Prognosi del globicidio. Il «secondo» Günther Anders e le ombre della tecnica

A chi non spera né dispera da instancabile curioso nel mondo nuovo là dove la luce ci attende ogni dì.

1. Circoscrizione del testo preso in esame

Quando l’orizzonte scompare allora spunta l’orizzonte della scomparsa.

— Kamper

Il presente elaborato mira a porre in rilievo la posizione del filosofo Günther Anders (Breslavia 1902 — Vienna 1992) nei confronti della tecnica e dei suoi effetti sull’uomo espressa nel secondo volume de L’uomo è antiquato.^[1]

Se a onor del vero tale posizione di Anders è già contenuta nel primo volume del 1956 sottotitolato Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, è di certo interessante notare gli sviluppi del secondo volume scritto ventiquattro anni dopo a partire proprio dal sottotitolo: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale. È piuttosto palese, in questa semplice suggestione, come quei ventiquattro anni fra il primo e il secondo volume non solo non abbiano affatto smussato l’inquietudine di Anders nei confronti della tecnica, ma quanto questa, invece, si sia evidentemente inasprita. È lo stesso Anders che in sede d’introduzione ci chiarisce il nuovo orizzonte critico:

Nel 1956 ho dato al primo volume il sottotitolo: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale. Era, fin d’allora, una sottovalutazione […] Infatti la produzione di macchine per mezzo di macchine non è più l’eccezione, ma la regola.1

Se di fatto nel primo volume il passaggio da prima a seconda rivoluzione industriale era inteso come passaggio dall’introduzione della produzione di macchine attraverso altre macchine al punto per cui artificialmente vengono prodotti anche i bisogni, nel secondo volume ci troviamo di fronte al compimento di questo passaggio, ovvero «la terza rivoluzione industriale», l’età della «produzione irreversibile», dove «non solo ciò che si può fare si deve fare, ma anche ciò che si deve fare è ineluttabile».2

Addentrandoci maggiormente nell’area semantica e concettuale dell’autore, possiamo permetterci di dire che il passaggio fra seconda e terza rivoluzione industriale è lo svolgimento del dominio della tecnica sull’uomo dall’epifania del dislivello prometeico (I volume) al destino irrefrenabile, ovvero all’esito parossistico che tale dislivello produce (II volume). Un passo del ’56 ci aiuta a capire meglio di cosa si tratti:

Chiamiamo «dislivello prometeico» l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande […] la nostra anima è rimasta molto indietro in confronto al punto in cui è arrivata la metamorfosi dei nostri prodotti.3

Di seguito come il nostro autore riprende il tema nel volume del 1980:

Quel «dislivello prometeico» con la cui descrizione venticinque anni fa ho iniziato il primo volume di quest’opera — quello scarto tra il massimo di ciò che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò che possiamo immaginare — è ora diventato un dislivello tra quello che produciamo e quello che possiamo usare […] la nostra limitazione odierna non consiste più nel fatto che siamo animalia indigentia, esseri con dei bisogni, ma al contrario nel fatto che (con rammarico dell’industria inconsolabile) noi non possiamo che provare troppo poco bisogno; insomma nella nostra mancanza di mancanza.4

In questo contesto di effettivo cambio di registro degli appetiti si fonde per Anders un problema di «natura metafisica» quale quello inaugurato dalla bomba atomica, ovvero il mezzo di produzione tecnica più rappresentativo di questa terza rivoluzione industriale; l’aver di fatto raggiunto un livello di progresso tale da produrre lo strumento di un’eventuale autodistruzione (ovvero il massimo contrario del progresso) ha messo l’uomo di fronte al fatto per cui:

L’epoca del mutamento d’epoca è finita dal 1945. Ormai viviamo in un’era che non è più un’epoca che ne precede altre ma una «scadenza» nel corso della quale il nostro essere non è più altro che un «esserci-ancora-appena».5

L’uomo contemporaneo di Anders, quindi, non solo è «antiquato», ma per certi versi anche «scaduto», nella misura in cui una volta eretta la tecnica a un livello occupato in precedenza solo da Dio (come in più riprese viene detto da Emanuele Severino) è giunto sino alla possibilità di annientare se stesso e il suo mondo, una possibilità che, in quanto facoltà umana, designa l’uomo e il suo fare tecnico positivo come prima minaccia negativa, anche per quanto questa minaccia sia inavvertita: «non si crede a una fine, non si vede una fine. Il concetto di progresso ci ha reso ciechi all’Apocalisse».6 È in questo che consiste il globicidio per il quale il pensiero di Anders viene presentato come «prognosi» nel titolo del presente studio.

È qui che «compare l’orizzonte della scomparsa» come scritto in esergo, ed è qui che la figura di Anders manifesta la sua coerenza con la linea intrapresa sin dall’introduzione all’opera del ’56:

Non sorprende dunque che il timore di questa mortificazione automatica paralizzi la lingua alla maggior parte dei critici e che la critica della tecnica sia diventata oramai una questione di coraggio civile. In fin dei conti (pensa il critico) non posso permettermi il lusso di farmi dire da tutti (dalla signora Maria Rossi fino alla macchina calcolatrice) che sono il solo a voler mettere il bastone fra le ruote della storia universale, l’unico antiquato, in una parola l’unico reazionario rimasto al mondo. E così tiene la bocca chiusa.7

Günther Anders, sebbene come vedremo può essere esposto a diverse critiche, non è di certo assimilabile in questa tipologia di critico: già solo nello pseudonimo «Anders» («diverso», in tedesco) assunto una volta consigliato da un editore di togliere il troppo comune «Stern» (ossia il vero cognome), abbiamo indizi del «temperamento filosofico» del nostro autore. Egli non è stato né «Maria Rossi», né «macchina calcolatrice», e per rendergliene atto in questa sede è importante innanzitutto profilare il suo essere, come egli amava dire, un filosofo en plein air.

2. Günther Anders filosofo en plein air

Io vorrei addirittura affermare che chi resta incapace di cominciare a filosofare di fronte a un paio di stivali scalcagnati; anzi, chi, di fronte a questo paio di stivali scalcagnati è capace di non cominciare a filosofare, non può qualificarsi come filosofo.

— G. Anders

Di fronte a un pensatore come Günther Anders non si può né si deve andare in cerca di una filosofia «sistematica»; sebbene l’intento del secondo volume de L’uomo è antiquato sia quello di affermarsi come «filosofia della tecnica», il nostro autore non manca per tutta l’opera di rivendicare il carattere «occasionale», come egli stesso dice, del suo filosofare, contraddistinto da una tensione verso l’esperienza «diretta» della tecnica:

I fatti empirici, per me, sono sempre stati dei punti di partenza […] sono sempre partito da esperienze precise, si tratti dell’esperienza di lavoro alla catena di montaggio o di quella vissuta nelle aziende automatizzate, o di quella fatta negli stadi sportivi e così via. In realtà, questo carattere en plein air del mio teorizzare, lontano da ogni costruzione, è la sua caratteristica.8

Laureato in Filosofia nel ’23 sotto Heidegger e Husserl, gli viene respinta la candidatura per l’abilitazione da Adorno. L’avvento del nazismo (era ebreo) lo costringe a spostarsi a Parigi, ma poi vivrà anche a New York e a Los Angeles, facendo diversi lavori umili dall’operaio in fabbrica a operaio nel magazzino di costumi storici ad Hollywood.

Con Robert Jungk, fu il co-fondatore del movimento antinucleare nel 1954; Nel 1967 presta servizio come giurato al tribunale di Russell per rendere pubbliche le atrocità del Vietnam; sposato tre volte di cui una ben nota al pettegolezzo filosofico, con Hannah Arendt, che lo lascia, insofferente per il suo «pessimismo». Una biografia deviata dalle decisioni esterne e da una risolutezza e da una praticità non comuni nelle biografie «intellettuali»; biografia oggetto di riflessione dello Anders stesso:

Quando uno, come chi scrive queste righe, è stato per circa cinquant’anni uno scrittore «impegnato», allora la necessità d’incrociare le mani in grembo, o nel migliore dei casi, di usare il proprio tempo per scrivere di teoria è difficilmente sopportabile di fronte alle antiche minacce non ancora scomparse, anzi dalla maggioranza non ancora comprese, e di fronte alle nuove minacce non ancora prese ad notam dall’umanità.

L’inattività è incomparabilmente più faticosa della più faticosa delle attività.9

Ciò detto riguardo la filosofia d’occasione di Anders è facilmente rintracciabile anche nella struttura stessa del volume qui preso in esame, che racchiude in sé una serie di saggi distanti negli anni e non propriamente «lineari»; è però evidente come ogni suggestione di Anders, che sia una volta Il morire, un’altra Gli happenings, un’altra I mass media (così intitolati alcuni paragrafi), abbia una forza «concentrica» per definirsi sempre sullo sfondo del tema del dominio della tecnica e dell’antiquatezza dell’uomo rispetto ad essa.

L’asistematicità di Anders, come sin qui detto, ha uno sfondo biografico e si palesa nella forma del testo, ma poggia anche su un retroterra filosofico.

Per quanto concerne il «pensare asistematico», il nostro autore è conscio di collocarsi in una stagione filosofica che di fatto lo legittima, posthegeliana, nella fanciullezza di una contemporaneità che già era stata inaugurata da Nietzsche e Kierkegaard: «so di essere in buona compagnia. Il sistema come genere filosofico sta morendo o è già morto».10 Anders non condivide il metodo di Hegel nei confronti della storia, rifiuta la possibilità di una teoresi sulla totalità della storia come sistema di quest’ultima:

Ciò che è temporale non si lascia «fissare» all’interno di un sistema […] Il tentativo di Hegel di conciliare tempo e sistema per la realizzazione della storia mondiale, definendo un determinato stadio storico (nel caso specifico, dello Stato prussiano); un tale tentativo, giudicato dal punto di vista della storia mondiale, è solo comico.11

È l’approccio «metafisico a priori» dei «sistematici» che il nostro pensatore qualifica come «pregiudizio» sul contenuto dell’ente come tutto; ciò che non lo convince è come il sistema esoneri come accidenti le parti non comprese nel sistema:

Sia come sia: le presentazioni del mondo in forma di sistema potevano riuscire sempre e soltanto perché tutto ciò che non entrava nello schema veniva oscurato e degradato come symbebekós o semplicemente come «non essente». Ma a qualcosa del genere io non sono disposto.12

Ma con eguale sprezzo Anders rifiuta le tesi di Marx e Bloch, apostrofandole come «filosofie della speranza», «messianismi» che anche laddove non sistematici, presuppongono il passaggio da una storia delle classi a regni post-istorici della libertà, ovvero approdi antitetici a quelli andersiani di una antropologia negativa.

3. Un’antropologia negativa

L’umanità che tratta il mondo come un mondo «da buttar via», tratta anche se stessa come un’umanità «da buttar via».

— G. Anders

L’ottica del nostro pensatore sulla storia umana e i suoi recenti declini ha spesso il tono di una condanna. Di fronte al crescente imperversare delle macchine nella vita dell’uomo e della potenza della tecnica smisurata rispetto alle esigue possibilità biopsicologiche dell’uomo che paradossalmente ha predisposto questo «fallimento», Anders non può che pronunciarsi negativamente nei confronti dell’uomo stesso; non si tratta più soltanto di vedere, con Nietzsche, come l’uomo sia «l’animale non ancora stabilizzato»13 nel senso per cui, a differenza dell’animale, non dispone dei mezzi immediati di sopravvivenza sottoforma di istinti, perché avvolto nelle trame fra pulsioni e coscienza; si tratta di prendere atto di tale condizione e sottoporla al tribunale degli effetti che la tecnica, in quanto compensazione di questa insufficienza, ha prodotto sull’uomo stesso.

Simile a un medico, non ho mai trovato tempo per teorizzare l’uomo sano […] da mezzo secolo a questa parte, ho visto nell’uomo l’essere che fondamentalmente non può essere sano e non vuole essere sano, insomma l’essere che non può essere determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler definire.14

Il problema sta nel fatto che non solo l’uomo, nietzscheanamente, non è «stabilizzato» ab origine, ma anche nella smentita di questo dislivello in cui la libertà umana non è mai consistita:

Nell’anno 1929 ho ampiamente abbozzato una tale «antropologia negativa», in una conferenza intitolata Die Weltfremdheit des Menschen […] nella quale, anni prima di Sartre, trattai la libertà dell’uomo come affermazione in positivo del suo non potersi stabilire in alcun luogo.15

La condizione di precarietà che soggioga l’uomo, ancor prima che sociale e politica, dipende dal destino che l’uomo «veste» nella sua malattia, che nella contemporaneità trova spazio, paradossalmente, soprattutto nella «libertà». Tanto più egli produce artificialmente libertà (ossia affrancamento dallo stato di natura), tanto più questo paradiso artificiale si traduce di fatto come una sottomissione del soggetto produttore al prodotto. Questa è quella che con una definizione precisa Anders chiama patologia della libertà.

Vista l’eterogeneità degli ambienti di questa «patologia» da cui il nostro estrae la sua prognosi — che è però sempre la stessa, quasi «mantrica» — ci limiteremo in questa sede a due temi presi come esemplarità del discorso antropologico negativo: il monologo collettivo, ovvero la deriva conformistica dell’individuo sotto il regime della tecnica, e il passaggio homo faber, homo creator, homo materia, ovvero la processuale retrocessione dell’uomo nell’ordine gerarchico della potenza rispetto alle macchine.

3.1. Il monologo collettivo

L’approccio di Anders nei confronti della comunemente intesa «cultura di massa» è investigativo: se è vero che non c’è modo migliore per nascondere qualcosa che sparpagliarlo in mezzo a tutto il visibile, il nostro è convinto di poter trovare le radici della nostra attuale e futura alienazione nel grande fenomeno odierno del mass-media. Operazione di recente piuttosto consueta in ambiti sociologici, merita tuttavia d’essere ascritta all’opera di Anders come una fra le prime e più rilevanti riflessioni in materia: la parte sugli effetti dei mass-media e dell’omologazione in genere sull’individuo sono stati infatti scritti nel ’62 — ’63 e poi pubblicati nel volume del 1980. Forse nemmeno Anders poteva immaginare l’enorme mole di realtà virtuale a cui oggi noi siamo (forse) abituati, ma sin da allora aveva ben compreso un aspetto fondamentale (fra i tanti) del rapporto media-potere: la capacità di catturare consenso e produrre omologazione degli individui tramite il divertimento.

Sistemi dittatoriali che devono ancora fare ricorso ai manganelli […] sono già deplorevolmente antiquati […] Fra le potenze che oggi ci formano e deformano non c’è n’è più neanche una la cui forza di formazione possa gareggiare con quella del divertimento. […] Questa power-élite adesso sa che la nostra resistenza è minima.16

Se, superando Marx, non si tratta più di trasformare il mondo, ma di interpretare un mondo che si trasforma al di là di noi, si tratta anche di capire come, dagli oppiacei della religione si sia passati agli oppiacei della libertà da ogni religione. Libertà da ogni cosa, finanche dalla libertà stessa.

Non esiste sistema che sia così asimmetrico, così mal bilanciato, come quello conformistico. Sostenere che «siamo attivi» è giustificato soltanto ancora dal fatto che la nostra attività è mantenuta e usata, nella sua esistenza apparente, da quella élite del potere che ci desidera passivi; perché tale attività continua a esistere ancora solo come un costume (tuttavia indispensabile) e che ci viene imposto per far sì che noi mettiamo in atto, senza mormorare, la nostra passività.17

La continua offerta di libertà defrauda dalla «libertà di percepire la mancanza di libertà»,18 con-forma nella misura in cui tutti sono esposti a offerte che si presentano come «comandamenti», che essi promuovano frigoriferi o visioni del mondo. L’individuo è abolito nella sua privatezza e il pubblico si sostituisce come luogo del reale in quanto leale. Per meglio capire questa nostra suggestione:

La differenza tra conoscenza di sé e conoscenza dell’altro è abolita, il nome scaccia il cognome, ognuno è proximus a ognuno […] nessuno si sente più obbligato a non condividere i propri segreti con i propri simili […] Oggi nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.19

Non si è sufficientemente onesti con Anders se non si è disposti ad ammettere la più unica che rara preveggenza con la quale, più di quarant’anni prima di labirintici social network e grotteschi reality show, ammoniva i nostri tempi sul pericolo dell’essere «congruisti», ossia deformati nel nostro conformarci, in quella artificiale sinfonia d’abrogazione del soggetto che Anders chiama monologo collettivo:

La totale apertura reciproca e l’essere ammutoliti sembrano escludersi a vicenda. Ma così sembra soltanto. Infatti, ammutoliti non si diventa solo quando l’abisso tra persona e persona è troppo ampio o troppo pericoloso può essere superato, ma anche quando l’abisso è troppo stretto perché si rende necessario gettarci sopra un ponte linguistico. Ogni parlare richiede un minimo di distanza: la comunicazione ha senso solo se esiste un dislivello tra chi parla e chi ascolta […] Dato che tutti saranno riforniti delle stesse identiche cose, tutti sapranno le stesse identiche cose.20

In termini più filosofici, ciò che si produce nella monovocalità del monopensiero del conformismo è la sparizione della differenza fra attivo e passivo nella comunicazione di qualcosa, di qualcosa che innanzitutto non è più il sé; non si dice più il sé, non si espleta il ëüãïí? ÷åéí, il «possedere la parola» come sintomo e simbolo del possesso di un proprio, agognato pensiero.

Il rumore di milioni di voci prodotto al giorno d’oggi non rappresenta più altro — e in ciò consiste la nuova funzione del parlare odierno — che un unico «monologo collettivo», pronunciato a ruoli distribuiti. La società conformistica parla nel suo insieme con se stessa […] Il suonare insieme, al quale ci prepariamo così chiassosamente, deve diventare così perfetto da poter restare privo di suono […] parlando ci avviamo verso la condizione ideale della conformità totale; verso una condizione nella quale tutto suona «accordato», cioè appunto nella quale il nostro parlare in prima persona si fa superfluo.21

Il soggetto è la pubblicità. Nel commercio del riconoscimento egli ipoteca le sue peculiarità come défaillances all’interno di un meccanismo infallibile per cui la consegna della quantità di libertà utile alla conformazione è proporzionale agli appetiti artificialmente precostituiti dalla seconda rivoluzione industriale. Per capirne i risvolti in terza rivoluzione industriale, lasciamo parlare uno dei passi più ironici — e per questo tra i più fortunati — dell’intera opera:

Quando le sirene delle fabbriche annunciano la fine del lavoro, contemporaneamente annunciano sempre che ora inizia l’inevitabile monopolio del mondo sirenico dei mass-media e della pubblicità; che ora dipendiamo da esso, che cominciano le ore del nostro essere impiegati senza limiti e senza contratto, le ore melmose che dobbiamo attraversare, con il sudore dell’ozio sul volto. Indipendentemente da quello che ci viene imposto — che si tratti di penne a sfera che scrivano sott’acqua o dell’orgoglio della razza ariana o di canzonette sentimentali che ci assicurano che l’amore fiorisce solo nel Missisippi o di cibi conservati appositamente per i bunkers, con la garanzia che resteranno freschi anche nel caso della fine del mondo, nessuna clausola regola ciò che le potenze pubblicitarie possono o no pretendere da noi, che trascorriamo il nostro tempo non lavorativo come impiegati ingaggiati da loro.22

3.2. Passaggio homo faber, homo creator, homo materia

La civiltà del conformismo, per effetto del quale a buona ragione il nostro delinea il «monologo collettivo» come modalità di rarefazione del soggetto, presuppone una storia di questa implosione di senso nell’uomo. L’itinerario che postula questo esito nichilistico è quello che commuta il ruolo dell’uomo da homo faber a homo materia.

L’homo faber è quello della nascita della tecnica, è l’uomo che si congeda dagli dei, sostituendo la theia techne con la anthropine techne per come il mito di Epimeteo e Prometeo ci ha tramandato: questi erano stati incaricati dagli dei di trasmettere agli uomini le conoscenze necessarie per la loro conservazione; lo stolto Epimeteo distribuisce le facoltà a tutti gli animali dimenticandosi di riservarne, in ultimo, per gli uomini. Prometeo sopperisce a questa gaffe rubando la sapienza tecnica e il fuoco a Efesto e Atene, in vista del giorno in cui l’uomo avrebbe visto la luce. Ciò donò la sapienza tecnica agli uomini, ma non la sapienza politica per poterne disporre adeguatamente: essa si trovava presso Zeus, e Prometeo non poteva introdursi nell’acropoli.23

Questo rapido excursus mitologico deve aiutarci a capire a partire da cosa Anders introduce la figura dell’homo creator: questi non solo rompe con la subordinazione divina per poter disporre a piacimento della natura per i suoi scopi, per i suoi prodotti «culturali»; è giunto, nel proseguire di questa inverecondia verso gli dei, a poter produrre physis per mezzo della techne, vale a dire prodotti naturali, vere e proprie «seconde nature». Anders fa a questo proposito l’esempio del Plutonio, introdotto in natura come novum dall’uomo, e se «questa non è una rivoluzione, allora non so davvero cosa significa questa parola»24, esclama il nostro. Ma il nucleo più importante attorno al quale le considerazioni di Anders risultano più originali è il passaggio da homo creator a homo materia.

La trasformazione dell’uomo in materia prima è invece cominciata (a prescindere dai tempi dei cannibali) ad Auschwitz. È noto che dai cadaveri degli internati dei lager (che, a loro volta, erano già dei prodotti) […] si estraevano, questo è noto, i capelli e i denti d’oro. […] Ho visto con i miei occhi sacchetti pieni di denti. […] Di fatto si può dire che in questi casi l’homo creator e l’homo materia vengono a coincidere, dove però, ovviamente, creator e materia non coincidono mai a livello personale, piuttosto l’uno funge da creator, l’altro da materia.25

Infatti oltre a questa suggestionante premessa, Anders sostiene che l’homo materia tout-court sia da rintracciare ancor più nella tendenza a creare esseri viventi, rendendo l’uomo oggetto (letteralmente) dei suoi appetiti: inseminazione artificiale, clonazione sono possibilità della genetica, che, accomunate al comandamento attuale per cui tutto ciò che è possibile va fatto, costituiscono uno scacco per l’essere umano e per la sua dignità:

L’uso dell’uomo come materia prima, mette in ombra la proibizione formulata da Kant di usare l’uomo come mezzo […] dato che il mondo è considerato principalmente come materia prima, anche il pezzo di mondo «uomo» dev’essere considerato come tale.26

Come ogni mezzo, non solo l’uomo si trova dunque nella sfera della funzione, ma anche in quella (da questa postulata) della successiva superfluità.

Trend a rendere l’uomo superfluo […] È una caratteristica della cosiddetta fase di «razionalizzazione» della rivoluzione industriale che questa ci liquida in quanto homine fabros […] La maggioranza di noi deve aspettarsi un’esistenza senza lavoro, con il che intendo un’esistenza infernale […] defraudati di uno dei più forti e importanti e popolari «piaceri», cioè della voluptas laborandi (che spesso si perde di vista per la fatica del lavoro).27

Ed è proprio l’illusione creata della perdita di questa fatica che lascia spazio alla civiltà del divertimento prima trattata, dove la faticosa voluptas viene di buon grado fatta sostituire dall’energia libidica del divertimento programmato, dove

Il tempo libero, dunque il non-lavorare, verrà percepito come una maledizione. E al posto della famosa maledizione biblica (Genesi, 3. 14) bisognerà dire: «Sta’seduto sul tuo culo a guardare con occhi spalancati la TV per tutta la vita!».28

L’uomo si autonega il senso del tempo libero, vivendolo come «vegetale», ma si nega anche il fabbricare, ingannato dalle macchine che da mezzo divengono protagoniste. Anders è conscio del fatto che si possa a ciò obiettare che il fabbricare non sia, invece, mai stato così frequente ed efficace, ma egli ammonisce come ciò lo si possa considerare «inconfutabile dal punto di vista economico. Ma soltanto economico. Non in senso comportamentale».29 È qui che il nostro sostiene che la classica formula causa aequat effectum (l’effetto corrisponde alla causa) sia stata di fatto ribaltata in effectus trascendit causam:

Vuol dire: l’effetto (il prodotto del lavoro, ovvero il suo rendimento) supera la presunta «causa» (il lavoro dell’operaio) non solo per quanto riguarda l’ordine di grandezza ma anche per la sua qualità. Il dislivello tra causa e effetto è così grande (detta ora da un punto di vista psicologico) il «causante» (cioè chi lavora) non riconosce più come proprio l’effetto del suo fare, dunque non si identifica più col «suo» prodotto.30

In queste vertiginose virgolette comprendiamo come il prodotto dell’uomo non sia, per Anders, il suo, ed è altrove con una battuta, che si chiede (più o meno) ironicamente:

Chissà se tra poco non esisteranno degli psicoanalisti specializzati che avranno il compito di addolcire le nostre difficoltà interiori, nate dai tabù nei confronti del mondo degli oggetti, e di renderci capaci di violentare prodotti con gusto e buona coscienza. Da portare con sé per questo esercizio: porcellana di prima qualità e un martello pesante.31

Questa che ad occhi cinici potrebbe parere un’esagerazione umorale e ad occhi più benevoli una sagace battuta di spirito e non più, cela invece un più radicato e radicale aspetto. Per i beni di consumo Anders si esprime così:

Se a Platone le cose del nostro mondo parevano ontologicamente scadenti perché, a differenza delle idee, erano soggette al tempo, e perciò transitorie, agli occhi degli odierni produttori i prodotti normali appaiono ontologicamente scadenti perché, per principio, muoiono troppo lentamente […] Questa è l’ontologia dell’era industriale, che si potrebbe chiamare «ontologia negativa».32

Ma se questa ontologia negativa vale per i prodotti, vale anche per l’homo materia, aggiungiamo noi.

La vergogna prometeica cui più volte accenna il nostro è giustificabile da un inconscio timore: l’uomo, iniziato alla sua nuova condizione di materia prima, comincia a percepire ciò che percepirebbe un oggetto se ne avesse facoltà, ovvero la sua inconsistenza ontologica e il suo essere sporto, da effimero transeunte, verso il nulla. Sintesi della sua storia: l’uomo valica l’essere producendo più essere; di rimbalzo si annovera fra l’essere da produrre e il risultato che ne consegue è che a questo scopo si decrementa egli stesso di essere. Ma questo stato angoscioso, ontologicamente negativo e (auto) prodotto, è alla portata della coscienza dell’umanità? Anders risponderebbe (e risponde):

Per quanto lo facciano senza scrupoli né freni, le vittime si agitano con gli altri solo perché vivono nella certezza di agire spontaneamente; e sono così certe di questa loro illusione solo perché da nessuna parte si mostra una istanza centrale di comando, perché il deus del loro sistema resta muto e absconditus, e perché fraintendono come non-esistenza questa impercettibilità del loro dio, dunque proprio così come il loro dio si augura di essere frainteso. Infatti, in verità, quest’ultimo resta absconditus e quindi impercettibile perché sa di essere al colmo della potenza se resta celato dietro le quinte; e che, se non si fa percepire, assicura nel modo migliore la totalità del suo dominio. Dunque: quanto più totale è un potere, tanto più muto è il suo comando.33

Il Deus sive machina è un deus absconditus, che trae la sua linfa dalla ripetitività con cui i suoi prodotti — uomo compreso — si dibattono fra effimera funzionalità e rapida obliterazione, un iter che sostituisce la storia come luogo e tempo d’esperienza dell’uomo per diventare luogo d’esperienza (esperimento?) sull’uomo, a scapito e oltre di esso.

4. La storia sul baratro fra regime tecnologico e astoricità

Possiamo pure sottomettere e appropriarci dell’universo, ma fino a quando non avremo trionfato sul tempo, resteremo degli iloti.

— Cioran

Se il continuo potenziamento dell’homo faber ha in ultimo prodotto l’homo materia, ovvero il più grande paradosso antropologico della storia, ha ancora senso parlare di storia dell’uomo? E qualora affiancassimo questo paradosso al «dramma» filosofico della morte di Dio, cosa potremmo rispondere alla domanda di senso circa la storia stessa e in genere su quale figura ne sia sovrana? Anders liquida la questione in maniera secca, mettendoci di fronte a quello che pare essere il dato di fatto più schiacciante: il soggetto della storia non è più l’uomo.

Abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni o le classi o l’umanità) come i soggetti della storia, ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica.34

Il «chi della storia» su cui si interrogava Heidegger è la tecnica, non c’è storia.

E quest’ultima battuta, al di là d’essere tale, ha l’ambizione di incarnare la riflessione di Anders. La tecnica, infatti, declina l’uomo a una co-storicità tale da decadere, a tutti gli effetti, in una a-storicità, dove il tempo ha un ritmo procedurale in cui il passato perde il suo connotato di memoria storica riducendosi a momento precedente, «sor-passato», come dice Umberto Galimberti, di un perfezionamento continuo per cui ciò che risale a ieri trova senso solo in funzione del domani in quanto «progresso». Questo aspetto, che potremmo di diritto intendere come passaggio dal «progetto» alla «procedura» ha radici antiche. Lo scacco dell’uomo dalla «sua» storia non è un evento che, ex abrupto appare nella sua immediatezza come novità; va altresì «diagnosticato» come carattere, per così dire ereditario dell’Occidente.

Il modo di intendere il tempo (a sua volta derivato dal modo di intendere l’essere) fonda l’abitazione della storia: la visione giudaico-cristiana del tempo come progetto e della natura come luogo ove l’uomo dispone il suo dominio è, di fatto, una frattura rispetto al tempo ciclico del greco, che ravvisa nella natura una immodificabilità in quanto limite del fare umano stesso. La verità che attraversa la natura non è la greca aletheia in quanto svelamento ma èmet in quanto fare, come da concezione ebraica. La verità non si contempla; piuttosto, in un certo modo, la si fa.35

La tecnica, assumendo, ereditando questo «imperativo», ne ha però spodestato il referente, che sia l’uomo o il regno di Dio: l’orizzonte di significato in ordine al quale l’uomo può reperire senso è sottratto dalla tecnica, la quale non necessita di un tåëïò per la storia, bensi di un più semplice funzionamento, in cui il soggetto umano non può che inquadrarsi che come funzionario di apparati. Questa (fin troppo) rapida premessa per poter capire meglio Anders quando sottolinea:

Noi siamo tornati a essere quello che eravamo sempre stati, fino all’intermezzo che si è protratto per alcuni millenni: esseri astorici.^[37]

Se sotto questa prospettiva Anders prepara il campo per la tesi di un’a-storicità che coinvolge tutta l’umanità egli, in sede più particolare, precisa che la costoricità è inizialmente una caratteristica del proletariato, il quale, rispetto alle classi dominanti, non ha mai un ruolo storico in quanto soggetto, ma come strumento. Gli uomini che non dominano il mondo ma ne sono i funzionari «più che Zeitgenossen, li si dovrebbe chiamare Raumgenossen, coabitanti dello stesso spazio, più che contemporanei»;36 questa, che ad occhio veloce potrebbe parere una eco marxiana, ne ha sì i contorni, ma non i risvolti: la classe dominante, in ultima analisi, è l’homo faber che porta al precipizio tutti gli homines. Tutti diventano homo materia, quindi, non è nel proletariato la nuova risposta salvifica nella storia, poiché l’homo materia, in poche parole l’umanità tutta, altro non è che il «proletariato» della tecnica, la servitù: tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio — e il nuovo Dio è la tecnica.

La storia fino ad oggi si è manifestata in storie […] solo oggi è divenuta, per effetto della comunicazione dei popoli e del quotidiano restringersi del mondo, una effettiva «storia universale».37

Per Anders l’epoca attuale è caratterizzata tanto dall’inizio della storia universale quanto dalla fine della storicità. La co-storicità, la con-temporaneità (da intendersi criticamente per lo più come con-terroneità, Raumgenossen, come detto sopra) non sono altro, insomma, che ricettacoli dell’a-storicità, ricettacoli di uno scacco, per dirla con Jaspers.

Il sarcasmo su Heidegger, forzato per certi versi quanto eloquente per altri, ne è un esempio:

«Pastori dell’essere», quali Heidegger ci ha eletti, in un modo ancora pienamente biblico, cioè antropocentrico — sopravvalutando enormemente «la posizione dell’uomo nel cosmo» (che non si curerebbe affatto della nostra sopravvivenza o della nostra scomparsa) — no, «pastori dell’essere» non lo siamo certamente. Piuttosto, ci consideriamo i pastori del nostro mondo di prodotti e apparecchi, che ha bisogno di noi, per quanto ci sovrasti per potenza, in qualità di servitori (per esempio come consumatori e proprietari) […] l’idea chiave della nostra epoca: che i nostri prodotti sono ontologicamente e assiologicamente superiori a noi uomini.38

È questo il ritratto di un mondo altamente industrializzato, che è costantemente costretto a «stare dietro» ai tempi e alle modalità della macchina che, essendo l’organo della presunta e assunta perfettibilità del mondo umano, in grande misura lo precede, disumanizzandone i precetti etici:

Se esistesse oggi un imperativo categorico, non riguarderebbe il nostro rapporto nei confronti del prossimo e della comunità, ma il nostro rapporto con lo status attuale o futuro della tecnica. Esso suonerebbe: «agisci in modo che la massima della tua azione possa coincidere con quella dell’apparato, di cui sei o sarai parte». Oppure negativamente: «non agire mai in modo che la massima della tua azione contraddica la massima degli apparati di cui sei o sarai parte». Questi imperativi sono quasi ovunque in vigore, quasi ovunque accettati, anche se, visto che la tecnica ha per principio la discrezione, mai espressamente dichiarati.39

Ed è proprio a questo punto che la nostra riflessione conclusiva deve volgersi. A partire da Anders, come è possibile far convivere etica e distopia?

5. Etica e distopia: un matrimonio disperato fra grido di Cassandra e canto del cigno

Prometeo: Ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale. Coro: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia? Prometeo: Ho posto in loro cieche speranze…

— Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 248-250

Non solo Prometeo ha posto cieche speranze agli uomini con il dono del fuoco: anche Apollo, deluso dal rifiuto di Cassandra, le lascia il dono della preveggenza, abbinata però a una drammatica fatalità: nessuno potrà mai credere alle sue profezie.

L’eterogenesi dei fini di cui la tradizione filosofica ci ha più volte parlato (vedi Wuntz, Vico, ad esempio), per cui da delle intenzioni scaturiscono effetti ad esse contrari, è già potenzialmente contenuta da questi cenni mitologici, ma anche attualmente contenuta dagli ammonimenti di questa «filosofia della tecnica» che da Heidegger, Jonas, Severino e altri ancora ha trovato accesamente luogo.

Il tono dell’autore del presente studio, Günther Anders, non pare molto distante da quello di una Cassandra; filosofo poco trattato in ambiti accademici, poco «creduto», trova però negli effetti negativi della tecnica sull’esistenza umana un’eco postuma a fargli giustizia. Per il resto, rimane il dubbio se talvolta l’indagine non soffra una umoralità non del tutto filosofica e se le verità tratte in ballo non necessitassero semmai maggiore argomentazione sul piano teoretico, come ad esempio nel caso di un Destino che appare chiaramente per i suoi declivi in cui l’uomo sprofonda: l’uomo si autodistrugge, ma Anders non mostra un fondamento di questo parossismo negativo. Etica e distopia vivono in Anders il paradosso di un mondo che si accorge del suo masochismo e di un’inevitabilità paralizzante di questo lento globicidio. La fine dell’uomo rischia talvolta di parere più che altro un giornalistico «coccodrillo», un epitaffio in anticipo sulla realtà, senza un discorso appropriato sull’Essere; anche se filosoficamente, va datogli atto, la scoperta futurologica del cimitero già costruito (archeologia al contrario!) è gran parte da lui faticata.

Le «cieche speranze» di Prometeo hanno assillato il lavoro intellettuale del nostro per tutta la sua vita: come un Odisseo alle prese con le sirene, ha resistito agli ammiccamenti di un mondo che vuole perfezionarsi preferendo scandagliarne il «come», e nell’uomo antiquato non ha solo trovato una fortunata concezione storica, antropologica, esistenziale — ma uno sfondo su cui tramontare, filosoficamente, anch’egli, in un canto del cigno. Lo Zarathustra di Nietzsche diceva di amare solo uomini che si potessero concepire come tramonti.

Anders in questo è di certo un filosofo contemporaneo ben sigillato nelle derive e negli approdi delle filosofie del negativo emerse proprio dopo Nietzsche.

Quella che nelle Riflessioni metodologiche conclusive del testo preso in esame Anders amava chiamare ermeneutica prognostica attiene proprio a questo.

Se io scrivessi qui un testo accademico, introdurrei il termine «comprensione prognostica» e chiamerei la teoria di questa comprensione «ermeneutica prognostica». Ma questi presuntuosi termini tecnici sono superflui, visto che non esiste alcun rappresentante accademico di tale disciplina […] Là dove troviamo delle prognosi proposte dagli scienziati — ed esse pullulano negli ultimi decenni — queste si riferiscono quasi unicamente allo stato futuro del mondo degli apparecchi. […] Sta di fatto che lo stato delle nostre anime riflette sempre, di volta in volta, lo stadio tecnico di ieri. […] Oggi, ognuno di noi, è di ieri.40

È qui che la vergogna prometeica del primo volume dell’opera diviene tratto ineluttabile della concezione dell’uomo contemporaneo. Una vergogna diventata patologia, una ferita diventata cicatrice.

Ha forse ragione Pier Paolo Portinaro a chiamare Principio disperazione quello di Anders,41 come a volerlo di diritto collocare nel dibattito sulla tecnica (effettivamente avvenuto, fra l’altro) con Bloch e con il Principio responsabilità di Jonas.

Le prometeiche «cieche speranze» devono essere state le stesse che egli vedeva incastonate nascostamente nella penna di Ernst Bloch e nella sua formulazione del Principio Speranza.

Conosciutisi a New York nel 1942, da intellettuali ebrei antifascisti esportati, hanno avuto più volte, fino alla morte del Bloch (1977) il modo di confrontarsi e soprattutto scontrarsi su due punti di vista essenzialmente diversi; anche se il nazismo hitleriano li accomunò esistenzialmente. Anders era l’allievo di Heidegger critico con il maestro, chiamato spregiativamente da Hans Mayer «moralista illuminato» in un articolo del Die Zeit del 1981 come incapace di accettare qualsiasi prospettiva positiva, teologica o utopica che fosse (Benjamin; Bloch); ermeneuta della fine, ben oltre lo Zivilizationspessimismus della scuola di Francoforte, venne aspramente criticato dagli allievi di Bloch, intenti a respingere le accuse di sterile ottimismo rivoltegli da Anders: la «speranza» non è sinonimo di fiducia cieca e ingenua nel presente e nel futuro, ma il motivo di una filosofia della prassi che aspira alla trasformazione radicale del mondo sulla base di un’analisi critica e materialista delle condizioni presenti, fra aspetti economici, sociali, politici. Analisi di cause di guerre e tendenze monopolizzanti del capitalismo.

Anders non scese nel particolare, e Bloch non salì nell’universale, forse.

In questa sede non interessa il discredito o la presunzione di poter definire Bloch come il freddo esegeta di una soteriologia in scatola, come di poter definire Anders uno squattrinato metafisico della lamentela. Di sicuro c’è il fatto che la lettura di Anders, Bloch e lo Jonas del Principio responsabilità — come l’acqua tiepida fra acque calde e fredde — insieme costituiscono una preziosa eredità per chi avesse, e ce n’è bisogno, l’intenzione di riflettere sulle cause ultime e sugli effetti primi di quel grande problema che è il potersi, da parte dell’uomo, intravedere non solo più nello specchio della natura, ma anche nei suoi più gelidi e diafani riflessi, quali sono le nostre facoltà, che pur sempre son nostre, là dove la luce sempre ci attende ogni dì.

Centottant’anni fa, Friedrich Schlegel ha chiamato gli storici «profeti rivolti all’indietro». Forse noi oggi non avremmo ragione, se definissimo i prognostici «storici rivolti in avanti»?42

Così si chiude L’uomo è antiquato, del 1980, e così si chiude il presente lavoro che, a trent’anni di distanza, trova il problema della tecnica ancora aperto a miriadi di pensieri e dubbi, mentre navigano auto per le vie, mentre sfrecciano importantissimi dati e futili pettegolezzi attraverso gli schermi, mentre le nostre vite paiono durare un intenso minuto e le nostre meditazioni il tempo di un’improduttività di troppo, con il cielo silente e il cosmo riunito nel suo sguardo severo.

6. Bibliografia

  • G. Anders, L’uomo antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992
  • G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2006
  • Sergio Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984
  • Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003
  • Hans Jonas, Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1987
  • Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, voll. I-III, Utet, Torino 1993
  • Aurelio Rizzacasa, Filosofia della storia. Temi, problemi, prospettive, Borla, Roma 1993
  • Aurelio Rizzacasa, L’eclisse del tempo. Il fine e “la fine” della storia, Città Nuova, Roma 2001
  • Emanuele Severino, La filosofia futura, Milano, Rizzoli, 1989; nuova ediz. ampliata, ivi, 2006
  • Emanuele Severino, Legge e caso, Milano, Adelphi, 1979
  • Emanuele Severino, Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, 1972; seconda edizione ampliata, Milano, Adelphi, 1982
  • Emanuele Severino, La struttura originaria, Brescia, La Scuola, 1958. Nuova edizione, con modifiche e una Introduzione 1979, Milano, Adelphi, 1981
  • Ernst Bloch, Spirito dell’utopia, La Nuova Italia, 1993
  • Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, 2007
  • Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999

  1. Ivi, p. 9. ↩︎

  2. Ivi, p. 11. ↩︎

  3. G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 24 - 26. ↩︎

  4. G. Anders, L’uomo antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 12-13. ↩︎

  5. Ivi, p. 14. ↩︎

  6. G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 260. ↩︎

  7. Ivi, p. 13. ↩︎

  8. G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 4. ↩︎

  9. Ivi, p. 7 [corsivo mio]. ↩︎

  10. Ivi, p. 383. ↩︎

  11. Ivi, p. 384. In nota Anders aggiunge con sprezzante sarcasmo: «In confronto a questa «messianizzazione della Prussia, il sì di Heidegger al regime nazista era solo un effimero opportunismo». ↩︎

  12. Ivi, p. 386. ↩︎

  13. F.W. Nietzsche, al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1973, p. 68. ↩︎

  14. G. Anders, L’uomo antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 270. ↩︎

  15. Ivi, p. 116. ↩︎

  16. Ivi, pp.124 - 126. ↩︎

  17. Ivi, pp.133-134. ↩︎

  18. Ibidem. ↩︎

  19. Ivi, p. 136. ↩︎

  20. Ivi, p. 138. ↩︎

  21. Ivi, pp.139-140. ↩︎

  22. Ivi, p. 155. ↩︎

  23. Cfr. Platone, Protagora, 321a, 322a. ↩︎

  24. G. Anders, L’uomo antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 15. ↩︎

  25. Ivi, p. 18. ↩︎

  26. Ivi, p. 19. ↩︎

  27. Ivi, pp.20-21. ↩︎

  28. Ibidem. ↩︎

  29. Ivi, p. 57. ↩︎

  30. Ivi, p. 58. ↩︎

  31. Ivi, p. 37. ↩︎

  32. Ivi,p.38. ↩︎

  33. Ivi, p. 131. ↩︎

  34. Ivi, p. 258. ↩︎

  35. Cfr. Sergio Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984, pp.22-25. ↩︎

  36. Ivi, p. 252. ↩︎

  37. Ibidem. ↩︎

  38. Ivi, p. 260. ↩︎

  39. Ivi, p. 268. ↩︎

  40. Ivi, p. 396-398. ↩︎

  41. Cfr. Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. ↩︎

  42. G. Anders, L’uomo antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 400. ↩︎