Recensione a Xavier Tilliette, Morte e immortalità

Xavier Tilliette, Morte e immortalità, a cura di G. Sansonetti, Il pellicano rosso (nuova serie), Morcelliana, Brescia 2011, 222 pp.

Il titolo di questa raccolta di saggi tratti da una precedente opera tilliettiana, La Mémoire et l’Invisible, rimanda al bel volume di Michele Federico Sciacca, Morte e immortalità, il cui slancio ed impeto «con cui il filosofo siciliano esorcizza lo spettro della durata indefinita e scongiura la morte, la porta d’Oriente» (p. 110), hanno molto colpito il nostro gesuita francese. Xavier Tilliette confessa una segreta preferenza per questi saggi, frutto di lunghe meditazioni nell’arco di trent’anni della propria vita, lavori in cui — come l’Autore stesso dice — ha messo molto di sé, non solo delle sue riflessioni, ma anche delle sue ossessioni (p. 11), tanto da costituire «il rovescio confidenziale» della sua filosofia (p. 14).

I dieci saggi raccolti gravitano attorno ad una stretta affinità tematica: il mistero della morte e della sopravvivenza, assieme alla memoria e alla coscienza, all’Io e all’intuizione intellettuale, alla tristezza del finito, alla nostalgia del passato. Queste meditazioni che formano un’unica meditazione, la meditazione dell’homo viator, protratta dall’alba alla sera della vita di Tilliette, hanno avuto come mentore e guida Gabriel Marcel, e si prolungano nell’orfismo, orfismo nuovo, l’orfismo cristiano, che è il tema del lavoro che chiude la raccolta.

Il saggio di apertura ci offre un’esplorazione potente di quell’«organo che ospita ed esplora i tempi», «custode del passato» e «iniziatrice del futuro» (p. 12), la memoria, quella bergsoniana, che è «prodigiosa, assicura in via di diritto la conservazione del passato, la sopravvivenza di tutti i ricordi» e «la durata non distrugge nulla ma riempie i suoi profondi silos, i suoi arsenali fantastici» (p. 15). Ma quella stessa memoria, che per lunghissimi anni — come nota il curatore del libro — è stata del nostro Autore, e che conferisce ad ognuno la propria identità, gli è ad oggi via via venuta meno, trovandosi egli stesso nella condizione di quei «viaggiatori senza bagagli» che sono gli amnesici, smarriti ed «erranti nelle pianure del tempo».

Sottesa a questi lavori è l’ipotesi bergsoniana — è in particolare l’argomento del III saggio — che la memoria non sia propriamente «il conservatorio dei ricordi, ma accompagna e si trasforma con la spinta della durata, è attratta dalla frangia luminosa della coscienza, come la farfalla nell’alone della lampada» (p. 40). In Bergson il passato, «abisso di pensieri» (Schelling), «non è mai veramente passato, ma aspetta nell’ombra un’eventuale risurrezione» (da esso sgorga il presente che è la coscienza attuale), come ipnotizzato in un sonno magnetico a mo’di bacchetta magica: nella memoria, dice Tilliette, Bergson ha «inscritto le primizie dell’immortalità» (p. 39, il corsivo è mio). Il passato esercita un fascino e si ricollega all’origine («Rapsodia circa l’origine» è il titolo del II lavoro), perché c’è un inizio a tutto, ma il tutto non ha inizio.

Questo «abisso della ragione», l’eternità a parte ante fanno tremare il pensiero: per Schelling è un passato eterno, originario, assolutamente passato, eternamente compiuto. È in questo saggio (e lo farà anche in quello successivo) che Tilliette ricorderà colui che «ha scrutato nella psiche umana il primordiale sepolto». È Sigmund Freud, il quale «ha reperito, esumato, inventariato la penombra dell’anima, il mondo più antico», indagando come in una sorta di «speleologia intima», riportando come Kafka «dalle paludi dell’oblio, l’oblio più obliato, rimosso» (pp. 33-34). Questi colpi di sonda etici nell’originario — aggiunge il Nostro — sono molto più impressionanti della collezione di miti accumulati da etnologi e archeologi, o ricostruiti da paleontologi.

Freud ha intuito che il passato prepersonale guida tutto l’ulteriore, che la profondità dell’inconscio è l’oscurità delle origini, che in definitiva la storia anteriore e interiore, nascosta al soggetto, è la chiave delle nevrosi. «Rivelare gli eventi latenti e le relazioni cieche, strapparle alla clandestinità — aggiunge Tilliette sulle orme di Freud — è lo scopo della terapia»; ed è anche, in senso lato, liberare l’origine sino alle fondazioni preistoriche (non trascendentali) dell’essere umano (pp. 47-48).

Dall’altro verso, Husserl, pellegrino delle origini, avrebbe voluto chiamare la filosofia archeologia, paragonandola ad un lavoro di zappa e di scavi, verso il ciuffo ancestrale, alla ricerca delle archai, delle categorie trascendentali originarie, matrici dell’essere e del divenire. Ma più in generale «le scienze fisiche, la geologia, l’astrofisica, la cosmografia come pure le scienze storiche e umane, archeologia, paleontologia, etnologia, hanno talmente dilatato l’orizzonte di durata all’indietro dei tempi storici, giocando con le cifre come con gli anni-luce, che ci lasciano solo una vertigine aritmetica». L’origine dei miti — che sono risorsa per lo spirito umano quando sono esauriti tutti i riferimenti empirici —, la data approssimativa in cui sono stati messi in circolazione, è tutto quanto ci rimane di sicuro, ammonisce il nostro gesuita, nella ricerca delle origini. Ciò non toglie — aggiunge Tilliette — che noi dovremmo rinunciare alle cronologie e alle cronografie, tenendo però presente che sulla linea del tempo si stabiliscono origini arbitrarie, indicando nella «scienza nuova» di Giambattista Vico un esempio di studio delle origini libero dall’ossessione dell’inizio puro (cfr. pp. 50 e segg.).

Abbiamo accennato sopra, ricordando Bergson, che la coscienza significa memoria. Aggiungiamo qui il presupposto che la persona è la depositaria di un segreto sepolto, l’io, che sarà rivelato solo alla morte. Quindi l’Io è uguale alla Morte, all’istante letale. In questa prospettiva Tilliette riecheggia Jean Paul Richter: «L’Io muore di vedersi morto […] . L’Io e la Morte sono specchi gemelli. Tolto il velo, si conoscono in una specie di abbraccio incestuoso» (p. 64). Ancor di più: vi è affinità e identità tra morire e intuizione intellettuale, perché non si può vedere Dio senza morire, e la coscienza portata al suo punto di incandescenza è intuizione intellettuale.

È questo il filo d’Arianna che si inanella nei saggi centrali della raccolta: «L’Io e la Morte» (IV); «Thou owest nature a death» (V), variante e correzione freudiana di una citazione di William Shakespeare che dice invece che ognuno deve a Dio una morte; e ancora «Lo sguardo del filosofo sulla morte» (VI); «Pensare e credere nell’aldilà» (VII). Per Tilliette la morte non è solo «citeriore», non ha valenza unicamente al di qua della soglia, ma è sconfinamento, sia pur nei limiti terreni, dell’io che sporge sull’oltre: «La questione dell’aldilà […] riguarda i limiti del mondo e tutto quanto è inaccessibile alla nostra presa, ciò che la conoscenza coglie solo in immagine. È l’oceano che si imbatte sulle nostre rive, per esplorare il quale non abbiamo né barche né vele» (p. 133). Di qui la necessità di ricorrere alla fantasia dei poeti (come Rainer Maria Rilke) e alla riflessione dei filosofi. Quest’ultimi non restituiscono né la salute né guariscono dalla vita presente. I filosofi non muoiono più facilmente degli altri, ma «i loro occhi spirituali sono meglio abituati al chiaro-scuro», il loro uccello feticcio si leva hegelianamente «al calare del crepuscolo, appena prima della notte profonda» (p. 131).

Lo sguardo del filosofo rispetto a quello dell’uomo qualunque è uno «sguardo esercitato, educato dalla riflessione, dalla lettura, dalla saggezza, dall’apprendistato della vita». Il filosofo fa professione di lucidità, non elude la sorte comune, muore ad occhi aperti (p. 111). Sembra qui profilarsi, come in una bozza, una «metafisica della morte» in cui non bisogna lasciare che la nostra coscienza sprofondi e si perda nell’abisso, ma occorre «chiamarla sul ciglio della caduta e come alzarla de profundis, strapparla alla solitudine definitiva» (p. 73).

Metafisica della morte che è anche «rivelazione» della morte, rivelazione di se stessa, dell’io, intuizione intellettuale, perché tutto è citeriore, tranne la morte in persona. È veramente un «esercizio» del limite del pensiero umano, perché «quando il velo si lacera, si è già al di là della morte. Vista dalla riva mortale, la morte non rivela ma è sempre e inesorabilmente velata». La rivelazione della morte è più della morte stessa (p. 86).

È stato correttamente evidenziato dal curatore della raccolta che i temi che si intrecciano in queste pagine trovano il loro ambiente naturale in quel grande movimento dello spirito che è stato il Romanticismo di cui Tilliette è un raffinato conoscitore (cfr. p. 6). I lavori conclusivi del volume lo testimoniano. La «Tristezza del finito» (VIII), citazione hegeliana e «La natura, la nostalgia e il sacro» (IX) sono infatti omaggi a Schelling e alla temperie romantica.

Il dolore del finito è una variante della malinconia, sentimento che nei Romantici, dove i paesaggi e gli stati d’animo si confondono, si estende in modo impressionante sino alla Natura, la quale cerca invano un Bene che ha perduto. Più di ogni altro movimento di sensibilità e di pensiero, l’idealismo romantico ha esplorato il segreto della tristezza che risiede nella finitezza, senza però possedere l’appannaggio dell’esperienza, che gli è stata consegnata dalla mentalità precedente, dai filosofi dei Lumi (p. 153). «La tristezza del finito s’imprime sulla Natura, sull’Arte e sulla Bellezza, infine sul volto dell’Uomo per eccellenza, il Cristo» (p. 157).

Il già ricordato lavoro finale «Per un orfismo cristiano», dedicato a Gabriel Marcel, si nutre di poesia sacrale, pura, cristallina, ispirata, non erudita, non dottrinale; fa proprio la figura e la leggenda di Orfeo, attingendo dalla bellezza solenne, ieratica degli inni, delle iscrizioni funebri, dei versi dorati e degli incanti, degli oracoli. Molti di questi documenti, dove si trova «la sostanza orfica, sono frammenti e una parte del loro fascino deriva pure dalla loro fisionomia mutilata. Inseriti in prose piatte o didattiche, risplendono. Il destino di Orfeo lacerato, disjecta membra poetae, si è in certo modo trasposto in questa trasmissione per lembi». «Tuttavia un caso benevolo — sottolinea Tilliette — ha disseminato un po’ dappertutto germi e gemme, e la [loro] dispersione è diffusione» (p. 195).

L’orfismo di Gabriel Marcel «vive del pensiero dell’essere amato, il suo cammino è la ricerca dell’assente, la sua speranza forza le porte della notte chiuse sul volto tanto amato». Per lui «Orfeo in strada è l’amore instancabile capace di varcare la morte e la soglia invisibile, i fuochi alterni, la luce a eclissi della presenza e dell’assenza, della patria e dell’esilio, della speranza e della nostalgia» (pp. 204-205).

Ciò che rimane di questi saggi tilliettiani è un magnetismo senza pari: nella lettura tramata di fibre orfiche abbiamo veramente sentito le loro vibrazioni.