La banalità del male cinquanta anni dopo. Il Ponzio Pilato dell’Olocausto fedele alle massime kantiane

Come ammonisce Elie Wiesel, «il pericolo è normalizzare l’Olocausto», non rammemorarlo alle generazioni passate e insegnarlo a quelle venture; è così che si lascia cadere la portata di tale evento in un vuoto spazio temporale. Il rischio, dunque, è la dissoluzione storica, processo che inevitabilmente porterebbe via con sé il senso stesso della vita umana.

L’importanza della memoria, come ciò che moralmente rende dovuta dignità alle vittime e storicamente istruisce sugli errori compiuti e da non ri-perpetrare, è quanto un’altra nota personalità del mondo ebraico ha puntualmente evidenziato nel secolo scorso: Hannah Arendt — cittadina americana ma di origine tedesca e di religione ebraica — testimone attiva e parlante della propria storia, costantemente impegnata sul fronte di una capillare comprensione politica e filosofica dell’essenza del totalitarismo e che conciliò il forte senso di ingiustizia, dispersione e rabbia personali con il più forte e sentito senso di responsabilità sia individuale che collettiva, cioè politica. Proprio questa “chiamata” la condusse come reporter del New Yorker ad assistere, a partire dall’11 Aprile 1961 a Tel Aviv, al processo che vedeva come imputato Adolf Eichmann.

Ma chi era quest’uomo dall’apparenza tanto esile e innocua? Occupandosi dell’emigrazione forzata degli ebrei, attraverso l’organizzazione logistica del traffico ferroviario, Eichmann divenne uno degli uomini che determinò l’avvento dell’ Olocausto; è questo ruolo che gli valse il titolo di criminale di guerra e in quanto tale venne perseguito. La prima occasione per fare i conti con la giustizia si presentò con il processo di Norimberga (1945), appuntamento però eluso grazie ad una fuga in Argentina che durò dieci anni. Sotto il falso nome di Riccardo Klement, Adolf Eichmann tentò un nuovo inizio mistificando le proprie origini, tradite però da alcune affermazioni del figlio che, lasciandosi andare a confidenze con una sua giovane amica, svelò le idee antisemite della propria famiglia e il vero nome del padre. Tali rivelazioni giunsero presto ai servizi segreti israeliani che, dopo lunghi preparativi, misero in atto nella completa segretezza il sequestro e il trasferimento di Eichmann in Israele — luogo che nello stesso anno divenne scenario, per la prima volta nella storia, di un processo a un criminale nazista chiamato a rispondere del ruolo ricoperto durante il Terzo Reich.

Tale evento rappresentò per l’opinione pubblica tutta l’occasione per confrontarsi a sangue freddo con “l’incarnazione del male totalitario”, occasione raccolta prontamente dagli intellettuali del tempo come imperdibile appuntamento per fare i conti con un evento senza precedenti vissuto come un’interruzione storica, uno strappo irreversibile alla dignità umana.

I cinquant’anni dal processo all’ex ufficiale delle SS non offre oggi solo una dovuta occasione commemorativa1 ma anche un evento concreto con il quale misurarsi e fare i conti nuovamente; esso apre ad un’opportuna riflessione tanto sul dato storico, che vide 6 milioni di ebrei morire perseguitati dal regime totalitario nazista, quanto parimenti ad un’indagine sul reale senso filosofico che sembra aver veicolato Eichmann alla scelta della propria e, come vedremo, del tutto personale, condotta morale.

Per meglio comprenderne le dinamiche il riferimento alla ricerca di Hannah Arendt sembra imprescindibile; parallelamente ad una ricostruzione storica, sociologica e antropologica, l’autrice condusse un’attenta indagine filosofica sul dato psicologico della personalità di Eichmann; l’evidenza di tali appassionate e originali ricerche sono riscontrabili nel testo dell’autrice che più esplicitamente si collega all’ex ufficiale delle SS: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), trascrizione fedele dei momenti di maggior rilievo storico-filosofico del processo, in cui si assiste a un’evidente revisione contenutistica e filosofica del pensiero dell’autrice sul concetto di male totalitario, definito qui come «banale» e dunque in aperta dissonanza con l’interpretazione resa nel 1951 e contenuta nell’opera di matrice storico-politica Le origini del totalitarismo, in cui la Arendt lo definì «radicale»; a riguardo scriveva:

Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento, della smania di potere della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell’odio non sono più «umane» agli occhi dei loro carnefici, così questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana.2

In una lettera a Gershom Scholem datata 24 Luglio 1963 invece affermava:

Hai completamente ragione: ho cambiato idea e non parlo più di «male radicale». […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande come un fungo.3

Che cosa è cambiato? come può un male «assoluto, impunibile e imperdonabile» passare da «radicale» a «banale»?

Durante il processo, man mano che gli atroci eventi commessi dai nazisti venivano ri-attualizzati sotto lo sguardo fermo del mondo, la Arendt prese sempre più coscienza di un dato sconcertante: la “totale assenza di pensiero” e la fragile immagine da «criminale burocrate» di Eichmann, accusato di bestialità in apparenza tanto, troppo più grandi di quello di cui sarebbe sembrato capace. Tale dissonanza si fece pressante e richiedeva attenzione; in sua funzione l’autrice cambiò idea, ritornò sulle affermazioni di dieci anni prima e le corresse alla luce di un vigliacco «Ponzio Pilato», ostinato nell’imporre la sua presenza qualunquista in un barbaro scenario dal quale si dichiarava moralmente estraneo. Dunque Eichmann rappresentante di un male «banale», puro vuoto e non «radicale», radicato, pieno. Il passaggio dicotomico arendtiano costò molte critiche all’autrice — tacciata, tra le varie accuse, di non amare il popolo ebraico — perché sembrava attenuare le colpe del criminale nazista.

Facendo un breve passo indietro, si noti come fra i dati emersi durante il processo, due risultarono particolarmente significativi al fine di far luce sulla personalità e il movente delle scelte morali di Eichmann ed entrambi vennero puntualmente trascritti e indagati da Hannah Arendt. La prima circostanza riguarda la descrizione che Eichmann rese del proprio ruolo “emotivo” in merito alla conferenza di Wannsee (quartiere berlinese) tenutasi nel 1942, dove i massimi esponenti del nazismo — i «papi del Terzo Reich», come Eichmann li chiamava — presero la scelta di procedere con la “soluzione finale”. In questa occasione l’ex ufficiale nazista ammise di essersi sentito come «Ponzio Pilato», ovvero come colui la cui coscienza è finalmente al riparo da rimorsi o rimproveri di sorta perché, prendendo atto che ad optare per le scelte più atroci e irreversibili furono altri — contro i quali la sua sola volontà, a dir suo, nulla avrebbe potuto — si sentì emotivamente sollevato da qualsivoglia responsabilità e poté proseguire il proprio lavoro come un semplice esecutore di comandi dettati da cariche superiori, e per questo indiscutibili.

«Il discorso sulla coscienza di Eichmann»4 fu appassionato oggetto di studio per Hannah Arendt che, nel cap. VII di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, così descrive il ruolo dell’ora criminale di guerra:

Quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su “una soluzione così violenta e cruenta”. Ora questi dubbi furono fugati. “Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi più illustri, i papi del Terzo Reich. ” Ora egli vide con i propri occhi e udì con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la “sfinge” Müller, non soltanto le SS o il partito, ma i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa “crudele” operazione. “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa. ” Chi era lui, Eichmann, per erigersi a giudice? Chi era lui per permettersi di “avere proprie idee”? […] Così la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni.5

La linea difensiva stessa poneva l’accento sul tratto passivo del ruolo di Eichmann, presentato più come un fedele esecutore di ordini indiscussi che come uno spietato e consapevole assassino. Tale approccio, però, non lo salvò dalla condanna a morte, avvenuta per impiccagione nel carcere di Ramla il 31 maggio 1962.

L’altra importante affermazione di Eichmann che da una lato contribuì a meglio delineare i connotati della sua personalità, ma che d’altro canto rese il suo caso ancor più contraddittorio, fu quando egli ammise, durante l’istruttoria, «di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere».6 Sotto richiesta del giudice Raveh, Eichmann precisò la sua affermazione chiosando: «Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali»;7 come la Arendt evidenzia nel cap. VIII di La banalità del male è fondamentale fare una precisazione: «Eichmann rivelò […] che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che non poteva far nulla per “cambiare le cose”».8

Nonostante ciò Eichmann, come l’autrice stessa fa notare, non ammise mai esplicitamente di aver distorto, durante «questo periodo di crimini legalizzati dallo Stato»,9 la formula kantiana a tal punto da farla divenire piuttosto «agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese»,10 rendendola così più simile all’«imperativo categorico nel Terzo Reich»11 espresso con estrema chiarezza da Hans Frank: «Agisci in maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe».12

La distanza tra l’imperativo categorico così come Kant lo intese, rispetto a come Eichmann lo fece proprio risiede nella fonte della legge: essa per Kant derivava dalla ragion pratica, mentre per Eichmann dal Führer-Befehl [ordine del Führer]; è proprio questo che fece di Eichmann “un cittadino ligio alla legge”, come la Arendt lo definisce e intende. Per Kant «ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la “ragion pratica” ciascuno trova i principi che potrebbero e dovrebbero essere i principi della legge»;13 per Eichmann, invece, «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce».14 Tutto ciò è sicuramente la riprova del fatto che Eichmann lesse Kant, ma che, nonostante ciò, non ne comprese il reale senso, dato che l’etica kantiana si basa sulla facoltà di giudizio dell’uomo, capacità che esclude l’obbedienza cieca praticata, invece, con estrema puntualità da Eichmann.

Durante il processo la Arendt prese dunque atto di un’ulteriore urgente questione che il confronto con la personalità di Eichmann faceva emergere ex novo, oltre al più evidente e già rilevato problema morale delle criminose azioni commesse dai nazisti in generale durante il Terzo Reich; tale questione è quella legata al male e al suo rapporto con il pensiero, o la sua assenza. La domanda attorno alla quale l’autrice sviluppa la sua indagine è la seguente: può il pensiero rappresentare un deterrente a farci compiere il male e perché? È rintracciando la risposta arendtiana a tale domanda che si comprende meglio il suo cambiamento d’opinione sul male e se ne identificano i mezzi proposti per difendersene.

È importante rilevare la distinzione arendtiana tra malvagità (wickedness) e male (evil), intesi come le due forme di male esistenti; concentrandosi sul secondo tipo la pensatrice scrive:

Il problema che ci interessava, qui, non era la malvagità, con cui da sempre la religione e la letteratura cercano di fare i conti, ma il male (evil); non era il peccato, non erano i grandi malfattori che sono diventati eroi negativi della letteratura, agendo di solito per invidia o per risentimento, ma il chiunque non malvagio che nel suo comportamento non è mosso da ragioni particolari e proprio per questo è capace del male infinito.15

Qui l’autrice parla di un male banale che si avvale tanto dell’obbedienza e del collaborazionismo, quanto del rispetto dell’autorità politica; è dunque pericoloso pensare la morale nei termini di comandi e di obbedienza. La Arendt giunge, così, a criticare la tradizione filosofica per non aver riconosciuto la malvagità umana, rilevando proprio come la nozione di «banalità del male» vada «in direzione opposta a quanto asserito dalla nostra tradizione di pensiero — letteraria, teologica o filosofica».16 Essa, infatti, da Socrate a Kant, ha ritenuto «impossibile per l’uomo compiere il male deliberatamente, volere il male per amore del male»17 rendendo, così, incomprensibile agli occhi degli uomini la pura e semplice malvagità18 che nulla ha a che vedere con i soliti moventi passionali o egoistici, infatti qui l’autrice intende precisare come «il fenomeno di certi atti cattivi, commessi su scala gigantesca, che non si potevano addebitare ad una particolare malvagità, patologia, convinzione, ideologia del malfattore, ma il cui tratto distintivo era semmai una scarsa personalità».19 L’esperienza totalitaria mostra, quindi, come in essa certi uomini non si interroghino su ciò che fanno perché seguono fedelmente un ordine (attraverso l’obbligazione e l’obbedienza) sul quale non si pongono alcuna domanda. È esattamente qui che la Arendt inserisce il riferimento a Socrate: contro il rischio totalitario l’autrice gioca la carta del pensiero critico che a sua volta apre al giudizio.

La storia del XX secolo mostra con evidenza che ciò che separa coloro che hanno commesso il male da coloro che se ne sono astenuti è la capacità di mantenere, o meno vivo il dialogo con se stessi; a riguardo l’autrice scrive:

I non partecipanti furono coloro la cui coscienza non funzionò in un modo, per così dire, automatico: come se si disponesse di un complesso di valori appresi o innati da applicare al caso particolare così come ci si presenta, in modo che ogni nuova esperienza o situazione viene a essere già preventivamente giudicata, e noi abbiamo bisogno di manifestare se li abbiamo imparati o ce ne siamo appropriati prima. A mio avviso, il loro criterio fu del tutto diverso: essi si chiesero fino a che punto sarebbero stati ancora capaci di vivere con se stessi dopo aver commesso certe azioni; e decisero che fosse meglio astenersi, non perché così il mondo sarebbe stato poi migliorato, ma semplicemente perché sola a questa condizione avrebbero potuto continuare a vivere con se stessi. […] Più brutalmente: essi rifiutarono di uccidere non tanto perché ligi al comandamento «Non uccidere», ma perché non disposti a vivere con se stessi come assassini.20

Ciò che in questo passaggio si riscontra con forza ed evidenza è la eco della coscienza morale, quell’«io» che mi osserva e condanna in caso di azioni ingiuste, ereditato dal fondatore della morale secolare Socrate; come accennato, è proprio a lui che la Arendt chiede aiuto per identificare una soddisfacente soluzione al problematico rapporto fra il male e il pensiero (o la sua assenza), aperto dal caso Eichmann. Non è inusuale per la costruzione del sistema di pensiero arendtiano il riferimento a un «modello», un «compagno»21 che possa aiutare a sciogliere le aporie contenutistiche dettate da nuovi problemi come, appunto, quello del male posto in essere dal regime totalitario nazista durante la seconda guerra mondiale; non c’è dunque da stupirsi nell’osservare l’esplicito accostamento da parte dell’autrice del pensatore greco, preso a modello per la vita condotta all’insegna della riflessione conoscitiva e del giudizio, a Eichmann, suo estremo opposto in termini di atteggiamento mentale, votato piuttosto all’obbedienza cieca verso leggi ritenute indiscutibili e dunque incarnante l’esempio di colui che vive la vita privandosi, per scelta, dell’esercizio dello spirito critico.

Il contributo di Socrate è prezioso grazie alla sua costante ricerca sull’esperienza stessa del pensare che nulla ha a che vedere con la formulazione di dottrine; l’autrice ne presenta il triplice ruolo, come pensatore critico, in La vita della mente (1978):

Dunque Socrate, tafano, levatrice, torpedine, non è un filosofo (non insegna nulla e non ha nulla da insegnare) né è un sofista, poiché non pretende di rendere gli uomini sapienti. Egli si limita semplicemente a mostrare loro che non sono sapienti, che, in realtà, nessuno lo è. […] D’altra parte, egli pretende che l’apparizione in Atene dell’attività del pensare e dell’esaminare, da lui rappresentata, costituisca il bene più grande che mai fosse toccato in sorte alla Città.22

È quindi come un «tafano» pungolante che Socrate stimola lo sviluppo dello spirito critico dei suoi concittadini attraverso l’uso del pensiero ma, allo stesso tempo, li paralizza come una «torpedine», affinché questi si aprano all’esperienza del pensiero; in ultimo il pensatore greco è come una «levatrice» in quanto non propone dottrine o contenuti di pensiero ma, piuttosto, interrogando i singoli individui fa sì che essi giungano da soli a riappropriarsi di quel sapere che, a loro insaputa, già gli apparteneva (Menone 85d, Teeteto 192d).

Eliminando, dunque, ciò che «di cattivo è in noi»,23 Socrate apre alla possibilità del giudizio;24 ciò significa per la Arendt prendere concretamente le distanze da quella filosofia che interpreta il pensiero «secondo il modello della verità».25 L’obiettivo del pensiero non è, infatti, quello di raggiungere la verità26 quanto quello di insegnare a distinguere il bene dal male e di rendere inabili al conformismo sviluppando, piuttosto, la capacità di giudizio personale. A tal fine l’autrice evidenzia come Socrate abbatte «le regole di condotta vigenti in una data epoca e in una data società»27 ritenendole superflue espressioni della consuetudine che, senza essere più discusse, si seguono meccanicamente; esattamente all’opposto si pone il pensiero che è per eccellenza anti-conformista infatti esso «non crea valori, non scopre una volta per tutte che cosa è bene, e non conferma ma semmai dissolve le regole consolidate di comportamento».28

Liberandoci dal conformismo e dall’obbedienza, dunque, il pensiero può condurci al giudizio e cioè alla capacità di distinguere il bene dal male, a mettere in discussione tutto ciò che ci si presenta come ovvio in qualunque circostanza; questa facoltà è l’unica che può proteggerci da tante catastrofi.29

Il giudizio, però, arendtianamente si concretizza solo con il sostegno di alcune indispensabili condizioni come, prima fra tutte, la comunità politica, e dunque pubblica, che crea lo spazio necessario in cui l’uomo, inteso aristotelicamente come uno zoon politikon, può concretamente prendere coscienza del suo essere nel mondo con altri e di conseguenza sviluppare la propria capacità di discernere il bene dal male in tutte le circostanze; l’altro presupposto necessario per la possibilità del giudizio è il “pensiero rappresentativo”, inteso come l’unico modo di far convivere le differenti opinioni esistenti, frutto della pluralità che contraddistingue il mondo. Ne consegue che maggiori sono i punti di vista presi in considerazione, maggiore sarà la rappresentatività del giudizio espresso:

Più punti di vista riesco a includere nella mia mente quando considero una certa questione, e più riesco a immaginare come mi sentirei e come penserei se fossi nella loro posizione, più alta sarà la mia capacità di pensare rappresentativamente e più valide saranno le mie conclusioni finali, la mia opinione.30

L’autrice, sotto l’influenza della Critica del Giudizio di Kant, evidenzia la congiunzione che intercorre tra il pensare rappresentativamente e la facoltà di immaginazione che, unitamente, danno vita ad una «mentalità aperta», altra condizione essenziale per l’esercizio del giudizio politico. In altre parole, la condizione di validità dei nostri giudizi risiede in una «mentalità aperta» ottenuta attraverso il pensiero rappresentativo e l’immaginazione. È perciò di fondamentale importanza includere l’altro nel nostro atto giudicante affinché la loro umanità non venga rimossa dalla storia umana, inoltre la mentalità allargata è intesa come l’antidoto nei confronti dei crimini contro l’umanità, tipicamente caratterizzati da assenza di pensiero e quindi di giudizio, come nel caso di Eichmann.

L’indagine della Arendt era diretta verso l’identificazione di un pensare che fosse in grado di orientare a una resistenza morale al male, nella direzione di un giudicare che si discosti il più possibile dagli imperativi; non a caso proprio l’argomento del male e di tutti i rischi e le nefaste conseguenze che esso comporta in seno all’ambito politico è la sottile linea rossa che collega l’intera opera dell’autrice che non ci indica che cosa pensare ma come pensare; il suo intento, infatti, non era quello di individuare una teoria politica che guidasse l’azione, ma che potesse, piuttosto, spronare tutti gli uomini a farsi giudici, autonomi iniziatori sociali consapevoli, così, del corretto modo di stare al mondo.

In ciò si può intravedere l’umanismo della pensatrice che, pur non negando la tragicità della condizione umana, riserva evidenti aspettative ottimistiche sulla capacità dell’uomo di giudicare, di farsi inventore di nuove soluzioni e di agire insieme agli altri uomini.

Dunque la risposta arendtiana all’esperienza totalitaria, in cui si vide doppiamente coinvolta, sia individualmente che collettivamente, e a cui dedicò gli studi di una vita per rintracciarne un posto tanto nella coscienza, per rendere tale fenomeno più accettabile al senso comune, quanto nella storia, al fine che tali «situazioni di emergenza»31 non si ripetano mai più, è una “politica del giudizio” che ammonisce a vigilare responsabilmente sulla condizione socio-politica del proprio paese, non rinunciando mai alla libertà di pensiero, azione e giudizio.

Ma il male compiuto dai nazisti durante il Terzo Reich è stato davvero interiorizzato, cioè accettato e, se così si può dire, in qualche modo “risolto” dai suoi testimoni ed eredi? Se ciò è avvenuto, quali mezzi sono stati usati? Hannah Arendt già nel 1951 emanava il primo bollettino d’allerta riferendosi al regime totalitario:

Quando i sistemi monopartitici, da cui esso si è sviluppato, sono diventati veramente totalitari, hanno cominciato ad operare secondo una scala di valori così radicalmente diversa da ogni altra che nessuna delle categorie tradizionali, giuridiche, morali o del buon senso, poteva più servire per giudicare, o prevedere, la loro azione.32

Secondo l’autrice la difficoltà di comprensione dei crimini nazisti si moltiplicano se a essi si intendono applicare le consuete categorie giuridiche usando, per esempio, il linguaggio dicotomico ordinario di «crimine» e «criminale»: «l’inadeguatezza delle categorie legali si manifesta nel linguaggio della “responsabilità personale” presupposto della legge criminale. Gli esecutori solitamente si considerano “degli ingranaggi nel meccanismo dello stermino” che hanno eseguito il lavoro di uccidere “solo in quanto professionisti, senza passione o perversa volontà”»;33 questi sono i motivi che portarono la Arendt a ritenere che quando sono tutti colpevoli nessuno può essere giudicato.34 Sull’argomento della colpa dei nazisti e di come essa si sarebbe dovuta “risolvere” o punire, è interessante ricordare, inoltre, il concetto di «colpa metafisica» (oltre a quella politica, morale e criminale) elaborata da Karl Jaspers, intesa come frutto dell’infrazione del principio di solidarietà tra gli uomini; se quest’ultima non viene rispettata, secondo il filosofo, la propria appartenenza al genere umano viene fortemente messa in discussione.35

Anche Primo Levi condivideva l’idea arendtiana dell’impossibilità di servirsi della morale comune per comprendere ciò che era avvenuto per mano dei nazisti ma, come sostiene Simona Forti nel saggio Banalità del male, si può supporre che Levi abbia superato la Arendt nella ricerca della verità: egli, infatti, nell’opera I sommersi e i salvati (1986), proponeva un superamento della dicotomia «vittime» e «persecutori» e a riguardo indicava «quella zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura incredibilmente complicata […] di cui la classe ibrida dei funzionari-prigionieri ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante».36 Tali riflessioni evidenziano come al tramonto del fenomeno totalitario si mise in discussione non solo la responsabilità materiale dei carnefici ma anche quella delle vittime stesse.

Probabilmente, per quanto sia moralmente sensato e giusto, la tenacia con cui oggi si avviano nuovi processi a ex-ufficiali delle SS ultra ottantenni,37 è la riprova del fatto che non si è mai deciso con chiara fermezza con quale criterio giudicare i responsabili dell’Olocausto, o che, perlomeno non se n’è soddisfatti; solo dopo il 1945, infatti, con la nascita delle democrazie occidentali, si stabilì la retroattività per i “crimini di guerra”, annullando, dunque, la prescrizione di tali reati anche a distanza di molti anni. Ciò mostra come, ufficialmente, la via scelta per fare giustizia è stata quella giuridica convenzionale, ma che, non avendo mai acquisito una chiara conoscenza del crimine, non se ne potesse stabilire un soddisfacente corrispettivo in punizione.

Dunque, per quanto la lettura arendtiana del male totalitario abbia, seppure sollevando numerose critiche e scandali, contribuito a meglio comprenderne i meccanismi e le dinamiche, ancora oggi ci troviamo a fare i conti con un male senza precedenti, che, come diceva Primo Levi, coinvolge tutti, carnefici e vittime. Ecco spiegato, per esempio, il senso di agghiacciato stupore rinnovato dallo scorgere le stesse fotografie o gli stessi fotogrammi di quel periodo; un simile male senza precedenti, che ha incomprensibilmente e mostruosamente annichilito la dignità umana, non può forse trovare una definitiva spiegazione morale e un preciso e soddisfacente corrispettivo in punizione nemmeno a distanza di secoli; ciò che è alla nostra portata è rammemorare l’accaduto, imparare da esso e seguire i precetti arendtiani: pensare, agire e giudicare responsabilmente, prevedendo le «situazioni di emergenza» senza aspettare il loro tragico manifestarsi.


  1. A Berlino nella mostra «Il processo: Adolf Eichmann davanti al tribunale», inaugurata il 5 aprile 2011 e aperta fino al settembre 2012, è stato possibile visionare le testimonianze più significative del processo, oltre a numerosi filmati dei mass media che all’epoca seguirono il processo; si sono inoltre tenuti incontri con esperti e testimoni dell’Olocausto. ↩︎

  2. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. a cura di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2009, pp. 628-629. ↩︎

  3. Lettera di Hannah Arendt a Gershom Scholem del 24 luglio 1963, in Ebraismo e Modernità, tr. it. a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 227; cfr. inoltre Hannah Arendt, Gershom Sholem, Due lettere sulla banalità del male, I sassi nottetempo, Roma 2007, p. 36. ↩︎

  4. Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. It. a cura di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2003, p. 120. ↩︎

  5. Ivi, p. 122. ↩︎

  6. Ivi, pp. 142-143. ↩︎

  7. Ivi, p. 143. ↩︎

  8. Ibidem. ↩︎

  9. Ibidem. ↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. Ibidem. ↩︎

  12. Ibidem; Cfr. inoltre Hans Frank, La Tecnica dello Stato, 1942, p.291. ↩︎

  13. Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. It. a cura di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2003, p. 143. ↩︎

  14. Ivi, p. 144. ↩︎

  15. Hannah Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali [1971], in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, p.162. ↩︎

  16. Hannah Arendt, La Vita della mente, tr. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1987, p. 83. ↩︎

  17. Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, p. 61. ↩︎

  18. Il termine malvagità viene inteso dalla Arendt anche come forma di sadismo per così dire accettabile, perché non raggiunge i livelli della patologia; Cfr. C. Vallée, Hannah Arendt. Socrate e la questione del totalitarismo, tr. it. F. Fistetti, Palomar, Bari 2006, p.169; inoltre Cfr. E. Y. Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, tr. it. D. Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p.418. ↩︎

  19. Hannah Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali, in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, p. 137. ↩︎

  20. Hannah Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, pp. 217-218. ↩︎

  21. Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, p. 262. ↩︎

  22. Hannah Arendt, La Vita della mente, tr. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1987, p.267. ↩︎

  23. Ibidem. ↩︎

  24. Cfr. Ivi, cit. pp. 288-289. ↩︎

  25. Ivi, p. 97. ↩︎

  26. Per Platone il pensiero ha come fine il conoscere, quindi il sapere, al contrario di quello che pensava Socrate secondo il quale nessuna conoscenza può sostituirsi all’esame critico. ↩︎

  27. Hannah Arendt, La Vita della mente, tr. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1987, p. 271. ↩︎

  28. Hannah Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali, in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, p. 162. ↩︎

  29. Cfr. Ivi, p. 163. ↩︎

  30. Ivi, p. 241. ↩︎

  31. Hannah Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali, in Responsabilità e Giudizio, tr. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2010, p. 163. ↩︎

  32. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. a cura di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2009, p. 630. ↩︎

  33. R. Fine, Comprendere il male. Hannah Arendt e la «soluzione finale», in AA.VV., Ripensare il male. Prospettive contemporanee, a cura di M. P. Lara, Meltemi, Roma 2003, pp. 242-243. ↩︎

  34. Cfr. Hannah Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, tr. it. a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2001, p. 162 ↩︎

  35. Cfr. K. Jasper, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, tr. it. A. Pinotti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 21-22. ↩︎

  36. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007 p. 29]; il saggio di S. Forti è contenuto in AAVV, I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, Biblioteca Einaudi, Torino 2002, pp. 40, 41. ↩︎

  37. L’ultimo processo, in ordine di tempo, che ha visto imputati e poi condannati all’ergastolo, dal Tribunale militare di Verona, sei ufficiali, sottufficiali e soldati della Panzer-Division «Hermann Goering», ebbe inizio nel 2008 e si è concluso il 7 luglio 2011. ↩︎