L’ontologia dell’«entre» nel pensiero di Jean-Luc Nancy

Toccare sé, essere toccati direttamente in sé, fuori di sé, senza nulla che si appropri. È la scrittura, e l’amore, e il senso.

— J. L. Nancy, Une pensèe finie

Nell’opera di Jean-Luc Nancy l’ontologia dell’entre parte dal problema a lui caro del toccare. Il problema dell’essere in quanto singolare plurale, entre, è intimamente connesso a quello del toccare. Parafrasando Cartesio Nancy sembra voler dire: «tocco dunque sono».

La genesi del toccare come fondamento dell’essere va cercata nelle origini della filosofia greca, soprattutto in Anassagora1 e in Aristotele. Come sottolinea George Thompson,2 i selvaggi gesticolano abbondantemente e, in molte lingue, se le parole non sono accompagnate da un’efficace articolazione, difficilmente riescono a far capire il proprio significato; le operazioni manuali degli uomini primitivi erano accompagnate in misura proporzionale alla difficoltà riflessa degli organi vocali. Quando la filosofia muove i suoi primi passi con i physiologoi la nozione di essere appare incerta e aporetica. I greci non dispongono di un adeguato apparato lessicale e concettuale per esprimere il senso dell’astrazione; usano soma per indicare il corpo-cadavere e guia per indicare le membra del corpo.3

L’elemento originario appare qualcosa di corporeo, di carnale in quanto la carne esprime la spazialità originaria ovvero la forma in cui l’essere dell’ente perviene al linguaggio: to chreon. Nel più antico detto della storia dell’essere, il Detto di Anassimandro c’è scritto kata to chreon che Heidegger traduce «nominare la presenza stessa e ciò nella misura in cui la presenza determina il presente in quanto tale».4 La carne in quanto kata to chreon è la vera presenza così come essa perviene al linguaggio e al pensiero. A tal proposito Didier Franck scrive:

Heidegger restituisce il primo nome dell’essere alla lingua dalla quale proviene: «In chreon si ha chrao, chraomai, alla cui radice sta cheir, la mano; chrao significa prendo in mano (be-handle) qualcosa, l’avvicino, gli dò una mano. Chrao significa dunque, in pari tempo: mettere in mano, rimettere in mano propria, lasciare in mano propria, affidare ad una appartenenza.5

Il nesso chrao-cheir spiega che l’elemento dell’origine è la carne intesa come mano e, dunque, come tatto. Rimettere in mano significa dunque custodire, far permanere nel tempo to ti en einai e la mano, sia chiusa sia aperta, denota un’apprensione che custodisce. In questa apprensione-custodente si coagula il senso dell’apertura di cui la mano (he cheir) è depositaria. Non c’è possesso ma custodia dell’ente e l’essere è il punto di tangenza tra l’apprensione e la custodia. Secondo Nancy l’essenza della mano toccante non risiede nel possedere ma nel custodire; la mano non prende né possiede bensì custodisce. La mano, nel custodire, entra in una relazione anzi, la relazione stessa è l’essenza del custodire e dunque della mano. Aggiunge Franck:

E se la mano riecheggia nella prima parola dell’essere, non è con, per e a partire dalla mano, dalla carne, che deve essere costruito, abitato, pensato il «luogo in cui l’essere e la sua essenza giungono alla lingua? ».6 Da queste riflessioni si evince che la mano, in quanto espressione di una spazialità originaria è già relazione, esteriorità, trascendenza o, per dirla con Derrida, differenza. In un certo senso la mano in quanto spazialità pura somiglia a chora che Platone nel Timeo intende come luogo, area, madre, nutrice, ricettacolo e che per Heidegger significa «ciò che si separa da ogni cosa particolare, ciò che si sottrae, ciò che ammette, precisamente, in tal modo, qualcos’altro e gli fa posto.7

Ma chora è anche da intendersi chaos da chaino che significa sbadigliare, ciò che si spalanca offrendosi come traccia di una forma-concrezione. Chora è anche il non-luogo di una logica profondamente diversa da quella binaria del sì e del no perché chora non è né sensibile né intellegibile; è piuttosto un luogo in-situabile, che è la condizione del divenire.

La mano-chora è dunque lo spalancamento da cui tutto prende posizione e si riflette ma, al tempo stesso, è un non-luogo nel senso che essa si ritrae al momento in cui le cose prendono forma. Chora è la vera vita o anche ciò per cui c’è senso cosicchè le cose non sono altro che concrezioni, cortocircuiti inerziali di una condizione di senso. La mano-chora descrive forme tangenti che compaiono e scompaiono al tocco come in un caleidoscopico frangersi di lampi di luce colorata che traducono in massa, concrezione la mano-chora.

In un bel libro dal titolo Noli me tangere Nancy dice che la trascendenza del tocco è riscontrabile nella scena in cui Gesù parla per dire all’altro che egli non è là dove lo si crede, ma è già altrove, pur essendo presente; è appunto la scena nota come Noli me tangere. Non toccarmi vuol dire che non si può toccare il toccare cioè non si può toccare la mano nell’atto del toccare perché la mano-chora è il toccare in quanto esperienza di una tangenza in-estatica. Scrive Nancy:

Questo punto è precisamente il punto in cui il toccare non tocca, non deve toccare per esercitare il suo tocco (la sua arte, il suo tatto, la sua grazia): il punto o lo spazio privo di dimensione che separa ciò che il toccare accosta, la linea che divide il toccare dal toccato e dunque il tocco da se stesso.8

Aristotele risponderebbe: «Il continuo è in quelle cose da cui per natura viene fuori qualcosa di unico in virtù del contatto. E una volta che si attui l’unione di ciò che determina la continuità, anche l’intero sarà allo stesso modo uno, come avviene ad esempio, nell’inchiodamento, nell’incollamento, nella giuntura e nell’accoppiamento naturale»;9 il fatto che il continuo viene fuori in virtù del contatto dimostra che il punto di contatto in quanto spazio privo di dimensione non è; lo afferma anche Epicuro: «il mobile si muove su tutta la retta ABC, ma per ciascuno dei minimi privi di parti (elachista) di cui essa è costituita non si muove, ma si è già mosso».10

Il punto di contatto, di tangenza non esiste, non accade perché la mano-chora si è già mossa. Il movimento non è in origine qualcosa di geometrico ma, nella sua essenza è inesteso al pari di un pensiero o di un’emozione. Infatti l’essenza del movimento non consta di singoli movimenti bensì di limiti di movimento e di movimenti già avvenuti.

Siamo in presenza di un problema di natura linguistica perché quando si usa l’avverbio temporale già si vuole far riferimento ad uno stato che non è più presente; per questo motivo il senso del già nell’espressione la mano-chora* si è già mossa*, non deve essere inteso come categoria temporale perché la tangenza del tocco di fatto non avviene, non esiste, è sempre altrove, in una trascendenza. Per questa ragione Nancy sostiene che il toccare è impossibile. L’impossibilità del toccare deriva dalla natura pretemporale dell’entre: l’entre è la relazione e la relazione non è qualcosa di temporale. La presenza del toccare è una presenza pretemporale, semmai più vicina alla spazialità in-estatica della chora.

L’entre è il nucleo di numerosi testi di Nancy, in primis Essere singolare plurale. L’entre è il senso che «comincia laddove la presenza non è pura presenza, ma si disgiunge per essere essa stessa in quanto tale. Questo in quanto presuppone un distanziamento, una spaziatura e una partizione della presenza».11 Il fatto che l’essenza della manifestazione si sveli come entre o differenza ontologica, termine che preferiamo ad assenza, sta a significare che il senso è l’al di là della tangenza.

Che Cristo esorti i suoi discepoli, che vogliono toccarlo per averne dei benefici, dicendo non mi toccate, state lontano da me, è perché il toccare, in senso fisico, distrae rispetto a quello cui il toccare si riferisce: il levarsi del corpo, la sua resurrezione. In un certo senso la morte apre la relazione, colui che muore, parte per un viaggio senza fine.

Nancy sottolinea che «resurrezione non significa rianimazione ma prolungamento infinito della morte che disloca e disinnesca tutti i valori di assenza e di presenza».12 In definitiva la resurrezione insegna a intendere la morte come un’esperienza esistenziale che ci apre al senso della vita perché ci costringe a rimettere in discussione valori ed eventi consolidati dall’abitudine e dal conformismo. D’altra parte il senso c’è laddove c’è spaziatura, partizione, intreccio di tanti mondi — terre, cieli, storie — quanti sono gli aver luogo del senso o i passaggi della presenza.

L’origine del senso è la ripetizione e la ripetizione consiste nel fatto che ciascun individuo, un po’ come la mano-chora è singolare plurale, spazialità, partizione, disseminazione di senso come in un gioco caleidoscopico in cui il senso sta nel far roteare il cilindro per fare forme che si rincorrono in un metonimico rapporto di tangenza e alterità, dove la tangenza non implica, lo ripetiamo, l’esercizio di un possesso. Infatti nella diffrazione c’è una inestaticità della mano-chora (carne la chiamerebbe Henry) che è quel residuo di passività che vive per ricordare che c’è dell’altro, c’è l’altro che rinvia ad un altro, che rinvia a sua volta ad un altro, senza che quest’altro sia se stesso fino in fondo anzi, fino in fondo non è mai se stesso. La ripetizione appare come quell’aggirarsi dell’essere (entre) nel logos fatto di tante parole che cercano di ripetere l’essere senza che questi si situi in esse. L’entre elude le parole e le cose, le sfiora accarezzandole abitando in esse senza appartenervi.

L’origine è in se stessa una relazione di senso che non deve però essere intesa come fondamento perché non si dice mai il senso di ciò che si afferma; il senso è l’oggetto di un’altra proposizione di cui rispettivamente non si afferma il senso. Così facendo si origina una mise en abîme, una regressione infinita del presupposto per la semplice ragione che il presupposto non appartiene all’ordine del senso e del linguistico ma ha una struttura s-fondativa.

Pertanto l’esistenza non può essere una proprietà del Dasein; d’altra parte, del Dasein non può dirsi che vive nella solitudine della propria ipseità dal momento che l’essenza del suo essere è la sua ek-sistenza. L’esistenza in Heidegger ha la natura della fatticità nel senso che presenta una natura contingente, la sua carne, il suo ci. Ma proprio a causa del ci l’esistenza fattizia non può che oltrepassarsi, entrare in relazione, aprirsi. Dunque l’esistenza fattizia esprime la natura relazionale del Dasein.

È proprio su questo punto che si gioca la rottura tra Heidegger e Husserl; l’esistenza non è più, come nel secondo, la sintesi passiva di una coscienza eidetica ma, come afferma Heidegger un sistema di momenti fatti di trascendenze e di rinvii precorritrici della morte. Sebbene il Dasein sia «l’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi siamo. L’essere di questo ente è sempre mio»;13 non c’è dubbio che la natura del Dasein consista nella sua costitutiva trascendenza nell’immanenza; l’al di là del Dasein è il progetto esistenziale, un progetto le cui tappe non sono che manifestazioni accidentali dell’anticipazione della morte. È perché il Dasein può morire in ogni momento che si costruisce il progetto esistenziale. In questo progetto esistenziale il Dasein scopre se stesso come Mit-sein o meglio come Mit-Dasein a testimonianza della sua ontologica struttura relazionale con gli enti intramondani. La natura del Mit-Dasein si esprime nel progetto esistenziale e relazionale di cui la poiesis rappresenta la forma più compiuta perchè priva di condizionamenti accidentali che, invece, si riscontrano nella praxis.

Le pagine che Heidegger dedica al Mit-sein denotano quasi un senso di fastidio verso la praxis rispetto alla poiesis ed ha ragione Edoardo Ferrario nel ritenere che Heidegger consideri la poiesis la forma più elevata di praxis e aggiunge:

Per Nancy la politica (il noi e il cum) si manifesta in ogni rapporto d’esistenza o, meglio ancora, di co-esistenza cosicché l’agire e l’etica non provengono da nulla se non dal semplice fatto d’essere […] Nancy »rifa» la sintassi etica e tutta la grammatica e la topologia ontologica. . In Heidegger la coincidenza tra l’ontologia e il pensiero etico-politico deriva dal fatto che sia l’altro che il con sono compresi nella linea dell’essere essendo «l’essere-gli-uni-con-gli-altri» […] benché Nancy abbia assunto questa espressione come sintagma del proprio lessico, l’essere, l’altro e il con formano, per così dire, i tre capisaldi della sua figura più caratteristica: l’essere-singolare-plurale.14

Se l’essere-altro-con costituiscono l’essenza dell’essere singolare plurale, questo significa che la creazione deve essere cercata nell’ex-posizione dell’esistente cioè nel fatto che l’esistente trascende se stesso, è costitutivamente altro da sé e dalla propria carne o pelle. Secondo Nancy la carne, la pelle è la parte più esterna del corpo e dunque più esposta alla tangenza con gli altri corpi.

Nancy definisce, con un gioco linguistico morfologico-fonetico, l’ex-posizione, l’ex-peau-sition con riferimento alla pelle (peau) che è il luogo di un’impossibile tangenza. L’esposizione della carne, della pelle non significa che essa tocca; abbiamo cercato di spiegare perché il toccare è impossibile. L’impossibilità del toccare deriva da una certa idea di spazialità la cui essenza è la relazione. Nella relazione ci si trova a che fare non con sostanze ma con un’energia rispetto a cui la fisicità della carne costituisce il residuo, la passività pura.

A tal proposito scrive: «Se la creazione è davvero questa ex-posizione singolare dell’essente, allora il suo vero nome è l’esistenza. L’esistenza è la creazione — la nostra — , l’origine e la fine che noi siamo»15 sebbene il noi non abbia una valenza antropocentrica, come del resto anche in Heidegger presso il quale l’espressione Dasein non indica l’uomo in quanto soggetto bensì la realtà umana nella sua costitutiva esteriorità. Questa esteriorità è ciò che rende il Dasein quell’ente la cui natura è quella di interrogarsi sul senso dell’essere a partire da questa originaria tangenza-trascendenza con gli enti intramondani.

Il Dasein esprime già questa alterità, questa sua non chiusura nell’in sé; piuttosto esprime fatticità, alienazione e incarnazione, ha bisogno di questo perdersi non per poi ritrovarsi nell’in sé-per sé dell’Aufhebung hegeliana, perché non c’è ricostituzione di un senso, per quanto inconcluso (a-teles) prodotto da un «cammino della natura verso se stessa» (hodos ek physeos eis physin,16 ma ci troviamo di fronte ad un senso che è già in origine, diffrazione, partitura, tangenza, ex-peau-sition.

Nell’Ereignis l’essere-in-comune mostra se stesso come comunità nel prima del suo costituirsi e anzi viene colto nel modo in cui si precede per potersi costituire. Il contratto sociale è ontologicamente preceduto da una slegatura originaria delle singolarità che dovrebbero sancirlo.

Come può istituirsi un contratto se prima non c’è una forclusione, una delegazione di singolarità immerse costitutivamente nella pluralità di tangenze e relazioni dove c’è brusio prima che ascolto, contaminazione prima che comunità? La cooriginarietà del Mit-sein renderebbe necessaria l’originarietà di un Mit-Dasein, ma anche in questo caso la parola origine tradisce la sua stessa natura: come può un’origine consistere in qualcosa? In realtà l’origine non consiste; essa è l’improprio del proprio, è l’essere al suo posto. L’origine è già in ritardo rispetto a se stessa. Per questa ragione Cartesio avrebbe dovuto dire cogito ergo cum piuttosto che cogito ergo sum: infatti Nancy così commenta:

L’evidenza dell’ego sum rimanda costitutivamente e co-originariamente alla sua possibilità in ciascuno dei lettori di Cartesio ed è appunto a questa possibilità in ciascuno di noi, vale a dire a questa co-possibilità, che l’evidenza deve la sua tenuta e la sua forza di verità. Ego sum = ego cum […] Il concetto di singolare implica la singolarizzazione e dunque la sua distinzione rispetto ad altre singolarità.17

Se noi utilizzassimo il linguaggio dell’essere, noteremo che l’essere si dona come singolarità o se vogliamo come materia signata o ecceità intesa come causa, non della singolarità in genere, ma di questa singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa (haec determinate). Questa nozione di singolarità desunta da Duns Scoto è però ben lontana dall’idea di singolarità come colpo, shock, battito, urto proposta da Nancy secondo il quale «bisognerebbe concepire la terza persona del singolare come prima persona. L’essere può dirsi solo in questo modo singolare: “noi siamo”. La verità dell’ego sum è un nos sumus».18

La modernità, che a un pensatore della crisi come Heidegger, appariva come dominata dall’oblio dell’essere, secondo Nancy proietta l’essere-con dalla com-posizione alla dis-posizione, dalla complicità del munus (il dare e il ricevere) alla serialità di singolarità autoreferenziali protese alla ricerca di un edonismo autarchico. Ma è possibile che l’umanità contemporanea, o quel che resta di tale umanità, possa fronteggiare la nuova sfida della dis-occidentalizzazione a partire da questa chiusura dovuta alla sua dis-posizione?

L’evidente difficoltà della cultura occidentale di concepire l’essenza del toccare l’altro, lo isola nella certezza di una presunta superiorità della propria singolarità; la società occidentale ha perso il carattere della bella vita etica della polis greca come pure il carattere del Gewissen (coscienziosità) hegeliano che sta a fondamento dello stato etico. Qual è il progetto su cui costruire lo scenario di un nuovo umanesimo?

Nancy scommette su una nuova forma di socialità che prende il nome di com-parizione: infatti la comparizione è l’orizzonte su cui l’emittente co-appare al ricevente in una semiosi continua di cui la confutazione dialettica costituirebbe il motore. Il puro fuori come il puro dentro scomparirebbero nell’attimo della tangenza-trascendenza. Nancy aggiunge che «la comparizione deve allora significare che l’apparire, ossia la venuta al mondo, l’essere nel mondo è strettamente inseparabile, indiscernibile dal cum, dal con in cui, non soltanto trova il suo luogo e il suo aver luogo, ma anche la sua struttura ontologica fondamentale».19 Dal momento che l’origine è la spartizione, allora ogni ente è la sua stessa singolarità, quella materia signata, materia per l’appunto. Materia è dunque ciò che si spartisce, antitypia, impenetrabilità, durezza.

Ora se la durezza implica il contatto e, dunque, penetrazione fusionale, l’essenza della durezza non sarà a sua volta dura, impenetrabile bensì puro coapparizione. Il corpo si configura nella sua strutturale esteriorità e coappartenenza. L’essenza del corporeo sarebbe il non corporeo che giustifica il noli me tangere; anche il linguaggio, (da Hegel definito il sensibile-insensibile) è il corporeo-incorporeo perché, pur essendo spartizione, frattura, esso fa senso in quanto incorporeo.

Il linguaggio, come l’essere è già il con anche nel senso di conatus, ossia di attitudine, desiderio di dire qualcosa dopo che è avvenuto. Il linguaggio è l’in-ritardo, firma (direbbe Derrida), anzi controfirma, mise en abîme, paradigma della natura intertestuale del linguaggio, del modo in cui il linguaggio non raggiunge mai i fondamenti del reale, oppure li coglie nella misura in cui li manca, perché sempre si riferisce ad altro linguaggio, che a sua volta si riferisce ad altro linguaggio, all’infinito. Ora il linguaggio non è posseduto dall’uomo come fosse uno strumento di cui disporre; al contrario il linguaggio, mediante una contaminazione metonimica e in forza del suo essere-ritardo rispetto all’essere, si nutre di questo essere-con della realtà umana.

Pertanto parlare significa esibire l’essenza del con-esserci a condizione di non voler possedere l’essere come fosse un ente. Si potrebbe dire, con le parole di Agamben che «la poesia vive della morte delle parole».20 Il pensiero totalizzante della tradizione metafisica occidentale nel tentativo di comprendere l’essere, lo afferra e lo possiede riducendolo a ente come se l’ente fosse una sostanza chiusa nella e dalla sua definizione; è così che appare colto nel suo isolamento, nel suo non essere più «con». Il con è prima del me e del se stesso, è un noi, anzi un tra noi, non nel senso di un ente che si associa ad altri enti, oppure di una stanza nella quale si possa entrare.

Il con è l’expeausition del corpo, è quella parte del pensiero sottratto di cui resta solo l’ouverture; il con è la pelle rivolta verso l’esterno, quel toccare a cui sono riconducibili tutti i sensi e che non è mai riconducibile al puro questo: questo è già quello, rapporto, sensualità, quell’erotismo che ci invita a toccare, a denudarci, «la nudità oltre la nudità» di cui parla Bataille e che fa del corpo pura esteriorità, pura alterità. Per questa ragione l’anima appare l’organo senziente la esteriorità del corpo, il sentire il corpo sempre ex-peau-sto, al di fuori di se stesso, sempre in una situazione di compenetrazione. L’opera di Cartesio offre a Nancy la possibilità di riflettere sul rapporto tra anima e corpo superando la dicotomia grazie all’unum quid di un soggetto esposto e attraversato da emozioni e da passioni; questo pensiero di un corpo incarnato, nuda ostensione di un essere nel mondo singolare plurale, riassume l’esperienza della libertà.

Una sorta di fenomenologia dell’essere singolare plurale che, di volta in volta, sperimenta, fa senso grazie a questa esteriorità da cui nasce e si fa l’esistenza come senso; è la morte di Dio come deriva della opposizione tra uomo e dio in quanto l’uomo come volontà di potenza è energia che si contrae nel corpo ma un corpo che è altresì esposizione, esteriorità di una energia come volontà di potenza. Questa energia pulsionale è una spinta verso qualcosa e si struttura in tante pulsioni legate e confuse tra loro; di queste molteplicità il corpo costituisce il filo conduttore. Le pulsioni sono istinti che lottano tra loro allo scopo di prevalere e il corpo organico non è che il prodotto casuale di questo conflitto pulsionale. Scrive Didier Franck:

Gli istinti sono giudizi sul fondamento di esperienze anteriori: non esperienze di piacere e di dispiacere: perché il piacere è prima di tutto la forma di un giudizio di istinto (un sentimento di potenza accresciuta o: come se la potenza si fosse accresciuta). Prima dei sentimenti di piacere e di dispiacere si trovano insomma dei sentimenti di forza e di debolezza. Perciò il dolore corporeo è intellettuale quanto il piacere ed è legittimo considerare il corpo pulsionale come un sistema di giudizi di piacere e di dolore… . La localizzazione del dolore, che equivale alla sua riduzione, è dunque proprio un processo difensivo.21

Le sensazioni, sebbene appaiano isolate, di fatto non lo sono mai; esse sono sempre l’epifenomeno di un fenomeno sinergico e comunitario in cui concorrono essenzialmente rapporti di forza e di potere. La malattia diventa per Nietzsche la condizione trascendentale di un pensiero genealogico-decostruttivo perché mina la monoliticità dello spirito mostrando la fragilità della sua incarnazione.

Il dolore della malattia diventa la traccia di questa fragilità dell’essere che urla la sua finitezza toccando e perdendosi in altre finitezze in una danza di reciproche tangenze. Il dolore si configura come un cortocircuito di queste tangenze e come l’interruzione del fare senso, un po’ come quell’intruso che turbando il silenzio degli organi, fa baccano, rompe un equilibrio, la ritmica sinuosa delle tangenze, per essere esso stesso (l’intruso) una nuova tangenza e accingersi a produrre un nuovo senso.

Il dolore è l’incommensurabile, l’impenetrabile durezza dell’oscurità del senso, è lo spaesamento, il fallimento del logos e del principium individuationis. La cognizione del dolore diventa allora lo sguardo sul nulla come il cieco nel dipinto di Antoine Coypel che muove le braccia prolungandole in avanti come a proteggersi e a cercare un orizzonte su cui organizzare il cammino. È per questo che le lacrime

dicono qualcosa dell’occhio che non ha nulla a che vedere con la vista a meno che non la rivelino velandola. Sono le lacrime e non la vista l’essenza dell’uomo. L’accecamento che copre l’occhio non è quello che oscura la vista. L’accecamento rivelatore, l’accecamento apocalittico quello che rivela la verità stessa degli occhi sarebbe dunque lo sguardo velato dalle lacrime.22

Le lacrime sono il sintomo del dolore, toccano l’occhio e gli impediscono di vedere, offuscano la vista; ma proprio in questo offuscare la vista espongono il corpo costringendolo ad adattarsi allo spazio cosicché lo spazio si fa mondo perché riproduce il ritmo esistenziale, facendo esistenza, facendo senso. Le lacrime, l’occhio, il corpo sono l’aperto ma, affinché ci sia apertura, è necessario che ci sia qualcosa di chiuso.

Tuttavia ad essere chiuso non è il corpo bensì una massa; perciò bisogna distinguere tra il Körper e il Leib. Il Körper è la massa racchiusa su di sé, substantia o anche hypokeimenon di Aristotele, il Leib è il corpo vivente che fa senso. A questo proposito Nancy scrive: «c’è sempre una folla di corpi, non c’è mai una massa di corpi. Laddove c’è una massa di corpi, non ci sono più corpi e laddove c’è una massa di corpi c’è un carnaio».23 Il discorso sul corpo mette in gioco il discorso sull’incorporeo perché quando il singolare, per sua natura, tocca un altro singolare, crea un cortocircuito del senso, perché il toccare è come una scossa che produce una interruzione del flusso di energia e di senso; si tocca una certa interruzione di senso.

Quando Aristotele dice che l’anima è la forma del corpo che ha la vita in potenza, sta ammettendo che l’anima è il corpo fuori di sé, ossia il corpo nell’esercizio delle sue funzioni; un corpo che non funzionasse, diremo che è un corpo senz’anima. Questo ci fa capire che l’anima è il fatto che il corpo fa senso in quanto entelechia. È il corpo inteso come attività, energeia, il corpo colto nel suo sentire, nel suo desiderare, nel suo trascendersi, nel suo porsi tra le cose, nel suo essere-tra-le-cose. Che il corpo esiste lo si apprende grazie all’anima; che il corpo esista in quanto estensione, esposizione significa che, grazie all’anima, il corpo apprende che è in gioco la sua natura relazionale e che il corpo stesso apprende se stesso in quanto tocca dal di fuori, cosicché Nancy può dire: «la pelle è questo. È attraverso la mia pelle che io mi tocco. E mi tocco dal di fuori, non mi tocco dal di dentro. Bisogna prima di tutto che io sia un’esteriorità per toccarmi, e ciò che tocco resta fuori».24 L’intruso è il fuori che il mio corpo tocca e che resta dentro di me nel tentativo di vivere nel silenzio degli organi.

Quell’intruso che entra nel nostro corpo vuole coabitare e vivere con gli altri organi senza toccarli o, toccandoli leggermente e assimilandosi a essi. Il senso della metabole aristotelica come movimento qualitativo di accrescimento/diminuzione significa che l’intruso vuole accasarsi senza disturbare il silenzio degli organi che esistono nella misura in cui espletano la propria funzione senza che l’uno disturbi l’altro, pur complicandosi reciprocamente; ma se io sento il mio cuore che batte, lo sento grazie ad un fuori del mio corpo che è, per l’appunto, l’anima.

Quest’anima consiste nel pensiero che sente e che, per sentire, deve toccare la cosa estesa; che il pensiero tocchi la cosa estesa significa che la cosa estesa esiste e fa senso in quanto il pensiero la sente; l’ego cartesiano esiste in quanto tocca la cosa estesa. Quindi la natura dell’ego è corporea cioè l’ego è l’idea del corpo, non l’idea astratta. Non esiste l’idea astratta, esiste solo l’idea incarnata sentita dall’ego: «il corpo è l’ego che si sente un altro ego»,25 è la singolarità del tocco nel suo essere attivo/passivo, toccante/toccato, anzi la partizione tra il toccante e il toccato.

Gli stoici chiamavano tonos il fatto che il corpo avesse una tensione, cioè l’attitudine a realizzare la propria natura facendo esperienza di un sentirsi, di un toccare sé. Sentirsi di toccare non è, propriamente un toccarsi perché si può toccare una cosa ma non l’esperienza del toccare. Quindi l’essenza del toccare è l’intoccabile. Fare esperienza del toccare significa fare esperienza dell’intoccabilità degli effetti che il toccare produce. Per esempio le e-mozioni sono movimenti che provengono «e-» da, come le com-mozioni sono movimenti che avvengono con cioè movimenti che provengono e avvengono con il corpo; non è l’anima ad emozionarsi o a commuoversi bensì il corpo in quanto Leib, in quanto totalità organica a produrre emozione. L’anima è la capacità del corpo di emozionarsi e di commuoversi; l’anima è il corpo che sperimenta il suo esser fuori ed emozionarsi nella sua esposizione.

Cartesio sostiene che, in primis, c’è un unum quid e che la distinzione anima/corpo è successiva rispetto ad unità originaria. Che anima e corpo siano una sintesi unitaria è attestato dalla esperienza di vita quotidiana. Nella lettera che Cartesio scrive a Elisabetta di Boemia il 28 giugno del 1643 si dice: »Esiste una sola persona che ha assieme un corpo e un pensiero, dimodochè questo assieme permetta che il corpo si faccia sentire nel suo pensiero e il pensiero si faccia motore del corpo».26 Nancy commenta che l’ego sum-cogito pensa attraverso le idee avventizie che si riferiscono ad un mondo esterno del quale il dubbio metodico opera una sospensione del giudizio.

Ma il punto critico non è l’oggetto, bensì questa intenzionalità dell’ego sum-cogito che è proiettato verso un’esteriorità, un’alterità irriducibile all’incorporeo, quasi un Anstoss fichtiano, un urto rispetto a ciò che è diverso da sé e irriducibile a sé. L’es-tensione è la tensione-che-viene-da, la contingenza di questo ego sum-cogito che, essendo unito al corpo, lo sente muoversi, e-mozionarsi, com-muoversi. L’unum quid è quella sintesi di corpo-e-com-movente che l’anima sente e riconosce. L’estensione è dunque il fatto che l’ego sum-cogito pensa, cioè sente il movimento del corpo. La natura relazionale del ego sum-cogito e della estensione mette in gioco il toccare perché il pensiero urta, cioè tocca la propria alterità. Come potrebbe il pensiero pensare qualcosa se questo qualcosa non si ponesse come sua es-tensione?

Quando Nancy dice che il pensiero tocca l’impenetrabile sta cercando di spiegare che l’estensione è impenetrabile, cioè presenta una natura completamente diversa rispetto alla natura del pensare-sentire. Quando Spinoza dice che Dio è l’insieme degli infiniti attributi e che, tuttavia, l’uomo può conoscerne solo due: il pensiero e l’estensione, sta dicendo che, dal punto di vista di Dio, ossia dal punto di vista di una conoscenza sub specie aeternitatis, non c’è distinzione tra pensiero ed estensione; il conoscere intensive di Dio trascende e precede la distinzione tra pensiero ed estensione. In Dio tutto è intensivamente ordinato, cosa che, invece, nell’uomo non è possibile se non attraverso la conoscenza degli infiniti modi finiti organizzati attorno ai modi infiniti di intelletto-volontà e moto-quiete degli attributi pensiero-estensione. Il fatto che Spinoza dica che non esista errore nella conoscenza ma solo minore o maggiore adeguatezza, vuol dire che, in prospettiva l’uomo tende a risalire a quel tipo di conoscere unitario capace di colmare la frattura di pensiero e estensione.

Noli me tangere è, quindi, un’invocazione e una preghiera a non cortocircuitare il senso, a non interrompere il senso profondo del sentire, non accontentarsi dell’urto, della contingenza, ma di abitare la partizione, quello spazio sacro di opportuna distanza dove i corpi si sfiorano e si avvertono, si sentono nella nudità dell’es-peau-sizione. Nell’amore c’è l’esatto opposto di quanto accade nel mito platonico dell’androgino: non già ricerca di un’unione e di un’empatia perduta ma, scrive Nancy, «presa senza assimilazione né lacerazione. C’è corpo l’uno nell’altro e l’uno all’altro senza incorporazione né decorporazione. “Amore” significa il prendersi (la melée) di due che eludono tutte le trappole dell’uno».27 Nell’amore il contatto si esplica nella forma della presa dell’entre, senza assimilazione non c’è contatto ma esposizione del corpo che espone il suo dentro e, nella nudità questo dentro si espone sempre di più cosicché Nancy può affermare che «il mondo è l’espansione dell’esposizione».28 Pertanto i corpi restano, fra loro, stranieri perché esprimono un fuori incolmabile, una estraneità e, paradossalmente, in questo fuori si genera un dentro che è in realtà l’entre stesso.

Infatti l’anima, come forma del corpo è l’entre inteso come il singolare plurale, un dentro che è il dentro del fuori, ossia il fuori che per essere assolutamente fuori si essenzializza diventando e formandosi come anima. Il senso dell’unità risiede nella dispersione di corpi che nell’ecceità, condividono il loro fra e il loro con, vicini e mischiati senza risoluzione.

I corpi sono differenze-differanti, stranieri gli uni agli altri, intrusi o, forse, semplicemente, desideri: esseri come desideri, come pulsioni. È per questo che Nancy riprende la celebre affermazione di Lacan: «Il godimento è impossibile»29 per cui l’unione sessuale non c’è dal momento che l’esserci esprime una sostanzializzazione di qualcosa che, in realtà, mette in gioco l’entre, il fra di due corpi che desiderano e si espongono l’un l’altro senza possedersi per cui il godimento non è l’esibizione di un possesso ma la rappresentazione di un entre che è impalpabile e ineffabile. Il rapporto non è qualcosa, è, per l’appunto rapporto, dunque azione che avviene tra essenti, ma di per sé, il rapporto non è essente bensì rinvia all’altro e se ne separa, per cui, in questa separazione-rinvio si consuma l’unità.

Il rapporto sessuale rinvia al tra, esso deve aprire lo spazio, il senso non per raccogliere ma solo per rapportare. Il sessuale è la propria differenza perché si esplica tra due corpi che sono il singolare plurale; il c’è del rapporto sessuale dovrebbe poter sostituire alla copula il con; a questo proposito Nancy scrive:

La copulazione è il «con» (co-) di un legame, di un collegamento (apula, da apio) come il coito è il «con» di un andare (ire), di un andare-e-venire il cui movimento, l’approssimazione-distanziamento, il toccare-ritrarre costituiscono propriamente (o fondano, o strutturano, significano, simbolizzano, o attivano, come si vuole) il co- stesso che non è niente in sé, nient’altro che il rapporto, nient’altro che il vacillare dell’identico o dell’uno in sé.30

Con questa espressione Nancy sembra voler dire che il sesso è la spaziatura dell’intimità, cioè la sua espansione, la sua es-tensione al punto in cui questa si fa esteriorità nel corpo, nella pelle. Il piacere sessuale costituisce l’eco di una vibrazione che si attua nella tangenza di due corpi e, siccome la tangenza è, innanzi tutto e per lo più, rinvio, esteriorità, allora il tocco non esiste dal momento che non è esprimibile: il piacere sessuale, il godimento è il porsi stesso dell’entre o, anche il fatto che il godimento è irrappresentabile nella sua eccessività; il piacere sessuale è l’ineffabilità dell’eccesso di tensione, di desiderio. Quando il desiderio si radicalizza, si fa differenza sessuale cioè reciprocità di una es-tensione di un’intimità (da intus, il più interno) in un gioco infinito che è, appunto il godimento, che esalta la tangenza del toccarsi-te di due sessualità diverse.


  1. Aristotele, de part. anim. Delta 10 10.687 a.7 «Anassagora dice che l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani — ma è ragionevole dire che ha le mani perché è il più sapiente. Le mani, in effetti, sono uno strumento e la natura, come un uomo sapiente, dà ogni cosa a chi può usarla». Galen, de usu part. III 5 Kuhn. Come l’uomo è il più sapiente dei viventi, così anche possiede le mani che sono strumenti adatti ad una creatura sapiente. Non perché ebbe le mani è il più sapiente, come dice Anassagora, ma in quanto era il più sapiente ricevette le mani, come afferma Aristotele, dando un giudizio esatto della questione. ↩︎

  2. G. Thomson, I primi filosofi, Vallecchi, Firenze, p. 19. ↩︎

  3. B. Snell, I greci, Einaudi, Torino 1984, p. 28. ↩︎

  4. M. Heidegger, Il detto di Anassimandro in Holzwege, La Nuova Italia, Firenze 1985, p. 248. ↩︎

  5. D. Franck, Heidegger e il problema dello spazio, Ananke, Torino 2006, p. 188, d’ora in poi citato HPS↩︎

  6. HPS, p. 190. ↩︎

  7. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, pp. 76-77. ↩︎

  8. J.L.Nancy, Noli me tangere, Bollati Boringhieri, 2005, p. 25 d’ora in poi NMT. ↩︎

  9. Aristotele, Phys. 227°, pp. 10-17. ↩︎

  10. Themist., in Aristotele phys. Paragraph., V 2 184 11-28 (=278). ↩︎

  11. J-L. Nancy Essere singolare plurale, Einaudi Torino, p. 67 d’ora in poi ESP. ↩︎

  12. NMT, p. 47. ↩︎

  13. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, p. 64 d’ora in poi ET↩︎

  14. Edoardo Ferrario, L’ontologie désœuvrée de Jean-Luc Nancy, in G. Berkman, D. Cohen-Levinas (a cura di), Figures du Dehors. Autour de Jean-Luc Nancy, Cécile Defaut, Nantes 2012, pp. 83-100. ↩︎

  15. ESP, p. 57. ↩︎

  16. Aristotele, Fisica, Laterza, Bari-Roma 2007, p. 37, d’ora in poi F↩︎

  17. ESP, p. 57. ↩︎

  18. ESP, p. 57. ↩︎

  19. ESP, p. 57. ↩︎

  20. Giorgio Agamben, Introduzione alla Poetica del fanciullino di Pascoli, Feltrinelli, Milano 1983, p. 15. ↩︎

  21. Franck Didier, Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos, 2009, p. 147, d’ora in poi NOD↩︎

  22. J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, pp. 24-25, d’ora in poi MC; si tratta di un dipinto dal titolo L’errore nel quale il cieco non cerca qualcosa in particolare ma implora l’altro, l’altra mano, la mano che soccorre, la mano caritatevole, la mano dell’altro che sembra voglia promettergli la vista. ↩︎

  23. Jean Luc Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, Torino p. 67. ↩︎

  24. Jean Luc Nancy, Ego sum, Bompiani, Torino, 2008, p. 70 d’ora in poi ES↩︎

  25. ES, p. 76. ↩︎

  26. ES, p. 86. ↩︎

  27. ES, p. 111. ↩︎

  28. ES, p. 112. ↩︎

  29. Jean Luc Nancy, Il c’è della relazione sessuale, SE, Milano 2002, p. 13; d’ora in poi CRS↩︎

  30. CRS, p. 30. ↩︎