Recensione a Carolina Carriero, Il consumo della pop art

Carolina Carriero, Il *consumo della pop art*, Jaca Book, Milano 2003.

1. La Pop Art e l’avvento della società di massa

Molti pensano alla Pop Art come a un’arte facile e immediata, che può essere gustata anche dall’uomo della strada senza il bisogno di una particolare conoscenza specialistica della storia dell’arte. La Pop ha la pretesa di essere un’arte ovvia e scontata come lo sono le cose che rappresenta. Si direbbe che, dopo la crisi della «bella» pittura figurativa e la nascita delle avanguardie, essa sia la prima forma d’arte che ritorna a parlare a tutti sotto il segno di una bellezza immediatamente intuibile. Tutto bene allora, ci si può accontentare di guardarla e basta. Si può evitare il faticoso compito della critica, che spiega le complicate alchimie poetiche e culturali che stanno dietro alle incomprensibili opere dell’avanguardia. A che serve allora scrivere un libro sulla Pop Art visto che si spiega da sé? Forse desta sospetto proprio questa «autoevidenza». Il tranello e l’inganno si nascondono sempre dietro una facciata liscia, priva di asperità e di problemi. Essi hanno bisogno di una apparenza di regolarità in cui «tutto va bene» e di un’evidenza smaccata che faccia pensare che sia «tutto qui», affinché non si intuisca un doppio fondo. Non sarà allora che tutta questa ovvietà celi in realtà un gioco di interessi che specula sui «nuovi» pregiudizi e luoghi comuni dell’uomo qualunque, di quell’uomo-massa che è stato descritto come vittima dei persuasori occulti? E non sarà per caso che questo gioco dell’ovvietà artistica consista proprio nel nascondere l’insidia dell’ideologia? Quando si parla di ideologia non si devono però intendere i grandi narrati, ma la trasmissione, se non addirittura l’imposizione, di una visione del mondo, di uno stile di vita e, infine, di un sistema di valori, i quali coincidono con un tornaconto economico (e/o di potere). In questo caso specifico si tratterebbe del potere dell’industria di massa americana, secondo la quale lo spettatore televisivo o il cliente del supermercato è visto soprattutto come un «pollo da ingrassare e spennare». Naturalmente qui ci stiamo riferendo a tutto quell’insieme di critiche che sono state rivolte alla società di massa proprio dalla sociologia dell’epoca. Oggi quelle critiche appaiono da una parte ingenue, nel prospettare il consumatore come un elemento totalmente passivo, trasparente e anche «innocente» rispetto all’azione del plagio mass-mediatico. Dall’altra parte tuttavia esse non sono superate, soprattutto per quanto riguarda gli intenti e le tecniche persuasive usate dalla società di massa come acutamente ebbe a notare Vance Packard nel 1988. Infatti l’autore de I persuasori occulti (1957), dovendo scrivere l’introduzione alla riedizione del suo best seller, notò con stupore «quanto poco le cose erano mutate», «praticamente tutte le strategie descritte in questo libro si usano ancora». Infatti non è diminuito l’uso della pubblicità, né l’intento persuasivo della stessa e non è diminuito neanche il consumismo, né l’intento da parte delle industrie di vendere i propri prodotti a qualunque costo. Non potrebbe essere allora che la Pop non facesse del semplice «paesaggismo urbano», ma fosse piuttosto la ciliegina sulla torta di un sistema che mirava in quegli anni imporre un modello economico al mondo intero e che trent’anni dopo forse c’è riuscito attraverso la cosiddetta «globalizzazione»? Se così fosse, allora non sarebbe un caso che la scena dell’arte contemporanea assista oggi al trionfo delle estetiche neo-pop. Questo fa sì che la Pop e il suo contesto culturale, lungi dall’essere superati, siano argomenti di estrema attualità.

Dunque, in questo primo libro della Carriero la Pop Art è solo la punta di un iceberg, è il vessillo sventolante di una realtà ben più imponente e per certi versi drammatica. È infatti il momento in cui si consuma la crisi, se non la morte, dell’Uomo moderno nella società di massa.

Da un certo punto di vista il testo infatti si interessa dello smarrimento dell’Uomo con la «U» maiuscola (creato dall’episteme occidentale della modernità) nel sistema degli oggetti da lui stesso generato. Questo evento di portata epocale assume quasi i contorni di un’apocalisse culturale. Non si dimentichi infatti che per molti anni il dibattito sulla società di massa è stato dominato dal confronto delle posizioni dei cosiddetti «apocalittici» e dei cosiddetti «integrati». La Carriero non evoca mai direttamente lo spettro dell’apocalisse culturale, ma colloca la sua riflessione in un crocevia di saperi e di correnti di pensiero, da cui emerge una descrizione della situazione capace di rileggere anche le derive apocalittiche in una chiave che, come vedremo più avanti, è innovativa e imprevista. Il vero protagonista dello scritto non è tanto la Pop come fenomeno storico-artistico (l’autrice non propone nessuna esplicazione cronologica o tassonomica), ma il gioco dei rimandi tra soggetto, oggetto e segno; tra volto, maschera e specchio; tra interiorità, mondo esterno e superficie dell’immagine; tra valore d’uso, valore di scambio e valore segnico. Potremmo continuare così con tutta la serie di slittamenti e transiti che si producono, secondo l’autrice, nel passaggio dall’ordine della vecchia società borghese alla «nuova» società di massa.

2. Le radici teoriche

Abbiamo parlato di un crocevia culturale al centro del quale l’autrice si trova ad operare. Esso è costituito principalmente da tre direttrici a loro volta composte da altre e che affondano tutte e tre le loro radici nel dibattito degli anni Sessanta, coevo dunque alla Pop.

La prima di queste direttrici è costituita dalla tradizione esistenzialista. La Carriero fa vari riferimenti a Jean-Paul Sartre, a Martin Heidegger e uno pure a Maurice Merleau-Ponty. La seconda direttrice è invece quella che riguarda il retroterra culturale di Mario Perniola (con cui la Carriero si laurea). In tale retroterra troviamo Walter Benjamin, Roland Barthes, Jean Baudrillard, Christopher Lash, Gillo Dorfles e anche un accenno a Guy Debord. Infine c’è una terza direttrice, che per certi versi potrebbe essere accomunata alla prima, e riguarda l’antropologia culturale e in particolare l’antropologia storica adottata dalla scuola italiana di storia delle religioni. In questo caso l’autore è uno solo (se si eccettua uno sporadico riferimento a Frazer) ed è a Ernesto De Martino.

Il discorso della Carriero si muove programmaticamente tra oggetto e oggettivazione (com’è pure riportato dal titolo). Il fatto di porre la questione in questi termini denuncia una probabile ascendenza sartriana. È infatti il filosofo francese ad insistere sull’oggetto in due accezioni: la prima è l’oggetto inteso come cosa (l’essere-in-sé) verso la quale si rivolge l’intenzionalità dell’io, tanto che l’io non abita nella coscienza, ma nel mondo delle cose e la coscienza si dà quindi come apertura al mondo (la coscienza è sempre per Sartre coscienza di qual-cosa). Quindi l’oggetto come cosa è sempre intenzionato dall’attività oggettivante dell’io. La seconda accezione è quella dell’oggetto in rapporto col soggetto, tale per cui un soggetto può divenire oggetto agli occhi di un altro soggetto (Io, per me sono un soggetto, ma per un altro individuo sono un oggetto = essere-per-l’altro). Qui entra in gioco la possibilità per il soggetto di farsi oggetto. Questa possibilità è intravista da Sartre anche nello scritto La nausea, dove la scoperta dell’assurdità e della gratuità del mondo, porta a concepire se stessi come cosa tra le cose, e quindi al senso della nausea che è evidentemente descritto come uno stato di crisi (di senso e di valore). Perciò il farsi oggetto, anche nell’essere-per-l’altro, è sempre legato a una situazione di crisi. L’unica accezione vagamente positiva di questa auto-oggettivazione in ambito esistenzialista francese, è l’oggettivazione del corpo che in Merleau-Ponty costituisce la premessa alla costituzione del mondo. Rimanendo nella direttrice esistenzialista, il concetto di «cosa» viene esaminato da Heidegger in un duplice aspetto (almeno per quello che ci interessa in questa sede). In primo luogo c’è la «cosa», descritta in Essere e tempo, che è posta nella dimensione dell’utilizzabilità (Zuhandenheit) da parte dell’Esserci ed è quella a cui fa espressamente riferimento la Carriero. Si tratta di una cosa che non ha niente a che spartire con la kantiana «cosa-in-sé»(«Das Ding an sich») o con qualsiasi pretesa di «oggettività» di tipo scientifico. In secondo luogo c’è invece la cosa, la cui essenza (Dingheit) è designata dal termine Verlässigkeit che vuol dire «Fidatezza». In questo senso la cosa non è solo predisposta a un uso, non è un semplice strumento, ma qualcosa di più, che va al di là delle rigide determinazioni. Tale aspetto della «cosa» è quello espresso nell’Origine dell’opera d’arte, in cui Heidegger parla della relazione tra la «cosa» e la «terra» e in cui si fa il famoso discorso sulle scarpe dipinte da Van Gogh. Ora, tali scarpe non esprimono più solo l’utilizzabilità, sono invece qualcosa di primario e di essenziale che lascia emergere la verità. Anzi sono ciò di cui la pittura disvela la verità (Aletheia). La Carriero contrappone polemicamente (verso la Pop Art) le scarpe vanghoghiane descritte da Heidegger alle scarpe raffigurate in un’opera di Warhol («Diamond Dust Shoes») in cui esse assumono esattamente il significato opposto, quello cioè di merce inautentica, in cui la marca e la linea cercano di ammaliare il consumatore senza la presunzione di svelargli alcuna verità. A mio avviso resterebbe però da chiedersi quale delle due operazioni (tra quella di Heidegger e quella di Warhol) sia in fondo più mistificatoria. In questa sede comunque ci interessa il fatto che, in ogni caso, Heidegger propone una visione della «cosa», che non la rende mai del tutto autonoma e autosufficiente e che, in ciò, è distante dall’obbiettivismo scientista o mercantile che sia. Sotto questo aspetto Heidegger e Sartre condividono il rifiuto verso la sovranità delle cose e la loro impudica pretesa di autosufficienza. Questo discorso invece non vale per la generazione successiva che pone l’autosufficienza di un linguaggio-oggetto e delle cose in generale a spese del soggetto il quale vi annega e vi si smarrisce. Curiosamente questo discorso trae spunto, in vari casi, ancora dallo stesso Heidegger, quando nella Lettera sull’umanismo sposta il baricentro del suo pensiero dall’Esserci (l’Uomo ancora umanisticamente inteso) al linguaggio, nel quale, secondo Heidegger, si manifesta l’essere. Il caso vuole poi che Heidegger scriva questa Lettera proprio in risposta al testo-proclama di Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, sancendo così una frattura tra i due esistenzialismi o tra l’esistenzialismo della giovinezza e la svolta (Kehre) linguistica. Sta di fatto che nella cultura francese degli anni Sessanta il trionfo dell’oggetto è portato alla ribalta proprio attraverso il discorso sul linguaggio e sui segni che si va affermando con lo Strutturalismo o tramite il suo analogo letterario, rappresentato dal Nouveau Roman, o infine per mezzo del suo correlato artistico, rappresentato dal Nouveau Realisme. Questo è il momento in cui si afferma il paradigma linguistico come paradigma impersonale, freddo, in cui il soggetto scompare, essendo succube delle regole di enunciazione, delle ridondanze sistemiche e delle regolarità strutturali. Nasce la moda degli studi di semiotica. Ovunque si parla di significanti, significati e segni. In questi climi teorici si sviluppa lo studio della comunicazione di massa. Questo è il momento della formazione di autori come Perniola, il momento del grande successo di Roland Barthes, Michel Foucault, Alain Robbe-Grillet, Arman, e dove si rilegge anche Walter Benjamin, dove nascono le esperienze artistico-politiche dell’Internazionale Situazionista. Questi però sono anche gli anni del grande successo della Pop Art che costituisce l’oggetto della presente indagine. Quindi a questa situazione, già di per sé complessa, si aggiunge anche la considerazione che le basi teoriche dell’autrice trovano le loro radici proprio nello stesso contesto culturale da cui emerge il suo oggetto di studio rappresentato dall’oggettività Pop. In questo senso la ricerca sulla Pop diventa da parte della Carriero anche una ricerca su alcune importanti premesse del proprio pensiero.

Alla terza direttrice, quella relativa a De Martino, va dedicato un ragionamento a parte, anche perché è da qui che prende spunto la tesi più originale presentata nel libro e che ritorna in più riprese nel corso della trattazione. De Martino, da una parte è stato colui che, dopo Raffaele Pettazzoni, ha raccolto l’eredità della scuola italiana di storia delle religioni, e dall’altra è stato un personaggio unico nel panorama degli studi antropologico-religiosi per la particolarità del suo pensiero. Già Pettazzoni aveva cercato di mediare la tradizionale attenzione italiana per la storia con le istanze che provenivano dal positivismo antropologico ravvisando il suo avversario nelle teorie storico-religiose cristiane sul monoteismo primordiale propugnate da Padre Schmidt. In questo modo egli si faceva prosecutore della lotta delle posizioni laiche contro i tentativi di ricondurre questi studi nell’alveo di una dimensione biblica. In tal senso quindi si faceva portavoce delle istanze antitradizionaliste degli studi positivisti. Da una parte De Martino non rinnega gli studi di Pettazzoni sul monoteismo, e insiste anche sul carattere storico, facendo esplicito riferimento alle teorie dello storicismo crociano. Ma da quest’ultimo eredita anche la polemica contro il positivismo e le varie forme che lui chiama di «naturalismo» (come il funzionalismo e lo strutturalismo). Croce infatti aveva abbassato i concetti scientifici a pseudo-concetti, De Martino quindi va a cercare i propri riferimenti filosofici in quelle scuole di pensiero che condividevano la polemica antiscientista e li trova in particolare in Heidegger e in generale nell’esistenzialismo. Da questo incrocio di influenze ne nasce una personalissima teoria antropologica che mette al centro dell’analisi il bisogno dell’individuo di evitare, attraverso gli strumenti della cultura, la crisi della propria «presenza».

3. Il mito

Un’altra nozione centrale nello scritto della Carriero è quella di mito. Anche per quanto riguarda questo caso ci troviamo di fronte a un concetto mutuato dal dibattito degli anni Sessanta. Infatti questo decennio assistette a un forte interesse per il mito su tre piani: quello antropologico-religioso, quello psicologico e quello semiologico. Procedendo in ordine di anzianità troveremo che il piano più vecchio e più ampio è certamente rappresentato dal discorso antropologico. L’attenzione per il mito comincia con l’antropologia stessa, ma il suo primo momento di «gloria» si ha con James Frazer e il suo best seller Il ramo d’oro la cui prima edizione risale al 1890. Egli è ritenuto il principale esponente della teoria evoluzionista e, secondo lui, il mito costituisce una fase della religiosità umana successiva a quella magica. Ma oltre a questo va sottolineata la chiave d’interpretazione ritualistica che verrà portata avanti soprattutto da Andrew Lang e dalla sua scuola. A questa si contrappone la teoria di Malinowski fautore del funzionalismo che vede nel mito uno strumento di coesione sociale. Ora, senza entrare nello specifico, ci sarà sufficiente ricordare che, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, abbiamo in Europa tre grandi scuole di pensiero rispetto al mito. La prima è rappresentata dall’Antropologia Sociale inglese, erede del funzionalismo malinowskiano, la seconda è invece la scuola fenomenologica, inaugurata da Van der Leeuw e che vede in Mircea Eliade e Karl Kereny le altre figure di maggiore spicco. La chiave fenomenologica di interpretazione del mito viene detta anche «simbolista» perché ritiene che il mito sia una sorta di linguaggio dell’irrazionale costituito da simboli. I simboli non sono convenzionali come i segni, ma hanno un legame intimo con ciò che indicano; quindi nascondono una propria essenza di verità. Da questo punto di vista si procede alla scomposizione del discorso sul mito in un «vocabolario» di simboli che hanno un valore in sé. La terza scuola è invece quella francese. Essa discende dalla sociologia di Durckheim, ma soprattutto dagli studi di Mauss. Da Mauss prendono le mosse tre protagonisti di questo scuola: il sinologo Marcel Granet, il grecista Jacques Gernet e lo storico delle religioni Georges Dumezil. Gernet è il primo che pone in rilievo il problema del linguaggio attraverso le analisi semantiche di alcuni termini greci. C’è poi Dumezil che si può annoverare già come un «protostrutturalista». Egli si interessa al linguaggio, alla struttura ideologica che soggiace a religione e infine realizza un celebre schema tripartito con cui individua le forme basilari della religiosità di tutti i popoli ariani: si tratta della famosa «triade indœuropea». Dopo questo terzetto di autori la scuola francese culmina in Claude Lèvi-Strauss che è considerato la figura di spicco di tutto lo strutturalismo non solo antropologico. Quest’ultimo non si interessa alle funzioni del mito indipendentemente dal suo contenuto. L’analisi strutturale entra nel merito della composizione narrativa del mito e l’analizza nel quadro delle opposizioni o delle altre relazioni che ne disegnano la struttura interna.

Il secondo piano di studi del mito è costituito dalla psicologia, in particolar modo dalla psicoanalisi e dalle sue diramazioni. Freud fa riferimento ai miti narrati dal teatro greco classico per esemplificare i cosiddetti complessi psichici come nel caso del noto complesso di Edipo. Questa operazione ha un doppio aspetto: da una parte c’è un uso strumentale del mito solo per esemplificare un fenomeno psichico, dall’altra parte è ovvio che quel fenomeno psicologico costituisce anche la spiegazione del mito. L’analisi di Freud è tutta incentrata sui contenuti del mito che vengono analizzati al pari di qualsiasi altra produzione narrativa (sogni compresi). Perciò il mito non ha una sua specificità per il fatto di essere tale o come racconto sociale. Esso è solo una delle manifestazione dei simboli che rappresentano in modo travestito le istanze inconsce degli individui e va interpretato attraverso la decodificazione dei simboli come si fa per sogni. La prospettiva simbolica viene ancor più approfondita da Jung, che invece riconosce al mito uno speciale legame con l’inconscio collettivo attraverso la presenza in esso di simboli archetipici. I simboli che si riscontrano nei miti sono dunque legati alle forme psichiche basilari dell’intera umanità. In questo senso essi hanno un valore che non si limita all’indagine delle problematiche psicologiche, poiché acquista un carattere di verità di tipo neo-platonico (lo stesso carattere che poi sarà ribadito da James Hillman con la psicologia archetipica). Non c’è da stupirsi allora se il simbolismo archetipico si congiunge con quello della scuola di fenomenologia delle religioni, fino ad concretarsi in rapporti diretti tra Jung e Kereny.

Il terzo e piano di studi sul mito è invece molto più recente: si tratta della semiologia. Nella Francia degli anni Cinquanta e Sessanta il maggiore esponente di questo settore è Roland Barthes ed è proprio costui che elabora una teoria del mito in ambito semiologico che è pure l’unica teoria del mito che non sia unicamente rivolta ai miti del passato o dei popoli «primitivi», ma a quelli che lui ravvisa nella società occidentale contemporanea. Questo probabilmente è il motivo per cui la sua teoria del mito non è mai stata accolta nel novero degli studi antropologici o religiosi.

Se la psicologia analitica dialoga con la fenomenologia delle religioni, nulla di simile accade per la semiologia. Tuttavia la presenza degli studi strutturalisti sul mito e di quelli psicologici non dovettero mancare di costituire le precondizioni per il discorso barthiano. Infatti Barthes venne identificato come strutturalista e accomunato a Lévi-Strauss nel segno della comune familiarità con Jakobson e Saussure. Il primo saggio con cui Barthes si avvicina al problema del mito è Il mito, oggi che è stato scritto nel 1956 ed è stato pubblicato, insieme a una raccolta di articoli, in Miti d’oggi nel 1957. Appena un anno prima Lévi-Strauss aveva scritto La struttura dei miti. Non sappiamo se Barthes avesse letto questo articolo, ma di sicuro possiamo immaginare che, come si suol dire, la questione del mito fosse un po’ nell’aria, così come lo era quella della struttura. Sappiamo solo che essi, pur appartenendo, secondo i giornali, alla stessa corrente strutturalista, non si citano l’un l’altro. Rimane però il fatto che si percepisce una sorprendente affinità tra le due impostazioni. Lévi-Strauss sostiene che la sostanza del mito sta «nella storia che vi è raccontata» e aggiunge «il mito è linguaggio; ma un linguaggio che agisce a un livello elevatissimo». La teoria del mito di Barthes si annuncia asserendo che «il mito è una parola», non intesa nel senso usuale del termine (non nel senso che il mito si esplica in una sola parola, ma in quello che esso appartiene all’aspetto enunciativo del linguaggio), infatti egli specifica che «il mito non può essere un oggetto, un concetto, o un’idea; bensì un modo si significare, una forma», «il mito è un sistema di comunicazione, è un messaggio». Poi, Barthes, accennando alla teoria dei segni, fa il seguente ragionamento: il segno è rappresentato dall’unione di significante e significato e noi abbiamo in esso la particella elementare del senso. Ora, questa costituisce la natura del messaggio ordinario, non del mito. Qual è allora la particolarità del mito? È che si serve dei segni, così come i segni si servono dei significanti in funzione di un senso superiore, per la costruzione di un metasegno, che svuota di senso i segni che incorpora. Il mito quindi è una forma di metacomunicazione che agisce a un livello metalinguistico. Ciò è piuttosto simile a quando Lévi-Strauss afferma che il mito è un linguaggio che agisce a un livello elevatissimo. Barthes inoltre sostiene che questo senso superiore del mito o meta-senso sia la «forma» e perciò egli ritiene che il mito stesso sia forma. Questo perché il mito lavora con dei segni che, al momento in cui entrano a far parte di esso, non hanno più un significato in se stessi. Quindi allo stesso tempo il mito è fatto di segni ma non è riducibile alla somma di tali segni. Esso allora è la loro forma, quasi nel senso di gestaltico del termine. Questa considerazione si chiarisce curiosamente con quanto scrive Lévi-Strauss: «1) Se i miti hanno un senso, questo non può consistere negli elementi isolati che entrano nella loro composizione, ma nella maniera in cui tali elementi sono combinati [= forma n. d. r.]. 2) Il mito dipende dall’ordine del linguaggio, ne è parte integrante, tuttavia il linguaggio, come viene utilizzato nel mito, manifesta proprietà specifiche [= metalinguaggio n. d. r.]. 3) Queste proprietà non possono essere ricercate se non al di sotto del livello abituale dell’espressione linguistica; in altri termini sono di natura più complessa di quelle che si incontrano in qualunque tipo di espressione linguistica». Dunque i miti si comprendono dalle loro proprietà formali complessive e non dai singoli segni presi isolatamente. Il mito è una comunicazione complessa (o metalinguistica) in cui i significati dei singoli elementi (che erano invece centrali per psicologi e fenomenologi che li consideravano simboli con valore a se stante) vengono completamente sacrificati al senso complessivo. Questo è il nocciolo dell’affinità tra Lévi-Strauss e Barthes. Ora però, se il primo limita la sua indagine mitologica ai classici ambiti dell’antichità e dei «primitivi» il secondo proietta invece questa analisi teorica verso gli allora recentissimi territori della cultura di massa. Lì Barthes ravvede i «miti d’oggi». I suoi miti sono costituiti da pubblicità di detersivi, dai dischi volanti, da Greta Garbo, dalla Citroen, ecc. Il nuovo territorio del mito è la pubblicità.

4. De Martino: il mito, l’oggettivazione e la destorificazione irrelativa come crisi della presenza

In Italia invece per quanto riguarda il mito la situazione è un po’ diversa. Il primo boom di attenzione per il mito c’è negli anni Quaranta: nel 1941 esce Il pensiero dei primitivi di R. Cantoni, nel 1946 La fisiologia del mito di M. Untersteiner. C’è poi lo scrittore Cesare Pavese che mostra interesse per gli studi sul mito (1946) con qualche predilezione per l’ambito fenomenologico e in particolare per Kereny. Su questo stesso fronte nella seconda metà degli anni Sessanta si aggiungerà il contributo di Furio Jesi (che può essere considerato lo studioso che in Italia ha concesso maggiore spazio al mito). Sul fronte opposto invece c’è la scuola italiana di storia delle religioni di indirizzo storicista che era rappresentata in quegli stessi anni da Ernesto De Martino e da Angelo Brelich. Nella tradizione di indirizzo storicista il mito non è un fattore centrale, esso è considerato come un tipo di racconto che si svolge in un tempo che si colloca fuori dalla dimensione storica, ma che trova la propria ragion d’essere nella situazione storica in cui esso si sviluppa e si tramanda. De Martino in particolare scrive distesamente del mito solo nella sua ultima opera (1965) che è uscita postuma (allo stato di semplici appunti preparatori) e che si intitola La fine del mondo. Quindi la teoria del mito demartiniana è posteriore sia a Barthes che a Lévi-Strauss; però il modo di porre il problema è completamente diverso. De Martino sembra insensibile alle novità filosofiche e artistiche dell’ultimo decennio e rimane ancora legato all’esistenzialismo. Egli infatti non intende il mito come un messaggio linguistico da analizzare nelle sue proprietà metacomunicative e strutturali. La sua teoria del mito si impernia sul concetto di destorificazione. L’uomo, secondo De Martino, è immerso nella storicità del proprio vivere e operare; la cultura stessa è un modo per recepire questa dimensione storica (della vita e del mondo) e darle un senso. Questo senso viene dato, da una parte, attraverso la costruzione di un «mondo» popolato di «oggetti» che vengono riconosciuti per la loro utilizzabilità (come le «cose» in Heidegger) e, dall’altra parte, attraverso il riconoscimento della propria «presenza» e soggettività, e quindi del proprio ruolo in questo ordine mondano. Dunque, il processo di oggettivazione della realtà e affermazione della propria presenza sono due facce della stessa medaglia: se va in crisi l’una va in crisi anche l’altro (e viceversa) e ne segue la «destorificazione». Ad es. se non riesco a riconoscere più gli oggetti che mi circondano (la forchetta, il telefono) vuol dire che mi sto alienando e viceversa se mi alieno pian piano anche gli oggetti non significheranno più niente di preciso per me (anche se non bisogna ridurre la destorificazione alla sola alienazione mentale). L’alienazione mentale costituisce un esempio di destorificazione incontrollata o «irrelativa» in cui saltano tutte le coordinate che regolano la vita «normale». A livello sociale, essa corrisponde alla decadenza o alla crisi generalizzata che si manifesta nell’idea dell’apocalisse culturale. Ma, sempre a livello sociale, questa «destorificazione» può anche essere controllata o istituzionalizzata e svolgere addirittura un ruolo di ricomposizione dell’unità culturale. Il mito, da questo punto di vista, diviene un analogo e un complementare del rito. Infatti entrambi aprono un tempo in cui la storicità è sospesa e in cui si manifestano istanze di crisi destorificanti che poi però vengono ricondotte a un senso e riconciliate con il tempo storico. Scrive De Martino: «Il simbolo mitico-rituale (o religioso) è strumento di ricerca, di ripresa e di reintegrazione dei contenuti psichici alienati, ed è al tempo stesso strumento di destorificazione della storicità della condizione umana. In quanto per un verso il simbolo mitico-rituale ricerca, riprende, configura, ferma e reintegra la «storia perduta della presenza», e per un altro destorifica la storia nella quale la presenza avanza, rischiando di perdersi, viene tecnicamente raggiunto un sistema di protezione per esserci nella storia» (De Martino, 1965, p. 254). Esso quindi è uno strumento di «reintegrazione» e di «protezione» della presenza («per esserci nella storia»). L’uomo infatti, specie quello «primitivo», ha continuamente paura di perdere la propria presenza, cioè di smarrire sé stesso e di essere rimangiato dalle cieche forze istintive della natura da cui invece la cultura vuole distaccarsi. Da ciò ne segue una condizione di angoscia che lo porta ad esempio all’uso di particolari tecniche magiche che gli danno la sensazione di poter controllare la situazione. Per l’uomo moderno il rischio non è rappresentato tanto dalla natura primigenia che si rimangia l’umanità ritrasformandoci in animali, ma dalla società divenuta ormai estranea, poco tranquillizzante, pericolosa, con le sue guerre, tensioni sociali, la competizione, ecc. Riprenderemo poi questo discorso, per il momento ci interessa stabilire che per De Martino «il mito è la tecnica di occultamento della storicità da oltrepassare e tecnica di configurazione, di recupero di reintegrazione della storicità non oltrepassata. Il mito come esistenza protetta» (De Martino, 1965, p. 234). In un altro passo poi scrive. «Le vicende mitiche di numi narrano di numi, non di uomini: ma noi possiamo leggervi la storia di uomini che si perdono, si cercano, e drammaticamente in misura più o meno angusta, si ritrovano» (Idem).

Venendo quindi alla nostra autrice possiamo dire a questo punto che compie la seguente operazione: in primo luogo riprende la nozione di mito elaborata da Barthes, in quanto le consente di leggere come miti le produzioni semiotiche contemporanee (le pubblicità, le confezioni, i divi dello star system, ecc.) e anche le stesse opere d’arte, che assumono tali elementi a soggetto della rappresentazione. In questo modo la Pop art diventa in senso barthiano un «meta-mito». Quindi essendo già il mito un metamessaggio l’opera Pop diventa un metamessaggio al quadrato o un messaggio al cubo. Il mito, secondo Barthes, «ruba» le parole, le svuota di senso per asservirle a un senso generale più comprensivo che è nuovo, ma che al contempo deve apparire come naturale. «Il mito trasforma la storia in natura» (B., 1956, p. 210) scrive Barthes e cioè ci offre il messaggio come cosa ovvia e scontata. Inversamente, se il mito viene decifrato, viene annullato sotto l’evidenza del suo movente. Quindi ad esempio la vecchia pubblicità «chi vespa mangia mela» svuotava l’idea di motociclo come mezzo di trasporto e quella del mangiare la mela come mezzo per nutrirsi; liquidava questi significati in favore di uno nuovo, che sostanzialmente voleva dire che chi si fa vedere con quel tipo di motociclo ha successo con le ragazze. Questa era già la costituzione di un mito. Adesso, se, poniamo, un Mario Schifano avesse ripreso questa pubblicità per farne un’opera d’arte, egli avrebbe a sua volta svuotato il mito per costruire un altro mito, il quale questa volta voleva dire che la sua arte si occupava dell’uso quotidiano della comunicazione di massa. È chiaro che a questo punto non rimane più nulla del significato ad es. della mela. Essa è stata doppiamente estraniata. L’oggetto ha perso sia il suo valore comune (come frutto e come cibo) sia quello simbolico (il pomo dell’eden, il peccato originale, il sesso) e non è rimasto che in quanto simulacro anonimo della società dei consumi. Come si vede i «miti d’oggi» non tendono a una riconciliazione con la realtà che viene rimessa sul «giusto» binario della storia, ma verso una deriva incontrollata come nella destorificazione irrelativa in cui gli oggetti sono sottoposti a un implacabile processo di designificazione. A questo punto quindi la Carriero fa il salto e lega il mito d’oggi barthesiano al mito demartiniano. Quindi anche il mito barthesiano viene visto nell’ottica della destorificazione. Ma, non avendo il mito barthesiano alcuna particolare necessità di riconciliarsi con la storia, esso non viene visto come una forma di destorificazione istituzionale, ma come forma di destorificazione irrelativa. Quella cioè della crisi della capacità di oggettivazione e quindi della crisi della costruzione del reale in funzione di un esserci che deve lottare per la propria «presenza» (altrimenti sarebbe un «esserci» che non «c’è»). Questo passaggio tra mito contemporaneo e mito tradizionale in funzione della crisi d’identità della cultura diviene il passaggio fondamentale del testo della Carriero al momento in cui si lega in generale anche a tutta la problematica sartriana dell’oggettivazione come attività costitutiva del soggetto e all’altro tema demartiniano che va sotto il nome di «ethos del trascendimento».

De Martino nota innanzitutto che secondo l’esistenzialismo italiano l’esistenza umana non si dà come semplice essere-nel-mondo («In-der-Welt-sein») ma come un dover-essere-nel-mondo. Quindi la sua presenza nel mondo non è scontata. L’Esserci non è gettato (geworfen) nel mondo, il mondo non gli è gratuito. Certo, anche Heidegger ritiene che l’uomo, in quanto Esserci non stia nel mondo allo stesso modo delle cose, poiché il mondo è per lui l’orizzonte di una progettualità umana che viene identificata da Heidegger come «trascendenza». De Martino invece ritiene che tale attività progettuale e quindi tale trascendenza non si possa imputare sic et sempliciter al singolo uomo in modo per così dire automatico. Questa trascendenza è frutto uno sforzo sociale di valorizzazione della vita. Quindi parla di «ethos» a sottolineare l’elemento etico del dover-essere che in quanto progettante è trascendente, e trascende la vita (si potrebbe dire «la nuda vita») nel valore intersoggettivo (e cioè sociale e culturale) della vita stessa. Questo secondo De Martino è il punto di base, prima del quale non c’è altro. Questa è la fucina della costruzione sociale del mondo e quindi delle categorie, delle cose nella prospettiva della loro utilizzabilità, dei ruoli, dei concetti, del linguaggio ecc. Quindi il momento primario anche dell’analitica esistenziale è comunitario e sociale, non individuale. La cultura è impegnata costantemente nello «sforzo di sollevarsi dalla vita come finitezza e bisogno immediati» (p. 682). Altrove questo ethos del trascendimento è visto addirittura come un’energia o una forza che spinge gli uomini alla creazione dei valori e accende il motore della storia (se non addirittura del progresso). Questa spinta però può anche venire meno e aprire così il campo a decadenza e crisi.

5. Destorificazione irrelativa ed estetica della merce

Il soggetto può perdersi, non distinguersi più dalle merci o consumarsi con esse, diventare esso stesso un semplice prodotto usa-e-getta. Egli è continuamente tentato dalla seduzione della merce, che gli chiede di rispecchiarsi in essa e quindi di spersonalizzarsi nel farsi oggetto esso stesso. In questo senso confluiscono in questa dinamica di destorificazione anche la teoria baudrilliardiana della seduzione e quella della simulazione. Infatti la seduzione chiede all’individuo di «morire come realtà e di prodursi come gioco illusionistico» (B. p. 76), di essere lo specchio ovvero la lusinga dell’altro. Nelle dinamiche basate sulla seduzione, come quelle presenti in una società dominata dalla pubblicità e da comportamenti consumistici, l’ostentazione acquista il ruolo fondamentale, la comunicazione prevarica la fisicità, la simulazione trionfa sulla realtà. Il rischio è allora quello di ritrovarsi senza coordinate, nello smarrimento totale, in un gioco di specchi fatto di merci semiotiche di cui l’arte Pop non sarebbe altro che il vertice linguistico. Si osanna l’oggetto nella sua sola banalità per distruggerne il senso. Dietro l’apoteosi oggettuale della Pop la Carriero scorge solo la naturalizzazione di un movente tutt’altro che costruttivo e cioè: il consumo nichilista del consumo stesso, che può essere scambiato per critica, ma che in realtà è semplice sfruttamento degli ultimi logori significati rimasti. La Pop non è quindi la critica del mercato, ma la prosecuzione della sua logica all’interno delle arti. Ma queste tesi ve le spiegherà direttamente il testo: la parola all’autrice.

Vedi anche a questo libro la recensione di Alessandro Ialenti.