Teilhard de Chardin: l’unità di spirito e natura come comprensione del senso della storia

1. La provata inutilità del paradigma dualistico

Scienziato, gesuita, mistico e filosofo, Pierre Teilhard de Chardin è l’interprete di un naturalismo che non è solo osservazione di ciò che è il dato visibile della realtà naturale, ma è anche la percezione di un sensibile che nasconde e nello stesso tempo rivela la divinità.

Teilhard de Chardin è lo scrittore, il pensatore, l’instancabile divulgatore di un ideale che da secoli attira le riflessioni di filosofi, teologi e scienziati: il possibile incontro tra fede e scienza, due mondi da sempre lontani, apparentemente irraggiungibili l’uno per l’altro, ma che a ben vedere risultano intrinsecamente uniti. Il centro della loro unione, il Punto Omega, come lo chiama il padre gesuita francese, sta nell’assoluto, che permea di sé ogni cosa, materiale e spirituale, la cui ricerca ha impegnato l’intera vita di Teilhard, sin dalla sua fanciullezza, come egli stesso ama ricordare:

Se, sin dall’infanzia, e da allora con una pienezza e una convinzione crescenti, ho sempre amato e scrutato la Natura, posso dire che l’ho fatto non da scienziato ma da «devoto». In me, forse, ogni tensione, anche se mirante a un oggetto naturale, è stata da sempre una tensione religiosa e sostanzialmente unica. Ho coscienza di avere, sempre e in tutte le cose, cercato di raggiungere un qualche Assoluto. Credo che, per un’altra meta, non avrei avuto il coraggio di agire. Scienza (cioè tutte le forme dell’attività umana) e Religione sono state sempre ai miei occhi una medesima cosa, l’una e l’altra essendo per me la ricerca di uno stesso Oggetto.1

Due sono le opere più importanti di Teilhard: l’Ambiente Divino (1926-27), frutto di una meditazione mistico-ascetica, e il Fenomeno Umano (1938), scritto dal carattere pienamente filosofico, in cui espone la sua teoria dell’evoluzione.

Già, l’evoluzione (o deriva, come spesso preferisce chiamarla). Essa si scopre come il principio ermeneutico della sua filosofia, che aveva scoperto quando aveva poco più di vent’anni, grazie alla lettura dell’Evoluzione creatrice di Henri Bergson, il filosofo nel quale aveva colto un valido sostegno per la negazione della staticità della natura e, soprattutto, per il superamento del dualismo cartesiano. Sono sue parole:

È […] facile indovinare la mia impressione interiore di liberazione e di espansione quando, sin dai primi passi ancora esitanti in un Universo «evolutivo», mi resi conto che il dualismo in cui mi avevano intrattenuto sino allora si scioglieva come la nebbia al sol levante. Materia e Spirito: non già due cose, — ma due stati, due facce di una stessa Stoffa cosmica, secondo che la si guarda o che la si prolunga, nel senso in cui (avrebbe detto Bergson) essa si fa, oppure nel senso contrario in cui si disfa.2

L’esigenza di ricondurre ad unità ciò che Cartesio aveva separato fa di questo autore non tanto un filosofo nel vero senso della parola, qualità questa che non è difficile attribuirgli dopo la lettura del Fenomeno umano, quanto un profondo innovatore, anticipatore di questioni che riguardano da vicino i nostri tempi.

Da più parti, in filosofia come nelle scienze, soprattutto in biologia, si avverte il bisogno di riaprire la questione che Cartesio riteneva di aver definitivamente chiuso con la sua distinzione tra res cogitans ed res extensa. Tornano di attualità problemi quali la natura della mente, la distinzione tra fatti di natura mentale e fatti di tipo fisco, il rapporto tra spirito e corpo, che risalgono all’epoca di Cartesio, ma anche di Leibniz e Spinoza, anche se oggigiorno vengono rivestiti di significati espressi secondo una terminologia nuova, alla luce delle riletture filosofiche e soprattutto degli innumerevoli risultati scientifici, che richiedono un linguaggio avanzato, più specialistico.

In filosofia della mente, ad esempio, la volontà di superare il problema del rapporto mente-corpo e della possibile interazione di questi due mondi, si evidenzia con una intensità tale da far evolvere, anche in spazi di tempo molto brevi, argomentazioni e posizioni interpretative dalle inspirazioni e dagli obiettivi abbastanza variegati, che nella gran parte dei casi, nonostante la comune base di partenza, rappresentata dal volersi liberare della netta distinzione cartesiana, raggiunge come risultato ultimo l’affermazione di un «monismo filosofico» che si regge sul presupposto fondamentale dell’unicità sostanziale del mondo: il reale si caratterizza per la presenza non di due tipi diversi di fenomeni, la mente da una parte e il corpo dall’altra, ma di una sola sostanza. Si potrebbero citare a questo proposito John Eccles, neurobiologo e premio Nobel, che propone l’esistenza di un’anima che Dio attribuisce al feto già dalla terza settimana dal concepimento, ma anche G. Ryle e C.G. Hempel, appartenenti alla corrente materialista del comportamentismo, i quali riducono gli stati della mente a degli schemi di comportamento.

La soluzione del problema che Cartesio riteneva di aver trovato viene oggi da più parti ritenuta inattuale, se non altro perché non vi è più la necessità di trovare un ambito specifico, indipendente ed autonomo per la scienza della natura, che all’epoca del filosofo francese rappresentava invece il principio, il primo passo da cui partire per costruire qualsiasi sistema filosofico e per giungere alle scoperte scientifiche.

Ma per Cartesio tutto ciò era un problema irrimandabile, ed a lui va il merito di aver aperto la strada alla scienza. Oggi però ci si chiede: è ancora utile la soluzione dualistica? È ancora conveniente? A chi ed a cosa giova?

Secondo Hans Jonas, ebreo, allievo di Heidegger e autore di diverse pubblicazioni nell’ambito dell’antropologia filosofica, con la rivoluzione scientifica e l’impostazione del dualismo cartesiano, il pensiero occidentale si è sin qui caratterizzato per la separazione tra uomo e natura, una separazione che spiega lo scarso interesse che si avverte per il mondo circostante e la mancanza di un impegno etico e sociale. Il rapporto tra l’uomo e la natura va ripensato e recuperato studiando biologicamente gli organismi, comprendendo sino in fondo, come mai è stato fatto, il principio della vita, che si manifesta a partire dal mondo organico, che prefigura lo spirito sin dalle sue forme più elementari, per arrivare alle sue manifestazioni più alte, all’uomo.^[3]

Gregory Bateson, sociologo, antropologo, psichiatra, autore del celebre libro Verso un’ecologia della mente, tradotto in tutte le lingue, si oppone strenuamente a quella vasta schiera di scienziati che tentano di «ridurre» ogni cosa alla pura realtà matematicamente osservabile, e introduce il concetto di mente all’interno delle stesse equazioni scientifiche, perché essa è la parte costituente della materia e di conseguenza non ha alcun senso cercare di scindere la mente dalla realtà: «Se noi continueremo — scrive Bateson — ad agire in termini del dualismo cartesiano mente-materia, continueremo probabilmente anche a vedere il mondo in termini di contrapposizioni come: Dio-uomo, aristocrazia-popolo, razze elette-altre razze, nazione-nazione; e uomo-ambiente. È dubbio che una specie che possiede sia una tecnica avanzata sia questo strano modo di vedere il proprio mondo possa durare a lungo».3

Jonas e Bateson scrivono tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del ’900. Il Cuore della Materia, una delle opere teologiche di Teilhard de Chardin, a cui appartiene il passo più sopra riportato, è invece del 1950, anche se c’è da dire che l’immagine di un dualismo che si scioglie «come la nebbia al sol levante» iniziava a farsi viva nella mente di Teilhard già nel periodo della letture evoluzionistiche, quindi agli inizi del secolo. Ciò testimonia il notevole anticipo con cui egli è giunto alle medesime conclusioni degli altri autori appena citati. E l’originalità di Teilhard si fa ancora più evidente se si osserva che egli parte da una posizione teologica, quindi percorre una strada molto più impervia, dove ad accompagnarlo vi è il suo «pensare da religioso», in un ambiente tradizionalista ed «ortodosso» qual è quello ecclesiastico. Vale la pena, per rimarcare questa importante intuizione teilhardiana, riportare un altro passo cruciale de Il Cuore della Materia, che è una sorta di confessione:

Sino a quel momento, per educazione e per religione, avevo sempre docilmente ammesso — per altro senza riflettervi a lungo — una fondamentale eterogeneità tra Materia e Spirito. — Corpo ed Anima, Inconscio e Cosciente: due «sostanze» di natura diversa, due «specie» di Essere, incomprensibilmente associate nel composto vivente. E bisognava ad ogni costo — così mi assicuravano — tener fermo il principio che la prima (la mia divina Materia) era solo l’umile serva (per non dire l’avversaria) della seconda. Quest’ultima (vale a dire lo Spirito) si trovava pertanto ridotta, ipso facto, ai miei occhi, ad essere solo più un’ombra che si doveva certo venerare per principio ma per la quale (emotivamente d intellettualmente parlando) non provavo in realtà nessun interesse vivo.

Questo innaturale, come può essere ogni cosa ricevuta solo per educazione, disagio nel «sentire» il corpo come servo dell’anima viene a cessare nella fervida mente di Teilhard nel momento in cui egli scopre il valore esaltante ed onnicomprensivo dell’evoluzione.

2. L’unità universale come futuro del mondo

A questo straordinario fenomeno è assoggettato l’intero universo. Un unico, inarrestabile movimento di crescita coinvolge tutto, sin dalle più remote tracce di vita sulla terra e fino al graduale perfezionamento degli esseri viventi, della loro struttura corporea e cerebrale. L’universo è dinamicamente proteso verso il futuro; la sua è una continua novità, un inarrestabile progredire che investe il mondo vivente ma anche quello non vivente, nella sua totalità. Con competenza scientifica e rigore logico Teilhard scrive:

Da qualche tempo gli astronomi fanno questione di un Universo in via di espansione dell’Immenso. In maniera altrettanto scientifica, e con un sovrappiù di verità, perché non parlare di un Universo in corso di avvolgimento nel Complesso? I due modi di vedere (perfettamente conciliabili fra di loro) sono, sia l’uno che l’altro, precisamente oggettivi e puri rispetto a qualsiasi finalismo indebito. Ma il secondo, così sembra, si spinge molto più lungi e più in profondità del primo. Se infatti l’espansione esplosiva della Materia nello Spazio ci può istruire sulla distribuzione delle galassie e delle stelle, di contro un processo di complessificazione e di centrazione del Tessuto cosmico su se stesso ci consente di seguire e di registrare, per mezzo della crescente granulazione di questo tessuto, la correlativa ascesa della interiorizzazione, vale a dire dello psichismo, nel Mondo. Ora, questo spostamento simultaneo nell’Organico e nel Conscio ha buone possibilità di essere il movimento essenziale e specifico dell’Universo.4

Due sono dunque le direzioni in cui evolve l’universo: lo spazio e la complessità biologica. L’evoluzione, però, non rimane una realtà di tipo biologico e zoologico perché è di una portata immensa, è un’invasione del «tutto».

A nulla valgono, sostiene Teilhard, e qui sta la sua vera e convinta adesione al programma della scienza, i tentativi dei «conservatori» che continuano a considerare i naturalisti responsabili di una «teoria perversa» come quella riguardante l’evoluzione. La fisica nucleare, la fisica siderale, la chimica «sono adesso e sempre maggiormente evolutive, a loro modo s’intende. E almeno altrettanto lo è l’intera storia della civiltà e delle idee».5

Le diverse tappe che la storia biologica dell’universo ha attraversato sono descritte nel Fenomeno umano, il capolavoro di Teilhard de Chardin. La prima di queste tappe è la Previta (o Cosmogenesi), comprendente un periodo lunghissimo che dall’origine dell’universo si è protratto fino alla comparsa della vita, in cui si ebbe la formazione degli atomi che, raccogliendosi in enormi quantità, diedero origine alle stelle e, attraverso queste, grazie all’energia prodotta dalle reazioni di fusione atomica, alle molecole che diedero vita ai pianeti vita, molecole che da semplici divennero sempre più complesse fino a formare quelle organiche, da cui derivarono per condensazione le prime forme viventi.

La Vita (o Biogenesi) rappresenta la seconda tappa e comprende il periodo che dalla comparsa della vita va a quella dell’uomo.

Il tema dell’apparizione della vita affascina molto Teilhard, al punto da spingerlo verso una elaborazione di concetti e interpretazioni veramente attuali. Teilhard sosteneva ciò che noi oggi sappiamo con certezza, e cioè che ogni sostanza di cui una cellula è composta avrebbe una sua autonoma esistenza anche a prescindere dall’esistenza della cellula. Ogni sostanza, infatti, esisteva nella Previta e può essere riprodotta per via artificiale anche in laboratorio. Ciò che fa nascere la vita è l’organizzazione delle sostanze in modo da assumere la capacità di autoesistere nello scambio con l’esterno.

Quella del vivente, al contrario di quella del non vivente, è un’esistenza aperta, nel senso che l’essere vivente è in un continuo rapporto con l’esterno. La caratteristica primaria del vivente sta nella «straordinaria complessità» degli elementi su cui è strutturato e nella capacità di mantenerli costanti anche al variare dell’ambiente esterno. Nella cellula, dunque, nella sua complessità, risiede il segreto della vita. In essa «a un tempo così una, così uniforme e così complicata, è in definitiva la Stoffa dell’Universo che riappare con tutte le sue caratteristiche».6

Proseguendo nell’analisi della storia biologica del mondo, Teilhard individua una terza tappa, quella del Pensiero (o Noogenesi, indicando col termine «noosfera» l’insieme di tutti gli esseri intelligenti che popolano il pianeta Terra). Qui Teilhard si diverte ad arricchire il discorso con valutazioni ed elementi di giudizio che gli provengono dalla sua formazione paleontologica. Si sofferma, infatti, sulla misura della grandezza del cervello dell’uomo, che è andata via via crescendo dall’Australopithecus, che aveva una capacità cerebrale di 500 centimetri cubi, fino all’Homo sapiens, che può contare su ben 1500 centimetri cubi di cervello. È proprio questa capacità cerebrale dell’uomo attuale che permette la nascita del pensiero, la cui caratteristica fondamentale non è la conoscenza che, anche se in forme diverse, è presente negli altri animali, ma la capacità all’autocoscienza, alla riflessione, al «sapere di sapere».

Il pensiero autocosciente dà vita alle diverse culture umane, da cui scaturisce un’ulteriore processo evolutivo che conduce alla quarta ed ultima tappa, la Supervita. Essa rappresenta lo stadio finale raggiunto dall’unione dei cervelli, consisterà in un mondo sempre più integrato e, come le cellule che unendosi e raggiungendo un certo grado di complessità diedero vita al cervello, così le persone, organizzate ed integrate, daranno origine ad un mondo sempre più unito ed omogeneo, al punto di trasformarsi nella pienezza dell’amore di Dio.

Sta in questa unità tra gli uomini, dunque, il futuro del mondo. All’uomo non resta che favorire questa unità, attraverso il dialogo, l’abbraccio con la natura. Una scelta contro natura dell’uomo non può avere alcun senso, perché va contro il divenire della storia, che trova il suo compimento definitivo nell’amore unanimemente condiviso, il Punto Omega. Dio è dunque l’esito finale dell’evoluzione, un Dio che non è un’entità impersonale o distinta dal mondo, ma una «superpersona», un «superamore» mescolato con esso, che «sintetizza la folla degli altri amori della Terra».

Teilhard, come si può notare, pone Dio non tanto all’inizio quanto alla fine della storia dell’universo, come apice di attrazione di tutta la realtà, ed è cosciente di farlo da un punto di vista cristiano, anche se riconosce, e qui vi è una grande apertura intellettuale del teologo di Clermont-Ferrand, che l’idea di «un vero ego al vertice del mondo», volto a «consumare, senza confonderli, tutti gli ego elementari della Terra», è condivisa dalla cultura laica («compie pure altrove il suo cammino»), come afferma in L’avvenire dell’uomo:

Non è forse Camus che ha scritto in Sisyphe che «se l’uomo riconoscesse che l’Universo è capace di amare, egli sarebbe riconciliato»? E non è forse Wells che fa esprimere al suo interprete, il biologo umanitario Steele (Anatomy of Frustration), la nostalgia di trovare, al di sopra e al di là dell’uomo, qualche «Universal Lover»?.7

L’aspetto forse più importante che la visione teilhardiana della storia fa emergere è questa «spiritualizzazione progressiva della Materia», che si spiega con la prefigurazione di un Punto Omega come compimento e sintesi di tutti gli enti del mondo, il quale progressivamente si unisce con Dio, che diventa il «Dio tutto in tutti», come è scritto nell’Ambiente Divino, l’opera che mostra un universo «mosso e compenetrato da Dio nella totalità della sua evoluzione». La spiegazione del divino non in rottura con il mondo fisico, ma in unione con esso, è un dato che ci è possibile registrare abbastanza semplicemente, una realtà che balza dinanzi ai nostri occhi nel momento in cui serenamente riflettiamo sui rapporti «sconcertanti» che intercorrono tra lo spirito e la materia:

Se c’è un fatto ben stabilito dall’esperienza, è quello — scrive Teilhard — secondo cui più uno psichismo è elevato, presso tutti i viventi che conosciamo, più esso appare legato a un organismo complesso. Più l’anima è spirituale, più il suo corpo è molteplice e fragile […]. Mi è parso che, lungi dall’essere una relazione paradossale o accidentale, essa potesse tradire la costituzione segreta delle cose. Invece di considerarla una difficoltà, un’obiezione, l’ho trasformata nel principio stesso di spiegazione delle cose.8

L’ipotesi della presenza di «Dio tutto in tutti» non poteva non provocargli qualche problema sul piano dell’ortodossia. L’accusa più «naturale» che gli si poteva muovere, e gli fu effettivamente mossa, fu quella di essere panteista.

Verso questo non trascurabile problema, però, Teilhard dimostra sin dal suo sorgere quella sicurezza tipica di chi riesce a presagire le immediate conseguenze delle proprie teorie e sa quindi prevenire in tempo eventuali «difficoltà d’interpretazione». Nell’ultima pagina del Fenomeno umano, infatti, egli non esita ad affermare che se, a proposito della sua dottrina, di panteismo si deve per forza parlare, è bene che lo si giudichi come un panteismo legittimo:

Se, in fin dei conti, i centri riflessi del mondo non costituiscono effettivamente altro che «uno con Dio», tale stato si ottiene non per identificazione (Dio che diventa tutto), ma per azione differenziante e comunicante dell’amore (Dio tutto in tutti), il che è essenzialmente ortodosso e cristiano.

Più che una precisazione, per così dire, «forzata», frutto cioè della cautela da parte di un Teilhard che tutto voleva tranne che urtare la suscettibilità ecclesiastica, salda com’era la sua fede cristiana, questo sembra un voler rimarcare la coerenza del suo pensiero anche sul piano della fede. Non a caso egli usa parecchio l’espressione ambiente divino, con cui addirittura intitola una delle sue opere più significative. L’ambiente divino è il mondo, la realtà naturale e materiale (una delle frasi celebri dell’autore è: «la materia è lo sgabello di Dio»9), che è interamente pervaso, penetrato, non solo illuminato (la luce divina «non è la superficiale sfumatura che una sensibilità elementare può cogliere»10) dall’amore di Dio, così da trasfigurarlo in lui. Il mondo, per Teilhard, «traspare» in Dio, e questa trasparenza del mondo in Dio (diafanìa) ha un significato mistico di gran lunga superiore alla presenza di Dio nel mondo (epifanìa).

3. Il ritorno alla natura e il richiamo alle filosofie rinascimentali

Il Fenomeno Umano, l’opera a cui Teilhard tiene di più, è quella non solo dell’incontro del «corporeo» con lo «spirituale» e col «divino» ma anche dell’affermazione dell’amore, di cui va considerata la valenza sentimentale, accanto, però, alla sua presenza effettiva nella realtà biologica, e non limitatamente all’uomo.

L’amore, secondo Teilhard, va visto e sentito «nel suo dinamismo naturale e nel suo significato evolutivo», come «affinità dell’essere per l’essere», che è proprietà generale di ogni vita e «a questo titolo assume la varietà e i gradi di tutte le forme successivamente presentate dalla materia organizzata».11

Qui affiorano significative analogie con le filosofie naturalistiche rinascimentali, visibili, se si vuole, già negli influssi panteistici che tanto riecheggiano l’impostazione bruniana della vita-materia-infinita. D’altra parte, l’avere individuato nel superamento del dualismo cartesiano la base di partenza per l’apertura di nuove possibilità all’uomo di portare avanti il suo cammino di comprensione di se stesso e della sua storia, ha finito per indurre Teilhard, non si sa se consapevolmente, alla riscoperta di un patrimonio di ideali e valori che hanno preceduto Cartesio e che si richiamano alla corrente filosofica del naturalismo rinascimentale.

Il tema dell’amore, tanto caro a Teilhard de Chardin, richiama insistentemente l’interpretazione di Tommaso Campanella, anche se non è l’unica argomentazione del padre gesuita che in una qualche misura rinvia ad un aspetto dell’indagine filosofica dell’autore della Città del Sole.

Non si sa se Teilhard abbia mai letto Campanella. Il suo grande interesse per la natura e l’esigenza da lui fortemente avvertita di superare il dualismo cartesiano, che ha separato l’uomo dal suo ambiente, conducendolo gradualmente verso una posizione di dominio sulla natura, fa pensare a qualche simpatia del pensatore francese verso la scientia naturalis del Rinascimento inaugurata da Bernardino Telesio, se non altro per la riscoperta del valore dell’unità inscindibile dell’uomo con la natura, una natura che, secondo i naturalisti rinascimentali, proprio in virtù dell’unità, era capace di vivere, sentire, creare.

Del resto, la stessa questione cosmologica, verso cui Teilhard si mostra profondamente sensibile, appare come un forte richiamo alle teorie di Telesio ma anche di Bruno. L’enorme attrazione verso il millenario problema dell’origine dell’universo, della potenza e dell’immensità del creato non può non accomunarlo a questi pensatori, e perché no, anche a filosofi ed ai cosmologi precedenti, quali Cusano, Ficino e Pico della Mirandola. È ovvio, comunque, che l’elaborazione di tematiche come queste è basata su un bagaglio di conoscenze scientifiche imparagonabile a quello che si poteva possedere tra ’400 e ’500. Ed è inutile precisare che tra Cusano e Teilhard vi sono secoli di conquiste in campo scientifico, logico e matematico tali da rendere vano un eventuale raffronto tra i rispettivi modelli di studio della natura.

Ad ogni modo, leggendo il Fenomeno umano, ma anche qualche passo delle opere minori, immediatamente vengono in mente immagini che si ha la sensazione di aver già visto descritte da qualche parte, con lo stesso «pathos», la stessa energia intellettiva. Immagini ed emozioni che con Teilhard ritornano prepotentemente, a distanza di trecento anni, per riprendersi lo spazio che forse troppo in fretta e ingiustamente era stato loro sottratto.

Molti sono gli spunti che permettono di evidenziare un parallelismo tra la riflessione di Teilhard e quella di Campanella, che preparò il terreno al Galilei, nella cui coscienza il calabrese, insieme a Telesio, fu presente «nella sua funzione limitata, ma essenziale, di distruttore delle vecchie impalcature della filosofia tradizionale».12

Teilhard de Chardin considerava l’amore come «una proprietà generale di ogni vita», ossia di tutto ciò che si presenta come «materia organizzata». Ebbene, per Campanella l’amore rappresentava una delle primalità (le altre due erano la potenza e la sapienza, tutt’e tre imprescindibilmente legate) che permea di sé ogni ente della natura. È dato riscontrare l’amore in ogni cosa di questo mondo.

Nella Metaphysica, un’opera in diciotto libri del 1638, Campanella scrive che tra tutti gli enti, sia quelli tradizionalmente considerati viventi che quelli privi di vita, vi è come un reciproco sentimento di attrazione e repulsione tale da far pensare che l’amore sia dappertutto: «l’antipatia e la simpatia di tutte le cose dimostrano chiaramente che in esse tutte si trova l’amore».13

Una tale concezione è figlia di un panvitalismo di fondo che caratterizza il pensiero campanelliano, sostenuto soprattutto nell’opera Del senso delle cose e della magia (1636), che è una sorta di compendio del pensiero del filosofo calabrese. Qui egli afferma che tutto «sente», anche il fuoco, l’acqua, le pietre, tutti «sentono», altrimenti il mondo sarebbe solo caos, «perché il fuoco non andaria in alto, né l’acqua al mare, né le pietre caderieno in giù, ma ogni cosa dove fusse posta si rimarrebbe, non sentendo la sua destruzione tra contrarii, né la conservazione tra simili».14 Anche i pianeti possiedono la capacità di sentire. La luna, ad esempio, sente perché «gonfia li mari e fa varie mutanze con varia luce; e le cose umide sentono più quell’effetto che le secche. Il sole fa le mutanze ordinarie e grandi, ma la luna queste picciole, col calor blando gonfiando e non attenuando, e da queste antipatie e simpatie del mondo senso e consenso esserci si prova».15

A parte gli animali, dei quali è più facile comprendere la qualità del sentire, Campanella riconosce l’attitudine ad amare anche nelle piante, che nascendo, nutrendosi, crescendo, facendo figlioletti e semi come gli animali, si può osservare come siano accomunate da profonda amicizia e, come accade per gli esseri dotati di sistema cerebrale, anche da inimicizia. Scrive Campanella, attingendo al patrimonio di conoscenze acquisito da fanciullo dalla cultura contadina calabrese:

Di più ci è amicizia e nemicizia tra loro, perché li cavoli sono nemici delle viti e si struggono stando insieme; e chi non vuole imbriacarsi, con succo di cavoli bevuto vince e attuta il vapor del vino. I lupini sono nemici delle gelse, l’ulive sono amiche delle mortelle, e bene allignano insieme le viti con l’olmi. E si vede con quant’arte fa le mani ogni flessibile pianta per legarsi con la sua amica; e l’edere fan le barbe e si ficcano dentro le scorze delle quercie.16

Neanche ai metalli e alle pietre è preclusa la possibilità di fare amicizia, poiché «ogni cosa che si nutrisca tira a sé il nutrimento, non d’ogni sostanza e qualità, ma di quella che ad essa è simile, e rifiuta il contrario, anzi vomitano gli escrementi il ferro e il rame, onde più si comprova il loro senso; ma la calamita, che al polo tira, ci fa prova di gran senso, e così il ferro che a quella s’accosta e muove».17

Un’altra importante analogia tra Teilhard è rappresentata dalla concezione del fuoco come principio dell’universo, origine e fine di ogni cosa.

Quello di Teilhard è un vero e proprio inno al fuoco. È bene però premettere che in merito a questo argomento traspare limpida l’ispirazione eraclitea, che si manifesta in particolar modo nell’attribuzione al fuoco di una sorta di «razionalità cosmica», che è una caratteristica propria della divinità. Nell’Inno dell’Universo, Teilhard parla di un fuoco che è «al di sopra del Mondo» e «nel Mondo», come principio sovrano e fonte inesauribile di vita. Ecco due dei passi più significativi:

Il Fuoco: siamo dominati dall’illusione tenace che questo principio dell’essere sorga dalle profondità della Terra, e che la sua fiamma si accenda via via lungo la brillante scia della vita […] In principio, non vi era freddo, non vi erano le tenebre. In principio, vi era il Fuoco. Ecco la Verità […] Il Fuoco ha compenetrato la Terra. Non è caduto fragorosamente sulle cime, come il fulmine nella sua violenza. Ha forse bisogno di sfondare la porta il Maestro che vuole entrare nella propria casa? Senza scossa, senza tuono, la fiamma ha illuminato tutto dall’interno. Dal cuore dell’atomo più infimo all’energia delle leggi più universali, essa ha invaso, uno dopo l’altro e nel loro insieme, ogni elemento, ogni meccanismo, ogni legame del nostro Cosmo in modo così naturale che questo, potremmo credere, si è spontaneamente incendiato.18

Ancora, con riferimento questa volta alla morte, Teilhard, scrive:

Essa ci farà subire la dissociazione attesa. Ci porterà allo stato organico richiesto perché si precipiti su di noi il Fuoco divino. In questo modo, il suo nefasto potere di decomposizione e di dissolvimento verrà captato in vista della più sublime delle operazioni della Vita. Ciò che per natura era vuoto, lacunoso, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità di Dio.19

Così invece Campanella, nella Metafisica, rendendo superflua ogni ulteriore analisi comparativa:

Il mondo è stato creato non per caso, ma da Dio; non dall’eternità ma dall’inizio del tempo; non da una materia preesistente o dalle rovine di un altro mondo, ma dal nulla; ed esso si dovrà dissolvere per mezzo del fuoco.20

Tra i tanti messaggi che l’opera di Pierre Teilhard de Chardin ci ha lasciato, ce n’è uno di cui più degli altri si ode ancora una profonda eco, quello dell’abbraccio rinascimentale tra uomo e natura.


  1. P. Teilhard de Chardin, Il mio universo, in La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra (1916-1919), il Saggiatore, Milano, 1970, p. 342. ↩︎

  2. P. Teihlard de Chardin, Il Cuore della Materia (1950), Queriniana, Brescia, 1993, p. 51. ↩︎

  3. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000, p. 388. Questo passo comparve per la prima volta in un articolo intitolato «La cibernetica dell’io: una teoria dell’alcolismo», in Psychiatry, 34, I, 1971, pp. 1-18. ↩︎

  4. P. Teilhard de Chardin, Le direzioni del futuro, Sei, Torino, 1996, pp. 206-207. ↩︎

  5. P. Teilhard de Chardin, La visione del passato, Il Saggiatore, Milano, 1973, p. 416. ↩︎

  6. P. Teilhard de Chardin, Il Fenomeno umano, Queriniana, Brescia, 1995, p. 83. ↩︎

  7. P. Teilhard de Chardin, L’avvenire dell’Uomo, Il Saggiatore, Milano, 1972, p. 443. ↩︎

  8. P. Teilhard de Chardin, Science et Christ, Seuil, Pari, 1965, p. 72. ↩︎

  9. P. Teilhard de Chardin, La visione del passato, Il Saggiatore, Milano, 1973, p. 221. ↩︎

  10. P. Teilhard de Chardin, L’Ambiente Divino. Saggio di vita interiore, Queriniana, Brescia, 1998, p. 100. ↩︎

  11. P. Teilhard de Chardin, Il Fenomeno Umano, cit., p. 355. ↩︎

  12. L. Firpo, Relazione al «Congresso storico calabrese», 19-26 maggio 1963, p. 10. Il passo è citato da M. Alcaro in Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 54. ↩︎

  13. Thomae Campanellae, Universalis Philosophiae seu Metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata partes tres, Libri 18, Parisiis, MDCXXXVIII, edizione fototipica a cura di L. Firpo, Torino, 1961, Pars II, l. VI, cap. X, art. I, p. 74, col. 2. ↩︎

  14. Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia, estratti a cura di L. De Franco, Laboratorio Edizioni, Cosenza, 1987, Cap. V, p. 8. ↩︎

  15. Ivi, Cap. VIII, p. 11. ↩︎

  16. Ivi, Cap. XIV, pp. 71-72. ↩︎

  17. Ivi, Cap. XIII, p. 69. ↩︎

  18. P. Teilhard de Chardin, Inno dell’Universo, Queriniana, Brescia, 1992, pp. 11-12. ↩︎

  19. Ivi, pp. 92-93. ↩︎

  20. Thomae Campanellae, Universalis Philosophiae seu Metaphysicarum…, cit., Cap. III del libro XI, titolo dell’art. II. ↩︎