Il principio di personalità nella filosofia rosminiana. I: L’uomo è il suo sentimento fondamentale

1. La questione antropologica: una prospettiva storico-teoretica

L’esistenza umana si presenta allo sguardo incantato del filosofo come una molteplicità (d’essere) riepilogata nel principio supremo dell’unità (dell’essere). L’uno e i molti, l’universale e il particolare, l’oggetto e il soggetto, costituiscono i termini di riferimento del nostro approccio al mistero inesauribile della persona. Non si vuole con ciò esporre una soluzione ragionata su tutto ciò che attanaglia la vita quotidiana, ma semplicemente proporre, sulla base di una concezione integrale dell’essere umano, una prospettiva teoretica solida. Chiarita «la questione prima» di natura ontologica, presupposto indispensabile dell’antropologia filosofica, potremo affrontare con più sicurezza e maggiore vigore le problematiche etiche, politiche, giuridiche su cui oggi tanto si discute. La domanda: «Chi è la persona?» mira a cogliere l’essenza che ci penetra e costituisce nell’intimo, ragion per cui non si tratta di una questione indifferente, ma di un punto obbligato della riflessione che condiziona la vita pratica. Nelle discussioni accademiche, si corre spesso il rischio di cedere alla tentazione delle disquisizioni retoriche, delle dispute inconsistenti che esauriscono in se stesse la propria funzione, senza con ciò interferire in modo significativo con la storia degli uomini e delle donne che abitano il mondo. Siamo però convinti che la forza delle idee può cambiare e trasformare il corso degli avvenimenti, a tal punto da farci sperare in un futuro migliore. In tal senso, è possibile riscoprire il ruolo della filosofia, la quale ricongiunge gli aspetti parziali perseguiti dalle singole scienze, in una visione antropologica complessiva. La filosofia come scienza delle ragioni ultime, ultime cioè a rinvenirsi nell’uomo, ma prime rispetto allo scibile umano, squarcia orizzonti nuovi e inesplorati alla riflessione dell’uomo che, piccola particella dell’universo, si immerge nel mare infinito dell’essere. Ma per giungere al porto dell’esistenza, nel riposo scientifico della mente, occorre compiere un lungo cammino, investigando gli ultimi perché, a partire dallo stato intellettivo in cui ci si trova, cominciando a riconoscere le cognizioni e le persuasioni iniziali, fino a renderle compiute. È la fatica del filosofare che non serve certo a qualcosa, nei termini di un vantaggio immediato, ma nell’umiltà silenziosa dello sforzo intellettuale e morale, innalza la mente e tutta la persona alla dignità che le appartiene

Questa grande consapevolezza animò l’abate Antonio Rosmini, il quale fu un innovatore nella società e nella Chiesa dell’Ottocento, ed un anticipatore del nostro tempo. Basti pensare alle riflessioni condotte nel Novecento dal personalismo e dall’esistenzialismo, dallo stesso rosminianesimo. Con ciò non intendiamo confinare la filosofia rosminiana in schemi ed etichette concettuali per molti aspetti superate, ma evidenziare una fonte che non si esaurisce nelle definizioni di spiritualismo, personalismo, esistenzialismo, ma va ben oltre, giacché propone ed enuclea un perenne discorso sulla persona, nella prospettiva originale della triplice circolarità dell’essere. Paul Ricœur, nella rivista Esprit, ha espresso l’esigenza di cogliere l’essenziale riferimento all’essere umano, anche se al di là della corrente filosofica del personalismo.1 Indubbiamente, occorre prendere coscienza di molteplici prospettive che si intrecciano si contrappongono e a volte presentano alcuni punti di convergenza. Tuttavia, essenziale è non rinunciare mai all’apertura che il dialogo rende possibile, così da aprire gli spazi sconfinati e meravigliosi della comunicazione. Il pensiero di Rosmini appare in tale contesto una voce significativa, in quanto egli mise in evidenza la portata metafisica della persona umana, costruendo un’alternativa al sensismo imperante in Italia e in Francia, all’idealismo tedesco, e al soggettivismo, nel confronto costruttivo con la filosofia classica tedesca (Kant, Fiche, Schelling ed Hegel) e la tradizione filosofica a partire da Parmenide, che per primo pose la questione dell’essere, fino al pensiero platonico, agostiniano e tomistico. L’incontro tra la modernità e la tradizione, consente al Roveretano di superare il dissidio creato artificiosamente dall’Illuminismo francese e di dimostrare la possibilità di quella sintesi mirabile che va al di là della mera ripetizione dei concetti e si articola in un piano enciclopedico delle scienze. Sono qui accolte e ricompresse le istanze più profonde espresse dalla modernità, dalla Patristica e dalla Scolastica. Il discorso privilegiato dall’Umanesimo, dal Rinascimento, dall’Illuminismo e dal nascente Romanticismo, verteva sull’uomo e sulla conoscenza umana: Locke pubblicò il Saggio sull’intelletto umano (1690); Condillac il Saggio sull’origine delle conoscenze umane (1764); D’Alembert il Saggio sull’intelletto umano; Hume il Trattato sulla natura umana (1739-1740); Leibniz i Nuovi saggi sull’intelletto umano, in risposta a Locke, pubblicati postumi; Reid le Ricerche sullo spirito umano secondo i principi del senso comune (1764); Steward gli Elementi di filosofia dello spirito umano (1792, 1814, 1827); Kant la Critica della Ragion pura (del 1781 è la prima edizione e al 1787 risale la seconda edizione). La filosofia di Rosmini assunse le inquietudini del suo tempo e, percorrendo la strada dei suoi contemporanei, egli considerò l’uomo come punto di partenza imprescindibile, fondando il suo valore intrinseco nella partecipazione all’essere.

D’altra parte, la differenza tra i suoi scritti e quelli della Tradizione consisteva in questo: mentre nelle Summae della Scolastica medioevale si partiva da Dio e si arrivava all’uomo, Rosmini decise di partire dall’uomo per arrivare a Dio. Vennero così invertiti sia il punto di partenza che quello di arrivo, ma il risultato fu identico. Gli insegnamenti di Agostino e Tommaso, maestri della speculazione filosofica e teologica, furono riproposti in termini moderni. Crediamo con ciò di aver delineato l’indole peculiare di questa teoresi. A tal proposito così ha scritto M.F. Sciacca:

La filosofia del Rosmini rappresenta in Italia il compimento vigoroso e originale dei conati di oltrepassare sensismo ed empirismo, di soddisfare le esigenze del kantismo su un piano diverso da quello del criticismo, di rinnovare la metafisica platonico-agostiniana a contatto con S. Tommaso e con il pensiero moderno.2

Seguendo l’itinerario tracciato dal filosofo di Rovereto, a partire dalla prima formulazione che egli ci ha lasciato, ci rendiamo conto che i principi metafisici dell’intera costruzione sistematica sono le tre forme primitive dell’essere: l’essere ideale, l’essere reale e l’essere morale. L’idea dell’essere, che è la verità in quanto si mostra alla mente, è la forma a priori oggettiva intuita per natura dall’uomo le cui caratteristiche sono: la virtualità, l’inizialità, l’indeterminatezza, la possibilità, l’universalità. La forma reale dell’essere è il reale come sentimento, nel significato di «ciò che è sentito» e tale forma presenta un duplice aspetto soggettivo ed extrasoggettivo.

In riferimento all’uomo, questa dottrina del sentimento fondamentale abbraccia una molteplicità e polivalenza di significati: il sentimento fondamentale, nel complesso della filosofia rosminana non è solo corporeo, ma è anche intellettivo e morale, sentimento di sé o sostanza dell’anima.

In ultimo, la forma morale dell’essere costituisce il punto di arrivo di tutta la speculazione, in quanto la terza forma è la congiunzione intima delle prime due e da essa deriva il perfezionamento di tutto l’essere. Il sintesismo ontologico o insessione delle forme rappresenta la chiave di volta di tutto l’edificio metafisico rosminiano: l’ente non può esistere sotto una delle tre forme se non esiste anche sotto le altre due. Qui è racchiuso il fondamento metafisico della dottrina antropologica, da cui deduciamo facilmente la fallacia del ragionamento di chi pretende che Rosmini si sarebbe limitato a fornire una teoria psicologica della persona umana, senza premettervi una solida base ontologica. Se così fosse, la persona sarebbe una pura accidentalità, un atto secondo e non una sostanza dotata di sussistenza propria. Al contrario, la persona è sintesi vivente di intelligenza (formata dall’intuizione dell’essere in universale) e sentimento, ragion per cui egli sempre sente e intende, senza averne subito coscienza. Egli è costituito nella sua struttura metafisica da più facoltà: il senso, gli istinti, la potenza originaria dell’intelletto, la potenza derivata della ragione e infine la volontà e la libertà. Ognuna di esse, è un atto primo, oltre ad essere una potenza in relazione agli atti secondi: l’intelletto intuisce l’idea dell’essere ed è potenza in rapporto agli enti ideali-indeterminati; il sentimento fondamentale corporeo è atto rispetto al corpo proprio, potenza in rapporto alle sensazioni particolari; così è per la ragione che applica l’idea alla realtà nella percezione intellettiva, e per la volontà, principio supremo che domina su tutti gli altri. Dottrina fondamentale della metafisica rosminiana è quella del principio e del termine. Infatti, in rapporto al sentimento corporeo si parla di principio senziente e termine sentito; analogamente, l’intelligenza è il principio, e l’essere ideale è il termine, costituenti entrambi il sentimento intellettivo; lo stesso dicasi della volontà e della legge morale. In ultima istanza, l’uomo è un ente composto di principio e di termine. È importante rilevare, nell’economia generale della nostra riflessione, che il principio non è altro che quel primo atto di un ente da cui procede tutto ciò che è nell’ente, un’attività che tende ad un termine; il termine poi è ciò che è presente al principio, ciò in cui il principio termina ricevendo la sua attualità. L’uno non può stare senza l’altro, poiché sarebbe una pura astrazione il voler separare due cose che sono unite realmente.

In tutto questo discorso, non c’è mai il ricorso ad alcun artificio, né a riduzionismi di nessun genere: la prospettiva ora delineata nei caratteri essenziali, parte dall’ordine naturale della cose, segue un metodo e un linguaggio filosofico, si completa e si perfeziona in un ordine soprannaturale. Conviene qui brevemente ricordare, che

il principio della filosofia è il lume della ragione; il principio della Fede è Dio stesso; quello è la Verità, ma solo ideale; questo è la Verità, ma sussistente. La verità della filosofia è l’Essere, e la Scrittura dice che Iddio è appunto l’Essere. L’essere della filosofia è ideale e indeterminato; l’essere della Fede è anche reale e d’ogni lato completo. Considerando la natura dell’essere ideale, si trova che egli è bensì l’essere, ma veduto imperfettamente; veduto senza i suoi termini, e solo nel suo principio. All’incontro Iddio è l’Essere assolutamente e d’ogni lato compiuto.3

L’idea dell’essere che possediamo per natura, è il divino in noi, ma non è Dio, per cui ogni forma di ontologismo è nettamente rifiutata. Infatti, Dio non si intuisce, ma si dimostra a partire dalla forma ideale che, in quanto oggetto eterno, esige che ci sia anche un Soggetto eterno e infinito ad esso intimamente unito. Dalla necessità oggettiva dell’idea, vuota di realtà, si dimostra la sussistenza dell’Essere necessario ed eterno. Inoltre, Rosmini dimostra l’esistenza di Dio seguendo anche altre vie: dal contingente al necessario, a partire cioè dall’essere reale, e dalla legge morale eterna e necessaria all’essere assoluto, cioè a partire dalla forma morale.

Si evince come il discorso del filosofo di Rovereto non sia mai astratto né disincarnato, ma sempre rivolto verso l’uomo, motivo dominante di tutti gli scritti. Sempre presente è la consapevolezza che la filosofia debba presentare una verità intera, un complesso di verità ben ordinate. Tuttavia, la filosofia non è sufficiente al perfezionamento dell’uomo: come infatti la verità appartiene all’intelligenza, la virtù appartiene alla volontà. Conoscenza e amore: ecco la perfezione umana cui l’uomo può aspirare! Il conoscere e l’operare, il pascolo di una sana filosofia e l’esercizio di azioni buone che divengono abitudini a dunque virtù, sono la condizione indispensabile e al tempo stesso il frutto del miglioramento individuale e collettivo. Per Rosmini, come per gli Antichi, la filosofia è studio e amore della sapienza: in questa nuova luce il dissidio tra teoria e prassi non ha più ragion d’essere e la volontà è la potenza cui compete il vero miglioramento e perfezionamento dell’uomo. A questo punto, diviene indispensabile l’analisi delle questioni specifiche affrontate da colui che possiamo definire «il filosofo della persona»,4 tenendo sempre presente che l’uomo è sentimento corporeo e intelligenza della verità, uniti dal vigore della razionalità e della moralità: egli è la manifestazione dell’essere triadico. Le parole del Nostro vogliono sottolineare proprio l’eccellenza dell’essere umano: «Verità, virtù, beatitudine sono adunque i tre termini dell’umana persona, o più tosto della persona in generale, ed i fonti purissimi, da cui a lei scaturisce la sua eccellenza, la sua dignità e la sua supremazia».5 Il primo anello a cui tutti gli altri si uniscono, formando una catena, è dunque la persona.

Il contesto vitale entro cui comprendere la dignità dell’essere umano è senza dubbio l’ontologia trinitaria. L’impostazione metafisica del discorso considera la perfezione morale come il punto più elevato nel quale convengono tutte le forze e le facoltà umane. Nella vasta produzione rosminiana, l’Antropologia in servizio della scienza morale è quell’opera che ci fornisce una precisa trattazione della natura umana in relazione alla moralità, il punto eminente che abbraccia tutti gli aspetti parziali. Come risulta evidente dal Piano di Etica,6 i Principi della scienza morale (composti e pubblicati nel 1831) e la Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale (composto nel 1836 e pubblicato nel 1837) espongono la teoria della legge e dell’obbligazione morale in base alla quale la forza obbligante è la forma di tutte le leggi. Dall’esigenza di applicare la legge morale, che è altro non è se non l’essere stesso, deriva poi la necessità di conoscere il soggetto della moralità, vale a dire l’uomo morale nell’ordine della natura. Infine la Logica della morale (Trattato della coscienza morale composto nel 1830 e pubblicato nel 1839) è la scienza che insegna ad applicare, senza pericolo di errore, la legge suprema, o principio morale, al soggetto e dedurne così le leggi e formule inferiori.

In conclusione, l’Etica pura si articola in tre parti: la Nomologia pura, l’Antropologia morale e la Logica morale. A proposito dell’Etica applicata che segue l’Etica pura in quanto né è l’applicazione già operata, Rosmini considera il complesso dei doveri, suddividendola in due sezioni: la prima tratta delle leggi o formule morali nella loro formazione, considerate in se stesse (doveri verso Dio e verso l’uomo); la seconda delle leggi considerate nel soggetto che le esegue (atto morale, virtù, vizi e felicità). Da quanto abbiamo precisato, si capisce come l’Autore abbia fatto coincidere l’ordine logico dei suoi lavori con l’ordine di pubblicazione e dunque l’Antropologia morale (composta tra il 1831 e il 1832, viene pubblicata nel 1838) svolge una mediazione tra la teoria e la scienza dell’applicazione della Legge. L’Antropologia è dunque quella scienza che considera la natura di questo essere tanto meraviglio, un piccolo mondo come lo chiamarono gli antichi, che è studiato da tante scienze, ma resta tuttavia un mistero inesauribile. Tutto ciò che si riferisce all’uomo, si associa alla moralità che impone ordine, misura e carattere alle azioni e alle relazioni umane. Nell’indagine antropologica condotta da Rosmini, si nota la grande forza della riflessione che illumina gli aspetti più diversi dell’animo umano; tuttavia egli non ritiene di esaurire l’argomento nell’Antropologia in servizio della scienza morale. Quest’ultima, infatti, raggiunge l’intento di tracciare le sole strade maestre dell’immenso paese. In questa dichiarazione esplicita dell’Autore, troviamo anche il rimando ad altri livelli di riflessione che completano il quadro complessivo, cosicché l’Antropologia morale non si può comprendere se non alla luce delle opere precedenti e degli sviluppi successivi. Le ricerche gnoseologiche del Nuovo saggio sull’origine delle idee determinano la struttura metafisica dell’uomo in cui la forma ideale dell’essere e la forma reale, o sentimento, vengono assunti come punto di partenza di ogni ragionamento. Inoltre, il trattato sull’uomo rimanda all’ordine soprannaturale; il discorso razionale si completa così nella trattazione teologica (positiva o rivelata) contenuta nell’Antropologia soprannaturale. Infine, la Psicologia viene concepita come la naturale continuazione dell’Antropologia e la Teosofia rappresenta il risultato ultimo cui giunge la riflessione, senza per questo esaurirsi e concludersi in se stessa.

2. Postulati: l’idea dell’essere e il sentimento

Nel Nuovo Saggio sull’origine delle idee, Rosmini espone la dottrina dell’idea dell’essere e del sentimento. Significativo è il fatto che i due postulati della natura umana costituiscano anche l’esordio del trattato sull’uomo: si tratta delle condizioni di possibilità di ogni ragionamento, degli elementi originari, da cui scaturisce tutto lo scibile umano e in cui terminano tutte le dimostrazioni e le definizioni. Di essi si dovrebbe parlare in quella parte della logica che tratta del metodo, ma il Roveretano avverte la necessità di addurre i postulati e giustificarli all’inizio dell’Antropologia morale poiché egli non aveva ancora redatto la sua Logica (che sarà pubblicata solo nel 1853 a Torino dall’editore Pomba). Negli scritti di carattere filosofico, l’intenzione esplicita e dichiarata, è quella di «chiarire e dimostrare le verità supreme col ridurle a que’ due elementi primi dello scibile: l’essere ed il sentimento».7 Nell’orizzonte metafisico, possiamo affermare che le analisi concernenti l’essere umano, prendono l’avvio dai postulati che non sono creazioni della mente, ma si presentano come dati incontrovertibili, alla luce dei quali è possibile l’analisi e, alla fine, la sintesi ontologica del soggetto umano. Detto ciò, si comprende meglio il perché di queste definizioni iniziali che segnano il cammino da percorrere, ma che contengono, a ben vedere, tutto ciò che occorre per cercare una risposta alla questione dell’essenza umana.

L’essere è «il primo noto» e, in quanto è lume della mente, si chiama essere ideale o semplicemente idea, oppure ancora idea dell’essere o essere possibile nel quale sono contenuti i principi supremi del ragionamento e le idee pure. Tutte queste espressioni si equivalgono, anche se alcune di esse esprimono, oltre il puro essere ideale, qualche relazione mentale.8 Per chiarire quest’ultimo punto, dobbiamo riferirci alle analisi del Nuovo Saggio dove si precisa il significato e il concetto della possibilità logica. Innanzitutto l’entità mentale di cui andiamo discutendo, non è innata, ma è il risultato di un’osservazione che facciamo con un atto della mente. Un’entità possibile significa che può sussistere e si può pensare sussistente, non essendoci alcuna contraddizione. Riassumendo, la possibilità logica della cosa è l’idea, il possibile è l’emergere cosciente del principio di non contraddizione: «La possibilità, in quanto è una mera mancanza di ripugnanza, null’altro viene a dire, se non, nell’idea dell’essere indeterminato non trovarsi ripugnanza, e perciò non potersi trovare ne pure in qualunque altra cosa che noi in esso vediamo, e così ella non è cosa distinta dallo stesso essere ideale».9 Abbiamo dunque innata in noi, presente allo spirito per natura, l’idea dell’essere indeterminata; riflettendo in seguito su di essa, osserviamo che è priva di contraddizione. Posteriormente osserviamo che l’essere acquista determinazioni negli enti reali e di conseguenza concludiamo che nell’essenza dell’essere è presente la possibilità delle cose. Non c’è dunque ripugnanza tra l’idea dell’essere indeterminato e le sue realizzazioni concrete. In questo senso, «il concetto di possibilità involge una relazione colle determinazioni dell’essere, le quali all’inizio sono ignote allo spirito nostro, non apprendendole noi che dall’esperienza».10 L’essere, punto di partenza del sapere umano, noto per se stesso, non può essere definito. In verità questa non è una dottrina nuova, poiché già il filosofo persiano Avicenna (980-1037), molto tempo prima, nella Somma filosofica, un commentario alla Metafisica di Aristotele, dichiarò che non si poteva dare definizione alcuna dell’essere, e neppure del necessario (Dio), del possibile (mondo) e delle altre idee elementari. Questa verità del principio primo dello scibile, tramandata fino ai giorni nostri, deve essere conservata quale essa è, dice Rosmini, una ricchezza che da sempre l’umanità possiede. Da quanto è stato detto, deduciamo che l’essere è la forma del conoscere, la sede dell’evidenza a cui si riducono tutte le dimostrazioni delle scienze che vogliono essere perfette.

Alla notizia naturale e immediata dell’essere, si affianca il secondo postulato, cioè il sentimento o reale primitivo che costituisce l’uomo, «soggetto sostanziale e individuale, che riceve modificazioni accidentali e in vario modo attivo».11 Si tratta, anche in questo caso, di un dato primitivo che fonda la soggettività nella realtà dell’essere. L’esperienza del sentimento che ognuno di noi fa, consente allo spirito di riferirlo all’essere, forma delle cognizioni umane. Occorre considerare con attenzione il fatto che, prima di conoscere razionalmente il sentimento, bisogna averne esperienza. L’esperienza del sentimento, attorno al quale si sviluppa il ragionamento e il discorso, è la conditio sine qua non di ogni ragionamento che non voglia essere vaniloquio inconsistente e per ogni discorso in cui le parole non si disperdano come flatus vocis, ma svolgano la funzione semantica densa di contenuti. Ciò dimostra come una simile filosofia non possa essere qualificata con l’accezione di idealismo, che il Rosmini stesso rifiuta, per il fatto che l’esperienza, nel senso più ampio del termine, svolge un ruolo insostituibile; né tanto meno è possibile parlare di una forma sui generis di empirismo, giacché lo spirito riporta il sentimento all’essere, rendendolo noto ad una mente. In quanto si tratta di un presupposto necessario e indispensabile, il sentimento è un postulato e di conseguenza non rientra tra le cose che hanno bisogno di una definizione. Si comprende come lo sforzo della riflessione rosminiana tenda a mettere in evidenza non le circostanze esterne che formano il contesto e accompagnano il fenomeno della sensazione, ma ad illuminare, in forza dell’esperienza che ognuno di noi fa, la sensitività stessa.

I due fondamenti inconcussi, non sono dunque definibili: essendo i primi rudimenti non deducibili da altra notizia precedente per via di ragionamento, essi hanno in se stessi la propria giustificazione ed evidenza da cui discende la certezza di tutto lo scibile umano. Infatti l’uomo, rispetto ad essi, è infallibile perché questi elementi originari non dipendono dalla sua volontà, ma dalla sua natura. Come chiarisce Rosmini, il sentimento, nella sua accezione più ampia, costituisce la materia della cognizione umana, allorquando l’intelletto si volge a lui e lo coglie con un atto intellettivo rendendolo suo oggetto,12 mentre l’essere è il principio formale oggettivo dei ragionamenti, la forma dell’umana cognizione. Ciò che costituisce e forma l’essenza dell’uomo è una doppia vita, in quanto l’uomo è sentimento e intelligenza, e anche prima della percezione, non ha solo la vita della materia. Come non c’è un tempo in cui egli non senta, così non esiste un momento in cui non possieda vita intellettiva: l’uomo sempre sente e intende. Tuttavia, nel suo primo stato, il sentire è «equabile e senza variazione», non attira l’attenzione intellettiva e non ha coscienza di sé. Questa maniera di sentire, viene denominata sentimento fondamentale. L’uomo, inoltre, intende e questo intendere è il suo stesso essere che però non ha oggetti finiti, non presenta differenze o molteplicità, ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Poiché tale oggetto non subisce variazioni, non eccita la curiosità né muove la riflessione, può costituire solo una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi. Anche in questo caso, non c’è coscienza ed «il pensiero equabilmente e immobilmente sparso nell’infinito, non può concentrarsi in nessuna cosa distinta. L’intelligenza insomma, essenziale all’uomo, è formata dall’intuizione dell’essere in universale».13

3. Definizioni dell’uomo

Seguendo un metodo analitico-sintetico, Rosmini propone all’inizio del trattato sull’uomo, come ipotesi di ricerca da verificare, due definizioni. Attraverso molteplici analisi relative all’animalità e alla spiritualità (intelligenza e volontà), si giunge ad una sintesi metafisica e ad un principio comune di entrambe: il soggetto umano. L’intento perseguito è quello di commentare le parti o elementi costitutivi dell’uomo, per cui le due definizioni costituiscono un approccio e segnano il punto di partenza dell’indagine antropologica:

1º L’uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo; 2º L’uomo è un soggetto animale dotato dell’intuizione dell’essere ideale-indeterminato, e della percezione del proprio sentimento fondamentale corporeo, ed operante secondo l’animalità e l’intelligenza.14

Innanzitutto rileviamo che, definendo l’uomo un soggetto animale, intellettivo e volitivo, si indica sia la parte passiva (animalità e intelletto) della natura umana, sia quella attiva (volontà). In secondo luogo, l’aggettivo «intellettivo» rimanda alla facoltà primordiale che è quella dell’intendimento. Altro punto essenziale è che Rosmini sostiene per prima cosa che l’uomo è un soggetto e poi aggiunge che possiede le tre condizioni dell’animalità, dell’intelligenza e della volontà, cosicché le qualità elencate rivelano una medesima relazione col «soggetto», senza che l’una sia privilegiata rispetto all’altra. Quel principio che forma l’unità umana viene chiaramente distinto dall’animalità, dalla intelligenza, e dalla volontà, pur essendo comune a tutte tre. Il risultato è che colui che sente come animale, è quello stesso che intende e che vuole come intelligente e volente. Inoltre, nella prima definizione che incontriamo nell’Antropologia morale, risalta la distinzione dagli angeli, mercé l’animalità, e dalle bestie, mercé l’intelligenza. Il filosofo di Rovereto riconosce però che è necessaria una definizione più esplicita, ragion per cui in seguito si precisa che la natura di ogni intelletto consiste nell’intuizione dell’essere ideale privo di ogni determinazione, e che l’unica percezione è quella del proprio sentimento fondamentale corporeo di cui tratta diffusamente l’Antropologia e anche la Psicologia, quest’ultima con maggiori approfondimenti. Se da una parte non si può negare che la parola «intellettivo», posta nella prima definizione necessiti di spiegazioni, nella seconda tutto diventa più chiaro, in quanto al posto degli attributi «intellettivo e volitivo», troviamo queste precisazioni «dotato dell’intuizione dell’essere ideale-indeterminato, e della percezione del sentimento fondamentale corporeo, ed agente in modo conforme all’animalità e all’intelligenza che possiede». E in queste parole si vede ciò che determina la differenza specifica, necessaria alla definizione, dell’intelletto umano da ogni altro intelletto:

Poiché la natura di qualsivoglia intelletto consiste sempre nell’intuizione dell’essere ideale; ma la nota propria dell’intelletto umano, come mostrammo nell’Ideologia, è questa che egli intuisce l’essere ideale senza determinazioni, e che non ha altre percezioni fuor solo quella del proprio sentimento fondamentale corporeo. Questa concezione iniziale dell’essere e prima percezione forma la base dell’intelligenza e della specie umana: ed è ciò, che la distingue da tutte le intelligenze separate che concepir si possano (dagli angeli). La quale intuizione così imperfetta dell’essere mostra il perché la creatrice sapienza congiungesse a questa umana intelligenza, minima di tutte, l’animalità. L’animalità è data all’uomo siccome mezzo da completare in parte la visione e partecipazione dell’essere, in quel modo che è dichiarato nella scienza delle idee: giacché il senso è quello che somministra al soggetto intelligente una fondamentale percezione, e non poche determinazioni all’esser veduto dall’uomo per natura. Di questo mezzo non ha bisogno una intelligenza, che ha già per natura operazioni e percezioni diverse in un ordine più elevato di quello dell’animalità. Sicché acconciamente l’antichità caratterizzava e descriveva l’uomo dicendo, «che egli occupava l’ultimo posto nell’ordine delle intelligenze». Coll’aggiunger poi nella definizione le parole «agente in un modo conforme alla sua animalità e intelligenza», si additano anco i gradi ed i modi del suo operare, e in primo luogo si addita la ragione che è quel principio operativo, che in sè congiunge e lega l’intelletto ed il senso colla percezione. E però si hanno nella predetta definizione sufficientemente espresse le capitali potenze della natura umana, che nell’unità del soggetto come in loro radice si contengono.15

Abbiamo ora chiarito che l’animalità costituisce con l’intelletto l’unità dell’uomo e che la funzione propria del senso è quella di aggiungere alla visione innata dell’essere molte determinazioni. Queste affermazioni trovano la propria giustificazione e il proprio fondamento nei due postulati dell’antropologia. Inoltre, la ragione è quel principio operante che, nella percezione intellettiva fondamentale, lega i due elementi primi e consente di operare secondo l’animalità e l’intelligenza. Sono così espresse le potenze della natura umana nell’unità del soggetto che tutte le contiene, come il loro talamo, essendo «la parte di mezzo che quelle due prime congiunge in sé e forma dell’uomo un individuo».16 L’uomo è costituito, in una sintesi perfetta, dall’animalità e dalla spiritualità che, a sua volta, abbraccia la potenza intellettuale e volitiva.

Per una maggiore completezza, intendiamo qui considerare alcuni passaggi fondamentali della Psicologia la quale si presenta come la naturale continuazione dell’Antropologia in servizio della scienza morale. Piuttosto che parlare di due scienze diverse, antropologia e psicologia appunto, Rosmini ritiene che si debba parlare di due nomi della stessa scienza dell’uomo. Se consideriamo l’anima unita al corpo e intendiamo con la parola uomo il soggetto umano, allora si può dire che l’anima è tutto l’uomo, poiché ella è il soggetto. In questa unione e reciproca relazione tra anima e corpo, è contenuto tutto l’uomo. Si badi bene che non siamo di fronte ad un vuoto spiritualismo disincarnato, e prova ne è che nel sentimento dell’uomo, e dunque dell’anima come soggetto, cade anche l’estensione e la materia come suoi termini: «è impossibile parlare compiutamente dell’anima, principio del sentimento, senza parlare di tutto intero l’uomo. Ciò che è fuori dell’anima è fuori dell’uomo, e se il corpo appartiene all’uomo è solo perché egli è nell’anima», nel senso che il corpo è sentito dall’anima e nel sentimento fondamentale come appartenenza indubitabile. La Psicologia intende parlare dell’anima e dunque del soggetto umano nella sua integralità: il discorso è ancora una volta metafisico-antropologico e il principio ontologico, orientativo di tutta l’indagine sull’uomo, è quello dell’unità, come condizione dell’esistenza che ci appartiene. Infatti, «i molteplici elementi della natura umana formano insieme una perfetta unità. Tutto è connesso nell’uomo, tutto tendente ad un solo fine».17 Da ciò deriva che anche la scienza dell’uomo è una, non in virtù di un rifiuto incondizionato della molteplicità dei saperi, ma per il bisogno di una sintesizzazione del sapere stesso. In questa luce è possibile comprendere la distinzione tra scienze complete, che hanno per oggetto un ente intero considerato nella sua specie, e scienze incomplete che guardano l’oggetto di studio da punti di vista differenti. Nella classificazione delle scienze è possibile evitare riduzionismi, a condizione che le scienze incomplete e quelle sussidiarie siano riconosciute come membra di un sapere unitario, senza la pretesa ingiustificata di svolgere una scienza intera, ma con la consapevolezza di lavorare per una parte. La rilevanza antropologica di questa concezione della scienza, largamente intesa, non può passare inosservata, essendo un problema irrisolto anche ai giorni nostri, e non solo nell’età moderna. In queste parole è facile cogliere quella costante tensione verso la teoria della scienza completa dell’uomo. Il tutto è costituito dalle parti, non come si può ricavare in una semplice addizione, sommando per così dire la fisiologia, la psicologia, l’anatomia e la storia. La volontà di «riunire quest’uomo così miseramente ammezzato»18 si traduce nella ricerca di ciò che costituisce il fondamento metafisico del soggetto umano. La metafisica insomma è la prospettiva che è in grado di fornire le basi e la struttura stessa del mistero che noi siamo a noi stessi e nessuna scienza può arrogarsi il compito di definire l’essenza dell’uomo, quale sia il suo fine e la sua origine. La medicina, l’anatomia possono fornire strumenti atti a comprendere la dimensione animale-umana della nostra esistenza, ma non certo a cogliere la dimensione spirituale. Sarà bene perciò per i filosofi seguire le scoperte scientifiche, abbandonando convinzioni frutto delle fantasie e delle capriole della ragione e per gli scienziati sarà opportuno, non avanzare, con la stessa pretesa di scientificità, dalle proprie competenze a quelle più propriamente metafisiche. In questo senso credo si debbano interpretare le affermazioni contenute nella Psicologia in riferimento all’unità dell’uomo e della scienza che ne indaga la natura. Nel nostro tempo, c’è sicuramente più fiducia nella ricerca, grazie ai progressi raggiunti in molti campi del sapere e, forse, nessuno pensa più che l’anatomia sia sussidiaria e incompleta perché studia solo i cadaveri; certo è che in quel tempo tale si presentava, considerando anche solo la storia della scienza. Ad ogni modo, sempre valido appare il discorso rosminiano nel sottolineare che nessuno può mai pensare, studiando una parte o un aspetto dell’uomo, di possedere e nella peggiore delle ipotesi di manipolare, l’essere umano. Sappiamo oggi quali possono essere i risultati aberranti di tale concezione.

Quando la parola uomo si usa per indicare il soggetto umano, è sinonimo di anima e abbiamo visto cosa significhi ciò. Tuttavia, uomo può significare anche natura umana, un composto formato «dall’anima (forma dell’uomo) e dal corpo personalmente uniti».19 L’individuo che nasce da questa unione è unico perché contiene in sé un principio supremo, vale a dire la sostanza dell’anima o anima dell’uomo, che abbraccia virtualmente le altre attività umane. L’anima è perciò forma dell’uomo nel senso in cui fu intesa, fin dall’antichità, la parola forma: «la prima virtù attiva che trovasi in un dato ente, per la quale esso è quell’ente anziché un altro».20

Nella Psicologia la definizione dell’uomo, inteso nella sua natura umana, acquista una profondità maggiore che ci consente di capire meglio in quale direzione Rosmini rivaluti la tradizione filosofica e antropologica. Dicendo che l’uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo, si indicano le sue potenze primitive. Per il fatto che l’intelligenza è una potenza primitiva e, invece la ragione una potenza risultante, egli preferì questa definizione rispetto a quella che lo considera un animale ragionevole. In questo vediamo la sua opposizione alla ragione illuministica e idealistica che tutto pensa di dominare, riducendo a sé la realtà. Come efficacemente egli stesso si esprime, «se in quella prima definizione avessimo posto ragionevole o razionale in luogo d’intellettivo, non ci era più permesso di far entrare nella definizione l’animalità come quella che sarebbe stata già compresa nella razionalità, e così non avremmo ottenuto l’intento di dare una definizione in cui fossero distintamente accennate le potenze primitive». Nonostante ciò e con le dovute precisazioni, riesponendo il problema già affrontato nell’Antropologia, il Roveretano trova più perfetta la definizione secondo la quale «l’uomo è un soggetto razionale». Oltre al pregio della brevità, altri vantaggi sono qui contenuti. Il primo assunto è che l’attività che pone in essere l’uomo è la ragione, poiché la sola intelligenza ci fornisce la definizione del soggetto intellettivo, ma non ancora quella della natura umana; inoltre, la ragione è quell’attività in cui l’intelligenza con l’animalità formano un tutto unico e indissociabile, nell’unità del soggetto umano e nel vincolo indissociabile delle sue potenze. Certamente anche nella prima definizione (l’uomo è un soggetto animale intellettivo e volitivo), la parola soggetto indica sufficientemente l’unità dell’essere umano. È vero però che la definizione: «l’uomo è un soggetto razionale», oltre ad esprimere l’unità dell’uomo, indica il come questa unità si realizzi: per mezzo cioè della ragione, la quale congiunge in se stessa l’intelletto ed il senso.

Alla luce di tali riflessioni, è legittimo parlare di incoerenze teoretiche da parte del Nostro? Certamente no, in quanto siamo di fronte ad una concezione dell’uomo, dai primi scritti fino a quelli più maturi, che resta sostanzialmente invariata. Tale prospettiva mira a considerare l’integralità dell’essere umano, le sue articolazioni interne e la sua unità. Qui si parla appunto del soggetto umano razionale e non di animale razionale, come Aristotele, almeno nella traduzione latina sosteneva: animal rationalis è infatti la traslitterazione dell’espressione greca: zóon lógon échon. Quello che c’è di straordinario del Rosmini e che affascina la nostra mente è il movimento instancabile del pensiero che si svolge nel gioco dell’analisi sempre più varia e della sintesi sempre più completa. Propriamente parlando, il termine soggetto appartiene solo agli enti dotati di sentimento e Rosmini attribuisce alla filosofia moderna il merito di aver riconosciuto ciò. In forza di tali precisazioni l’uomo viene definito un soggetto misto, cioè sensitivo-intellettivo, soggetto razionale. Infine, «la parola razionale non esprime propriamente la potenza della ragione, ma la qualità della razionalità propria dell’essenza dell’uomo».21 Comprendiamo ora che il sentimento necessario al soggetto non è di una specie particolare, non indica cioè un sensitività puramente materiale, né meramente intellettuale, ma si tratta invece del sentimento secondo l’estensione più ampia possibile. Ed è a questo discorso che ora volgiamo la nostra attenzione.

4. Il sentimento fondamentale: origine e sviluppo della dottrina rosminiana

L’essenza dell’uomo consiste nel sentimento fondamentale che, considerato in tutta l’ampiezza dei significati, è di tre specie: animale, intellettivo e razionale. A questo punto si impone la necessità di esplicitare nelle linee essenziali la definizione sopra enunciata. Nel trattato giovanile intitolato la Coscienza pura è possibile ravvisare il primo indizio di come sia nata la dottrina del sentimento fondamentale, inteso qui non in relazione al corpo, ma come ciò che si percepisce nell’io.22 Bisogna però considerare che nella riflessione più avanzata, la coscienza indica la vita riflessa, la consapevolezza e l’avvertimento di se stessi come soggetti pensanti e dei propri atti, ma questa proprietà di linguaggio sarà raggiunta solo nella Psicologia, la quale consentirà di determinare il senso preciso delle parole adottate in precedenza, nell’unità di una dottrina così complessa. Nelle opere più mature si possono ravvisare diversi significati, che però convergono sostanzialmente nel «sentimento fondamentale» includente tutte le potenze dell’anima umana.

Nel nostro fondamental sentimento esistono tutte queste potenze (sensitività esterna, sensitività interna, intelletto) avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me con il mio corpo (sensitività) e l’intelletto. Questo sentimento intimo e perfettamente uno, unisce la sensitività e l’intelletto. Egli ha altresì un’attività quasi direi, una vista spirituale (razionalità) colla quale ne vede il rapporto: questa funzione costituisce la sintesi primitiva.23

Tutto ciò non impedisce di distinguere il sentimento intellettivo da quello corporeo, che possiedono sì termini diversi, ma sono un’unica cosa. Emerge nel passo riportato e tratto dall’Epilogo della Teoria del Nuovo Saggio, l’integrità semantica del sentimento fondamentale che, per Rosmini, in tanto sussiste in quanto comprende un principio ed un termine: un principio senziente ed un termine sentito, un principio intelligente ed un inteso o sentito intellettivamente, un principio volente ed un termine amato. L’ultima considerazione da farsi, non in ordine di tempo, ma in una prospettiva metafisica, è che lo stesso principio è quello che intende, che sente e che vuole: il soggetto razionale. Il principio del sentimento è concretamente inseparabile dal suo termine, ma ciò vale per quei termini connaturali al principio, senza i quali questo non sarebbe atto: il sentito primitivo e l’idea sono nell’anima e appartengono alla sua natura, cosicché l’intuizione e il senso sono atti del soggetto. Invece, se consideriamo un termine variabile, ci accorgiamo come esso generi nel principio una potenzialità distinta dall’essenza del principio stesso. Il sentire e l’intendere diventano potenze in relazione ai modi particolari o atti secondi, che a loro volta presuppongono l’anima in un atto primo, conferitole dai suoi termini primitivi:

i termini primieramente informano l’anima, cioè le danno il suo primo atto; di poi modificandosi senza perdere la propria natura specifica, suscitano ed occasionano gli atti secondi. Ora l’attività dell’anima, considerata rispettivamente a questi atti secondi, si chiama potenza.24

Il sentimento è, dunque, quella prima attività per la quale l’anima o principio senziente e intelligente, sussiste, in virtù della congiunzione con i suoi termini naturali: il principio attuato è il sentimento. Per Rosmini ogni facoltà è un atto primo che produce atti secondi, così come aveva insegnato la Scolastica; non si può tuttavia negare lo sviluppo originale e senza precedenti che questa distinzione assume in un contesto diverso, qual’è quello della filosofia rosminiana. Infatti, l’atto primo dell’intelletto è l’intuizione dell’essere ideale, a partire dal quale è possibile l’intellezione degli enti particolari per mezzo di atti secondi, in rapporto ai quali l’intelletto è potenza; allo stesso modo, la facoltà di sentire possiede un atto primo che è quello del sentimento fondamentale corporeo, nel vincolo del principio senziente e del corpo sensitivo, quale termine sentito. Se non si presuppone un tale sentimento primo e originario, la facoltà di sentire non potrebbe passare agli atti secondi, cioè le sensazioni particolari e accidentali. Nel Nuovo Saggio l’attenzione si concentra sul sentimento fondamentale corporeo, anche se è già evidente tutta la portata di questa dottrina, la quale si estende dal puro sentire all’intendere, e l’intima relazione tra il sentimento e sostanza dell’Io.25 Una seconda elaborazione si può rilevare nell’Antropologia in servizio della scienza morale e in particolare nella Psicologia, che assorbe i risultati della prima edizione dell’Antropologia e al tempo stesso influisce sulla seconda edizione del trattato sull’uomo. Ed è proprio nella Psicologia che si tocca il vertice della speculazione: il sentimento si articola nelle sue determinazioni psicologiche, gnoseologiche, biologiche e psicofisiche. Infine, nella Teosofia, l’ultima opera rimasta allo stato di un manoscritto, sviluppa e approfondisce la prospettiva metafisica, non in direzione di rilevanti novità, ma in rapporto all’Ontologia e alla Cosmologia, come appare nella grandiosa visione dell’autore. Al fine di cogliere un’elaborazione sintetica e onninclusiva del pensiero rosminiano, il Sistema filosofico, composto nel 1844 per la Storia Universale di Cesare Cantù, costituisce un punto di riferimento imprescindibile, dove si dice che l’anima umana è insieme un solo principio, sensitivo ed intellettivo.26 Se le concezioni di S. Agostino, Campanella, Maine de Biran, per certi versi, si possono accostare a quella sviluppata da Rosmini, è pur vero che la novità assoluta, non riscontrabile in altri filosofi, è proprio la portata metafisica e l’elaborazione di tale dottrina che qui riscontriamo. È esatto affermare, come ha fatto il Pignoloni a proposito del sentimento fondamentale, che «non si tratta di una scoperta, ma di un approfondimento con un rigore analitico di esposizione e di sistemazione della dottrina che in Galluppi manca».27 Nella stessa direzione, così scrive Filippo Piemontese:

se per scoperta si intende il rinvenimento di qualcosa che non era stato intravisto prima da alcuno, la teoria del sentimento fondamentale non è una scoperta; ma simili scoperte sono assai rare in filosofia. Se dunque per scoperta si intenda invece una certa veduta entro un sistema complessivamente originale di relazioni e di significati, così che quella stessa veduta acquista un significato nuovo, il sentimento fondamentale è veramente una scoperta originale del Rosmini.28

4.1 L’esperienza primitiva: il sentimento fondamentale corporeo

La corporeità assume una rilevanza particolare nel contesto della filosofia rosminiana e anche per questo appare del tutto inadeguata la dizione di idealista che spesso al pensiero del Roveretano viene affibbiata, anche se ormai solo al di fuori degli studi accademici più accreditati e seri. Il corpo costituisce una dimensione ineludibile ed è ciò che ci appartiene, ci condiziona e ci situa in uno spazio e in un tempo determinato. Il dualismo tradizionale e l’opposizione radicale tra anima e corpo viene risolto e superato nella dottrina del sentimento fondamentale corporeo: «Il corpo proprio dell’anima è sentito da lei con un sentimento fondamentale e sempre identico, benché sia suscettivo di variazioni ne’ suoi accidenti. Il corpo proprio, sentito con un tal sentimento fondamentale, non ha ancora distinti confini, perciò non ha figura».29 In queste parole cariche di rimandi impliciti, il sentimento del proprio corpo è colto nel suo carattere più intrinseco, dal di dentro e nella sua essenza, come un’esperienza primitiva e presupposta da ogni altra. Profondamente diverso dalla percezione che abbiamo del nostro corpo per mezzo dei cinque sensi, esso appartiene alla nostra interiorità e comunica noi a noi stessi. In questo sentimento primitivo che ci anima e presenta il corpo come nostro, non si distingue la figura, perché essa ci è data dai sensi esteriori, né la grandezza visibile o i colori, né i confini che lo delimitano, essendo solo sentimento della vita, indefinito e interminato come la notte, «muto, sordo, cieco e del tutto ottuso».30 Abbiamo visto che si tratta di un postulato di cui non si può dare una definizione, essendo un’esperienza immediata e incomunicabile che ha la sua scaturigine nell’essere. L’esperienza metafisica viene riconosciuta nella sua validità, e l’indagine antropologica si fonda su presupposti che orientano il cammino della riflessione sulle tracce dell’essere. Per avere un’idea precisa,

convien dunque chiudere gli occhi togliendosi principalmente tutte le sensazioni della luce, poi successivamente tutte le altre sensazioni dei sensi esteriori, e ancora tutti que’ sentimenti parziali, che potessero svegliarsi nell’interno del corpo nostro a cagione di qualche stimolo particolare. Tolte via interamente queste sensazioni esterne e parziali senza le quali sussiste ancora l’animale, diciamo noi che riman tuttavia quello che nominammo sentimento fondamentale corporeo, o sentimento del vivere. Ma si troverà allora che questo sentimento è a pieno uniforme e semplicissimo.31

La prospettiva nella quale risulta possibile comprendere la dottrina del sentimento fondamentale corporeo è quella propriamente metafisica. Il sentire di cui andiamo discutendo è immediato e non riflesso, abituale e costante, condizione di possibilità di ogni ulteriore attualità sensitiva. Nell’Antropologia in servizio della scienza morale Rosmini, parlando del corpo, sostiene che è la causa del nostro sentire, è il «principio sensifero», vale a dire principio dei fenomeni extrasoggettivi (sensazioni particolari) ed ha la caratteristica dell’estensione. L’anima, al contrario, è il principio sensitivo, è ciò che sente, principio senziente dei fenomeni soggettivi.32 Occorre dunque distinguere le due serie di fenomeni che si prestano all’attenzione del filosofo e non confondere il corpo con l’anima: principio sensifero (corpo) e principio senziente (anima) formano il soggetto umano.

Nell’esporre le articolazioni interne di questa filosofia, non vogliamo proporre un corpus di dottrine senza vitalità alcuna, giacché un anelito di inaudita potenza apre la filosofia al dialogo non solo tra le scienze e i saperi, ma anche e soprattutto tra le persone, e Rosmini era consapevole del fatto che l’essere umano è in relazione, vive e opera nel mondo con gli altri. Questa umiltà del cuore e della mente lo conduce lontano, sulle vette più alte della speculazione, lasciando sempre lo spazio aperto alla meditazione. In questa direzione si schiudono agli occhi del lettore quelle analisi così puntuali che intendono dimostrare, senza la pretesa di esaustività, la semplicità e l’inestensione del principio senziente. Questa tema verrà affrontato più volte da Rosmini, ad esempio nella Psicologia, segno questo del continuo ed inesausto movimento del pensiero, che cerca di giungere a ciò che è in attingibile ed evitando bruschi ripensamenti, conosce approfondimenti e sviluppi successivi. Nell’Antropologia morale, il punto di partenza della prima dimostrazione riguardo alla semplicità del principio senziente, è la definizione del corpo come un ente in cui ogni sua parte è fuori dell’altra. Confutando tutte le possibilità in base alle quali si potrebbe attribuire una sensitività al corpo, egli giunge ad una verità che non esita a definire bellissima e indeclinabile: «l’esteso non può sentire l’esteso; perocchè l’esteso ha sempre le parti sue l’una fuori dell’altra, e però (perciò) se una parte sentisse, il suo sentire sarebbe fuori del sentire delle altre parti e il senso (sensitività) che avrebbe un punto […] sarebbe fuori del senso di tutti gli altri punti»,33 non potendo mai il punto uscire da se stesso. Il sentimento perciò non può trovarsi nell’esteso, ma in un soggetto semplice che ha presente contemporaneamente tutto l’esteso. Da ciò deriva che occorre avere un giusto concetto del principio sensitivo. L’anima non è estesa e non è neppure un punto matematico, vale a dire un ente mentale frutto di astrazioni che nella realtà non esiste; il punto infatti è l’estremità di una linea ed il suo concetto rappresenta una relazione con un’estensione lineare.34 Posto ciò, non ha senso chiedersi in quale parte del corpo risieda l’anima, poiché essa non è un punto che ha una situazione (determinata da tre piani) relativa alla materia. Nonostante l’evidenza di simili fatti, tale questione occupò gli intelletti più nobili di tutti i secoli. Ad esempio, Cartesio sentenziò che l’anima si trovava nella ghiandola pineale, ed in seguito si avanzarono le ipotesi più disparate. Viceversa, considerando attentamente la natura del principio senziente, Rosmini può dire che non occupa nessun luogo, né possiede una situazione piuttosto che un’altra.

Perciò nelle diverse parti del corpo si possono bensì ravvisare i vestigi della sua azione, i vari effetti del suo operare; ma lei non si trova in parte alcuna né grande né piccola, né in tutto il corpo, né in un punto, perocchè il suo modo di essere non ha alcuna comparazione, o proporzione o similitudine con ciò che è materia o proprietà di materia, ma solo ell’ha colla materia un rapporto di azione e di passione […] e propriamente un rapporto di sentimento, e nulla più.

Per comprendere in che cosa consista un simile principio, bisogna osservarlo com’è in se stesso, nei suoi fenomeni intimamente connessi alla sua essenza, senza aggiungere nulla in modo arbitrario. L’anima è dunque attiva e passiva nei confronti della materia, il che significa che il sentimento è un’attività che involge una passività. Questo punto viene precisato in un passo estremamente significativo, in riferimento al rapporto tra il senziente e il sentito:

se noi consideriamo che il termine — il sentito — […] è tal cosa cui noi sentiamo nello spirito nostro, nel principio senziente; non possiamo dubitare che lo stesso spirito concorra insieme col sensifero a produrlo, giacché il principio senziente riceve l’azione nel modo suo proprio, che è quello di essere principio attivo. Ma in che concorre a ciò il principio senziente? Certo vi concorre in tutto, cioè in entrambi gli elementi, che sono: 1º il sensibile; 2º e il suo modo, cioè l’estensione. Concorre a produrre il sensibile, perché dove non è principio senziente, ivi non può essere sentimento. Concorre a produrre il suo modo (quello cioè del sensibile), cioè l’estensione; perocchè l’estensione, ossia il continuo non può essere che nel semplice.35

Come può avvenire che l’esteso continuo sia nell’anima, considerando che l’estensione è la caratteristica del termine sentito? La risposta la troviamo nel Sistema filosofico, dove si dice chiaramente che la ragione del tutto continuo non si trova nelle singole parti, ma nell’unico principio che abbraccia tutte le parti: «L’esteso continuo non può esistere che in un principio semplice, come termine del suo atto».36 Questo rapporto tra il principio e il termine è l’unico possibile ed è realmente esistente. Assai rilevante è che, nelle dimostrazioni che si vogliono fornire in merito all’anima, si parte sempre dai fatti. Il compito della filosofia non è infatti, quello di costruire vasti imperi della ragione sulla sabbia, ma, al contrario, essa deve partire da un punto indubitabile, quale è la nostra esperienza, nel senso più vasto che la parola possa assumere: non solo quella che i sensi ci attestano, ma anche quella più propriamente metafisica.

Il Nuovo Saggio sull’origine delle idee presenta questa definizione completa del sentimento corporeo: «il sentimento è un’azione fondamentale che sentiamo venire esercitata in noi immediatamente, e necessariamente da un’energia, che non siamo noi stessi, la quale azione è naturalmente a noi piacevole, ma può essere variata, secondo certe leggi, e rendersi successivamente più o meno piacevole, o anche dolorosa».37 Azione e passione, come afferma Filippo Piemontese,38 da un punto di vista concettuale si contrappongono, tuttavia nella realtà si identificano, indicano cioè la stessa cosa sotto due aspetti diversi.39 Il sentimento fondamentale è l’azione del corpo nostro vivificato dall’anima, la quale azione si identifica con la passività dell’anima; questa passione, inoltre, si traduce in attività che consiste nel sentire il proprio corpo (attività senziente) in modo immediato e necessario, cioè soggettivamente. I due avverbi che usa il Rosmini sono importantissimi, poiché solo nel sentimento fondamentale noi sentiamo immediatamente un corpo, in quanto è nostro, e perciò necessariamente, finché c’è in noi la vita. Gli altri corpi, al contrario, non li avvertiamo immediatamente, ma come modificazioni che si verificano nel sentimento fondamentale, e neppure includono un modo necessario di sentire, ma solo occasionale e accidentale. In riferimento all’animazione del corpo, viene spontaneo chiedersi quale sia la prima azione e da chi venga esercitata. Nel corpo animale, la prima azione è quella dell’anima che ha lo scopo di comunicare la vita al corpo il quale, così costituito, agisce sull’anima eccitando in essa il sentimento fondamentale. La seconda azione è dunque quella del corpo animato sull’anima. In breve, come ha efficacemente sintetizzato Piemontese,

prima esiste il corpo accomodato ad essere vivificato dallo spirito; lo spirito gli comunica quell’attività che si dice vita; il corpo vivo, in virtù dell’attività ricevuta dallo spirito (perché la materia è termine passivo, per se stessa inerte), reagisce sullo spirito stesso, e lo trae all’atto del sentimento fondamentale, del quale diviene termine e più precisamente materia (termine passivo); infine, alle mutazioni ricevute dall’esterno da parte della «materia sentita» corrispondono mutazioni nel sentimento fondamentale (sensazioni), non per un’azione nuova della materia sullo spirito, ma per la natura e per la legge intrinseca del sentimento fondamentale, che essendo sentimento della propria materia, muta col mutarsi di questa.40

Si capisce come in tutto il processo qui enucleato l’anima sia prima attiva e poi passiva, e il corpo prima passivo e poi attivo. Come l’azione produce la passione, così la passione produce l’azione in quel circolo virtuoso che si dice vita.

Affinché nasca in noi il sentimento, è necessario che il principio senziente cooperi con la sua attività. Ma la sensibilità non è la facoltà passiva dell’animale? Così è, ma non nel senso che la passività coincide con l’inerzia. Infatti, non si possono ricevere sensazioni in un principio privo di attività, poiché quest’ultimo sarebbe privo di vita, al pari di una pietra. Nel fatto del sentimento corporeo, si scorge certamente una passività o ricettività nel principio senziente che però non è completamente inerte e priva di azione.

È una passività che spontaneamente è passiva, una ricettività che riceve cooperando ella stessa affinché accada questo ricevimento. Non ci ha qui propriamente una relazione, ma bensì una cooperazione: senziente (anima) e sensifero (corpo) sono due principi che cooperano a produrre il sentito: e dato il sentito, vi ha il sentimento.41

La parola chiave del discorso è «cooperazione» la quale si illumina i significato alla luce dell’attività, inerente al principio e al termine, e in riferimento alla passività che penetra entrambi. Il concetto del principio e del termine precedono, da un punto di vista logico ed espositivo, quello di sentimento, tuttavia, non c’è alcuna precedenza temporale ed esistenziale. Ciò che la natura ci porge come un tutto, è il sentimento e questo è il fatto su cui bisogna meditare e nel quale riscontriamo una doppia azione continua ed immanente: quella del corpo e quella dell’anima.

4.2 L’intuizione dell’essere e il sentimento fondamentale intellettivo

Quando consideriamo l’intelletto come atto, inevitabilmente dobbiamo riferirci ad un principio intelligente e ad un termine inteso. Infatti, nell’Antropologia in servizio della scienza morale, attraverso il metodo analitico, si dimostra che in ogni intellezione bisogna distinguere due elementi opposti: l’intelligente, che nell’ordine dell’intendere è l’agente, e l’inteso, che non è semplicemente termine, ma oggetto.

Il termine dell’intendere da una parte è passivo, nel senso che non è egli quello che intende, dall’altro, in un ordine superiore, è attivo poiché fa sì che l’intelligente intenda. L’attività dell’essere consiste nel suo manifestarsi al soggetto e questa maniera di agire, è l’intelligibilità dell’essere.

Inoltre, il termine dell’intendere fa in modo che l’intelligente intenda, non mutando l’intelligente («come un corpo urtando in un altro corpo cedevole ne muta la forma, quasiché l’intelligente fosse prima di quello che lo fa intendere»42), ma attraverso un’azione creativa a cui nulla risponde dall’altro lato della relazione, in virtù della ricettività del principio intelligente. A tal proposito, in un passo dell’Antropologia, si legge che nella manifestazione dell’essere allo spirito, l’oggetto opera come «intelligibile, non muta la sostanza a cui si manifesta, ma più tosto la crea. Lo spirito umano adunque non fa fin qui che intendere; non abbiamo dunque finora che una potenza oggettiva».43 L’inteso è nell’intelligente, pur conservando la propria essenza distinta da quella dell’intelligente. L’essere essenziale inesiste in noi tale quale è, senza ricevere alcun cambiamento fenomenico, poichè se cambiasse se stesso e la sua essenza, non sarebbe più ente essenziale. Da parte dell’essere, inesistere in noi, vuol dire rendere se stesso intuibile e in ragione di ciò si può affermare che l’intuizione è l’atto con cui l’ente inesiste in noi: «L’intuizione dunque non muta o modifica il suo termine. Tale è dunque la natura della inesistenza, che suppone un’azione del contenente principio rispetto al contenuto termine, la quale non muta il contenuto, ma solo lo intuisce tale qual è».44 Se l’ente si pensa in molti modi, come ha insegnato Aristotele, con la semplice intuizione si pensa l’essere in universale e non si esprime alcun giudizio che è sempre un atto secondo, laddove l’intuizione è l’atto primo in cui e per cui esiste il principio intelligente. In questo senso possiamo dire che l’inesistenza dell’essere in noi implica una sorta di inesistenza del principio reale nel termine ideale. In ultima analisi, l’idea per Rosmini è l’essere possibile presente allo spirito, l’essere intuito dalla mente. Questa presenza è appunto l’essere noto che ha come unico effetto, quello di far conoscere «che cosa è essere». Ma sapere che cosa è essere, non vuol dire ancora sapere che un ente sussista: ad esempio sapere che cosa è uomo, non è sapere che un uomo sussista, ma è semplicemente conoscerne l’essenza. Questo solo significa intuire. L’essere ideale è congiunto in intima unione al soggetto per via d’intuizione, ma non per questo vi è un’identificazione tra soggetto e oggetto. Ecco spiegata l’inesistenza per la quale una cosa può esistere in un’altra senza mescolarsi o confondersi con essa. Chiarito questo punto, si apre anche la comprensione dello squilibrio dell’uomo costantemente teso tra il finito e l’infinito.

Abbiamo fin qui chiarito che il modo di agire dell’essere è una comunicazione di sé, a cui non risponde la passività, ma un concetto di ricettività del principio intelligente. Rosmini preferisce dunque il termine ricettività a quello di passività per caratterizzare lo stato ontologico dell’intelligenza, in quanto il ricevere non esclude il concetto di attività. Il soggetto non si può sottrarre alla presenza dell’essere che a lui si manifesta:

L’essere risplende nel soggetto, senza possibilità di opposizione dalla parte di questo. Ma il soggetto non è perciò meramente passivo in questa sua unione coll’essere: anzi egli è oltremodo attivo; ed è questo il primo suo atto col quale esiste.45

Il soggetto di fronte all’idea è recettivo, in quanto l’essere diventa forma del nostro spirito facendosi conoscere, rivelando la propria conoscibilità alla mente, la quale non fa altro che ricevere. Tuttavia non è contraddittorio riconoscere che la passività suppone una qualche attività:

Se si considera l’intelletto fornito di una tale intuizione, si scorge che egli è ricettivo, e che l’intendere non è veramente altro, se non un ricevere la luce intellettuale, l’idea. Tuttavia vedesi, ancora, data l’intuizione, che il soggetto stesso deve mettere una qualche attività in pur ricevere quel lume, perocchè ogni ricevere suppone per sua natura qualche grado di attività in chi riceve; chè un ente privo di qualsivoglia attività non potrebbe né ricevere né patire, benché non sia necessario che la detta attività preceda la recettività, potendosi fare che l’una e l’altra esista in un medesimo istante.46

Dopo aver chiarito la necessità di considerare attività e passività sullo stesso piano di dignità ontologica e all’interno di ogni facoltà umana, Rosmini sostiene che questa duplicità di relazione si fonda nell’unità dell’essere, per cui non ha senso ricercare un ordine temporale. Se si guarda all’intero itinerario speculativo che si delinea nella Teosofia, troviamo la dottrina dell’inesistenza delle forme categoriche di soggetto e oggetto che illumina anche la distinzione ricorrente di azione e passione. Considerando che il principio intellettivo e il termine inteso hanno una forma categorica diversa l’uno dall’altro, ne consegue che l’atto del ricevere, che compete al principio intellettivo, non comporta in alcun modo un’azione sul termine stesso, «perché […] tra le forme categoriche non si dà azione e passione, ma solo inesistenza o presenzialità».47 Detto ciò, nulla autorizza a concludere che l’atto ricettivo sia un non-atto, una cosa senz’azione, come si può dire di una cosa morta, per esempio un bicchiere, che riceve in sé un’altra cosa morta, un liquore. Il principio ricevente è un vero atto d’intuizione nel quale un principio attua se stesso in relazione al suo termine, ma non un atto che passa nel termine stesso. Il termine non subisce alcuna modificazione o azione da parte del soggetto intelligente, il quale tuttavia è l’attualità di se stesso nell’intelligenza costituita e determinata in virtù dell’essere ideale con cui si è posto in relazione. L’effetto di questo atto ricevente si riversa sul principio che lo compie. Intuizione è un atto (ricettivo) dell’anima grazie al quale l’essere intelligibile (ideale) comunica se stesso. Come abbiamo rilevato nella definizione dell’uomo fornitaci dal Roveretano, la caratteristica propria dell’intelletto umano è quella di intuire l’essere ideale senza alcuna determinazione e di possedere la percezione del proprio sentimento fondamentale corporeo. Da una parte la concezione iniziale dell’essere, dall’altra questa prima percezione di cui tratta la Psicologia, sono la base dell’intelligenza umana. L’intelletto è collocato nella definizione di uomo come costitutivo della sua essenza e in questo contesto, l’intelletto senza il fatto originario e trascendentale dell’intuizione dell’essere, cesserebbe di esistere, verrebbe annullato. Se «l’intuizione dell’essere è ciò che costituisce l’Intelletto»,48 si comprende allora che l’intelletto è veramente l’intuizione dell’essere che si fa presente e senza la quale non si dà intelligenza.

Ripercorrendo le tappe di un cammino storico-teoretico, notiamo che a partire già da Platone questo atto indicava la visione o contemplazione delle idee da parte dell’intelletto, in una modalità di conoscenza immediata. Anche in Aristotele, l’intelligenza degli indivisibili è intelligenza delle essenze ideali e, nel contesto scolastico-medioevale, la semplice cognizione dell’intelligenza è la cognizione dei possibili. Nella filosofia moderna poi, Kant pervertí il linguaggio filosofico estrapolando la parola intuizione dal contesto in cui era nata per indicare invece la percezione sensitiva: in ciò si vede una traccia del sensismo che giace nel sistema del filosofo prussiano, il quale attribuì al senso l’atto che compete solo all’intelletto. Se l’idea è l’essenza intelligibile, l’intuizione è l’atto dello spirito che intende l’essenza. Una verità importante è la distinzione tra l’atto con cui il soggetto vede o intende, e l’idea: l’essere ideale è indipendente dall’anima nostra in quanto è oggettiva, ma l’atto dell’anima dipendente direttamente dall’idea, senza la quale non esiste. Indubbiamente l’atto, distinto dall’idea, è una pura astrazione, in quanto esiste solo l’atto che termina nell’idea. Tale distinzione è solo mentale perché non si possono dividere realmente le due cose senza distruggere l’intelletto. Consideriamo ora in particolare l’intuizione e il sentimento intellettivo che ne deriva. Scrive Rosmini nel Nuovo Saggio:

Che cosa siamo noi? Non certo l’essere: noi vediamo l’essere, il concepiamo, ma sentiamo insieme di concepirlo come una cosa che sta presente a noi, ma che non è noi. Quindi in noi come intelligenti, si devono distinguere due elementi essenzialmente distinti. 1) l’essere che noi vediamo, 2) noi stessi che vediamo l’essere. L’essere veduto è la cognizione, noi siamo il sentimento, la cognizione non ha bisogno di essere nota per altro mezzo perché è cognizione, il sentimento ha bisogno di una cognizione, affinché sia conosciuto: l’essere è l’oggetto e noi il soggetto.

In quale rapporto si trovano l’uno con l’altro, soggetto e oggetto? L’oggetto, pur essendo trascendente, in quanto forma dell’intelligenza umana, è unito al soggetto il quale intuisce l’oggetto fuori di sé e lo sente in se stesso, come sua appartenenza ontologica. In forza di tale rapporto particolarissimo, nasce il sentimento intellettivo. E Filippo Piemontese dice benissimo che il sentimento intellettivo «non è rigorosamente parlando l’intuizione oggettiva dell’essere, la quale è la presenzialità dell’essere allo spirito. Ma è l’atto con cui il soggetto, che è sentimento si appropria soggettivamente dell’oggetto intuito, la ripercussione, per così dire, nel sentimento della presenza e cioè dell’intuizione dell’essere».49 L’intuizione è un atto ricettivo del soggetto, che implica però uno slancio attivo verso l’essere che si fa presente. Questa articolazione interna che prevede azione e passione, ci sembra la chiave di volta per la comprensione più profonda del pensiero rosminiano. Per prima cosa, l’essere si mostra in qualità di oggetto allo spirito e, in riferimento a tale manifestazione, si deve parlare di una potenza oggettiva; lo spirito, come abbiamo detto sopra, non fa altro che intendere e contemplare, per così dire, l’essere che a lui si manifesta. È possibile comprendere questa potenza oggettiva, qualora ci poniamo a parte obiecti: è l’essere che si manifesta e, la visione innata dell’oggetto ideale, crea il soggetto sostanziale intellettivo. Non si verifica in questo caso alcuna mutazione, giacché la condizione di ogni modificazione, sia essa accidentale o sostanziale, è l’esistenza conferita dall’essere che si mostra: l’intelligenza è posta in essere dall’unione dell’oggetto al soggetto. Ciò che avviene in seguito, è fondamentale nell’economia della dottrina rosminiana. Infatti, quando l’idea si mostra all’anima, suscita un’affezione che lo spirito prova nei confronti dell’essere, e si verifica così una modificazione del soggetto: questa potenza soggettiva è il senso intellettivo.50 La modificazione del soggetto che si verifica è sostanziale, non riguarda cioè qualcosa di accidentale, ma è inerente alla struttura metafisica del soggetto stesso. E il sentimento fondamentale soggettivo è il senso della propria soggettività che non chiude l’uomo nella visione solipsistica del proprio io, ma lo apre alla forma oggettiva dello spirito. Dal Nuovo Saggio, abbiamo appreso che l’essere in universale è idea, ma da questa idea il soggetto che la intuisce produce a se stesso delle sensazioni intellettuali.51 Per dimostrare che l’essenza dell’anima umana è il sentimento, Rosmini dunque parla di una sensibilità spirituale e interna, che però non si deve confondere con le sensazioni animali. La stessa operazione immanente, essenziale, che abbiamo chiamata «intuizione dell’essere in universale» è essenzialmente sensibile, come del resto tutte le operazioni intellettuali. Considerando l’anima nel suo puro atto di intendere e privandola di tutti i sentimenti animali, ella conserverebbe tuttavia un proprio sentimento intellettivo. Inoltre deve essere chiaro che l’atto dell’intuizione non si estende affatto al di fuori del suo oggetto (l’essere), cosicché si tratta di una «sensione spirituale dell’oggetto», che non rivela altro che l’oggetto, termine di essa. L’intuizione aderisce all’essere in un modo a lei essenziale, a tal punto che non se ne può staccare senza cadere nel nulla. Dunque la sensibilità propria di questo atto intuitivo è conseguente all’oggetto intuito e, senza l’intuizione dell’oggetto, quell’atto non sarebbe sensibile, perché molto semplicemente non sarebbe. Riferendosi a Cicerone, Rosmini riporta questo brano: «mens ipsa sensuum fons est, atque etiam ipsa sensus est».52 Con questa espressione, secondo il Nostro, l’oratore romano da una parte dimostrava di non discernere abbastanza la differenza fra il senso animale e la mente, ma dall’altra ben intendeva che la mente stessa era come un senso. «La sensibilità dunque dell’intuizione primitiva viene dall’oggetto [Ms. è l’oggetto, in quanto è sentito], riferito al principio soggettivo senziente».53 Il sentimento intellettivo è generato dall’oggetto «riferito», specifica il testo riportato sopra, al soggetto senziente che è sentimento. A seguito di questo ragionamento, si può concludere che l’anima umana (la cui essenza consiste nel sentire), considerata nel puro atto d’intendere, anche separata dal corpo e da tutti i sentimenti animali, conserverebbe un proprio sentimento intellettivo (benché senza riflessione). Questo argomento, usato da S. Agostino prima che da Rosmini, costituisce una prova dell’immortalità dell’anima. Tutto ciò risponde perfettamente all’esigenza di una nozione esatta di questa «specie» particolarissima di sentimento, cui non si deve aggiungere nulla di ciò che compete alla natura del sentimento corporeo. Ci sembra condivisibile a seguito di quanto abbiamo detto, il giudizio di chi ritiene che il sentimento fondamentale intellettivo mette in evidenza l’aspetto esistenziale dell’intuizione dell’essere. Infatti, se «l’intuizione indica la trascendenza e l’innatezza dell’essere […] il sentimento intellettivo ne indica la presenza nella vita spirituale del soggetto».54 Detto ciò, qual è la relazione che intercorre tra sentimento corporeo e intellettivo? L’essere è intuito dal nostro spirito in un modo immediato, così come il senso riceve le impressioni sensibili e rispetto a questa presenza dell’essere allo spirito, nasce in noi un senso intellettuale. La nostra intelligenza dunque, in quanto intuisce l’essere, si può chiamare senso, prendendo però questa parola in un significato particolare. Infatti, nell’Ideologia si afferma che la differenza tra il senso corporeo ed il senso intellettuale consiste nella diversità dei loro termini. Mentre il senso corporeo ha dei termini reali, il senso intellettuale ha un termine puramente spirituale e perfettamente indeterminato. Accanto a questa differenza tra i termini del senso corporeo e del senso intellettuale, ve n’è un’altra: nel senso corporeo anche se è necessario ammettere un’azione fatta nel soggetto oppure una modificazione subita da questo, tuttavia non si comunica l’oggetto come oggetto, ma come forza agente; invece, nel senso intellettivo si manifesta un oggetto e non un agente. L’oggetto, nel linguaggio rosminiano, non agisce, ma si presenta e si manifesta. Inoltre il senso intellettivo non sente immediatamente se stesso, ma immediatamente intende l’ente e, in conseguenza di ciò, si prova diletto di questa intelligenza dell’ente. Il senso intellettivo dunque si può dire che sorga dopo l’intelligenza. Nell’Antropologia morale Rosmini conduce approfondite analisi sul sentimento fondamentale nella sua parte animale e non in quella intellettiva, tuttavia è ivi contenuta la dichiarazione molto importante per la quale «vi ha nell’uomo anche un sentimento fondamentale intellettivo, diverso dal sentimento fondamentale corporeo, sebbene il soggetto di questi due sentimenti sia unico, il quale è l’uomo».55 Fatto determinante è che il senso intellettivo ha luogo mediante il senso animale «il quale somministra la materia delle percezioni razionali».56 Deduciamo perciò da queste precisazioni più o meno esplicite che le diverse facoltà trovano la propria unità nel soggetto umano di cui abbiamo esperienza. Limitando l’intelligenza al solo oggetto ed escludendo dalla nostra considerazione tutto ciò che c’è di definito e sussistente, avremmo un soggetto incapace di sentire se stesso, chiuso nel modo intelligibile. Così concepito, il soggetto meramente intellettivo sarebbe assorto in una immobile contemplazione che gli impedirebbe di trovare se stesso. Al contrario, per raggiungere la coscienza di se stessi, bisogna che si crei un rapporto, un commercio tra il mondo ideale e quello reale, capace di generare un sentimento che nella totalità del suo significato rinvia alla sostanza dell’anima.

4.3 Il sentimento sostanziale

Dall’Io all’essenza dell’anima. Nel trattato metafisico sull’anima, Rosmini inizia la sua indagine psicologica ricercando quale sia l’essenza dell’anima umana e la conclusione cui giunge è che essa consiste in un sentimento anteriore alla coscienza. Cerchiamo di seguire i punti salienti di questo procedimento che assume come criterio metodologico della ricerca filosofica, quello di cogliere il concetto puro, eliminando quanto la mente vi possa aggiungere di suo. Il punto di partenza è costituito dallo stato intellettuale in cui ci troviamo, vale a dire dal concetto dell’anima che abbiamo: l’Io. Infatti, nella coscienza di noi stessi (Io) e dunque della nostra anima, è possibile trovare cos’è l’anima in generale, eliminando dall’Io, con un atteggiamento analitico, tutto ciò che non appartiene alla nozione pura ricercata. Il monosillabo esprime l’autocoscienza nell’identità del sé percipiente e del sé percepito, ma ancor più è l’affermazione di sé autocosciente. Questo pensiero riflesso non è essenziale al concetto di anima, né al concetto di sentimento fondamentale, inteso come sostanza dell’anima. Il sentimento fondamentale come essenza dello spirito, giace in fondo all’Io ed è espresso dall’Io, ragion per cui non si identifica totalmente con esso. Sulla base di ciò, comprendiamo come non si debba in alcun modo confondere l’anima con la coscienza. La riflessione, infatti, non indica la sostanza, ma solo una modificazione accidentale e, l’aver ridotto l’anima alla coscienza e alla riflessione fu l’errore di Fichte il quale si trovò così tra le mani solo puri accidenti.57 L’anima, per dire «Io», deve divenire consapevole di se stessa, in una parola deve farsi autocoscienza. L’analisi critica dell’Io consente di raggiungere il concetto puro o essenza dell’anima, tenendo conto che non si deve confondere l’anima con la coscienza che ha di se stessa, non si deve identificare l’anima con l’atto col quale afferma Io e non si deve ridurre l’anima alla semplice riflessione che fa su se stessa. Tutte queste sono infatti modificazioni accidentali che presuppongono un fondamento ontologico: l’anima sostanziale. Nell’uomo, il principio animale e quello intellettivo formano un solo e medesimo principio: «Ora questo principio unico e semplicissimo, il quale da una parte soggiace alla passività prodottagli dall’azione del corpo, dall’altra soggiace alla passività o meglio ricettività dell’essere universale, è appunto ciò che si chiama lo spirito umano».58 Vogliamo qui mettere in evidenza come nella concezione antropologica del Rosmini, il sentimento fondamentale corporeo fa tutt’uno con quello intellettivo, costituendo il soggetto senziente e intelligente. Perciò i due approcci del sentimento fondamentale convergono in un significato più radicale: la sostanzialità. Nel trattato metafisico della Psicologia, la teoria del sentimento fondamentale si pone in maniera più esplicita sul piano della spiritualità, giacché lo spirito nella sua sostanza è sentimento fondamentale. Come nel sentimento fondamentale corporeo abbiamo trovata la sostanza del corpo, così ora in esso dobbiamo trovare la sostanza dell’anima: «vi deve essere dunque un sentimento primo e stabile, in cui consista la sostanza dell’anima, e questo è ciò che poi abbiamo chiamato sentimento fondamentale».59 La sostanza è l’atto primo per il quale sussiste un’essenza60 e grazie al quale la mente concepisce l’ente in sé e per sé, senza collocarlo in un’altra entità; diversamente avremmo un accidente. Pur richiamando la definizione scolastica della sostanza, per Rosmini un ente è tale in virtù del sintesismo tra il reale e l’essere ideale. L’anima come sostanza è appunto un’essenza che racchiude il principio intellettivo e quello sensitivo e vere e proprie sostanze sono solo gli spiriti la cui essenza è il sentimento fondamentale. Sperimentare la permanenza di me stesso, il sentimento della mia soggettività (principio senziente e intelligente) che è ontologicamente anteriore alla coscienza, questo è il sentimento primitivo e stabile dell’anima sostanziale. Ora, l’anima nella sua sostanzialità, può essere definita come un sentimento sostanziale attivo e come il principio di questo sentimento fondamentale. Le due definizioni in realtà coincidono, come Filippo Piemontese spiega in modo convincente:

Se si considera il sentimento come l’atto di un principio, astrattamente diviso da questo, lo spirito è principio del sentimento fondamentale, ma se si considera il sentimento come atto del principio nella sua concretezza, in quanto il principio pienamente non sussiste se non come atto di sentimento congiunto al suo termine, allora si deve dire puramente e semplicemente che lo spirito è sentimento fondamentale.61

Esso è quell’atto permanente di cui tutti gli altri sentimenti in senso lato (sensazioni, pensieri) sono una modificazione: lo spirito umano è sostanza, e questa sostanza è sentimento fondamentale, distinto da tutto ciò che è accidentale e transeunte. E dunque, quello stesso sentimento fondamentale corporeo del Nuovo Saggio, che già implicava la dimensione spirituale, è ormai pienamente inteso come puro sentimento che può terminare soltanto in un corpo, ma che è al tempo stesso illuminato dalla presenza dell’idea dell’essere. In questo modo lo spirito è sentimento di sé come soggetto spirituale. Rosmini ci offre una definizione quanto mai esplicita: «l’anima è un sentimento originario e stabile, principio unico e unico soggetto di tutti gli altri sentimenti e di tutte le operazioni umane».62 Lo spirito nella sua sostanza è il sentimento fondamentale da cui scaturiscono tutte le operazioni e le attività o atti secondi, virtualmente contenuti in esso. Perciò nell’uomo vi è una sola anima nella quale si ricompongono in unità i principi operativi. Il sentimento sostanziale è un sentire in atto, un atto primo, sensitivo e intellettivo. Queste due potenze (ogni potenza è un atto primo che ne produce poi altri) non derivano dalla sostanza dell’anima, ma si identificano con essa e costituiscono lo spirito nella sua totalità che è quel principio del sentire e dell’intendere costituito dai suoi termini: il sentito esteso-corporeo e l’essere indeterminato. Senza il termine esteso-inteso, l’anima umana non potrebbe dirsi atto e dunque sostanza. Tali potenze primitive formano il sentimento fondamentale spirituale che si estende così a significare tutto l’uomo: «l’essenza stessa dell’uomo consiste nel sentimento».63 Nel Nuovo Saggio le varie argomentazioni addotte per giustificare l’esistenza del sentimento fondamentale erano prese dall’esperienza sensibile: le sensazioni abituali di determinati stati del corpo come la forza di gravità, la circolazione del sangue, la pressione atmosferica, ci avevano portato alla conclusione che noi sentiamo abitualmente il nostro corpo. Nella Psicologia abbiamo però rilevato un modo più ampio e generico di intendere il sentimento fondamentale, come sentimento di sé e della sostanza dell’anima. Di conseguenza anche le prove addotte per giustificarne l’esistenza assumono un’adeguata prospettiva metafisica. Partendo dalla considerazione che nell’uomo esiste un sentimento fondamentale, vengono riproposte le prove formulate nella giovinezza, con l’accortezza di usare al posto della parola «coscienza», impropriamente adottata nel trattato giovanile Coscienza pura, il termine «sentimento». La prima prova fa riferimento al fatto che l’Io, di fronte alle molteplici modificazioni e ai pensieri, resta sempre identico a se stesso. Infatti, sono sempre Io che penso, che sento, che percepisco e, se così non fosse, non potrei neppure confrontare tra loro due sensazioni o due pensieri, così da conoscerne la diversità. L’essenza dell’Io resta tale al di là del fluire dei sentimenti e dei pensieri accidentali. È in questo modo che si forma in me l’idea del sentimento che si esprime col monosillabo Io. Quanto mai illuminante è un passo che leggiamo nel manoscritto, dove si dice che la difficoltà maggiore nel formarci il concetto del sentimento, non consiste nel prescindere dalle modificazioni accidentali, quanto «nel prescindere anche da quel pensiero medesimo, con cui mi fo a concepire il sentimento puro, prescindendo dall’idea stessa dell’Io, considerando quel sentimento senza la percezione intellettiva».64 La settima prova è la più importante in quanto contiene quelli che sono i presupposti metafisici del sentimento fondamentale.65 Il Nostro parte dall’assunto, accettato da tutti, secondo cui l’anima originariamente ha la facoltà di sentire che produce tutti gli atti particolari; non tutti però sono disposti ad ammettere che essa abbia anche l’atto (che è particolare, ma non per il Roveretano come vedremo). Ora, Rosmini dimostra che la facoltà (o potenza), come la intende lui, consiste in un atto universale che precede tutti gli atti particolari. La facoltà di sentire dell’anima è già in atto da se stessa, in quanto sente se stessa, a prescindere dagli impulsi esterni. Diversamente, non si potrebbe spiegare come mai si verifica il passaggio dalla potenza all’atto. L’anima sensitiva dunque sente sempre se stessa in virtù del sentimento fondamentale o sentimento di sé che costituisce la sua essenza.

5. La percezione intellettiva fondamentale del sentimento fondamentale

Passiamo ora a considerare l’atto supremo del sentimento fondamentale, in cui si attua l’unità dell’uomo, del suo spirito con il corpo: la percezione intellettiva immanente. Il sentimento fondamentale trova in essa il punto massimo del suo sviluppo, divenendo forma, attività, principio di determinazione dell’uomo, ciò che lo fa essere tale. Vogliamo qui precisare subito che la percezione è una funzione della ragione, ma non è ancora coscienza di sé. Di conseguenza, l’autocoscienza non è il primo atto della ragione, ma l’atto secondo, una «percezione della percezione»,66 secondo la definizione che Rosmini fornisce della coscienza riflessa. La percezione intellettiva di se stessi, al contrario, è l’atto primo della ragione. Essa viene denominata «fondamentale» in quanto su di essa si fondano le singole percezioni (io non potrei percepire intellettivamente i reali distinti da me, se prima non percepissi me stesso) e «immanente», poiché è intrinseca al soggetto, iscritta nella struttura dell’uomo il quale in tanto esiste in quanto è questo atto compiuto. La nostra stessa umanità si qualifica così come spirito che possiede un corpo. Con questo atto della ragione si coglie il nesso che la realtà ha con l’essere, il grado stesso della sua intelligibilità e, grazie a questa congiunzione, la realtà, unita indissolubilmente all’essere ideale, viene illuminata. Nella prospettiva rosminiana, la percezione intellettiva in generale, è un giudizio esistenziale, mediante il quale lo spirito afferma sussistente ciò che i sensi hanno percepito. Diverse sono le parti componenti l’atto che lo spirito compie: la sensazione animale grazie alla quale sentiamo un corpo che agisce sui nostri sensi (che funge da soggetto del giudizio); l’intuizione dell’essere in universale, vale a dire l’idea universale di esistenza che non proviene dai sensi (essa verrà applicata al corpo e sarà il predicato espresso dal verbo «è», esiste); l’affermazione o giudizio di una realtà agente in noi (che ci consente di dire: «Esiste ciò che ferisce i miei sensi»). Il giudizio dunque è una sintesi che unisce il sentimento e l’essere, dove il primo funge da soggetto e il secondo da predicato.67 Stabilito ciò, è importante considerare che il sentimento, al di fuori del giudizio, non è più il soggetto, poiché è del tutto incognito: «il soggetto sentimento, prima dell’affermazione dell’ente reale, non è conosciuto in modo alcuno».68 Dall’analisi della percezione che il Roveretano conduce, si vede che concorrono e cooperano tre facoltà distinte: la facoltà di sentire il sensibile o la sensitività corporea; la facoltà che possiede l’idea di esistenza in quanto intuisce l’essere (il predicato del giudizio), comunemente detta intelletto; infine la facoltà che unisce il predicato al soggetto e forma così il giudizio stesso, la ragione. Il punto fondamentale di tale discorso è capire come avvenga una siffatta sintesi. Il sentire e l’intendere, infatti, rappresentano due essenze separate, come del resto è separato l’essere reale e l’essere ideale. Nonostante ciò, l’anima razionale è un soggetto semplice che unisce nel suo sentimento intimo i due elementi distinti che formano così «un’unità duale».69 L’unità e la semplicità del soggetto, che è una sintesi in atto, costituisce dunque il trait-d’union tra il mondo intelligibile e quello sensibile, la supposizione prima e originaria, la condizione di possibilità di tutte le percezioni intellettive successive. Da ciò deriva che il principio senziente e quello intelligente, pur nella diversità delle operazioni, costituiscono un unico soggetto, anche se non è da escludere che l’agente esterno e l’idea di esistenza, possano esistere in un soggetto semplice, l’una accanto all’altra senza unirsi e senza che si renda noto all’anima il loro nesso. Per questo motivo Rosmini precisa che

è dunque necessario di più, che questo soggetto semplice, che possiede in sé questi elementi del suo giudizio, cioè il sensibile (materia) e l’idea di esistenza (forma del giudizio), abbia una virtù od efficacia, per la quale possa rivolgere la sua attenzione sopra ciò che patisce e che ha in se stesso. Questo soggetto dunque: 1º riflette d’avere contemporaneamente ciò che prova nella sensitività, e ciò che luce nell’intelletto, cioè l’idea di esistenza; 2º paragona il sensibile all’esistenza; 3º e ravvisa in esso una esistenza, che non è se non una realizzazione particolare di quella esistenza ideale ch’egli prima concepiva solo come possibile. Queste tre operazioni, che noi distinguiamo per chiarezza maggiore, ma che vengono fatte rapidamente, e anzi istantaneamente, nel fondo dell’intimo sentimento di un ente sensitivo e a un tempo intelligente, sono quelle che costituiscono la terza delle facoltà enunciate, cioè la facoltà di giudicare, cioè la ragione.70

In base alla denominazione data a queste tre facoltà, continua il Rosmini, l’intelletto non è la facoltà che giudica e che percepisce, poiché esso somministra alla ragione il mezzo di percepire, la regola di giudicare, mezzo e regola che consiste nell’idea che svolge la funzione di predicato nella formazione del giudizio. L’intuizione dell’essere in universale non racchiude giudizio alcuno,

giacché il giudizio suppone innanzi a sé l’esistenza di chi giudica, e però è sempre un atto secondo, laddove l’intuizione è l’atto primo pel quale esiste il principio intelligente, è l’inesistenza di un principio reale nell’idea come in suo termine, e quindi è la costituzione del soggetto atto a intendere e portare giudizio. Di poi l’ente si pensa colla percezione intellettiva. Questa è un atto del principio che intuisce l’idea, al quale essendo dato il sentimento lo apprende necessariamente nell’idea in cui egli inesiste, e però lo apprende come ente in quanto nel sentimento gli è dato il principio senziente, e insieme apprende anche tutto ciò che è richiesto dall’ordine dell’essere intuito, benché non sia compreso nel sentimento come la realità pura straniera.71

Sebbene però non sia l’intelletto quello che propriamente percepisce, tuttavia si chiama percezione intellettuale quella che descriviamo, perché l’intelletto fornisce alla medesima la parte principale e formale. Per questo si può dire con buona ragione che l’essere è la condizione a priori di possibilità della percezione intellettiva, del giudizio stesso.72 È opportuno rilevare che senza la presenza diretta e immediata in noi dell’essere, la cui origine non è il giudizio, il soggetto giudicante o la realtà giudicata, si elimina la stessa percezione intellettiva. Senza l’essere non possiamo pronunciare nessun giudizio, né conoscere l’ente determinato. In base a quanto è stato detto, è possibile ricavare questa definizione esplicita: «La percezione intellettuale, è quella che fa il nostro spirito di una cosa sentita, quando lo vede (qui il vedere è applicato alla mente) contenersi nella nozione universale di esistenza».73 Il primo atto della razionalità è la percezione del soggetto come sentimento fondamentale corporeo, il che equivale a dire che l’anima razionale (o spirito), nel suo primo atto, che è la percezione intellettiva, si lega la corpo in un vincolo indissolubile, in un nesso fisico e non solo gnoseologico. Una difficoltà sorge a questo punto: Rosmini parla spesso della percezione intellettiva come l’unione dell’idea dell’essere con il sentimento animale, ma in altri passi allude al sentimento inteso in un senso più ampio.74 Non è forse questa una contraddizione? Non lo è certamente se si considera che nell’uomo il sentimento è unico, animale e spirituale, e il sentimento animale non è pura animalità, ma rimanda pur sempre alla spiritualità, poiché in esso è lo spirito che si rivolge al sensibile. Riconoscendo il principio spirituale in seno alla corporeità, la percezione intellettiva del sentimento appare di conseguenza come l’uni-totalità animale e spirituale dell’essere umano. A partire da queste considerazioni si comprende come questo atto razionale riguarda tutto l’uomo, per cui Rosmini può dire che

l’unità dell’uomo (l’unione intima tra spirito e corpo) consiste in un sentimento unico proprio del principio razionale, nel qual sentimento unico non è solamente il sentimento animale, ma anche il sentimento razionale, per modo che in questo si contiene quello come nel più si contiene il meno; sicché l’uomo, nel primo suo stato non ha già più sentimenti, cioè il sentimento, animale e il razionale; ma un unico e semplicissimo sentimento avente un principio e un termine. Egli ha un principio ed è lo stesso principio razionale, e ha un termine che è l’idea dell’essere, e in quest’essere, vede il sentimento animale che sperimenta; giacché nella percezione accade, per dirlo di nuovo, che del sussistente sentito, e dell’essere si formi un solo ente, oggetto dell’unico principio razionale. Questa percezione primitiva e fondamentale di tutto il sentito (principio e termine) è il talamo per così dire, dove il reale (sentimento animale-spirituale) e l’essenza che s’intuisce nell’idea formano una cosa; e questa cosa sola è l’uomo.75

È qui raggiunto il punto più alto della speculazione sull’uomo, colto nell’unità del sentimento fondamentale e della percezione intellettiva di esso. E, in un altro passo molto significativo si chiarisce che «percepire un sentimento sostanziale», quale noi stessi siamo, vuol dire «identificare il reale o sentimento con l’essenza dell’essere intuito dall’intelletto. È un atto dell’anima razionale, col quale ella apprende la realità in rapporto con l’idea: è un percepire in somma l’ente medesimo sotto due forme ad un tempo».76 È qui evidente una impostazione metafisica capace di afferrare l’identità dell’essere che si presenta sotto la forma ideale e la forma reale. La facoltà che percepisce l’ente e nella quale risiede l’unità dell’uomo, è chiamata principio razionale il quale «non può già apprendere il sentimento solo, perché il sentimento tutto solo non è manifestativo dell’ente che è il proprio oggetto della ragione. Ma il sentimento unito all’essere intuito dalla mente acquista natura di ente».77 Se il sentimento viene considerato al di fuori dell’ordine razionale, esso deve attribuirsi al principio senziente, invece, unito all’essenza dell’essere per mezzo della percezione, appartiene alla ragione. Nell’ordine razionale, dunque, il sentimento assume una condizione nuova, identificandosi con l’essenza dell’ente veduta nell’idea.

Inoltre, parlando di percezione, dobbiamo considerare che esistono due tipi differenti di questo atto del soggetto: se il sentimento sono io, avrò la percezione di me stesso, ma se si tratta del sentimento di un qualcosa distinto da me, avrò la percezione di un agente esterno. Fatte queste dovute precisazioni, il problema, in tale contesto, è ben preciso: come il soggetto uomo distingue il sentimento fondamentale che lo costituisce, da qualsiasi altro sentimento? Come l’uomo percepisce se stesso? Il carattere distintivo grazie al quale il sentimento fondamentale è individualmente se stesso e non si confonde con altri, viene indicato dal Rosmini con la parola suità. Analogamente il neologismo meità è lo stesso carattere distintivo considerato come mio.

È nella natura del sentimento che si deve trovare la nota caratteristica, che fa distinguere il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti, dai sentimenti non propri. Ora quale sarà questa nota caratteristica […]? Ella dee essere certamente […] un quid che nel sentimento stesso immediatamente si percepisca. Ora questo quid che è nel sentimento proprio, e che è una parte del sentimento proprio, che distingue il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti è appunto ciò che v’ha d’incomunicabile nel sentimento, ond’esso riceve il nome di proprio […]. Sì, la proprietà, la suità, la meità è un quid del sentimento […] che si percepisce (intellettivamente) per l’essenza dell’essere. Questo quid sensibile è il principio dell’individuazione e diviene anche quello della personalità.78

Il soggetto è dunque individuato dalla suità, la nota caratteristica del sentimento di noi stessi, e non dalla materia signata come voleva Aristotele.79 Abbiamo così delineato, in forza del principio di personalità, l’essenza umana o più precisamente l’essere umano. Nella seconda parte vedremo più esplicitamente come e in che senso l’uomo si qualifichi e si definisca persona umana.


  1. P. Ricœur, Meurt le personnalisme, revient la personne, in Esprit, 1983, pp. 113-119; l’articolo è stato inserito nel volume: P. Ricœur, Lectures 2. La contrée des philosophes, Paris, Ed. du Seuil, 1992. Quest’ultimo è stato tradotto in italiano con il titolo P. Ricœur, La persona, Brescia, Morcelliana, 1997. ↩︎

  2. M.F. Sciacca, Antonio Rosmini, in Il pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Marzorati, Milano 1936, p. 307. ↩︎

  3. A. Rosmini, Come si possano condurre gli studi della Filosofia, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, n. 10, p. 324. ↩︎

  4. Così lo definì M.F. Sciacca: «Rosmini è il filosofo della persona, dei diritti personali di ogni singolo uomo, extrasociali, al di sopra, non al di fuori, della società quale che sia la forma in cui è organizzata […]. La persona è il centro: sulla base del suo riconoscimento e dei suoi diritti hanno valore e vanno riconosciuti tutti gli altri diritti civili, politici e sociali […]. Centro l’uomo, ma ciò non significa antropolatria, il mito più funesto del mondo moderno e contemporaneo, che il Rosmini combatte spietatamente e con argomenti intrinseci: l’atto che costituisce la persona e le è interiore la trascende in quanto è presenza di Dio, presenza che è la sua stessa essenza; dall’interiorità, dalla persona integrale a Dio, il Soggetto assoluto, la Persona suprema. È questo senso dell’interiorità di Dio, la quale è la stessa spiritualità dell’uomo, che il Rosmini ci invita a recuperare, se vogliamo ritrovare il senso dell’uomo e dell’umano […]. Il mito dell’uomo assoluto, non alienato in Dio, dell’uomo che è l’avvenire di se stesso, è il mito mostruoso, che proprio in quanto divinizza l’uomo, lo nega; tale autonegazione scrive il Rosmini, è la secreta espiazione dei diritti usurpati alla divinità» (M.F. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano 1963, pp. 213-214). ↩︎

  5. A. Rosmini, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, Cedam, Padova 1967, Ed. Naz., vol. I, n. 92, p. 201. ↩︎

  6. A. Rosmini, Prefazione alle opere di filosofia morale, in Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore, Città Nuova 23, Roma 1990, pp. 44-45. Fu pubblicata dal Rosmini nel 1837, un anno prima rispetto alla prima edizione dell’Antropologia in servizio della scienza morale↩︎

  7. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 19, p. 31. ↩︎

  8. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, o.c., vol. I, n. 539-548, pp. 548-558. ↩︎

  9. Ibid., n. 544, p. 553. ↩︎

  10. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, n. 546, p. 555. ↩︎

  11. A. Rosmini, Degli studi dell’Autore, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, pp. 127-128. ↩︎

  12. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, Città Nuova 24, Roma 1981, n. 15, p. 27; Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma1988, n. 13, p. 35. ↩︎

  13. A. Rosmini, Lettera al dottore Luigi Gentili a Prior Parck in Inghilterra, in Introduzione alla filosofia, p. 433. ↩︎

  14. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, Città Nuova 24, Roma 1981, nn. 22-23, p. 33; n. 34, p. 37; n. 37 e 39, p. 40. ↩︎

  15. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, nn. 39-42, pp. 40-41. ↩︎

  16. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 44, p. 42. ↩︎

  17. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 906, p. 488. ↩︎

  18. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 7, p. 32. ↩︎

  19. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 204, p. 218. ↩︎

  20. Ibid., n. 206, p. 118. ↩︎

  21. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo II, Città Nuova 9/A, Roma 1988, nota (2), n. 1123, p. 288. ↩︎

  22. Proprio per questa ragione, mi permetto di dissentire dalla tesi esposta da A. Faggiotto, Come sia nata e si sia sviluppata la teoria del sentimento fondamentale e in quali termini si sia svolta e conclusa, in AA.VV., Antonio Rosmini, in Atti del Congresso Internazionale di Filosofia, a cura di M.F. Sciacca, Sansoni, Firenze 1957, pp. 665-674. Secondo il Faggiotto «la teoria del sentimento fondamentale è nata nel Rosmini come teoria del sentimento fondamentale corporeo» (Ibid., p. 669), in base a quello che emerge dal Nuovo saggio sull’origine delle idee. Al contrario, siamo pienamente d’accordo con l’analisi di Paolo De Lucia in merito allo sviluppo interno della dottrina del sentimento fondamentale, costituendo il necessario punto di partenza di tale dottrina, il testo rosminiano della Coscienza pura. Cfr. Paolo De Lucia, Dalla coscienza pura al sentimento fondamentale, in Essere e soggetto. Rosmini e la fondazione dell’antropologia ontologica, Bonomi, Pavia 1999, pp. 41-47. ↩︎

  23. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, n. 1025, p. 293. ↩︎

  24. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo II, Città Nuova 9/A, Roma 1988, n. 949, p. 223. ↩︎

  25. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, o.c., vol. II, nn. 1196-1198, pp. 440-442. ↩︎

  26. A. Rosmini, Sistema filosofico, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, n. 122, p. 270. ↩︎

  27. E. Pignoloni, Il reale nei problemi della Teosofia di Antonio Rosmini, Sodalitas, Stresa 1955, p. 58. ↩︎

  28. F. Piemontese, La dottrina del sentimento fondamentale nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1966. Lo stesso A., in un articolo sintetico e illuminante, ripropone in breve gli aspetti essenziali della dottrina rosminiana del sentimento fondamentale, chiarendone la portata psicologica e metafisica: F. Piemontese, Validità psicologica e ontologica-metafisica della teoria rosminiana del sentimento fondamentale, Rivista Rosminiana, fasc. II, Anno LXII, Aprile-Settembre 1968, in Atti delle «Giornate rosminiane» di Cerro Veronese (29-30 Luglio 1967), pp. 113-125. Così scrive Piemontese: «La dottrina del sentimento fondamentale ha un’immensa portata psicologica e metafisica. Esso fonda, psicologicamente, l’unità dell’uomo. Il quale è insieme sentimento corporeo (includente perciò il proprio corpo) e intuizione dell’essere, ma il sentimento fondamentale rappresenta l’unità radicale e l’unità terminale di queste due componenti. Ne rappresenta l’unità radicale, perché il sentimento è il soggetto stesso, che ha due termini, il proprio corpo e l’idea, e di conseguenza due attività sgorganti dal medesimo principio, cioè l’attività sensitiva e l’attività intellettiva. Ne rappresenta l’unità terminale, perché i due termini, l’esteso e l’idea, sono unificati nella percezione primitiva e immanente che costituisce… l’atto compiuto del sentimento fondamentale… Ma il sentimento fondamentale presenta anche una valenza metafisica, in quanto mercè l’atto della percezione immanente, esso giunge a intendersi nella sfera dell’intelligibilità dell’essere» (F. Piemontese, Validità psicologica e ontologico-metafisica…, pp. 118-119). ↩︎

  29. A. Rosmini, Sistema Filosofico, in Introduzione alla filosofia, n. 132, p. 274. ↩︎

  30. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 141, p. 104. ↩︎

  31. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 139, p. 103. ↩︎

  32. Rileviamo nel linguaggio rosminiano due maniere differenti di nominare l’anima (principio sensitivo e principio senziente) che è possibile comprendere alla luce di quella relazione intima che intercorre tra la potenza e l’atto nella struttura di un ente. ↩︎

  33. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 96, p. 75. ↩︎

  34. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, nn. 98-100, pp. 76-77. ↩︎

  35. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo II, Città Nuova 9/A, Roma 1988, n. 824, pp. 175-176. ↩︎

  36. A. Rosmini, Sistema filosofico, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, n. 131, p. 273. ↩︎

  37. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, o. c., vol. II, n. 726, p. 87. ↩︎

  38. F. Piemontese, La dottrina del sentimento fondamentale nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1966, p. 49. ↩︎

  39. G. Bozzetti, riguardo al rapporto di azione e passione riscontrabile nel sentimento fondamentale corporeo, così scrive: «Il sentimento fondamentale […] è attivo e passivo. Il corpo, cioè viene sì sentito dall’anima, ma il corpo riceve anche in sé l’azione dell’anima, anzi vive solo in quanto riceve quest’azione. Il corpo per sé è dato dalla forza sensifera come termine dell’anima, ma fino a che l’anima non lo ravviva non è il suo corpo, e non può agire su di essa come il suo termine sentito. L’anima occupa, avviva, muove e governa il corpo, il quale, così vivificato, può reagire sull’anima. Si ha un’azione e reazione vicendevole e simultanea» (G. Bozzetti, Lezione XXIII: L’istinto vitale e l’istinto sensuale, in Opere complete. Saggi — Scritti inediti — Opere minori — Recensioni, a cura di M.F. Sciacca, vol. I, Marzorati, Milano 1966, p. 996). ↩︎

  40. F. Piemontese, La dottrina del sentimento fondamentale nella filosofia di Antonio Rosmini, p. 46. ↩︎

  41. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 367, p. 226. ↩︎

  42. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 158, pp. 103-104. ↩︎

  43. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 525, p. 308. ↩︎

  44. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo V, Città Nuova 16, Roma 2000, n. 2505, p. 414. ↩︎

  45. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 522, p. 307. ↩︎

  46. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 505, p. 300. ↩︎

  47. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo III, Città Nuova 14, Roma 1999, n. 1435, p. 322. ↩︎

  48. A. Rosmini, Logica, a cura di V. Sala, Città Nuova 8, Roma 1984, n. 65, p. 63; cfr. anche A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, o.c., vol. I, nn. 481-484; Antropologia in servizio della scienza morale, n. 511, p. 303; n. 797, p. 443. ↩︎

  49. F. Piemontese, La dottrina del sentimento fondamentale nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1966, p. 89. ↩︎

  50. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 525, p. 308; n. 535, p. 311. ↩︎

  51. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, o. c., vol. I, nn. 554, p. 562. ↩︎

  52. M.T. Cicerone, Academica, QQ. IV, X. (cfr. l’edizione Halis Saxorum 1776), cit. in: A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, nota (3), p. 97. ↩︎

  53. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 1988, n. 138, p. 97. ↩︎

  54. G. Rossi, Sentimento fondamentale, in Enciclopedia filosofica, Sansoni, 2ª edizione, Firenze 1967, vol. V. ↩︎

  55. Ibid., n. 138, p. 103; n. 525, p. 308. ↩︎

  56. Ibid., n. 537, p. 312. ↩︎

  57. In riferimento alla critica del Rosmini a Fiche, cfr. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, nn. 72-74, pp. 66-67; n. 80, p. 73. Come scrive C. Iamartino, «è chiaro che il Rosmini è preoccupato di salvare la sostanzialità dell’anima di fronte alla posizione fenomenistica del Fiche» (C. Iamartino, L’essenza dell’anima umana come sentimento sostanziale in A. Rosmini, Rivista Rosminiana, fasc. IV, Anno LVII, Ottobre-Dicembre 1963, p. 267. ↩︎

  58. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 529, p. 309. ↩︎

  59. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 91, p. 77. ↩︎

  60. Come l’essenza è la forma ideale dell’essere, così la sostanza si rapporta al modo reale. Questa distinzione tra essenza e sostanza richiama quella di S. Tommaso tra essenza ed esistenza. ↩︎

  61. F. Piemontese, La dottrina del sentimento fondamentale nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1966, p. 99. ↩︎

  62. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 129, p. 94. ↩︎

  63. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 136, p. 96. ↩︎

  64. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, Ms. p. 79. ↩︎

  65. Si veda a tal proposito l’analisi che conduce F. Piemontese, La dottrina del sentimento fondamentale nella filosofia di A. Rosmini, o.c., pp. 111-112. ↩︎

  66. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo II, Città Nuova 9/A, Roma 1988, n. 1022, p. 252. ↩︎

  67. Tuttavia è possibile anche il contrario, secondo le precisazioni contenute nel Sistema filosofico e poi anche nella Teosofia: l’essenza dell’essere come soggetto e la sua realizzazione come predicato: «l’analisi della percezione presenta queste due forme: l’ente è realizzato in questo sentimento, e questo sentimento è l’ente. Or nella prima forma il predicato, cioè la realizzazione, ossia il sentimento, non è ente conosciuto che si prende diviso dal resto della proposizione, e se non è conosciuto non esiste ancora come elemento del giudizio. Nella seconda forma non è conosciuto il soggetto se si divide dall’intera proposizione, e perciò, di nuovo, non è elemento del giudizio. Dunque anteriormente alla percezione gli elementi del giudizio non esistono, ma l’un d’essi è creato dalla percezione stessa. Quindi nell’Ideologia abbiam detto che la percezione è quella che crea il subietto del giudizio; ed egualmente si potrebbe dir essere quella che crea il predicato, perocché la percezione analizzata egualmente s’esprime in quelle due forme, nella prima delle quali è predicato ciò che nella seconda è soggetto» (A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo V, Città Nuova 16, Roma 2000, n. 2541, p. 442).

    La ragione di questa convertibilità in base alla quale il soggetto diviene predicato e viceversa, consiste nel fatto che si tratta di un giudizio d’identità. A proposito di dell’identità tra l’essenza dell’essere e il sentimento: cfr. A. Rosmini, Sistema filosofico, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, n. 50, p. 244; nn. 23-28, pp. 230-233. ↩︎

  68. A. Rosmini, Sistema filosofico, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, p. 242. ↩︎

  69. A. Franchi, La teoria del sentimento fondamentale in Antonio Rosmini, Rivista Rosminiana, fasc. I, Anno XLIX, Gennaio-Marzo 1955, p. 39. ↩︎

  70. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, o. c., vol. II, n. 338, p. 369. ↩︎

  71. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo V, Città Nuova 16, Roma 2000, n. 2541, pp. 441- 442. ↩︎

  72. Sull’idea dell’essere, cfr. F. Evain, *L’idée d’être comme condition a priori de possibilità de la perception intellectuel dans le *Nuovo Saggio**, Rivista Rosminiana, Anno LVI, Gennaio- Marzo 1962, pp. 3-21. ↩︎

  73. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, n. 339, p. 369. Si veda a proposito della percezione intellettuale originaria il cap. 3 del testo di F. Evain, Être et personne chez Antonio Rosmini, Édition Beauchesne et Università Gregoriana editrice, Paris 1981, pp. 95-113. ↩︎

  74. Si veda ad esempio quel testo della Psicologia in cui il Nostro dice che la «percezione razionale non si estende, se non solo al sentimento animale» (A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 265, p. 146); mentre poco più avanti si dice che l’uomo ha «la percezione immanente di tutto l’intero sentimento fondamentale» (A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 306, p. 160). ↩︎

  75. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 264, p. 146. ↩︎

  76. Ibid., n. 291, p. 156. ↩︎

  77. Ibid., n. 291, p. 156. ↩︎

  78. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 75, p. 68. ↩︎

  79. Sul principio d’individuazione che consiste nell’atto della realità o sussistenza degli enti reali, il che equivale a dire che il principio di individuazione è la stessa realità dell’essere, cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 785, pp. 434-435; nota (9), p. 435. ↩︎