’Impredicabile – Colui di cui non si dà immagine –, alla maniera di Evagrio, o la preghiera richieda di essere traslata entro una dimensione anche morale, cerziorando come preghiera spirituale quella che si alimenta di pensieri belli, di moti psichici e della forza e lotta proprî dell’espressione morale dell’orante. In questo secondo caso, l’orazione coniuga l’aspetto escatologico – con derive messaliane, se còlto nella sua unicità – a quello del dato peirastico, elevando a preghiera del Regno l’atto di esperienza del credente (cfr P. Bettiolo, “Prigionieri dello Spirito”. Libertà creaturale ed eschaton in Isacco di Ninive e nelle sue fonti, in S. Gasparri (a cura di), Alto medioevo mediterraneo, Firenze University Press, Firenze 2005, pp. 15-40, segnatamente pp. 16-17). ↩︎

  20. Plot., Enn. V, 3, 17 , 39 e I, 6, 9, 13-14 rispettivamente, citati in Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 46. ↩︎

  21. Plot., Enn. V, 3, 17, 11-14. ↩︎

  22. Cfr quanto scrive ancora Beierwaltes in Proclo, Teologia platonica, op. cit., pp. XLV-XLIX. ↩︎

  23. Plot., Enn. V, 1, 6, 7-8. ↩︎

  24. Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 52. ↩︎

  25. Plot., Enn. V, 3, 15, 36: πῶς οὖν ποιεῖ ἃ μὴ ἔχει; (pos oun poiei ha me ekhei?↩︎

  26. Come espresso dall’etimo attestato da Chantraine fino a Beekes (radice per-/por, circa l’attraversamento il passare-per), diversamente da una concezione plutocratica πόρος (poros) rinvia alla ricchezza come continua e indefettible transizione, cioè passaggio indefesso ai mezzi continui di soluzione e agli espedienti cui si ricorre senza sosta per fronteggiare il reale. ↩︎

  27. Il rispecchiamento dell’infinità del fondamento protologico nell’infinità dell’inesauribile sguardo sul reale dell’esperienza portano Pareyson a evitare un misticismo dell’ineffabile in favore di un’ontologia dell’inesauribile: la vita è ineffabile come il principio dei principî (cfr L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1982³ (1971)¹, pp. 24-27). ↩︎

  28. Is XLV, 15 (citato da Pareyson, in traslitterazione dall’ebraico [‘âkên ‘atâh ‘êl mistatter] e nella resa latina sopra riferita, nei corsi raccolti in L. Pareyson, Kierkegaard e Pascal, Mursia, Milano 1998, p. 245). Non passi trascurata la filigrana del testo semitico, ove il participio hitpa‛el vuole esprimere non lo stato di segretezza divina bensì la sua condizione enfatica e riflessiva di nascondimento: il Suo è un nascondimento da intendersi quale esito di azione che nasce e torna al medesimo soggetto, nello sforzo di permanere tale. Il Dio così configurato non solo è ignoto ma riesce tale a séguito di un’agentività che vuole preterirLo e, proprio nello spazio che si inarca tra l’essere ignoto e il farsi nascosto, si inalvea e si ispelonca lo slancio conoscitivo che pertiene all’ardire razionale del conoscente. ↩︎

  29. L. Pareyson, Esistenza e persona, il melangolo, Genova 1985³ (1950¹), p. 58 (cfr F. Russo, Persona, essere e libertà. L’ermeneutica di L. Pareyson, Romæ 1989, pp. 47-48 e n. 171). ↩︎

  30. F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen (V, 13) ↩︎

  31. Plot., Enn. VI,7, 17, 17-18. ↩︎

  32. Pareyson, Verità e interpretazione, op. cit., p. 167. ↩︎

  33. Cfr, ex.gr., Pareyson, Verità e interpretazione, op. cit., pp. 164, 242, 249, con il caueat che qui come altrove, rispetto allo sfruttamento plotiniano – strutturale e concettuale – la presenza dionisiana presso Pareyson pare piuttosto connotarsi nei termini di un’occorrenza di citazione, fuori di ogni personale meditazione teorica. ↩︎

  34. Plot., Enn. VI, 7, 33, 30-31. ↩︎

  35. Emerge qui il tema della deissi del principio, che in-dica con la sua presenza la Presenza della dimensione assoluta dell’Origine superando il vieto percorso dell’analogia di proporzione, fallace in quanto depaupera il significante rispetto al significato; per questa traccia eraclitea entro Plotino e la sua fruizione in Pareyson, cfr Pareyson, Verità e interpretazione, op. cit., p. 22 dove è riportata la citazione indiretta da Plotino VI, 9, 4 circa il concetto di una presenza migliore della scienza, giusta Eraclíto e l’oracolo di Delfi (22B93 Diels: οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει [oute legei oute kryptei alla semainei]). ↩︎

  36. Pareyson non manca di statuire esplicitamente «Hegel come Proclo della filosofia tedesca» in L. Pareyson, Fichte, il sistema della libertà (a cura di C. Ciancio), Mursia, Milano 1976², 1950¹ intr. p. 60. ↩︎

  37. Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., p. 34. ↩︎

  38. Pareyson, Fichte, il sistema della libertà, op. cit., p. 60; immediatamente dopo (ibid., p. 61) Pareyson vedrà in Fichte la possibilità di sottrarsi alle pastoie della dialettica hegeliana che rischia di soffocare la vita della filosofia nelle sue spire come un Laocoonte: «Fichte come unico filosofo non integrabile nello hegelismo perché Fichte mette al centro il concetto delle filosofie come possibilità dotate di svolgibilità autonoma e infinita interpretabilità». ↩︎

  39. Per la ripresa nella teoresi contemporanea del poderoso afflato supermetafisico e protologico di Damascio, cfr M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 2008³ (1990¹), pp. 77-87, J. Derrida, La naissance du corps (Plotin, Proclus, Damascius), Galilée, Paris 2010 e G. Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2013² (2002)¹. ↩︎

  40. Cfr P. Hadot (a cura di), Commentario al Parmenide di Platone. Porfirio, Vita e Pensiero, Milano 1993 e V. Napoli, Ἐπέκεινα τοῦ ἑνός. Il principio totalmente ineffabile tra dialettica ed esegesi in Damascio, CUECM, Catania – Officina di studi medievali, Palermo 2008, pp. 481-485. ↩︎

  41. Dam., De princ. I, 16, 18-19 W.-C. ↩︎

  42. Dam., De princ. I, 8, 1-3 W.-C. ↩︎

  43. Dam., De princ II, 93, 6-7 W.-C. ↩︎

  44. Dam., De princ I, 91, 10-16 W.-C. ↩︎

  45. Occorrerà ricordare, mutatis mutandis, che grande attenzione è riservata a Plotino anche da Ludwig Feuerbach proprio allorché la sua ricerca prende la direzione di una risposta allo hegelismo, operando un ricupero del naturalismo che alligna nel mondo della vita. Il guadagno della dimensione sensibile ed ethica dell’antropologia è possibile in tanto in quanto ci si allontana paradossalmente dal contingente e dallo sperimentabile, andando verso la trascendenza e l’iperhenologia esemplata da Plotino, nel suo afflato mistico: così, sotto l’egida dell’influenza del teologo Karl Daub, può dirsi per Feuerbach che «accanto ai filosofi attenti alla concretezza individuale, campeggiano Platone, Plotino, Malebranche e i mistici» (F. Tomasoni, Ludwig Feuerbach. Biografia intellettuale, Morcelliana, Brescia 2011, p. 75 e cfr anche ibid., p. 68). ↩︎

  46. Pareyson, Essere. Libertà. Ambiguità, op. cit., pp. 30-31. ↩︎

  47. Cfr Plot., Enn. VI, 7, 34, 1-2. ↩︎