Il Lethe e l’Eunoè danteschi nell’ottica anselmiana

In quest’articolo tentiamo di interpretare le immagini dantesche relative ai fiumi Lethe ed Eunoè, presenti nei canti finali del Purgatorio concernenti il paradiso terrestre, alla luce di alcuni punti fondamentali del Proslogion di Anselmo.

Il pensiero di Anselmo, secondo alcuni acuti studi, influenzò Dante a più riprese nella Divina Commedia e può fornire delle chiavi di lettura interessanti per l’interpretazione dell’opera dantesca. Indubbiamente il platonismo e l’agostinismo medievali influenzarono Dante, specie nel pensiero di alcuni dei suoi massimi esponenti come San Bonaventura, San Bernardo di Chiaravalle e Sant’Anselmo d’Aosta, pensatori dei quali Dante fa menzione nella sua opera. L’ermeneutica deve cercare di individuare nell’opera l’influsso di tali pensatori e dei loro scritti, sia dal punto di vista filologico-testuale, che dal punto di vista filosofico e speculativo. Quest’ultimo aspetto, non avulso dal primo, può permettere una lettura dell’opera che apra a prospettive euristiche e teoretiche sempre nuove, le quali debbono sempre mostrare la loro plausibilità storica e testuale. Di qui la complementarietà tra dimensione storica e dimensione speculativa, le quali giungono a sintesi nell’atto ermeneutico.

1. Gli attributi di Dio nell’esperienza spirituale del Proslogion

Il Proslogion di Anselmo costituisce l’espressione di un profondo cammino spirituale, tra i più grandi della spiritualità medievale. Oltre che un’opera di altissimo valore filosofico-teologico e di mirabile vigore speculativo, esprime il dinamismo dell’uomo che è alla ricerca di Dio e che, all’interno dell’esperienza di fede, cerca di capire le ragioni di ciò che crede ed esperisce. La ragionevolezza del percorso nasce dall’esperienza stessa del percorso e solo all’interno di tale esperienza, oltre ogni astratto formalismo logico. La razionalità del credo ut intelligam è la razionalità interna a quell’esperienza di fede che si vive, una razionalità che il credente cerca, vivendo intensamente la fede, una fede che ha il dovere e la gioia di comprendere, per quanto gli sia possibile.1

Il celebre «argomento ontologico» presentatoci nei capitoli 2-3-4 del Proslogion costituisce come la base potenziale, dalla quale si ergono e si sviluppano i successivi ragionamenti dell’opera e le successive, sottilissime, argomentazioni.

Se Dio è ciò di cui nulla di più grande si può pensare, allora ad egli spetteranno gli attributi congeneri ad una tale natura. Il primo di questi attributi, di cui viene fatta menzione, è l’autosussistenza, cioè l’essere per se stesso, a cui si affianca la capacità di creare tutte le altre realtà dal nulla. Dio, dunque, è ente sommo e creatore di tutte le cose, se tale non fosse, non sarebbe ciò il cui maggiore non si può pensare. Ed, affianco al sommo essere sussistente, viene sottolineata della natura divina la somma bontà, origine di ogni altra bontà. Al sommo bene, infatti, non può mancare nessun bene, giacché questi è fonte di ogni bene ed, ultimativamente, ciò di cui non si può pensare nulla di più grande. Da ciò deriva il possesso primo e pieno di tutti gli attributi assiologicamente positivi come la giustizia, la verità, la beatitudine e tutto ciò che è meglio essere piuttosto che non essere. Se non avesse questi attributi, Dio non sarebbe ciò il cui maggiore non si può pensare, o meglio: proprio in quanto Dio è ciò il cui maggiore non si può pensare, allora Egli possiede tutti gli attributi che è meglio essere piuttosto che non essere.2

Ma poiché è meglio essere sensibile, onnipotente, misericordioso e impassibile, piuttosto che non esserlo, in che modo sei sensibile, se non sei un corpo;3

Dio, dunque, è anche sensibile, pur non essendo corporeo. L’affermazione anselmiana, apparentemente paradossale, viene spiegata, nel capitolo sesto, nella sua profonda coerenza e veridicità. Infatti, se la conoscenza sensibile rappresenta una qualche forma di conoscenza ed una reale partecipazione alla conoscenza, seppur per mezzo dei sensi, allora Dio, seppur non sia corporeo, è sommamente sensibile in quanto conosce ogni cosa in modo sommo:

Quindi, o Signore, sebbene tu non sia un corpo, tuttavia veramente sei tanto sommamente sensibile, quanto conosci ogni cosa in modo sommo e non come conosce l’animale, con il senso corporeo.4

Ed, affianco alla sensibilità, si mostra anche la coerenza dell’onnipotenza di Dio e della compatibilità tra misericordia ed impassibilità.

Dio è onnipotente, infatti ciò che è onnipotente è maggiore di ciò che non lo è, tuttavia tale onnipotenza non coincide con il poter fare tutto: Dio, infatti, non può mentire, né corrompersi, né negare il vero e trasformarlo in falso, né trasformare un fatto accaduto in non accaduto. Queste cose, afferma Anselmo non manifestano potenza, bensì impotenza. L’onnipotenza verace, infatti, è legata al Bene ed al Sommo Bene, fonte di ogni altro bene. Operare il bene è vera potenza, sia nell’uomo, il quale coopera al bene, sia in Dio, il quale è fonte di ogni bene; operare il male, in varie forme, invece, non è potenza, bensì impotenza, giacché comporta l’assoggettamento dell’agente alla forza della malvagità e della avversità. Dunque, chi «può» il male, non può per potenza, ma per impotenza. Il potere operare qualcosa di male comporta impotenza, giacché è la malvagità ad operare e a «potere» su colui che opera il male. Parlare di potenza per colui che opera il male è utilizzare il termine in modo improprio.

Per questo appare ora coerente come Dio, sebbene sia onnipotente, non «possa» operare molte azioni malvagie, in quanto, essendo il sommo bene auto fondato ed autosufficiente, non subisce l’influsso della malvagità e dell’avversità:

Da qui dunque, Signore Dio, appare più veramente che tu sei onnipotente, poiché nulla puoi per impotenza e nulla ha potere contro di te.5

Dio è anche misericordioso ed impassibile assieme. L’impassibilità riguarda Dio in sé, il quale non prova per se stesso una passione; la misericordia riguarda invece noi e il nostro modo di sentire: Dio è misericordioso in relazione a noi che sentiamo la sua misericordia, allorché Egli si volge a guardare noi miseri, a salvare noi infelici e a perdonare noi peccatori. Dio in sé non prova alcuna passione, essendo impassibile, ma si mostra misericordioso nella sua azione verso di noi, nel suo volgersi a salvare noi miseri.6

E veniamo ora al vero fulcro della nostra indagine su Anselmo, che si mostrerà la chiave di volta per la nostra interpretazione dei fiumi Lethe ed Eunoè del Paradiso terrestre nella Divina Commedia: la giustizia di Dio, contemperata al suo perdono ed alla sua misericordia verso di noi.

La questione di quest’armonia tra somma bontà e giustizia di Dio viene riassunta dalla domanda, con la quale inizia il capitolo nono: «ma in che modo perdoni i malvagi, se sei totalmente e sommamente giusto?» L’elaborazione anselmiana di quest’interrogativo segue la stessa dinamica dei capitoli precedenti, giacché costituisce un percorso orante di progressiva coscientizzazione di ciò che si crede e che si vive nell’esperienza di fede. Dio ci supera e ci abbaglia con la sua luce inaccessibile, tuttavia l’uomo, finché può ed aliquatenus, può intelligere ciò che esperisce per fede.

Dio si mostra buono sia con i buoni sia con i malvagi a motivo della sua somma bontà: Egli abita una bontà inaccessibile e da tale bontà deriva, come da una fonte, il fiume della sua misericordia. Noi vediamo la direzione dalla quale questo fiume scorre, tuttavia, per l’altezza e la sublimità insondabile, non riusciamo a scorgere la luminosissima sorgente dalla quale sgorga fragoroso questo fiume di misericordia.

Questa bontà si armonizza con la giustizia di Dio: Dio è giusto e per questa stessa giustizia si mostra benigno verso i malvagi; la giustizia di Dio deve armonizzarsi con gli altri attributi di Dio, giacché Dio è, fondamentalmente, ciò il cui maggiore non si può pensare. Ora è maggiore essere buono sia con i buoni che con i malvagi, che essere buono solamente con i buoni; è maggiore essere buoni sia punendo che perdonando i malvagi, che essere buono solo punendoli. Il fatto che, giustamente, Dio punisca i malvagi non desta meraviglia, desta meraviglia il fatto che faccia il bene anche ai malvagi e questa è la meraviglia del suo essere ciò di cui il maggiore non si può pensare. La sorgente della sua bontà è altezza meravigliosa ed abbagliante: Dio salva i giusti con l’accompagnamento della giustizia e libera i peccatori che la giustizia condanna. Ed ecco il capolavoro teoretico speculativo di Anselmo, inserito nel percorso riflessivo dell’uomo, il quale, comprendendo ciò che crede ed elevandosi alla contemplazione del principio del suo essere, cioè di Dio, conosce anche se medesimo.7 Dio, esercitando giustizia e bontà che nel suo essere sono armonizzate, salva i giusti, conoscendo i beni che ha loro donato, e libera i peccatori, ignorando i mali che Lui ha odiato. Conoscere i beni per salvare i giusti e ignorare i mali per liberare i peccatori è il modo di agire di Dio, nella sua giustizia e bontà misericordiosa. Questa dinamica sarà esperita su se medesimo e sulla propria vita intima da Dante nel Paradiso terrestre, proprio ai vertici di quel Purgatorio, che rappresenta la dimensione dove si palesano assieme, in un vincolo indissolubile, la bontà e la misericordia di Dio.8

Se non è lecito dire questo, bisogna credere che tu giustamente hai misericordia dei malvagi.9

Così, pertanto, senza contraddizione tu giustamente punisci e giustamente perdoni.10

Dio perdona giustamente i malvagi, per la sua misericordia e bontà e non per la bontà carente dei malvagi; Dio punisce, giustamente, i malvagi a motivo delle loro colpe. Dio è giusto secondo lui e non secondo noi, allorché perdona i malvagi, così come è misericordioso e compassionevole secondo noi, ma non secondo lui, giacché in sé non viene colpito da affetti, ma resta impassibile.11

E Anselmo continua, nel suo percorso afairetico, a tentare di comprendere quella potenzialità di contenuti intelligibili che l’esperienza di fede contiene.12 È un vero percorso in Dio e nell’intelligibilità di ciò che crediamo, così come l’itinerarium dantesco, il quale guidato dalla provvidenza, aiutato dalla fede, viene tradotto in termini razionali, per quanto ad un omuncolo sia possibile.

Come sottolineeremo nel terzo paragrafo, quest’itinerarium porta l’uomo alla beatitudine, alla contemplazione di Dio, inteso come Uno Bene ed assieme Uno e Trino. Questa dinamica assiologico-trinitaria è presente sia in Dante che in Anselmo. Il prosieguo della riflessione anselmiana sull’esperienza di fede si articola proprio su questa dinamica assiologico trinitaria, muovendosi all’interno dell’interrogazione del credente, il quale sa di redimersi partendo dalla condizione adamitica di peccato. Questa redenzione nella fede porta l’uomo a esperire e a comprendere, elevandosi attraverso un’illuminazione che proviene da Dio medesimo, nella conoscenza di quel Sommo Bene, che si mostra essere anche Trinità.13 Quest’esperienza di contemplazione dell’Altissimo, si accompagna sempre alla consapevolezza del limite umano, giacché la conoscenza dell’origine metafisica si mostra essere anche conoscenza di se medesimi. Dio pone l’uomo di fronte a se medesimo e tale dinamica, come vedremo, è presente anche in Dante.

Dio è dunque Uno e identico a se medesimo, i suoi attributi non sono parcellizzati in Lui, ma sono totalmente unitari e compresenti, anche se il nostro intelletto, per il suo limite, è portato a pensarli distintamente.14 Da quest’assunzione del concetto di identità-unità di Dio prende forma nel Proslogion tutta la riflessione sulla eternità di Dio: la eternità si fonda sul concetto di Unità. A Dio tutto è compresente, in Lui vi è soltanto un eterno presente, una compiutezza né parcellizzata, né temporale; il tempo prevede compimento ratificato e distinzione intrinseca tra i tre modi del tempo, quali il presente, il passato ed il futuro. Questa differenziazione e distinzione temporale, che comporta incompiutezza ontologica è in Dio superata dall’unità assoluta, dalla vera eternità. Dio supera il tempo, ma altresì lo contiene, giacché ne è l’origine, così come è origine di tutte le cose eterne.15 Dio è l’eternità somma, che supera ogni altra eternità: ogni eternità inferiore a Dio è dipendente da Lui ontologicamente e non autofondata; Dio, invece, è autofondato ed autosufficiente. Inoltre, ogni realtà eterna, in quanto non autosufficiente a se medesima, può essere pensata come avente una fine, mentre di Dio non si può pensare. Dio solo è assoluto in senso proprio, ciò che è, lo è tutto e sempre.16 Eternità e Unità di Dio sono legate assieme: Dio supera il tempo e la storia dell’uomo e offre all’uomo la sua più alta e autentica possibilità: la beatitudine…di questo Dante si mostra consapevole.

2. L’esperienza di Dante nel Paradiso terrestre: tra sensibile ed eterno

L’esperienza purgatoriale di Dante mira alla espiazione del peccato ed ad una purificazione propedeutica alla salita al cielo. Quest’esperienza culminerà, ultimativamente, nella contemplazione di Dio, del suo mistero intratrinitario, del «volto» del Figlio, nel quale vi è l’archetipo di quella imago Dei che costituisce l’essere autentico dell’uomo.

Una delle fonti speculative e teologiche di questa dinamica è, come ha perspicacemente mostrato Carlo Paolazzi, il pensiero di San Bonaventura, uno degli apici della tradizione francescana, a cui Dante era assai legato, quel San Bonaventura che, sulla scia dell’agostinismo e del neoplatonismo medievale, si mostra a sua volta assai influenzato da Anselmo.17 E, come ha sottolineato Ghisalberti, una della fonti più interessanti e profonde dell’esperienza spirituale e della «filosofia» di Dante è proprio Anselmo, un Anselmo che, sorprendentemente, compare a più riprese e può divenire una della chiavi ermeneutiche della poetica del sommo poeta.

Possiamo vedere come ad esempio, il termine volto, che ritorna ben cinque volte nel capitolo primo del Proslogion, costituisca uno dei temi più importanti di quella cantica purgatoriale, in cui l’espiazione del peccato rappresenta uno dei punti chiave. Anselmo parla della capacità dell’uomo di contemplare il volto del Signore: la purezza dell’uomo, ottenebrata dal peccato, è associata al potere umano di contemplare il volto del Signore. L’uomo, imago Dei, poteva contemplare Dio nello stato anteriore al peccato originale; l’uomo dopo il peccato originale è caduto nella tenebra, nel pozzo, è incurvato e non può contemplare il volto del Signore, dunque è costretto a cercarlo: «Signore cerco il tuo volto!»18

Essendo la capacità umana di contemplare il volto del Signore, contemplazione dalla quale deriva la beatitudine, una caratteristica propria dello stato antecedente la caduta, questa capacità è stata offuscata dal peccato originale e deve essere, tramite la grazia illuminante del Signore, pulita e ripristinata. Il contemplare il Volto di Dio costituisce una sorta di effetto della pulizia del volto dell’uomo, di risanamento della sua autentica immagine: contemplare il volto di Dio costituisce il volto autentico dell’uomo, la sua autentica identità. E questa dinamica è la dinamica dantesca, che ricorda meravigliosamente per immagini l’inizio del Proslogion: due esperienze a confronto che si uniscono e si fondono in un unico e comune orizzonte, quello della ricerca del volto di Dio, nel quale l’uomo contempla la sua origine e, contemplando tale origine, riscopre e realizza se medesimo.

Dante all’inizio del Purgatorio viene accompagnato da Virgilio sulla marina dal dolce e candido limo a lavare il suo volto dalla lordura infernale. Il riveder le stelle dopo l’oscurità infernale rappresenta un rivedersi, un risanarsi dall’oscurità del peccato e dalla sporcizia, che esso posa sul nostro volto, offuscandolo nelle fattezze.19 Il peccato deforma, trasmuta in serpenti, arroventa, infanga e deturpa l’autentica immagine dell’uomo. La redenzione e la vicinanza con Dio, progressive, alleggeriscono l’uomo e lo riportano all’antico splendore: crescendo il livello ontologico, l’uomo vede crescere se medesimo nell’essere. L’esperienza purgatoriale di Dante, già conscia della bassezza del peccato e del male nella sua radicalità, rappresenta proprio questa redenzione e pulizia dell’essere umano, in un mondo, quello purgatoriale, nel quale misericordia di Dio e giustizia si fondono e vengono, dall’essere umano stesso, percepiti e compresi nella loro unità. Dio perdona perché misericordioso e tale misericordia si accompagna alla giustizia divina, sin dall’inizio sottolineata attraverso l’austera figura di Catone uticense, dalla forte valenza simbolica.20

Ci sembra opportuno sottolineare come il purgatorio costituisca una sorta di «mediano trasposto», cioè un mondo in cui viene mostrato come debba essere possibile l’essere autentico e virtuoso dell’uomo. Il purgatorio è medietà tra inferno e paradiso, tra temporalità ed eternità, tra peccato e redenzione; questa medietà rappresenta l’umanità ma nella sua idealità possibile e concreta. La dimensione umana, storica e sociale dell’uomo è centrale, e ci viene presentata nella sua concretezza ideale, cioè nella possibile, effettiva e normativa forma di vita, che rende attuale e cumulativa la redenzione umana.21 Il Purgatorio ci narra come è possibile al peccatore redimersi, come la sua storicità «debba» essere intesa nell’autentica prospettiva dell’eternità; è un mondo in cui vi è la coscienza della giustizia e misericordia di Dio, alleata alla consapevolezza della possibilità della beatitudine e della eternità. E questa consapevolezza cresce di livello in livello, sino a quel misterioso punto di cerniera e di trapasso posto tra sensibile ed intelligibile, che è il paradiso terrestre, tangente il cielo e posto sulla sommità delle terre, in una montagna altissima, alla quale nemmeno l’abile Ulisse ebbe accesso.22

Del paradiso terrestre, che raccoglie una serie di canti tra i più ricchi di spunti ed enigmatici dell’intera opera, intendiamo sottolineare, dunque, la dinamica antropologica, nella quale si rispecchia Dio stesso: dietro il percorso psicologico ed esistenziale del sommo poeta troviamo i segni dello stesso volere ed operare divino, giacché nell’uomo c’è l’immagine di Dio e il compito dell’uomo è ripristinare la sua somiglianza originaria con il Creatore, somiglianza che il peccato ha deturpato. Nel percorso afairetico di purificazione dell’uomo, che è assieme autoconoscenza e coscientizzazione, assistiamo alla similarità tra operare umano e volere divino.

Nel canto XXXI abbiamo il tema della misericordia di Dio, che perdona il peccatore quando questi confessa; questo tema anticipa di pochi versi l’effettiva immersione di Dante nel Lethe: dopo aver ricordato il proprio peccato, Dante lo dimentica rinascendo, ben conscio della misericordia di Dio. La misericordia di Dio, è anticipata dal tema del ricordo del peccato e seguita dall’immersione nel fiume della dimenticanza, quel fiume che fa rinascere Dante a vita nuova.23 Questo dinamismo tra ricordo, perdono di Dio, dimenticanza del peccato si allea a due temi profondamente anselmiani, che abbiamo sottolineato nella nostra considerazione del Proslogion: il dolore ed il pianto per il peccato e il tema del vero bene.

Quando Beatrice, con toni accusatori e diretti, esorta Dante a confessare il peccato, Dante esperisce una profonda sofferenza ed un profondo rammarico.24 Dante ha seguito i falsi piaceri, dimenticando il messaggio di Beatrice e il suo insegnamento concernente la ricerca del Sommo Bene, che in tal frangente ci viene presentato con le stesse caratteristiche dell’Id quo maius cogitari nequit.

La morte di Beatrice, espressione della caducità di tutte le realtà mondane e della stessa bellezza mondana, avrebbe dovuto spingere Dante alla ricerca dei veri beni spirituali, ma il poeta ha deviato verso la ricerca dei beni transitori, delle presenti cose.

Ond’ella a me: Per entro i mie’disiri, che ti menavano ad amar lo bene di là dal qual non è a che s’aspiri, quai fossi attraversati o quai catene trovasti, per che del passare innanzi dovessiti così spogliar la spene?25

Il rammarico di Dante, in modo chiaroscurale, si affianca così, proprio come nel Proslogion di Anselmo, al tema del Bene e di Dio Sommo Bene; nelle due opere inoltre aleggia il tema della morte, che indissolubilmente si lega a quello del peccato.

In Anselmo il tema della morte si affianca al tema del peccato originale, generando un senso di gemito profondo e di tormento, che il Dottore magnifico supera attraverso l’esperienza della fede e della ricerca razionale ad essa interna. Dio si fa maestro per Anselmo, Dio illumina il pensiero umano e tale luce è la luce della grazia, libata nell’esperienza di fede. Tuttavia appare abbastanza marcato il nesso tra il peccato originale e la tendenza, che l’uomo ratifica e procrastina, alle realtà inferiori, alle bassezze che lo distolgono dal Sommo Bene.

In modo analogo, in Dante il tema della morte di Beatrice si lega al tema dell’incapacità del poeta di mirare alle realtà più alte, ai beni superiori e a Dio medesimo. Il nesso con il peccato originale è sotterraneamente presente, giacché l’immersione nel Lethe, con la quale il poeta rinascerà a vita nuova ricorda il Sacramento del Battesimo e le allusioni ad Adamo e al peccato originale, dal quale Cristo ci ha redento sono continue. Il contrasto tra altezza di Dio e bassezza dei falsi piaceri, dei beni illusori, alla ricerca dei quali l’uomo si abbassa, ci è ricordato dalla morte di Beatrice che possiede qui una valenza dialettica: essa avrebbe dovuto rendere consapevole il poeta della caducità e la transitorietà dei beni terreni, elevandolo al Bene supremo, tuttavia l’ha gettato in una situazione di traviamento spirituale e di perdizione nei falsi piaceri. Questa chiaroscuralità è accresciuta da un fatto essenziale: la vita di Beatrice era per Dante foriera di un insegnamento fondamentale: l’amore terreno deve condurre al Bene supremo che è Dio, come suo senso ultimo, al di fuori di questo orizzonte ogni vicenda terrena si mostra insensata, gettandoci in un’esistenza inautentica. Con la ricerca di beni transitori e mutevoli e distogliendo lo sguardo dal Bene Sommo, Dante si è, come l’uomo di Anselmo, incurvatus ed ha vanificato lo stesso insegnamento di Beatrice, insegnamento che rende due realtà così opposte, come la morte e la vita, vicinissime ed unite. La morte dovrebbe essere una rinascita in Dio, se interpretata alla luce del fine ultimo, ma se l’uomo si incurva alla dimensione del transitorio, la morte è peccato e perdizione.

In tal modo, in un tema filosoficamente fondamentale come quello della morte,26 Dante ed Anselmo sono vicinissimi e tale tema introduce il tema della misericordia di Dio, legato al tema del pentimento e della coscienza del proprio peccato da parte dell’uomo.

Come Anselmo esperisce la misericordia di Dio, all’interno di una profonda consapevolezza del peccato, legata alla coscienza della miseria esistenziale dell’uomo, così in Dante il tema della misericordia di Dio si lega alla consapevolezza esistenziale del peccato e dell’incapacità umana di elevarsi alle realtà superne. La misericordia del Dio che dimentica segue l’esperienza del ricordo del peccato e del conseguente pentimento dell’uomo; solo dopo che l’uomo ha ripercorso il proprio peccato nelle sue cause fondamentali e profonde, questi si apre all’esperienza di una misericordia trascendente, di un amore che perdona, di una bontà che si dona. Il fine di tale percorso di pentimento è Dio, l’origine dell’esperienza del perdono è la sua misericordia, rispetto alla quale l’uomo si scopre passivo ed impotente, ma altresì termine di un amore trascendente:

Ma quando scoppia de la propria gota l’accusa del peccato, in nostra corte rivolge sé contra ‘l taglio la rota27

L’uomo dunque riflette sul proprio peccato e, ritornando sulla sua vita, giunge all’esperienza del trascendente colta nell’esperienza afairetica del proprio essere caduco e mortale. Conoscendo se medesimi, anche nella propria limitatezza, si scopre la presenza del Dio che perdona. Conoscendo se medesimi nelle proprie potenzialità e meriti si scopre la presenza del Dio giusto, al quale assomigliamo e che «ricorda» il nostro merito e valore. L’autoconoscenza, intesa come gnothi seauton, pertanto, è conoscenza della nostra origine metafisica, la quale racchiude la nostra esperienza del male, perdonando i propri peccati, e la nostra esperienza del bene, riconoscendo i nostri meriti. L’esperienza della dimenticanza è creativa per l’uomo e, in Dio, è foriera di salvezza e vita eterna.

Non a caso al Lethe segue l’Eunoè, la cui acqua è foriera di una potenzialità positiva ed assiologica, che introduce alla cantica paradisiaca: dopo aver esperito il male dell’umanità ed il proprio peccato, nella loro radicalità, Dante è puro e disposto a salir le stelle e la sua esperienza di ricordo del Bene diviene un’esperienza progressiva del Bene nella sua radicalità e della propria partecipazione al Bene medesimo. L’autoconoscenza, in quanto conoscenza, comporta un approfondimento della conoscenza di se medesimi legata all’ispessimento dei livelli ontologici: al crescere del conoscere corrisponde una crescita dell’essere, non nel senso che il conoscere produca l’essere, ma nel senso che il conoscere cresce vedendo l’essere crescere con sé in quanto ne esperisce livelli sempre superiori.

L’interiorizzazione dell’esperienza di Dio, che sfocia nella comprensione dell’Id quo maius cogitari nequit viene sempre a legarsi alla dimensione ontologica dell’essere, non consistendo nella mera dimensione interiore e psicologica, giacché quest’ultima è la mera via o porta segreta del grande mare dell’essere.

L’Id quo maius, cercato nella stanza della propria interiorità, esiste veramente e realmente e non solo nel pensiero, non essendone mero concetto, ma realtà così vera e suprema che nulla di maggiore può essere pensato. Il pensiero diviene così l’attestazione della realtà di Dio, che è fonte di ogni essere e Sommo Essere, Sommo Bene e fonte di ogni altro bene. La certezza interiore non è auto fondata, ma si fonda sull’essere stesso di Dio:

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che è maggiore.28

E tu sei colui che sei propriamente e semplicemente, perché né hai un essere passato o futuro, ma un essere soltanto presente, né puoi essere pensato talvolta non esistente. E tu sei vita, luce, sapienza, beatitudine, eternità e molti beni di questo genere, e tuttavia non sei che un unico e sommo bene, tu che sei totalmente autosufficiente, di nulla bisognoso, di cui tutte le cose hanno bisogno per esistere e per esistere bene.29

Lo stesso Dante, esperendo in una vicenda interiore il proprio male e il male dell’intera umanità, rinasce e vede la propria esistenza aprirsi ad una nuova e superiore realtà, che non è mero prodotto del pensiero o fenomeno psicologico, ma vero essere intelligibile che supera e compie la storia.

Quindi il dinamismo interiore di pentimento, anche in Dante, diviene consapevolezza della condizione umana, sul piano antropologico e filogenetico, nella sua bassezza ed, altresì, esperienza progressiva di redenzione e comprensione di ciò che si crede nell’esperienza di fede. E tale comprensione, proprio come in Anselmo — e nella tradizione dell’agostinismo medievale —, è illuminata dalla luce della grazia di Dio.

L’esperienza della condizione di caduta dell’intera umanità, in Dante, ci viene espressa nel prosieguo dell’opera, allorché si narra della degenerazione della Chiesa. Proprio in tal frangente l’esperienza di caduta ontogenetica, superata dal pentimento, si trasmuta nell’esperienza della caduta dell’intera umanità. Quest’umanità, seppur rovinata dal peccato, ruota attorno al Cristo Salvatore e trionferà nella luce della grazia e nella gloria della beatitudine di una Chiesa Trionfante, resa intelligibile, per quanto possibile ed aliquatenus, dall’arte poetica di Dante.

Questa dinamica ci si presenta sempre come dialettica: il Bene ed il male dell’umanità sono legate e presentateci sin otticamente. Le parole di Beatrice in tal senso sono assai illuminanti:

Qui sarai poco tempo silvano; e sarai meco sanza fine cive di quella Roma onde Cristo è romano. Però, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive.30

Dopo la rinascita del poeta abbiamo presentate, oltre al Bene ed al male, la caduta e la redenzione, la degenerazione e la salvezza.

Una volta che Dante è stato immerso nel Lethe e riemerge, le quattro virtù cardinali, danzando attorno a lui, lo portano di fronte al Grifone dalle due nature. Questi è di fronte a Beatrice e, contemplato, si riflette nei meravigliosi occhi della donna, simbolo della teologia. Il Grifone è, in sé stabile ed immutabile, negli occhi della donna, invece, si trasmuta continuamente ora nella sua natura umana, ora nella natura divina come sé l’Uno intelligibile ed immutabile dall’intelletto teologico fosse compreso nella molteplicità, pur senza disperdersi. E tale dinamica di un essere in sé e di un pensiero umano, che cerca di comprendere ciò che crede, ci ricorda quanto Anselmo dice al capitolo sulla misericordia ed impassibilità di Dio:

Infatti, quando ti volgi a guardare noi miseri, noi sentiamo l’effetto della tua misericordia, ma tu non provi una passione. Sei dunque misericordioso, perché salvi gli infelici e perdoni a coloro che hanno peccato contro di te; e non sei misericordioso, perché non sei affetto da nessuna compassione della miseria.31

In modo analogo Dio è in sé unità delle due nature, divina ed umana, ma la nostra comprensione riesce, a suo modo e secondo i suoi limiti, a comprendere questa Unità, che ci illumina e ci trascende:

Pensa, lettor, s’io mi meravigliava, quando vedea la cosa in sé star queta, e ne l’idolo suo si trasmutava.32

E a seguito di questa meravigliosa dinamica, che lascia ammirato Dante, le tre virtù teologali pregano Beatrice di svelarsi a Dante in tutto il suo splendore, lo splendore di una teologia che contempla le realtà divine e da esse viene nutrita ed accresciuta. Dante è abbagliato da tale splendore, uno splendore che pone l’uomo, sempre in modo dialettico, di fronte alla sua autentica potenzialità esistenziale e, assieme, di fronte ai suoi limiti, giacché tale splendore, ad un tempo, ci illumina e ci abbaglia. E sono proprio le tre virtù teologali a ricordare a Dante i propri limiti ontologici con il loro monito: «Troppo fiso!».

A seguito di ciò riprende la mistica processione e ci si presentano nuove tappe, nuovi momenti, ricchi di una valenza ecclesiologica straordinaria, una vicenda filogenetica, della quale Dante è spettatore e cantore, anzi reportator. L’intera processione si ferma di fronte ad un altissimo albero spoglio, è l’albero della scienza del Bene e del Male, di esso non si deve mangiare il frutto e il Grifone, infatti, non lo becca, ma vi lega il carro. Non appena vi lega il carro, l’albero rifiorisce di rose e viole, fiori che simboleggiano la passione: è’la rinascita dell’umanità, a cui viene affidata la Chiesa, cioè il carro, allorché il Grifone e il resto della sacra processione ascendono al cielo. Sotto l’albero sopra le radici rimane, infatti, Beatrice, Sacra Dottrina, affiancata dalle sette virtù; queste costituiscono assieme la guida, che consente alla chiesa la retta via.33

E qui continua l’ecclesiologia, culminando nella terribile visione di Dante, che raccoglie simbolicamente la storia della Chiesa e del suo declino: un attimo fuori del tempo che racchiude la storia e che si apre all’eternità. Il carro viene attaccato prima da un’aquila, che becca il carro ferendolo e becca anche l’albero della conoscenza, rompendone il tronco. Poi il carro, nel fondo, viene attaccato da una volpe, simbolo delle eresie, la quale è messa in fuga proprio da Beatrice; di nuovo l’aquila attacca il carro riempiendolo delle sue penne, dalle quali nascerà la gramigna, simbolo dei beni terreni, dalla terra esce poi un drago, simbolo del demonio che ferì con la sua coda il carro. Il carro si trasforma nel mostro a sette teste e dieci corna dell’Apocalisse.34 Sopra il mostro compare una meretrice, simbolo della chiesa corrotta, che si accompagna licenziosamente ad un gigante, simbolo del re di Francia. Come la meretrice lancia un’occhiata a Dante, il gigante la percuote violentemente e la porta con sé, assieme al carro dentro la foresta, là dove l’essere non si vede. In un luogo ai confini del tempo, in un attimo fuori dal tempo, Dante, dunque, vive un’esperienza di grande concentrazione storica ed esistenziale, nella quale si riassume la sua vicenda e quella dell’intera umanità, ai fini di una rinascita e di un superamento, carico di una differenza ontologica concernente la, ormai limitrofa, dimensione dell’eterno. Così come in Anselmo, la consapevolezza della caducità, del limite e della temporalità dell’uomo consente, alla luce della fede, la salita alla contemplazione degli attributi intelligibili di Dio, in Dante, la coscienza del peccato e del pentimento, legata alla consapevolezza della grazia che redime, costituiscono l’inizio di una salita all’intelligibile, che trascende il tempo e che culmina, per l’uomo, nella contemplazione beatifica.35

E, a seguito della terrificante vicenda del carro, Dante viene fatto immergere nell’Eunoè, eu-nous, fiume del ricordo del Bene, che rinnova nella mente del poeta quella potenzialità all’intelligibile e al divino:

Ma vedi Eunoè che là diriva: menalo ad esso, e come tu se’usa, la tramortita sua virtù ravviva».36 Io ritornai da la santissima onda Rifatto sì come pianta novelle rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salire le stelle.37

3. I fiumi del Lethe e dell’Eunoè nel Paradiso terrestre: Dio che «dimentica» e che «ricorda».

Scrive Anselmo:

O misericordia, da quale ricca dolcezza e da quale dolce ricchezza tu scorri verso di noi! O immensità della bontà di Dio, con quale passione ti devono amare i peccatori! Tu infatti, salvi i giusti con l’accompagnamento della giustizia, ma liberi i peccatori che la giustizia condanna. Salvi quelli con l’aiuto dei loro meriti, liberi questi nel contrasto dei loro meriti. Salvi quelli conoscendo i beni che hai loro donato, liberi questi ignorando i mali che tu hai odiato.38

La misericordia di Dio è un fiume, così come il Lethe e l’Eunoè, così come quel fiume di luce che scaturendo da Dio, ad Esso ritorna, formando la candida rosa nell’Empireo. Il Lethe e l’Eunoè sono quei fiumi terrestri, che preparano Dante alla salita celeste, che culmina, nel mezzo della candida rosa, con la contemplazione del mistero intratrinitario di Dio, il Dio che «habitat lucem inaccessibilem».39

Possiamo notare una interessante analogia tra Dante ed Anselmo, proprio relativa all’immagine fluviale. Anselmo ci dice che non conosciamo la fonte della misericordia di Dio, tuttavia possiamo conoscere la direzione di questa fonte inattingibile al nostro intelletto. Nella Divina Commedia assistiamo ad una dinamica molto particolare, che offre degli spunti si riflessione assai importanti, specie dopo aver considerato il Proslogion: Dante vede la fonte dalla quale si dipartono il Lethe e l’Eunoè,40 ma la vede dopo un ben preciso passo nel quale si sottolinea l’altezza delle parole di Beatrice vertenti la giustizia divina e le alte questioni teologiche. Ciò che testimonia il ricordo del bene e la dimenticanza del peccato nell’uomo, e che risale ultimativamente all’opera del Creatore, è attinto dopo il riconoscimento della difficoltà ed inattingibilità delle realtà divine. Beatrice, simbolo di teologia, nelle sue parole sovrasta la sapienza umana, in un modo che ci ricorda il Convivio medesimo:

e veggi vostra via da la divina distar cotanto, quanto di discorda da terra il ciel che più alto festina.41

Poi, quando si dice: Elle soverchian lo nostro intelletto, escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle, per la loro soperchianza. Dov’è da sapere che in alcun modo queste cose lo nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti.42

E questa sottolineatura della differenza tra teologia e filosofia segue il tema della giustizia divina, che, in quanto divina, è superiore alle potenzialità umane:

per tante circostanze solamente la giustizia di Dio, ne l’interdetto, conosceresti a l’arbor moralmente.43

I versi successivi costituiscono un abile gioco con il quale Dante, attraverso la dinamica di domanda e risposta tra Beatrice ed il poeta, ci suggerisce il fatto che egli stesso ha dimenticato i propri peccati, sperimentando dentro di sé quell’amore del Dio che perdona e che dimentica, odiandoli, i nostri mali, Egli sommamente buono. Attraverso la figura di Beatrice, la quale si mostra dapprima severa verso il peccato di Dante ed, in seguito, dolce ed amorevole, Dante ci mostra quel Dio che odia il peccato, come tale, ma dimentica i peccati dei peccatori per salvare l’uomo. Giustizia e misericordia sono dunque uniti: Dio punirà i peccatori, con la sua giustizia, che non teme ostacoli, e perdona le colpe umane redimendo l’uomo e preparandolo alla contemplazione. Gli ultimi versi della cantica purgatoriale, concernenti l’immersione nell’Eunoè, riguardano proprio questo:

Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salire a le stelle.44

Come in Anselmo il gemito ed il rimorso del peccato, risalente originariamente al peccato originale di Adamo, prelude al tema del perdono di Dio ed alla contemplazione dei suoi attributi, così in Dante, la coscienza del peccato viene seguita dal tema del perdono e della dimenticanza, che si apre all’immersione nell’Eunoè, inizio della salita verso la contemplazione di Dio, concernente la terza cantica paradisiaca. In essa vi sono differenti, progressive epifanie del divino, attraverso l’apparizione ed incontro con alcune categorie di spiriti beati, i quali, apparendo di cielo in cielo, mostrano una caratteristica umana grata a Dio e partecipe della sua bontà e del suo essere. La sede dei beati che di volta in volta appaiono, non è il cielo della rispettiva epifania — questi, infatti, è un mero momento di salita, nella molteplice, gerarchica e differenziata salita a Dio — bensì è il cielo empireo, il sommo cielo oltre tutti gli altri cieli, cielo nel quale risiede Dio contemplato dai beati, i quali sono dagli angeli inondati della profumatissima e melliflua luce divina.

In modo analogo Anselmo, che influenzerà lo stesso Bonaventura da Bagnoregio, altra grande fonte ispiratrice di Dante, si apre alla molteplicità degli attributi divini, che in Dio sono Uno, ma che dalla mente, che lo cerca, lo trova e lo comprende aliquatenus, vengono concepiti dapprima settorialmente, ma in un cammino che, dalla molteplicità, cerca di aprirsi sempre di più all’unità insondabile.

Questo cammino della contemplazione è icasticamente a nostro avviso espresso da Dante attraverso l’immagine dei cori angelici e, in seguito, della candida rosa dei beati45: il movimento del pensiero, che ha origine in Dio e che da egli «esce» exitus, in quanto sua creatura, si riconverte in un «circolare» reditus contemplativo, che lo ama in quanto lo conosce e, conoscendolo come bene, desidera accentrarsi in esso, e ritornare a Lui.

Questo movimento epistrofico viene dapprima espresso dagli angeli, che gerarchicamente ruotano attorno a Principio, in seguito dalla candida rosa, che si forma, come entità contemplativa circolare da un fiume di luce, il quale procede da Dio e vi ritorna in un movimento che da lineare — exitus-proodos — diviene circolare — reditus-epistrofè —. In questa candida rosa si riassume la storia, lì si concentra e si compie, così come la temporalità si compie nell’eterno: seggi vuoti attendono eoni venturi e nuovi beati, che la storia offrirà, come sua migliore primizia, suoi più bei fiori, al più alto e candido fiore. E il più bel fiore della candida rosa è la Vergine Madre, umile ed alta più che creatura, figlia di quel Figlio, del quale noi saremo coeredi.

Ed Anselmo, similmente a Dante, parla di questa beatitudine in un discorso che passa dalla assiologia alla escatologia. Dio è il sommo bene e l’unico bene, il vero bene dal quale derivano tutti gli altri beni desiderabili, l’Unico Bene in cui si trovano tutti gli altri beni: un’unità assiologica che, per potenza attiva, contiene in sé tutti gli altri beni, in quanto ne è origine creatrice. Non bisogna parcellizzarsi ed abbassarsi al molteplice, ma si deve amare quell’unico Bene in cui si potranno trovare inimmaginabili beni sia per l’anima che per il corpo. Dio è la fonte di ogni bene, contiene tutti i molteplici beni in unità ed in grado sommo: tutto ciò che amiamo è contenuto nel Bene semplice. I beni, che qui ci sforziamo da omuncoli a cercare singolarmente, possono trovarsi in Dio in modo vero e solo in Dio possono essere autenticamente esperiti, libati e vissuti. Quel Dio, summe sensibilis, apre all’uomo la via della vera beatitudine, quella luminosissima e candida beatitudine, che Dante esperì alla fine del proprio viaggio. La bellezza che noi amiamo verrà vissuta in Dio con lo splendore del sole, la forza fisica verrà vissuta come vita angelica, la salute come eterna sanità, la sazietà e l’ebbrezza dei giusti come gloria nella casa di Dio. La bellezza della musica, che Casella osò ricordare, verrà celebrata dai cori angelici, così come la sapienza, che quaggiù cerchiamo nelle cose create, verrà a saziarsi nella sapienza del Creatore, così come amicizia, concordia e onnipotenza, le quali verranno vissute dai beati come dei coeredi di Cristo ed eredi di Dio. E come Dante, libando i divini sapori dell’essere, tramite vite spiritali epifaniche degli attributi che ci rendono simili a Dio, giunse alla contemplazione unitaria e convissuta dell’Unico e Sommo Bene, così Anselmo riunifica nella condivisione della beatitudine e della comune contemplazione di Dio l’esperienza di cammino dell’uomo. L’uomo dall’indigenza della propria condizione si eleva alla contemplazione beatifica, condivisa con gli altri beati, dell’Unico e Sommo Bene, quel Bene che ci rende puri, fratelli e simili in Cristo e a Cristo. La trasparenza dei beati nel paradiso di Dante si trova in Anselmo come gaudio comune, espressa con parole straordinarie, che non dovettero lasciare indifferente il sommo poeta.46

E questo sommo Bene è, infatti, Uno e Trino:

Questo bene sei tu, Dio Padre; questo è il tuo Verbo, cioè il tuo Figlio. Infatti nel Verbo col quale tu dici te stesso non vi può essere altro da ciò che tu sei, né qualcosa di maggiore o minore di te, perché il tuo verbo è vero come tu sei verace ed è perciò la verità stessa come lo sei tu, non altra da quella che tu sei; e tu sei così semplice che da te non può nascere altro da ciò che tu sei. Questo stesso bene è l’amore unico e comune a te e al Figlio tuo, cioè lo Spirito Santo che procede da entrambi.47

Narrano, dunque, i due, di insondabili mondi, incommensurabili per mezzo del tempo, ma orizzonte al pensiero, che in un lembo vien preso in un giro immortale e nell’altro osserva un’esistenza troppo piccola, posta però di fronte all’immenso, tanto che in ogni suo attimo questo in sé vede. Come spighe di biondo grano acceso, stiamo, esultanti al Sole che le nutre irraggiandosi al delicato soffio del vento; esse son parti di un’immane distesa, che al Sole fa da tappeto. Ogni spiga sembra perdersi nell’immane distesa, eppur così, felice ed esultante al Sole e a chi la osserva, essa porta in sé, perfetta e luminosa, la veste immortale dell’immenso…così appare nel suo eterno attimo.

Veramente, Signore, questa è la luce inaccessibile, nella quale tu abiti. Veramente, infatti, non vi è realtà che possa penetrare questa luce per vederti pienamente in essa. Per questo veramente io non la vedo, perché è troppo forte per me; e tuttavia tutto ciò che vedo io lo vedo per quella luce, come il debole occhio vede ciò che vede per quella luce del sole, che non può guardare nel sole stesso.48


  1. Per delle interessantissime indicazioni a riguardo si veda lo studio di G. Salmeri: «Dialettica dell’eresia. Come la fede ha trasformato gli errori in verità.» In «Archivio di Filosofia», vol. LXXVIII, 2011, 1, pp. 177-192. ↩︎

  2. Cfr. Anselmo, Proslogion, introduzione, traduzione, note e apparati di Italo Sciuto, Rusconi, Milano 1996, 5. ↩︎

  3. Id., 6. ↩︎

  4. Id↩︎

  5. Proslogion, 7. ↩︎

  6. Id., 8. ↩︎

  7. Cfr. Proclo, Elementatio theologica, a cura di Chiara Faraggiana di Sarzana, introduzione di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1985, teor. 186. ↩︎

  8. Scrive Anselmo al capitolo 11: «Veramente quindi tutte le vie del Signore sono misericordia e verità e tuttavia il Signore è giusto in tutte le sue vie». ↩︎

  9. Id. 9. ↩︎

  10. Id. 10. ↩︎

  11. Si ricordi quanto detto al capitolo 8. ↩︎

  12. Noi, nel nostro articolo ci limitiamo al tema in questione, ma, data la sistematicità e coerenza del pensiero di Anselmo è interessante notare sinotticamente l’interezza della riflessione anselmiana. ↩︎

  13. Cfr. Proslogion, cap. 23. ↩︎

  14. Proslogion, cap. 18. ↩︎

  15. Id. 19. ↩︎

  16. Id. 20. ↩︎

  17. C. Paolazzi, «L’Itinerarium e Paradiso XXXIII: La Verna Bonaventuriana nel “Poema Sacro”» in Studi Francescani, Anno XCII-2000 n. 1-2, pp. 295-331. ↩︎

  18. Proslogion, 1. ↩︎

  19. Cfr. Pg. I, vv. 112-136. ↩︎

  20. Cfr. Pg. I, vv. 28-108 e Pg. II, vv. 118-133. ↩︎

  21. E. Ardissino, Tempo liturgico e tempo storico nella «Commedia» di Dante, prefazione di Giuseppe Mazzotta, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009; F. LIVI, Dante e la teologia. L’immaginazione poetica nella Divina Commedia come interpretazione del dogma, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008. ↩︎

  22. Cfr. If. XXVI, vv. 85-142. ↩︎

  23. Cfr. E. Ardissino, Op. cit., pp. 89-108. ↩︎

  24. Pg,. XXXI, vv. 16-21: «Come balestro frange, quando scocca/da troppa tesa, la sua corda e l’arco,/e con men foga l’asta il segno tocca,/sì scoppia’io sotteso grave carco,/fuori sgorgando lagrime e sospiri,/e la voce allentò per lo suo varco». ↩︎

  25. Pg., XXXI, vv. 22-27. ↩︎

  26. Per l’importanza fondamentale del tema della morte in seno alle questioni fondamentali del pensiero si veda Platone, Fedone, 59 D - 67 D. ↩︎

  27. Pg. XXXI, vv. 40-42. ↩︎

  28. Proslogion, 2 ↩︎

  29. Proslogion, 22. ↩︎

  30. Pg. XXXII, vv. 100-105. ↩︎

  31. Proslogion, 8. ↩︎

  32. Pg. XXXII, 124-126. ↩︎

  33. Cfr. Pg., XXXII, vv. 1-108. ↩︎

  34. Ap., 17, 3. ↩︎

  35. Cfr. Pg. XXXII, vv. 109-160. ↩︎

  36. Pg., XXXIII, vv. 127-129. ↩︎

  37. Id., vv. 142-145. ↩︎

  38. Proslogion, 9. ↩︎

  39. Id. 1. ↩︎

  40. Non già la fonte della misericordia divina, che è maggiore! ↩︎

  41. Pg., XXXIII, vv. 88-90. ↩︎

  42. Dante Alighieri, Convivio, Prefazione, note e commenti di Pietro Cudini, Garzanti, Milano 2008, III, XV, 6. ↩︎

  43. Pg. XXXIII, vv. 70-72. ↩︎

  44. Pg. XXXIII, vv. 142-145. ↩︎

  45. A nostro avviso è possibile rinvenire una matrice francescana della «candida rosa». Ci limitiamo in questa sede a suggerire questa matrice citando un testo bonaventuriano sulle stimmate di San Francesco, ultimo sigillo ricevuto da Cristo nel crudo sasso intra Tevero ed Arno. Bonaventura da Bagnoregio, Vita di San Francesco. Legenda maior, a cura di Pietro Messa, Paoline Editoriale Libri, Milano 2009, XV, 2: «I chiodi apparivano neri, come di ferro, mentre la ferita del costato era rossa e, per la contrazione della carne, ridotta quasi a forma di cerchietto, così da sembrare una rosa bellissima. Le altri parti della sua carne, che prima per malattie e per natura tendevano al nero, splendevano di straordinario candore, anticipando la bellezza delle vesti bianche degli eletti». ↩︎

  46. Si prenda ad esempio il passo del capitolo 25 del Proslogion, nel quale si dice: «Interroga la tua interiorità, per sapere se può comprendere la gioia che avrebbe da tanta beatitudine. Ma certamente se qualcun altro, che tu amassi veramente come te stesso, avesse la stessa beatitudine, la tua gioia sarebbe raddoppiata, perché gioiresti non meno per lui che per te stesso». ↩︎

  47. Proslogion, 23 ↩︎

  48. Id. 16. ↩︎