Jean-Jacques Rousseau fra estetica, etica e politica nei Discorsi di Diogene e nel Contratto Sociale: alcune note a margine

1. Etica e politica del «moi commun»

«Per Rousseau l’interesse primordiale dell’uomo è l’uomo […] il suo pensiero, si potrebbe dire, è ben più psicologico che metafisico. È antropocentrico».1 Con questa citazione da Groethuysen Eugenio Garin comincia a trattare la figura di Jean-Jaques Rousseau nella sua introduzione al primo volume degli scritti politici del filosofo ginevrino editi in Italia da Laterza nell’ormai lontano 1971. Lo storico, così facendo, coglie nell’esemplarità delle tematiche rousseauiane l’elemento fondamentale che distingue l’Illuminismo come movimento filosofico e di pensiero rispetto ad altri movimenti storici in genere: l’unione pressoché perfetta tra ciò che si può definire l’«analisi dell’humanum» e la sua intrinseca politicità, ovvero la sua compromissione totale con la dimensione pratica (e «prattica»), ovvero etico-sociale. Garin aveva infatti poco prima affermato che «in un certo senso, tutte le opere di Rousseau sono politiche», intendendo con ciò l’evidente compresenza nel filosofo di riflessione filosofica, storica, civile, sociale, aspetti non trattati slegatamente come la filosofia sistematica precedente aveva ancora l’uso di fare, bensì come fattori intimamente connessi dal denominatore comune della morale del «moi commun» così come viene esposta nel Contratto Sociale. Si può aggiungere che tutto l’Illuminismo in quanto tale è ispirato da un intrinseco farsi politico proprio in questo senso, ovvero in quanto interamente e profondamente soggiacente a un sommovimento riflessivo di tipo etico, e di un’etica slegata il più possibile dal teocentrismo precedente di impostazione medievale, in direzione di una riflessione finalmente antropocentrica sì, ma che sia anche concepita come un fatto posteriore, sia in senso logico che in senso cronologico, rispetto all’umanesimo di tipo rinascimentale, il quale a sua volta risultava ancora troppo compromesso con le istanze del potere religioso precostituito.

Rousseau, così, si trova ad essere l’autore più omogeneo da questo punto di vista (quello nel cui sistema «tutto è connesso», come ha notato Starobinski,^[2]) ed il punto di coagulazione ideologica di spinte e tendenze precedenti, partite in special modo dalla riflessione sull’uomo, dall’analisi delle sue caratteristiche psicologiche e morali, fino ad arrivare all’indagine più prettamente politica dell’humanum amplificato e realizzato nella dimensione sociale.

2. Locke, Hobbes, Filmer, Pufendorf: la libertà liberale della proprietà privata e la libertà illiberale dell’Assolutismo

Inevitabile pensare a Locke come capostipite di questo tipo di trattatistica che si origina dalla dimensione psicologica dell’humanum per poi approndare alla sfera dell’indagine sociale. Basti analizzare la sua produzione filosofica, dal Saggio sull’intelletto umano (1688), in cui vengono rigettate le idee innate ed accolte come base della realtà percepita solo sensazioni e riflessione, al Secondo trattato sul governo civile (1690), in cui si riprendono Hobbes e Pufendorf con occhiali da empirista fingendo il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale per giustificare il contrattualismo come governo dei magistrati attuato con il consenso dei governati.

Com’è noto, Locke si pone come il più qualificato propugnatore del liberalismo classico: secondo il filosofo di Wrington, il consesso civile degli uomini non deve soggiacere all’arbitrio di nessun monarca assoluto in quanto gli uomini sono uguali per «natura»; tuttavia, giacché «alcuni» uomini sono protesi alla prevaricazione sugli altri, occorre uscire volontariamente dallo stato di natura per affidare la propria tutela personale ad uno Stato in quanto entità superiore il quale, d’ora in avanti, garantirà il diritto di ognuno alla proprietà privata, ovvero la tutela di se stessi e dei propri beni. Il liberalismo di stampo lockiano si pone così, in modo autoevidente, in diretta opposizione ai presupposti dell’assolutismo (e quindi, in polemica coi dettami politici del coevo Robert Filmer, cui si farà cenno più avanti), in quanto nell’assolutismo il monarca detiene nelle proprie mani l’intero potere di vita e di morte su ogni singolo suddito, non solo coincidendo fatalmente egli stesso con lo Stato, ma essendo, proprio per questo, svincolato da qualsiasi volontà o consenso popolare.

Si può affermare, pertanto, che il punto di partenza e di confronto in negativo della visione politica delle Lumières sia da una parte il liberalismo lockiano, dall’altra l’assolutismo magistralmente incarnato, a livello teorico, dal mito del Leviatano di Hobbes e, a livello storico, dall’immortale figura di Luigi XIV così come viene delineata nella biografia – affresco di Voltaire Il secolo di Luigi XIV; un assolutismo, quello del monarca francese, che rispetto alle forme di potere medievali si poneva come fulcro totale della dimensione pubblica, in quel famigerato motto, «L’état, c’est moi» il quale non lascia spazio nemmeno alla secolare soggiacenza, da parte di quello stesso Re che propugnò il gallicanesimo, nei confronti del potere spirituale dei Papi.

È importante, a mio avviso, esporre brevemente la mentalità politica della monarchia assoluta di fronte alla quale Rousseau si pose come il più affascinante avversario.^[3] Hobbes, che sta in Francia durante l’assassinio di Enrico IV e vede con occhi da osservatore l’assedio alla Rochelle da parte di Richelieu, prende come punto di partenza della propria indagine filosofico - politica la guerra civile in quanto moto epocale e, partendo dal presupposto che la dottrina della ragion di Stato sia svincolata dall’etica pubblica, giunge a dire che l’intero svolgersi della vita civile del suddito si attua attraverso il volere esclusivo del Sovrano, non possedendo il suddito in questione un’identità propria in quanto privo (o privato?) della libertà di coscienza. Lo stato di guerra assurge così certamente a norma, se già esso all’interno dello stato di natura si incarnava nella nota formula del bellum omnium contra omnes, causato dall’ininterrotta aspirazione al potere da parte dei più ambiziosi e spiegabile in Hobbes, soprattutto, con la totale disillusione nei confronti della condizione umana. In un tale contesto, il filosofo inglese arriva così a teorizzare che la legge di natura, per essere valida, debba avere una garanzia; e che questa debba essere fornita (contraddittoriamente?) proprio dalla filosofia morale, la quale in tal modo si trova a legittimare dal canto suo lo Stato Assoluto, lì dove l’interesse nei riguardi della dimensione pubblica non è più competenza della coscienza individuale del privato cittadino (che tale ancora non è e non può riconoscersi, in quanto, appunto, suddito), bensì del Sovrano. Di conseguenza, è solo la paura della morte in stato di guerra civile a spingere l’uomo ad associarsi nell’ambito della protezione che solamente lo Stato in quanto entità sovraindividuale può offrire. Questo mostro fagocitante le individualità rappresenta per esse una forma sì di protezione, ma anche la necessità intrinseca di una cieca obbedienza da parte delle stesse e, soprattutto, esso induce giocoforza nei sudditi un estremo senso del dovere di tipo passivamente coercitivo.

È importante sottolineare come, in questo senso, in Hobbes l’assolutismo sia ancora permeato di razionalismo, lì dove la ragione riesce così a porsi come il principio che determina l’ordine all’interno del perpetuo rischio del caos, istanza che può così pretendere di porre fine alla guerra civile, in un riferimento che, dal punto di vista storico, appare abbastanza esplicito nei confronti delle guerre di religione.

La conseguenza più importante di questa teoria è la totale separazione fra coscienza e azione, ovvero fra la condizione interna e quella esterna dell’individuo; le opinioni dei singoli, all’interno dello stato assolutistico, possono anche essere divergenti rispetto ai dettami comportamentali del potere superiore, ma in tal caso debbono rimanere segrete: il suddito è scisso dall’uomo e dalla propria privacy, ovvero solo in segreto l’uomo mantiene la propria identità differenziale rispetto all’indistinto formicaio subalterno all’interno della cui socialità egli trova il proprio anonimo posto.

Ecco allora che la riflessione politica in genere riferita all’Illuminismo appare essere, al contrario, incentrata sul tentativo di recuperare quanto di umano era andato perduto con la teoria del Leviatano, ovvero l’identità e la reciproca corrispondenza della dimensione pubblica e di quella privata, la dignità umana e l’autoconsapevolezza sociale dell’individuo non più concepito come suddito, ma come cittadino in senso autotelico e autodeterminante.

3. I Discorsi di Digione: uguaglianza e libertà in Rousseau, un dualismo etico problematico che possiede un fondamento estetico

Riguardo a Rousseau, ciò che ci interessa notare è come egli sia in qualche modo la personalità intellettuale che nel corso dell’intera sua opera riesce a fondere compiutamente l’interesse filosofico in senso umanistico con lo studio delle intrinseche motivazioni e modalità di evoluzione storica dell’utilitarismo politico, un utilitarismo studiato però in diretta opposizione al pessimismo sociale hobbesiano. E sembra legittimo supporre che, nella visione del tempo, queste due nozioni risultino nascere per clonazione dal nucleo tematico morale, a sua volta intrinsecamente connesso con una dimensione primariamente estetica.

Andando infatti ad analizzare particolarmente i due discorsi presentati nel 1750 e nel 1754 all’Accademia di Digione, ovvero il Discorso sulle scienze e le arti e il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, si ritrova lo stesso speciale dibattimento del nesso tra istanza politica e quella morale, per il tramite, però, di un sottile passaggio di natura appunto estetica. L’enunciato fondamentale del primo testo, il fatto che «scienze e arti sono nate dai nostri vizi»,^[4] attraverso la progressiva organizzazione sociale che l’uomo convenzionalmente nelle epoche storiche si è dato, sottintende il concetto fondamentale del secondo testo, ovvero che la diseguaglianza sociale è anch’essa frutto delle istituzioni. Al contrario, nello stato di natura il buon selvaggio non può definirsi diverso dal proprio simile, né per condizione intellettuale né per stato sociale, giacché ogni individuo è uguale all’altro a livello morale proprio in quanto, nella condizione primigenia di natura, non si può nemmeno parlare a rigore di moralità o immoralità, vivendo il buon selvaggio in una condizione «primigenia e aurorale», direbbe Croce, rispetto ad esse: si tratta evidentemente di una condizione non etica, bensì estetica.

Rousseau esprime questo concetto con un paradosso: l’uomo non si può definire cattivo per natura perché non sa nemmeno che cosa sia la bontà, in quanto si trova all’interno di uno stato originario di tipo puramente istintuale, di completa innocenza, condizione che non gli consente la distinzione tra bene e male poiché ogni azione da lui compiuta parte dallo stimolo primordiale della pura e semplice necessità.

I vizi di cui Rousseau parla già nel primo Discorso possono, così, essere nati solo quando l’umanità è giunta all’uscita dal proprio stato di natura (che non viene dal filosofo considerata come un’effettiva epoca storica^[5]) ed è subentrata all’interno di quella che Lotman avrebbe definito come la propria semiosfera culturale di riferimento. Al margine ultimo di questo termine di paragone epocale, ovvero con l’avvento della metallurgia e dell’agricoltura prima, con la recinzione delle terre e la proprietà poi, nasce per Rousseau la diseguaglianza in quanto tale, fondata sull’invenzione e sull’introduzione ex abrupto del «mio»e del «tuo».

Per Rousseau, l’uomo di natura vive isolato all’interno di una condizione pre-relazionale e, quindi, pre-sociale; uno stato che si potrebbe definire in qualche modo autistico ma non autotelico. Non si tratta, infatti, di un isolamento volontario, razionale, bensì della completa inconsapevolezza e quindi inesistenza di un qualsivoglia dualismo io/non io, io/altri, notificate dal mancato possesso di un vero e proprio linguaggio. È proprio nel passaggio dalla propria condizione di isolamento a quella di relazione tramite lo sviluppo del linguaggio che si innesca lo sviluppo della ragione trasformativa: l’essenzialità di questo momento si rende evidente se pensiamo che a sua volta è proprio il passaggio dall’amour de soi all’amour propre che innesta la teoria del riconoscimento, fondamentale in Rousseau, la quale introduce a sua volta l’elemento della socialità, ovvero la condizione in cui l’uomo si riconosce finalmente come animale sociale, per cui l’uomo ama la società perché in essa ama se stesso e rispecchia se stesso, in quanto nella società egli può esprimersi all’interno di un comune orizzonte di senso estetico ed etico, ovvero all’interno della comunicazione e della condivisione che è poi l’istanza primaria della socialità in quanto tale. Come scrive Marina Boccamino, infatti,

Il processo di definizione dell’identità deve necessariamente essere negoziato con altre persone per potersi sviluppare. Qualora questa approvazione assuma la forma di mancato riconoscimento o disconoscimento, ovvero quando la società non riconosce tratti essenziali della persona, l’identità individuale ne è profondamente segnata.^[6]

In Rousseau la teoria del riconoscimento è talmente importante da fondare tutto l’impianto teorico della sfera culturale e sociale, come afferma Elena Pulcini:

La nascita delle prime forme di legame sociale dà origine al confronto reciproco e alla competizione, rende gli uomini dipendenti dalla stima e dalla considerazione dell’altro, alimentando così la  passione della distinzione (Rousseau 1755/1790a, p. 326) […] L’ansia di distinguersi e di essere riconosciuti spinge gli uomini a desiderare ciò che gli altri desiderano, a cercare di ottenere tutto ciò che, come la ricchezza, è oggetto di considerazione e ammirazione universale, creando così rivalità e inimicizia. Innescando la dinamica mimetica del desiderio, la passione del riconoscimento produce dunque, in prima istanza, quello stato di conflittualità e di disordine da cui nascerà la società ingiusta e disuguale descritta nel  Discorso sull’ineguaglianza.^[7]

Impostando l’intera questione sul piano estetico prima che sul piano politico, ci si rende conto di ciò che Rousseau vuole intendere con questo passaggio: l’uomo pre-istorico vive su un piano pre-relazionale che è pienamente estetico: egli sente, non capisce; usa l’aisthesis, non l’intelletto. È solo dopo che nasce il dualismo concettuale tra natura e cultura, col crisma desiderante della relazione, in virtù e in necessità della quale l’uomo di natura sviluppa il linguaggio, tramite cui egli mette in moto la ragione trasformativa.

Sulla questione del linguaggio anche Herder parte da un fondamento estetico, con le dovute differenze. Secondo il filosofo tedesco, ad esempio, l’uomo possiede una natura estetica nel detenere un organo di risonanza che produce suoni automaticamente quando riceve impressioni in un riflesso condizionato senza comunicazioni intenzionali; eppure la differenza tra il «grido» dell’animale e quello dell’uomo è che il primo consiste in un’eco meccanica che si riverbera negli altri animali; il grido dell’uomo, invece, possiede un’intenzione comunicativa, quindi sociale.^[8] Insomma, sia per Rousseau che per Herder, il linguaggio vero e proprio nasce quando si sente il bisogno della relazione comunicativa, ma parte da un preciso fondamento estetico. In Rousseau, parimenti, l’amor di sé è il primigenio istinto del sentirsi, l’amor proprio è al contrario la presa di coscienza di sé con l’altro: la ragione è rispecchiativa, comunicativa, socializzante; al contrario l’aisthesis è monofasica, autistica, autoreferente.

Da questo ragionamento si capisce bene l’immane complessità della questione che interseca i campi semantici della «ragione», del «linguaggio», della «morale» sorgenti nel trapasso dalla dimensione naturale a quella culturale, e quindi dell’«uguaglianza» e della «libertà» che da quest’ultima semiosfera a loro volta emergono.

Così, mentre il selvaggio innocente e ingenuo dello stato di natura riusciva addirittura a provare un certo sentimento di pietà per il proprio simile sofferente (ciò che poi nelle società successive verrà messo in versi come uno dei più nobili sentimenti!), ora, con il progredire delle istituzioni, l’individuo sociale impara a costruirsi una corazza d’amor proprio e d’egoismo: nasce la diseguaglianza rappresentata dalla schiavitù come dipendenza reciproca,^[9] e poi sempre più crudelmente intesa come prevaricazione del più forte sul più debole: impostazione teorica che appare evidentemente antitetica rispetto a quella dell’homo homini lupus hobbesiano.

In questo senso, la proprietà privata, identificata da Rousseau come vera origine del decadimento morale causa a sua volta dell’ineguaglianza, è per il filosofo ginevrino un sopruso, un’usurpazione del diritto comune. In questa sua visione egli si oppone al concetto lockiano che identifica la proprietà privata con la libertà e che esalta così la virtù etica del lavoro in quanto iniziativa personale di tipo imprenditoriale. Infatti, Rousseau assume un punto di vista opposto a quello che spinse Locke a teorizzare nel Secondo trattato sul governo civile l’individualismo come possesso completo e perfetto della propria persona e quindi come giustificazione del diritto di proprietà, conseguenza a cui arrivarono in special modo i successori del filosofo inglese, se è vero che per Locke è ancora valido, a ben vedere, l’assunto secondo cui «la terra e tutte le creature inferiori sono comuni a tutti gli uomini».^[10]

All’inizio, per il ginevrino, molto più radicalmente non esistevano dualismi: nella società attuale, invece, si dà come vox populi e anzi, addirittura si legittima in nome della libertà, proprio la separazione sociale ed economica tra ricco e povero così come quella etica tra bene e male. È proprio con la proprietà, invece, che nasce la pretesa del diritto di possedere e, da qui, il sospetto reciproco fra gli individui, il sentore della disarmonia, la concrezione infame dell’impulso alla rivalità che rende antagonisti. Da qui, ancora, lo stato di guerra, in un ordine cronologico degli avvenimenti che ancora una volta appare rovesciato rispetto a quello proposto da Hobbes.

Del resto, mentre per Pufendorf, ad esempio, si può rinunciare alla propria libertà in favore di qualcun altro, per Rousseau non ci si può spogliare lecitamente dei due doni assolutamente naturali in dotazione all’umanità, ovvero la vita e la libertà. Lo stesso patto attraverso cui il suddito si rimette totalmente al sovrano o chi per lui non può essere irrevocabile: se il magistrato ha il diritto di abdicare, a maggior ragione il popolo può e deve, in caso di necessità, deporlo dal suo incarico, rinunciando alla subordinazione pattuita. In tal caso, infatti, il patto si dimostra iniquo, perché legittimando la proprietà privata rende lecita l’ineguaglianza sociale ed economica degli individui, ovvero sottrae loro la libertà. Famosa per ironia ed arguzia la formula del patto stipulato dal più ricco nei confronti del più povero così com’è esplicitata da Rousseau all’interno della famosa voce Economia politica dell’ Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers nel 1755: «permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che prenderò dandovi degli ordini».^[11]

4. Il Contratto sociale e la libertà illiberale dell’uguaglianza

La conseguenza di questo patto parziale è espressa da Rousseau nel Contratto Sociale attraverso il seguente paradosso, amaro ma pregno di verità: «l’uomo è nato libero e dappertutto è in catene».^[12] Il bisogno originario di organizzarsi in famiglie e in piccole associazioni ha dato luogo alla società civile; quest’ultima, però, si è lasciata ben presto dominare dal più potente, colui che, una volta raggiunto il potere, ha instaurato per meglio mantenerlo la soluzione governativa del potere supremo o assoluto. Tuttavia, rinunciare alla libertà significherebbe per l’umanità perdere non solo i propri diritti inalienabili (quegli stessi che dal giusnaturalismo in poi vennero definiti e teorizzati in quanto tali), ma anche i propri doveri. Rousseau è convinto dell’inalienabilità dell’intima dignità morale in quanto prerogativa stessa dell’identità personale e della condotta umana; proprio per questo egli rifiuta la visione pessimistica del problema della teodicea. Per lui, infatti, l’essere umano è naturalmente esente dal giudizio morale, proprio in virtù del fondamento estetico e, quindi, pre-etico dello stato di natura, e quindi lo stesso peccato originale assume un’esclusiva consistenza mitico – letteraria.

L’autorità politica non deriva quindi il proprio potere dalla potenza divina né tantomeno dall’autorità paterna, come pretendeva di affermare Robert Filmer nel Patriarca o il potere naturale dei re (pubblicato postumo nel 1680);^[13] Rousseau osserva infatti che il despota non lascia i sudditi liberi come fa il padre nei confronti dei figli maggiorenni. La società, dunque, per rispettare a livello morale le prerogative umane della dignità della persona e del principio d’uguaglianza, deve rispecchiarsi nei concetti politici espressi dal Contratto sociale.

In questa opera fondamentale che presto sarebbe divenuta la Bibbia dei rivoluzionari francesi, Rousseau pensa a un nuovo “patto ideale”, a una sorta di democrazia totalitaria in cui l’individuo alieni da sé tutta la propria volontà riversandola in quella generale. Famosa, ancora una volta, è la formula in cui viene esposto il problema fondamentale del trattato:

trovare una forma di associazione che protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato e mediante la quale ciascuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia ad altri che a se stesso, e resti così libero come prima^[14].

Le difficoltà dell’enunciato sono evidentemente enormi, tanto che Rousseau è costretto a individuare a mo’ di exemplum la Corsica, terra isolata, rozza e dal passato praticamente privo di esperienza statale come patria ideale per un tale esperimento, come anche era per lui la sua Ginevra, alla cui «repubblica» dedica il secondo Discorso dell’Accademia di Digione. A proposito di Ginevra, è stato Franco Venturi a notare come la sua città fosse per Rousseau il punto di coagulazione non solo del suo enthousiasme republicain, ma anche e soprattutto il luogo di riferimento della propria utopia,^[15] e nel medesimo filone di analisi dell’utopia rousseauiana, è stato Derathè a sua volta a sottolineare come il Contratto sociale possa rivolgersi, per certi versi, solo a Stati piccoli o marginali, ed unicamente con una funzione regolativa della vita istituzionale.

La storiografia è quasi unanime, quindi, nell’evidenziare l’aspetto utopico della teoria politica rousseauiana, in una prospettiva ermeneutica che mostra di voler indagare precipuamente gli aspetti di verificabilità e praticità concreta delle teorie del filosofo, mentre a mio avviso l’accento andrebbe spostato, piuttosto, sull’analisi della problematicità dell’elemento intrinsecamente etico del suo dettato, per quanto irrealizzabile esso sia (nessuno infatti pretenderebbe mai l’applicabilità concreta della dottrina politica della Repubblica di Platone, non si vede pertanto perché la si debba chiedere a Rousseau).

Spostando il binocolo sugli aspetti morali della teoria rousseauiana, appare immediatamente evidente come la dittatura della volontà generale stia a significare l’anelito verso la totale moralizzazione della vita pubblica in base ad una concezione di virtù definibile di impostazione quasi compiutamente calvinista. In altre parole, Rousseau si rende conto delle difficoltà intrinseche all’enunciato del Contratto sociale: infatti non attribuisce dogmaticamente al popolo l’insieme dei poteri civili, cosa che probabilmente, al suo modo di vedere, sarebbe risultata ancor più utopica. La sovranità è sì non alienabile né rappresentabile, i poteri sono sì indivisibili, tuttavia (dato che ad un certo punto della storia persino la democrazia ateniese e il governo militare spartano decaddero come nuclei politici fino a quel momento perfetti seppur alternativi l’uno all’altro) è impossibile per la società moderna affidare al popolo in forma diretta il governo di se stesso.^[16]

La democrazia, insomma, contiene al suo interno il germe dispersivo e fuorviante dell’irrealizzabilità parziale o totale, e comincia a mostrare le proprie pecche nell’istante in cui qualcuno tenta di realizzarla al di fuori della dimensione ristretta delle città – Stato.^[17] Le affermazioni di Rousseau, in questo senso, sono illuminanti: «se ci fosse un governo di Dei, si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non è adatto agli uomini»,^[18] oppure, con realismo e disillusione, replicando alle obiezioni formulate dall’abate Raynal al Discorso sulle scienze e le arti:

Dal sapere all’ignoranza ci corre un solo passo; l’alternativa fra l’uno e l’altra è frequente fra le nazioni; ma non si è mai visto un popolo che, una volta corrotto, tornasse alla virtù […] vano sarebbe perfino ricondurre gli uomini all’uguaglianza primitiva […] una volta corrotti i loro cuori saranno tali per sempre; non c’è più rimedio, a meno di qualche grande rivoluzione temibile quasi quanto il male che potrebbe guarire; desiderarla è biasimevole, prevederla impossibile.^[19]

Qui, di nuovo, il punto della questione appare contemporaneamente politico e morale: a ben vedere, Rousseau diffida profondamente delle rivoluzioni: di qualsiasi rivoluzione.

5. La dimensione estetica come Grund dell’idea rousseauiana di uguaglianza

È questo, in effetti, il problema insito nel concetto rousseauiano di democrazia:

La clausola che caratterizza le legittimità di tale contratto [sociale] è l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Essendo l’alienazione fatta senza riserve, l’unione è più perfetta possibile, e non resta ad alcun associato niente da rivendicare.

Il patto sociale sarà quindi definibile per Rousseau in questi termini:

«ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». Si produce dunque un corpo morale collettivo, una repubblica, un corpo politico, chiamato dai suoi membri Stato quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Gli associati prendono il nome collettivo di popolo, singolarmente sono cittadini, e sudditi in quanto sottoposte le leggi dello Stato.^[20]

È evidente l’accozzaglia di concettualizzazioni diverse, a volte addirittura divergenti, a cui porta l’assunto fondamentale da cui si parte. L’intero impianto ideologico rousseauiano si fonda sulla convinzione già presente all’interno del primo Discorso di Digione, ovvero nel fatto che si tratta pur sempre dell’estremo tentativo di darsi un’organizzazione sociale egualitaristica da parte di un’umanità scissa e franta, ricolma di amor proprio e di contrasti bellicosi, che vive rispecchiandosi nell’altro per amor di sé con sé, oppressa com’è dall’irrimediabile perdita dello stato originario di natura. Infatti, una volta persa la propria innocenza di bestioni, l’umanità immersa nella propria dimensione culturale di tipo sovrastrutturale non può più tornare indietro. Non serve nemmeno rinunciare alle scienze e alle arti oggetto del secondo Discorso di Digione, in quanto proprio le scienze e le arti sono lì dipinte come contemporaneamente cause ed effetti del male della società moderna in quanto procuratrici di lusso, mollezza nei costumi, boria, pedanteria, insomma, in una parola: latrici di negatività e da condannare risolutamente, in quanto foriere della disuguaglianza culturale e, quindi, di quella sociale.

Rousseau, tuttavia, una scappatoia sociale la offre, nonostante le difficoltà teoretiche emergano qui ad ogni passo e nonostante l’intero Discorso sulle scienze e le arti sia parso già a molti suoi contemporanei come un testo scritto per puro esercizio retorico da bastian contrario, piuttosto che con reale convinzione. Secondo Rousseau, si deve infatti, là dove appaia possibile, chiudere i libri e osservare l’umanità nelle proprie azioni. Solo se le scienze le osservassero delle entità celesti non ne verrebbe danno; quindi, invece di coltivarle, quanto meglio sarebbe rendersi conto del vacuo orgoglio dell’uomo e trarne insegnamento! Il richiamo è qui sempre ai primi uomini dello stato di natura, ignorantissimi, ma proprio per questo certamente esenti da qualsiasi volontarietà di tipo morale e dunque non definibili «corrotti». Senechianamente, paucis est opus litteris ad mentem bonam. Più radicalmente, Rousseau non sconsiglia solo lo studio pedante, ma è addirittura convinto della precedenza dell’istinto sulla riflessione, con un atteggiamento che possiamo definire ancora una volta compiutamente estetico, tanto che, in questo senso, egli definisce l’uomo come «una macchina ingegnosa a cui la natura ha dato sensi perché si ricarichi da sé». Il buon selvaggio non ragiona, bensì agisce in base agli stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno: ecco la compiuta negazione di qualsiasi razionalismo residuale di tipo hobbesiano, nonché il forte nesso che, in questo senso, si avverte fra l’impianto concettuale di Rousseau e quello di Giambattista Vico, i due outsider dell’Illuminismo, i quali sembrano fondare ambedue la propria riflessione sulla convinzione che l’istinto sia il sostrato emozionale e sentimentale dal quale sia poi nato con il successivo sviluppo intellettuale l’umanità in quanto tale.

Il Grund estetico comune alla concettualizzazione rousseauiana è qui evidente, nonostante le contraddizioni intrinseche al concetto di uguaglianza come libertà, la quale, per intenderci, è in Rousseau sempre concepita come la libertà di essere, dirsi e farsi uguali, non diversi.

Sarebbe ora interessante avviare una serrata riflessione sul cosiddetto protocomunismo rousseiano e su come la concettualizzazione conseguente, fatta salva la figura intellettuale del filosofo ginevrino, sia stata foriera di ingiustizia e illiberalità a sua volta nel corso della storia più o meno recente. E tuttavia questo è un altro discorso, che per premura, in questo contesto, non avremo modo e volontà di toccare perché abbisogna di uno lungo e complicato sviluppo argomentativo a parte.


  1. B. Groethuysen, J.J. Rousseau, Gallimard, Paris 1949, p. 238, cit. in J.J. Rousseau, Scritti Politici, introduzione di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1971, p. VII. ↩︎