La risposta platonica al tecnologismo contemporaneo: una via bonaventuriana

In questo articolo tenteremo di offrire una breve indagine sulla riflessione metafisica bonaventuriana circa l’arte meccanica, che si inserisca nella generale risposta della tradizione platonica al grande e urgente problema del tecnologismo contemporaneo. La nostra proposta, delineerà dapprima una determinazione del nichilismo contemporaneo, fenomeno complesso e poliedrico, entro il quale nasce l’atteggiamento del tecnologismo, vero e proprio «male» del nostro tempo; in seguito, cercherà, all’interno della tradizione platonica, entro cui la nostra riflessione si colloca, e precisamente sulla scia dell’acutissimo messaggio di Giovanni Reale circa il tecnologismo, di offrire a tale problema una risposta bonaventuriana, basata soprattutto sulla Riconduzione delle Arti alla Teologia e sull’Itinerario della mente a Dio. Cercheremo, pertanto, di sottolineare, ad un tempo, l’appartenenza di Bonaventura alla grande tradizione universale platonica e la sua specificità e peculiarità nell’ambito della riflessione metafisica occidentale.

1. Metafisica vs Relativismo: le radici del nichilismo contemporaneo.

La condizione nichilistica attuale è poliedrica e complessa, a volte sembra inintelligibile nelle forme; tuttavia, è possibile, all’interno di una comprensione metafisico-sistematica della realtà, trovarne principi fondanti. Questi possono platonicamente essere delucidati da un raffronto tra il Teeteto e la brillante analisi di Vattimo, il quale in Fine della modernità definisce il nichilismo come trasmutazione del valore d’uso in valore di scambio. L’analogia tra la riflessione vattimiana sul nichilismo e l’analisi platonica del nichilismo protagoreo è sorprendente ed assai illuminante. In virtù di tale analogia è possibile scoprire la radice del nichilismo inteso come relativismo, relativismo che anche il beato Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Fides et Ratio, rilevava come nucleo profondo dell’odierna condizione nichilistica:

Quale filosofia del nulla, esso — il nichilismo — riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possiibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpetazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto e fugace e provvisorio.1

Assai acute, da questo punto di vista, le riflessioni di W. Kasper:

Dovremo allora partire dal problema della verità. Lo ricaviamo, peraltro, anche dal recente dibattito sul pluralismo nel campo della politologia, dove si è visto che esso conduce all’indifferentismo, rispetto ad una verità universalmente vincolante, soltanto nelle sue forme di decadenza (del resto alquanto diffuse). Un pluralismo correttamente inteso presuppone se non altro un minimo di consenso sui valori, minimo indispensabile per assicurare la sopravvivenza a qualsiasi società. Ciò che di nuovo si riscontra, nelle società moderne ispirate dal principio della libertà ed organizzate in modo pluralistico, è che esse non sono in grado di dare una giustificazione ultima a questo consenso di valori, mentre lasciano spazio ad una pluralità di religioni, di confessioni e di concezioni del mondo. Denotano così un deficit di legittimazione che deriva non da un’indifferenza rispetto alla verità, ma da un riconoscimento del suo carattere trascendente, Ed allora la società moderna, libertaria e pluralistica, è interessata da istituzioni autonome che rappresentino proprio questa verità trascendente.2

Nel Teeteto Platone esamina dal punto di vista metafisico ed epistemologico la dottrina protagorea dell’uomo misura di tutte le cose. Questa concezione, decisamente relativistica, è definita quale sensismo dal punto di vista della conoscenza e fondata ontologicamente sul divenire incessante di tutte le cose. La concezione relativistica ha dunque fondamento in una concezione dell’essere quale divenire sensibile, che è sempre mutevole. Dalla dimensione ontologica del mero divenire sensibile, deriva una concezione del conoscere, molto raffinata ma erronea, secondo la quale la scienza è sensazione. Questa concezione non si fonda solo su una concezione dell’essere in generale, ma anche su una ben precisa comprensione dell’uomo quale essere conoscente. L’identificazione dell’essere con il mero divenire sensibile e con la sensazione comporta una concezione antropologica, secondo la quale l’uomo medesimo è soggetto senziente in continuo divenire, in tal modo l’incontro tra il suo atto senziente mutevole e l’essere sensibile, in continuo fluire, produce una sensazione intesa quale sapere mai stabile ed universale, ma sempre mutevole e contingente.3 Il sapere, quale sensazione, derivando dall’unione di due fattori generanti mutevoli, quale il soggetto senziente e l’oggetto sentito e sensibile, può essere solo sensazione relativa, contingente, soggettiva e mutevole. Vediamo in concreto le parole stesse di Platone:

Ma Protagora ha detto le stesse cose in un modo un po’ diverso. Dice, infatti, pressappoco: «Di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono.4

Così, in certo qual modo, non dice che quale ciascuna cosa appare a me tale è per me, quale appare a te, tale è per te — uomo sei tu e uomo sono anch’io — ?5

Apparenza, dunque, e sensazione sono la stessa cosa, per il calore e per simili qualità. Le cose, infatti, è probabile che siano proprio tali quali ciascuno le percepisce con i sensi.6

Lo stesso vento, ad esempio, può venir percepito come freddo da un tale e come caldo da un altro; il vento dunque sarà freddo per chi sente freddo e caldo per chi lo percepirà come caldo. Questo connubio tra apparire e sensazione offre a Socrate la possibilità e l’opportunità di un’indagine sui fondamenti ontologici della dottrina protagorea, che apre un’illuminante squarcio sulla concezione dell’essere, su cui poggia il protagorismo.

Questo fondamento ontologico concerne la dottrina dell’universale divenire di tutte le cose, secondo la quale niente è mai in sé e per sé, niente è, niente è stabile, ma tutto diviene, in un divenire incessante e continuo che nega ogni determinazione o stabilità ontologica:

Dunque niente è uno in sé e per sé, né si può designare un qualcosa di determinato, né un qualcosa che abbia una determinata qualità, ma se si dice che è grande apparirà anche piccolo, se pesante, leggero, e così per tutto, perché niente è uno, né determinato, né di una determinata qualità. Tutto quello che noi diciamo che è nasce dal mutar luogo, dal movimento, dalla mescolanza reciproca: non parliamo in modo corretto, dal momento che niente mai è, ma tutto diviene.7

Tutto, in realtà, è relativo, tutto nasce dal flusso e dal movimento; da questa condizione ontologica della realtà deriva epistemologicamente il relativismo. Il movimento incessante è il fondamento segreto dell’essere e della realtà e questo è evidente nei processi fisici e vitali: tutto ciò, che vive e si mantiene in buono stato vitale, si muove. La salute fisica è dovuta al movimento, mentre l’inattività produce malattia; la buona costituzione dell’anima è dovuta al movimento dello studio e dell’apprendimento; il movimento del sole e del cielo conserva ed alimenta l’esistenza di tutte le cose8 — … il movimento dell’uomo verso Dio realizza l’essere dell’uomo e il movimento di Dio verso l’uomo, tramite il suo Figlio Unigenito, produce la salvezza dell’umanità e la liberazione dal peccato originale — .

Da questa concezione di una realtà che non è mai in sé e per sé stabile, deriva una concezione relativistica di un sapere, inteso come mera sensazione:

il tutto è movimento e nient’altro oltre a questo, e del movimento ci sono due specie, ciascuna infinita per quantità, ma una ha la capacità di agire, l’altra di patire. Dal congiungimento e dallo sfregamento reciproco di queste si generano figliolanze infinite, sì, per quantità, ma che sono come una serie di gemelli, di cui l’uno è l’oggetto sentito, l’altro la sensazione, che si genera sempre con il sensibile.9

E sotto:

infatti, la sensazione di una cosa è diversa da quella di un’altra, e altera e rende diverso il senziente; né quello che agisce su di me, incontrando un altro genererà l’identica cosa diventando identico, perché, generando una cosa diversa da un soggetto diverso, diverranno entrambi diversi.10

Sapiente, per tale concezione del mondo, è il sofista, cioè colui che sa a suo vantaggio utilizzare quest’instabilità del mondo nella persuasione delle masse sapendo fa apparire le cose a suo vantaggio, indifferente a qualsiasi verità stabile. Nel mondo del mutevole divenire sensibile, vero e reale è ciò che appare nella circostanza relativa; sapiente, di conseguenza, è colui che sa far apparire le cose a suo piacere, plasmando e utilizzando astutamente a suo vantaggio l’instabilità stessa del divenire. La concezione relativistica protagorea costituisce il fondamento dell’arte sofistica come persuasione delle masse o dei singoli.

Ora la riflessione sul relativismo protagoreo, che si fonda sulla identificazione dell’essere con il divenire sensibile, determinando una concezione gnoseologica relativistica, assai criticata da Platone, anticipa la riflessione vattimiana sul nichilismo contemporaneo, inteso come trasmutazione del valore d’uso in valore di scambio, trasmutazione icasticamente determinata con la sentenza: dell’essere non ne è più nulla! La concezione relativistica protagorea sembra proprio anticipare il nichilismo contemporaneo, definito da Vattimo come la trasmutazione del valore d’uso in valore di scambio. In sintesi, per Vattimo, la realtà, nell’epoca nichilistica, non possiede più un valore d’uso, cioè un’identità cogente e vincolante, ma un mero valore di scambio, cioè un valore relativo alla circostanza concreta e contingente. Di qui il relativismo imperante nell’epoca attuale, relativismo nel quale le cose non possiedono più un valore cogente, un’identità vincolante, ma sono manipolabili, relative, nel loro essere e valore, alla circostanza. La loro manipolabilità, specie dalla tecnica e dalle macroforze economiche del mondo attuale, ricorda la manipolazione sofistica della realtà fondata proprio sul relativismo protagoreo, il quale presenta caratteri sorprendentemente affini alla determinazione vattimiana del nichilismo odierno.11

La vorticosa trama di rapporti in cui si risolve il mondo contemporaneo, diluisce l’ente nel suo valore cogente a valore di scambio, ossia valore relativo alla circostanza: l’ente non possiede più un’inseità identitaria, me si dissolve nella sua effimera utilizzabilità nella mera circostanza transitoria. Dell’essere non ne è più nulla.

In tale visione non esiste più una gerarchia agatologica, ontologica e di valori etici condivisi, gerarchia in base alla quale l’ente acquista dignità e valore vincolante. L’assenza di un fine ultimo, Bene supremo, sancisce la crisi del concetto di gerarchia assiologica, in base alla quale gli enti sono gerarchicamente disposti, nell’orizzonte del Bene, dall’ultimo effetto alla causa prima. La scomparsa della gerarchia agatologica comporta l’assenza della gerarchia ontologica. Gli enti non possiedono più valore ontologico cogente, in quanto l’essere rinvia, per costituzione ontologica ed intelligibilità, all’Uno, Primo Principio, Primo Bene, al quale tutte le cose ultimativamente rinviano quale loro suprema origine attraverso gradi di mediazione ontologica. Come Platone ricorda nel Parmenide, scomparendo l’Uno, gli «Altri dall’Uno», cioè il mondo degli enti principiati e unimolteplici, perdono senso e significato. Perdendo dignità ontologica, senso e significato, gli enti non riescono più a vincolare normativamente l’agire umano, che si trova senza norma e senza direzione, sviato. In questo sviamento si cade nel relativismo, relativismo nel quale domina non la verità fondata sul Bene, bensì la legge del più forte, l’astuzia sofistica o le macroforze che Heidegger e Vattimo denunciano.12 Platone, nel Teeteto, riesce dunque ad individuare la radice ontologica del relativismo, concernente nella negazione della dimensione intelligibile ed agatologica dell’essere, sulla quale si fonda la normatività del sapere etico e la stabilità del sapere metafisico, sul quale l’etica si fonda. L’acuta analisi platonica, si mostra perfettamente aderente alle maggiori istanze della nostra epoca, nella quale la dignità ontologica e l’identità dell’ente vengono dissolte da un relativismo dimentico della dimensione intelligibile del reale e incurvato nel piano intramondano del divenire sensibile. Questa mera dimensione intramondana, svincolata dalla dimensione prototipica dell’essere, comporta la perdita del senso dell’essere, dell’identità e la dissoluzione del valore d’uso in valore di scambio. Il messaggio platonico del Teeteto e del Parmenide si mostra, pertanto, ancora una sorprendente chiave di lettura interpretativa del mondo attuale, che offre la possibilità di individuare la radice teoretica del nichilismo, concernente la dimenticanza della dimensione intelligibile della realtà. Il nichilismo, inteso come relativismo, non deriverebbe da un ineludibile e incontrollabile destino, bensì da un atteggiamento erroneo del pensare, dimentico della dimensione intelligibile della realtà. La dissoluzione dell’essere nel divenire, ben sottolineata da Platone, è la radice profonda del nichilismo. Questo nichilismo si mostra secondo varie forme, tutte riconducibili a questa radice profonda. Vediamo la possibile «soluzione» platonica suggerita da Giovanni Reale, a partire dalla filosofia antica, per poi suggerire, all’interno di questa «gloriosa» tradizione, una «nuova», ma affine risposta bonaventuriana.

Dunque l’interpretazione del mondo come movimento caotico è uno dei punti che mostra la riducibilità del nichilismo alle posizioni protagoree, esposte da Platone nel Teeteto. L’assenza di un ordine ontologico delle cose, che invita l’uomo non ad un dominio tecnico sull’ente, come affermano tanti «postmoderni», ma ad una comprensione profonda della realtà e ad un rispetto delle sue intime strutture, determina un’instabilità profonda ed una incomprensibilità delle cose e dell’esistenza umana, che comporta un ripiegamento vizioso del sensibile su se stesso.

La negazione dell’ordine ontologico delle cose e di un loro tendere intrinseco alla loro divina origine, interrompe quel movimento agatologico della realtà al Primo Principio, demotivando la conoscenza umana.13

2. Tecnologismo vs platonismo: l’alternativa di Giovanni Reale e l’apertura di una «nuova» via

L’essere umano ricadendo in un mondo di enti completamente relativi diviene cosa tra le cose, cioè essere sensibile in continuo divenire. L’interpretazione del reale e lo stesso sapere, non seguono più un ordine ontologico ed ontogenetico, capace di realizzare l’essere umano in tutte le sue effettive possibilità autenticamente, ma lo imprigionano in un susseguirsi drammatico di circostanze, a cui è impossibile conferire un senso unitario. Perdendo l’unità, si perde il Bene, l’orizzonte, il senso.

Emblema di tale situazione, che getta l’uomo in uno squallido grigiore esistenziale, è il pensiero di Sartre, un acuto osservatore dell’immaginario umano, capace di manifestare le conseguenze esistenziali ed antropologiche della mancanza di un fondamento intelligibile dell’esistenza umana e della realtà.

La «perseità» dell’uomo, ossia la capacità autoriflessiva, sganciata dal suo radicamento nell’essere, ricade in un vorticoso susseguirsi di vicende, senza senso né riferimento ad un fine ultimo.14

La riflessione filosofica contemporanea, deve invece riscoprire il profondo messaggio del pensiero antico, il quale, sulla via dell’interiorità, si interrogava sulla dimensione trascendente quale esito ultimo dell’esistenza, proponendo, così, una riflessione etico antropologica assai più adeguata all’esistenza umana nelle sue varie dimensioni e nei suoi esiti più profondi.

Non dobbiamo dimenticare il vincolo intenzionale, rilevato da Platone, Plotino e Proclo, che intercorre tra conoscenza dell’essere intelligibile ed autoconoscenza umana. Il sapere metafisico mostra quel fondamento unitario della potenzialità dell’anima di ricondurre ad una prospettiva di senso unitaria la molteplicità dei propri atti e delle proprie esperienze. L’identità dell’anima non consiste solo in un risultato cumulativo di molteplici fattori, bensì si mostra essere un processo metafisico antropologico organico, in base al quale si esplicita una potenzialità poietica da sempre presente nell’anima.15 Questa potenzialità esistenziale, etica ed antropologica possiede un fondamento ontologico radicato nei fondamenti intelligibili della realtà, i quali costituiscono i principi sia dell’essere che del pensiero.16

Il mondo contemporaneo sembra aver perso, oltre che l’interesse al sapere ed alla riflessione metafisica, il senso del fine anche per ciò che riguarda il sapere scientifico, che, per gran parte, nega il finalismo e con esso la stessa esigenza di una riflessione etico-metafisica sulla realtà. Tutto questo può comportare il pericoloso conferimento alla tecnica di un dominio integrale sull’uomo e sulla sua vita, che renderebbe quest’ultimo schiavo di una tecnica, intesa come volontà di potenza che tutto fagocita e che non si sottomette ad alcun giudizio morale.17

Il progresso scientifico, pur nei suoi incontestabili traguardi, che hanno migliorato le condizioni di vita umane, le comunicazioni, i commerci e tutte le attività umane, non può essere sganciato dalla dimensione metafisica, etica ed antropologica e, perciò, dalla riflessione sulla liceità di alcuni risultati del sapere tecnico — scientifico. Molti traguardi della tecnica presentano dei problemi e dei rischi, che non possono essere ignorati da una riflessione filosofica attenta alla condizione umana e all’autentica realizzazione dell’uomo.18

Morin, grande filosofo della scienza, ci mette in guardia sugli esiti spesso catastrofici di una falsa razionalità astratta e unidimensionale, incurvata alla realizzazione di progetti solo apparentemente benefici per l’umanità. L’abominevole corsa all’urbanizzazione, separata da qualsiasi considerazione etica sull’ambiente e sulle condizioni giuste per la vita umana, degenera in spettrali periferie urbane, abbandonate alla delinquenza e al degrado, ad una grigia e noiosa spersonalizzazione. Una standardizzazione astratta della vita umana non sembra ormai più applicabile alle concrete esigenze umane, mostrandosi più adatta a quell’impersonale manichino delle vetrine che erroneamente, come rileva Babolin, vorrebbe sostituirsi all’uomo… una semplificazione moderna più che un’idea metafisica.19

Morin invita ad abbandonare i due miti della cultura moderna, ossia la corsa sfrenata al progresso e l’irrefrenabile dominio sulla natura oggetto, a favore di una più lucida razionalità, che concepisca il destino umano come affine al destino dell’ambiente. Di qui l’esigenza di una nuova interrogazione sull’essere dell’uomo, nella sua autenticità, interrogazione alla quale è chiamata la metafisica.20

Le considerazioni di Lorenz e Morin possono essere integrate con le riflessioni di Emanuele Severino circa la relazione tra mondo contemporaneo e potenza della tecnica; queste, in certo qual modo, portano alle estreme conseguenze le considerazioni di Lorenz e Morin.

Secondo Severino il pensiero filosofico e scientifico del nostro tempo rifiuta l’idea che possano esistere processi ineluttabili ed inevitabili sia nella natura che nella storia; l’unico processo ineluttabile è quello che porta al sempre crescente dominio della tecnica sul mondo.

Le forze etiche, politiche, economiche, religiose e, comunque, spirituali, che oggi si prefiggono di assumere la tecnica come mezzo dei loro scopi, presto saranno totalmente assorbite nel loro essere dalla tecnica, che diverrà il loro fine e il loro padrone. Il mezzo tecnico, infatti, è sempre più potente, sviluppandosi vertiginosamente, e costituisce ormai uno «strumento» indispensabile per l’operare nel mondo di qualsiasi forza economica, politica, culturale o religiosa che sia; nessuna di queste forze può, per il conseguimento dei propri fini e per la realizzazione dei propri programmi e ideali, chiamarsi fuori dall’utilizzazione della tecnica. In tal modo la tecnica è divenuto un mezzo indispensabile per l’operare ed il vivere nel mondo di oggi, una condizione di base ineludibile senza la quale si viene esclusi da ogni processo produttivo che abbia un «significato» nel reale. Questo mezzo così imprescindibile, totalizzante — e totalitario — , si rivela essere, così, l’autentico obbiettivo da conseguire, la condizione senza la quale non è possibile alcuna significativa e reale azione; la tecnica quindi, da mero mezzo, ha assunto i caratteri di un vero fine supremo e fondamentale, un padrone che detta e fissa le condizioni della vita, dello sviluppo e dell’agire di qualsiasi organizzazione umana.

Il rapporto ontologico che lega una progettualità umana ed il suo fine specifico tramite un mezzo, ha visto crescere spropositatamente al proprio interno il valore del mezzo, tanto da rendere questo fattore non relativo e subordinato, ma dominante e essenziale. Il mezzo diviene così scopo. Questa ineluttabile tendenza al dominio indiscusso della tecnica è ben espressa dall’immagine di piano inclinato, utilizzata da Severino nella sua analisi dei processi politici dell’epoca contemporanea. Osserva Severino, in un modo molto significativo anche se per molti versi discutibile, come le sinistre europee durante la seconda metà del Novecento, abbiano progressivamente abbandonato le loro origini marxiste, a favore di un’assunzione dei principi del liberalismo e del mercato: da una posizione originariamente marxiste, ci si è spostati a posizioni liberali e socialdemocratiche. Questo processo, lungi dall’essere un processo semplicemente politico irrilevante per una filosofia o per una metafisica, possiede un significato assai rilevante per la nostra riflessione. Il marxismo infatti, come sottolinea Vattimo, fornisce un’interpretazione del reale, che, per quanto materialistica, si basa su verità stabili, inerenti la visione dialettica della storia e del mondo. In tal senso il marxismo può essere inteso come l’ultimo tentativo storico della filosofia occidentale di interpretare la storia umana sulla base di una teoria incontrovertibile. Questo tentativo è, tuttavia, necessariamente votato al fallimento in quanto le opere, le istituzioni e le forze concrete della civiltà occidentale seguono un piano inclinato che porta al dominio assoluto della tecnica. La mentalità scientifico — tecnologica rifiuta qualsiasi verità incontrovertibile e definitiva, che guidi e fondi lo sviluppo storico, in tal modo si oppone a qualsiasi visione filosofica, che fondi i processi storico mondani su leggi fisse o su verità stabili. Il passaggio da una mentalità filosofico sapienziale alla mentalità scientifico tecnologica si mostra, secondo Severino, nelle dottrine socialdemocratiche di Bernstein, che fu l’iniziatore di quell’abbandono delle tendenze metafisico filosofiche a favore di una scienza rigorosa dei fatti, aliena a tentazioni di fondazione assoluta della realtà. Quest’abbandono dei metodi marxisti a vantaggio dell’assunzione dei principi del liberalismo e del capitalismo riflette il movimento della civiltà occidentale, che si muove dalla sapienza metafisica tradizionale alla dominazione della scienza e della tecnica. Tale processo rappresenta l’ennesima prova, che il percorso dell’umanità giunge all’assolutizzazione della scienza e della tecnica.21

La Democrazia moderna esclude che si possa organizzare la società sulla base di una verità assoluta ed incontrovertibile, a favore della scelta, sempre revocabile, di diversi e mutevoli progetti, sistemi e regole: la odierna democrazia si sviluppa e si esercita nel mondo del continuo fluire.22

La riflessione di Severino, seppur per molti versi estrema, va considerata con attenzione come emblematica di un mondo, quello attuale, che può venire assorbito dalla molteplicità della attività e delle relazioni, che in esso si sviluppano, ed, assieme alle considerazioni di Vattimo, ci offre un quadro chiaro e comprensibile di una situazione epocale, dominata dal relativismo e dal dominio sempre maggiore delle potenzialità della tecnica.23

Nell’epoca attuale, dovrebbe realizzarsi un dibattito costruttivo sulla liceità di ciò che la tecnica realizza, sulla base di una riflessione etica circa le esigenze di vita umana e le profonde istanze del rispetto dell’ambiente in cui viviamo. La riflessione etica e filosofica non può essere respinta come oscurantismo clericale, ma deve essere promossa ai fini dell’autentico progresso umano. Scrive a tale proposito J. Ratzinger:

I diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore […]

[…] Ma nell’ambito concreto del cosiddetto progresso della medicina ci sono minacce molto reali per questi valori: se pensiamo alla clonazione, se pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di ricerca e di donazione degli organi, o se pensiamo a tutto l’ambito della manipolazione genetica, la lenta consunzione della dignità umana che qui ci minaccia non può venir misconosciuta da nessuno.24

E Giovanni Paolo II, in Fides et Ratio:

Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili — come «ragione strumentale» al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere. Quanto sia pericoloso assolutizzare questa strada l’ho fatto osservare fin dalla mia prima Lettera enciclica quando scrivevo: «L’uomo di oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di «alienazione», nel senso che vengono tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura.25

In questa direzione ci pare si muova lo stesso Heidegger, che in una delle sue opere più significative per una riflessione filosofica sulla tecnica, Die Gelassenheit — l’Abbandono — , denuncia il rischio che l’uomo divenga schiavo della tecnica, ma, altresì, prospetta la positiva possibilità per l’uomo di evitare questi rischi, pur avvalendosi degli strumenti tecnologici nelle sue diverse attività. Chiave di volta del discorso heideggeriano è il concetto di pensiero meditante, in opposizione al pensiero calcolante. Questa distinzione inerisce il problema della consapevolezza effettiva da parte dell’uomo dell’influenza sempre maggiore della tecnica sulla sua vita. L’uomo non è ancora pienamente consapevole di questo potere e risulta impreparato a capire e a vivere in questa condizione di sempre crescente invasione della tecnica sulla propria vita. Questa è la condizione, nella quale l’uomo rischia di perdersi come uomo e di perdere il significato del proprio essere; in questa condizione risulta urgente una rinnovata riflessione etico metafisica, che ricollochi l’essere umano al centro della riflessione, evidenziandone le più autentiche istanze e i più profondi orizzonti.26 Le riflessioni platoniche sul Protagorismo e quelle concernenti la terza tesi del Parmenide ci mostrano come, alla distruzione del senso dell’essere, nella sua positività e cogente identità ontologica, corrisponda la distruzione dell’essere inviolabile dell’uomo e del suo operare.27 Il pensiero meditante, cioè la riflessione adeguata dell’uomo sul potere che la tecnica oggi ha sulle nostre vite, aprirebbe all’uomo la possibilità di una convivenza più sana con la tecnica, di un vivere più autenticamente umano nell’epoca della tecnica. Tutto ciò significa per Heidegger fare uso dei prodotti della tecnica, ma mantenendosi liberi da essi senza divenirne schiavi: un’utilizzazione meditata sulla tecnica, renderebbe l’uomo capace di servirsi serenamente di essa, ma, al tempo stesso, capace di fare a meno della tecnica mostrandosene libero. Il concetto di Gelassenheit zu den Dingen, abbandono di fronte alle cose, esprime bene questo concetto, giacché apre l’interrogazione umana ad un nuovo modo di porsi di fronte alla tecnica, più consapevole e memore della portata e dei rischi che la tecnica può rappresentare per l’uomo.28 Questo suffragherebbe la stessa urgenza di una rinnovata riflessione metafisica, ispirata alla tradizione, al di là delle «mode» decostruzionistiche e postmoderne del mondo odierno. La riflessione metafisica potrebbe, in tal senso, proporsi come una rinnovata forma di sapere, capace di articolare e relazionare ermeneutica ed ontologica, tradizione e attualità, presente e passato.

Il fondamento del dibattito etico, che deve regolare il progresso tecnico e a cui è ancorato il pensiero meditante-riflettente, risiede nel panorama metafisico a cui è aperta la vita umana e che permette la realizzazione di quell’ideale contemplativo, tutt’altro che indifferente ai problemi concreti dell’epoca attuale:

Orsù dunque, omuncolo, sfuggi un poco alle tue occupazioni, sottraiti discreto ai tumultuosi pensieri, allontana le tue pesanti preoccupazioni e metti da parte le tue faticose dispersioni. Renditi per un poco disponibile a Dio e riposati un po’ in lui. «Entra nella stanza» della tua mente, lascia fuori ogni cosa tranne Dio e ciò che ti giova a cercarlo, e «chiusa la porta» cercalo.29

L’uomo, come ci insegnano i Greci, è nato per contemplare — theorein — e la sua vita si compie perfettamente nell’attività contemplativa, che, non è ozio, ma guida e controllo dell’agire pratico e del fare: l’ozio, come insegna la tradizione monastica, è intorpidimento della vita e fonte di vizio; la contemplazione, invece, è via verso la virtù.30

La luminosa dimensione dell’Essere Vero, alla cui origine vi è l’Uno-Bene, attira la ricerca umana, prospettandole una comprensione profonda della realtà e un rispetto dell’ordine ontologico degli enti; nella contemplazione disinteressata per la Verità si esercita il rispetto per l’ente e per l’ordine ontologico e cresce la capacità di gestire le varie realtà umane con equilibrio e lucida lungimiranza.31

L’armonia e l’equilibrio, che derivano dalla contemplazione dell’Uno, miglior nutrimento per l’anima, equilibrano le forze della psiche, realizzando proporzione di energie e personalità nobile; l’anima conoscendo il bene e desiderandolo, non rompe l’armonia e non incrina l’autocontrollo, ma procede verso l’Intelligibile, attraverso una relativizzazione dei beni materiali ed una ricerca sempre più profonda della felicità.

La valenza ontogenica della contemplazione, si mostra assieme filogenetica, per ciò che concerne la dimensione tecnica, ed ontogenetica, per ciò che riguarda l’autenticità dell’esistenza umana.

Prendendo spunto dal pensiero platonico, possiamo, contro la mentalità di tanta cultura contemporanea, affermare come il benessere materiale costituisca un surrogato della felicità e non il fine dell’intera esistenza o la felicità stessa. La tecnica soddisfa il benessere materiale dell’uomo, lasciando però un vuoto per ciò che concerne la dimensione spirituale e trascendente. Il mondo ideale non viene dunque «sostituito», ma rimane quaestio, enigma, mistero, prospettandosi sempre come orizzonte di un’interrogazione umana, che non si ferma al contingente, ma lo trascende.

Incurvandosi nella realtà contingente, l’uomo non si mostra più capace di aspirare alla vera felicità, ma si dedica solamente alla ricerca del benessere materiale, ossia alla fruizione di beni di consumo in scala sempre maggiore; questi beni, di cui oggi come mai abbiamo grande disponibilità, non soddisfano le istanze più profonde dell’uomo, ma sembrano svuotarlo, piuttosto che riempirlo. Il progresso tecnico subordina l’uomo all’incontrollato circolo vizioso produzione-consumo: l’uomo vede soffocato il proprio tempo libero da un’ossessiva corsa ai consumi, che lo disperde in molteplici e superflue idiozie, in un gironzolare isterico. Il mondo sviluppato, invece che realizzare un’umanità migliore, può degenerare in un’umanità sempre più vuota, in uomini sempre più vissuti da forze esterne: le pubblicità con i loro messaggi subliminali, il consumo, le grandi produzioni industriali, la moda dell’effimero. La lettura vattimiana del pensiero heideggeriano della Kehre sembra proprio il riflesso di quest’umanità vissuta e dominata da frenetiche forze esterne, da parvenze illusorie; il modo di vivere «estetico» della nostra civiltà annienta l’uomo nel circolo delle parvenze, lo svuota della sua vera identità e del suo autocontrollo, rendendolo parvenza tra le parvenze.32

Il messaggio che Platone propone contro questa mentalità edonista è attualissimo ed affonda le sue radici nella complessa ed articolata visione, che il filosofo ateniese, aveva dell’uomo e dei rapporti sociali.

Nel Gorgia ci viene offerto un messaggio etico di straordinario valore che supera la posizione puramente edonista di Callicle a favore di una visione più profonda ed ampia dell’essere umano. Secondo Callicle la vera felicità consiste nella sfrenatezza e nella dissolutezza, nella soddisfazione delle passioni e nel loro libero sfogo. Ora osserva Socrate, il concupiscibile, ossia la parte dell’anima in cui hanno sede le passioni, è facilmente seducibile e si lascia dirigere e muovere in tutte le direzioni dai vari impulsi esterni; la sede delle passioni è la parte più credulona dell’anima e, senza la supervisione di una ragione che conosce il Bene, si mostra facilmente manipolabile ed ingannabile.33

Giovanni Reale dunque ci propone una via, desumibile dalla tradizione ed attuale, una via da rimeditare oggi, nell’odierna riflessione etica e filosofica, attraverso la cooperazione della storiografia filosofica e della filosofia teoretica. Lo studio degli antichi non deve chiudersi nel settorialismo filologico, rimanendo «fenomeno cartaceo», bensì aprirsi all’odierna interrogazione sulla realtà. Questa via prospettataci dal Reale, può divenire seria alternativa e, dal canto nostro, stiamo cercando proprio di proseguire l’opera del Reale, attraverso la considerazione su tale tema di un cogente e straordinario messaggio, che si inserisce nella stessa direzione: quello del Dottore Serafico di Bagnoregio. In modo propedeutico ed introduttivo a quanto diremo nel prossimo paragrafo sulla tecnica, possiamo osservare come nel pensiero di San Bonaventura vengano conservate le prerogative del pensiero platonico, arricchite dal messaggio della Rivelazione.

Di contro al relativismo protagoreo ed in modo affine al platonismo, possiamo affermare come in San Bonaventura né le realtà è mero divenire incessante ed instabile, né l’uomo è mera sequenza di effimere sensazioni.34 La realtà costituisce un itinerarium, che deve portare l’uomo stesso, sua meraviglia, alla contemplazione e al godimento del Principio stesso dell’intera realtà, la quale ci si presenta come un sistema organico di enti gerarchizzati e molteplici, che mostrano un’intrinseca intelligibilità, segno della Mente divina che l’ha creata. La concezione della realtà sovrintende la concezione antropologica: una realtà al cui vertice vi è Dio comporta una concezione antropologica che intende, come fine dell’esistenza umana, l’unione di Dio e dell’uomo. Il grande messaggio del Teeteto platonico si riscopre, dunque, in San Bonaventura, arricchito dall’esperienza cristiana.

Nella totalità delle cose, Bonaventura individua tre livelli: le cose fuori di noi; le cose in noi; le cose sopra di noi. Le cose fuori di noi sono temporali, le cose in noi sono immortali, queste sono spirituali, quelle corporee; le cose sopra di noi consistono con il principio spiritualissimo ed eterno, cioè con Dio. La realtà ingloba enti materiali e temporali, vestigi di Dio, enti spirituali, immortali, immagini di Dio, al vertice vi è Dio come Principio, Essere Assoluto e Sommo Bene, in cui l’anima riconosce la sua autentica origine e l’origine dell’essere e dell’intelligibilità della realtà. Dio è la norma suprema delle cose, le quali, per quanto periture, transitorie o materiali, presentano un’intelligibilità, che rappresenta la traccia di Dio nel cosmo:

Allorché contempla considerando le cose in se stesse, l’intelletto scorge in esse peso, numero e misura: il peso riguardo al luogo cui tendono, il numero per cui si distinguono, la misura per cui sono mutuamente delimitate. E così scorge in esse ilo loro modo di essere, la loro bellezza, il loro ordine, nonché la loro sostanza, la loro potenza, la loro operazione. Da tutto ciò, come da impronta, può elevarsi alla conoscenza della potenza, della sapienza e dell’immensa bontà del Creatore. .35

Il quadro ontologico della filosofia bonaventuriana, rispetto al protagorismo, ci appare dunque diametralmente opposto, come, conseguentemente, risulta opposto il quadro antropologico, cioè la concezione dell’uomo. L’uomo viene inteso non come mera sequenza di sensazioni, ma come un essere, tutt’altro che chiuso in se stesso e nella dimensione intramondana, e aperto alla vera misura di tutte le cose che è Dio:

Rientra, dunque, in te stesso e vedi come la tua mente ami ardentemente se stessa; non potrebbe amare se stessa se non avesse conoscenza di sé; né potrebbe avere conoscenza di sé se non avesse memoria di sé, poiché niente apprendiamo con l’intelligenza che non sia presente nella nostra memoria; e da ciò comprendi, non con gli occhi corporei ma con quelli della ragione che l’anima ha tre facoltà. Considera, dunque, le operazioni e i rapporti scambievoli di queste tre potenze e sarai in grado di vedere Dio attraverso te stesso, come per mezzo di un’immagine, che è come vederlo in uno specchio, in maniera confusa.36

E questo movimento «naturale» viene potenziato dalla salvifica e rigenerante azione della Grazia di Dio, che non contraddice la natura, ma la potenzia e la eleva:

Ora, poiché dove cade uno lì resta, a meno che qualcuno non gli si ponga al fianco e venga in soccorso perché risorga, l’anima nostra non avrebbe potuto rialzarsi dalle cose sensibili alla continuazione di sé e in se stessa l’eterna verità, se la Verità stessa, prendendo forma umana in Gesù Cristo, non si fosse fatta scala riparatrice della scala precedente, spezzata dal peccato di Adamo.37

Dunque il mondo non è, per quanto temporale, divenire continuo ed inintelligibile, bensì è scala e questa scala originariamente spezzata da Adamo è stata riparata dal Cristo e può continuare a consentirci di unirci a Dio e di riconoscerLo come Principio, riconoscendosene immagine.38

L’uomo, inoltre, non è mero essere senziente, le sue facoltà trascendono la sensazione; tuttavia, anche nell’attività percettiva sensibile umana, è possibile riscoprire la traccia della Trinità divina. Questo sorprendente messaggio bonaventuriano esprime il grande valore del mondo sensibile all’interno della comprensione della realtà come creazione, mondo sensibile pieno di senso, non relativizzabile, ma assiologicamente pieno di senso, come pieno di dignità è l’uomo che vi abita. In concreto San Bonaventura individua un parallelismo tra il mezzo del conoscere e la Parola generata dall’eternità e incarnata nel tempo.

L’immagine sensibile, grazie ad un’immagine che esce da essa, muove la potenza conoscitiva; per portare a realizzazione l’atto del sentire questa immagine si deve unire all’organo ed alla potenza, attuando la percezione. Grazie alla percezione in atto possiamo rinviare l’immagine percepita all’oggetto originario. In modo similare il Padre emanò la sua immagine e la sua similitudine, cioè il Figlio, dall’eternità; il Figlio, quando venne la pienezza dei tempi, si unì ad uno spirito e ad una carne e assunse la forma di uomo. Grazie al Figlio incarnato le nostre menti vengono ricondotte al Padre: il Figlio ci riconduce al Padre originario.39

All’interno di questa concezione dell’uomo e della realtà in generale, possiamo adeguatamente apprezzare il messaggio bonaventuriano sulla tecnica; è quello che ci apprestiamo a fare nel seguente paragrafo.

3. Una risposta «Serafica»

I Serafini sono gli angeli che diffondono la luce divina, propagandola nelle creature e producendo meraviglia e godimento; questi, collocati ai vertici della gerarchia angelica, ne rappresentano il culmine, costituendo la massima vicinanza a Dio della creatura intelligente, la quale non si ribella, non si insuperbisce, non si frappone, ma, trasparentemente, lo serve in modo umilissimo e perfetto.40

Il Dottore Serafico, umile servo di Dio e seguace del beatissimo padre Francesco, ha interpretato questo movimento e questa luce, facendosene immagine, vincolo, divino messaggero… un vero Platone della Scolastica! In questa sequela, in questo servigio, il movimento intellettuale della creatura razionale sempre si articola attorno al Principio, mai se ne discosta, rammemorando il supremo archetipo quale principio di ogni agire.41 Tale archetipo è assieme, Uno, secondo la tradizione classica platonica, e Trino, secondo il Nuovo Testamento. Essere e Bene sono i due attributi divini, disposti come due Cherubini ai lati del propiziatorio, nel primo contempliamo Dio come Uno, secondo l’Antico Testamento, nel secondo nome contempliamo Dio come Trino, giacché il Bene è diffusività e la massima diffusività è la consustanzialità.42

La realtà dunque è unitaria e trinitaria, nell’essere e nell’intelligibilità, giacché è vestigium o imago della Trinità, suo Primo Archetipo. L’uomo, attraverso un itinerarium positivo e progressivo di illuminazione crescente, può ricongiungersi con Dio-Creatore, immergendosi nell’amore intratrinitario, massima forma di bontà.43 La consustanzialità della Trinità costituisce la massima forma di Bontà, giacché, se il Bene è diffusivum sui, la massima diffusività è proprio consustanzialità, cioè Trinità.44

Il mondo, dunque, è linguaggio di Dio, è sistema significativo che, tramite il significante creaturale, rinvia al significato trascendente e divino. Dio si rivela nella Sacra Scrittura e nella realtà, tutto è linguaggio di Dio, un linguaggio da decodificare per amarLo e lodarLo, secondo l’autentico spirito francescano.45

Stessa struttura possiede la conoscenza umana, che è affine alla realtà e che ha in Dio, il Primo principio. La conoscenza in generale è illuminazione, porta la luce nella vita umana e, proprio come sosteneva Platone,46 Dio è la fonte della luce, un Dio che è Uno, ed anche Trino. La conoscenza medesima, nelle sue varie forme, possiede una struttura triadica, segno della sua origine suprema, Dio. Il messaggio agatologico platonico-procliano, secondo il quale la luce sensibile rinvia alla superiore luce intelligibile e spirituale, della quale la prima è un’immagine, si ritrova in San Bonaventura, arricchita dal messaggio rivelato della Trinità Divina, massima forma di Bontà, in quanto consustanzialità, e di Unità.

Nella Riconduzione delle Arti alla Teologia vi sono quattro luci e sei forme di illuminazione: la luce esteriore, a cui è connessa l’arte meccanica, la quale ci illumina riguardo alle forme prodotte dall’uomo; la luce inferiore, a cui si connette la conoscenza sensibile; la luce interiore, che si connette alla filosofia che ricerca sulla base di principi appartenenti alla natura umana, le cause interiori e nascoste; la luce superiore della verità salvifica, connessa alla Grazia e alla Sacra Scrittura.47 Le luci e le illuminazioni, debbono essere viste, sia nella loro specificità, sia globalmente.

La prima luce, quella esteriore, della conoscenza tecnica, cioè dell’Arte meccanica, si divide caleidoscopicamente in sette luci, secondo il Didascalicon del grande Ugo di San Vittore. Esse costituiscono una sorta di prolungamento e di estensione del corpo, atto a supplirne le manchevolezze e consistono in Lanificio, Armatura, Agricoltura, Caccia, Navigazione, Medicina, Arte dei giochi e degli spettacoli. Queste sette «luci» vengono sinotticamente raggruppate in un modo che ricorda assai la dialettica platonica del Politico.

L’arte meccanica, infatti, viene dicotomicamente divisa in due sezioni: quella del sollievo e quella del vantaggio: la prima libera l’uomo dalla pena, la seconda libera l’uomo dal bisogno. Nella prima sezione ricade l’arte dello spettacolo, le altre sei arti, secondo la classificazione del Didascalicon, ricadono nella sezione del vantaggio.

L’arte del vantaggio a sua volta si suddivide in arti della copertura, arti del nutrimento, arti della copertura e assieme del nutrimento. Nelle prime ricadono l’arte dei tessuti, cioè il lanificio, e l’armatura, intesa sia come arte fabbrile che come arte delle costruzioni. Nelle arti del nutrimento rientrano l’agricoltura e la caccia;48nel terzo tipo, arti sia del nutrimento che della copertura, rientrano la medicina e la navigazione.

Ora l’arte meccanica è lontana dalla conoscenza filosofica, ma ad essa ancella:

La prima luce, dunque, ci illumina riguardo alle forme prodotte dall’uomo, che sono come a noi esterne e inventate per supplire alle manchevolezze del corpo è detta luce dell’arte meccanica. Essendo questa, in qualche modo, ancella e lontana dalla conoscenza filosofica, si può, a ragione, definire esterna.49

Pertanto, la conoscenza filosofica si deve servire della arte meccanica e la deve, sistematicamente, interpretare alla luce della struttura ontologica della realtà. Così come il principio della realtà è Uno e Trino, anche la filosofia presenta la medesima struttura. La luce interiore è luce unitaria e triadica.50

Tutte le luci derivano dalla fonte di ogni luce e solo in tale orizzonte di derivazione trovano il loro veritiero senso. La luce che contiene in se medesima tutte le altre luci, essendone origine e fine è la luce della conoscenza della Sacra Scrittura. Anche questa luce è una e trina, una quanto al senso letterale, espresso dalle parole, trina quanto al senso spirituale e mistico, che si suddivide in allegorico, morale ed anagogico. Dunque, globalmente, la realtà è tutt’altro che relativismo inintelligibile, il suo divenire, pieno di senso, porta in sé il segno intelligibile della Trinità, comprensibile alla luce superiore della Scrittura e dei sei giorni della creazione. Una realtà così strutturata, cioè disposta in modo intelligibile, consente una comprensione intelligibile delle conoscenze ed una loro strutturazione fondata. Questa strutturazione comporta, sia il ricorso alla filosofia, sia l’apertura di questa alla dimensione superiore della rivelazione, rivelazione che ci apre alle realtà superne, trascendenti la ragione autonoma e rivelateci dallo stesso Padre della luce:

In questo modo comprendi inoltre che dalla Mente somma, che può essere conosciuta dai sensi interiori della nostra mente, emanò dall’eternità la sua similitudine, la sua immagine, suo figlio. Questi poi, quando venne la pienezza dei tempi, si unì ad uno spirito e ad una carne e assunse forma di uomo, il che non era mai accaduto prima. Per mezzo di lui le nostre menti vengono ricondotte a Dio e, mediante la fede, ricevono nel cuore questa immagine del Padre.51

Solo aprendosi a tale dimensione ultimativa il pensiero umano e l’itinerare delle conoscenze trovano quiete e compimento:

In questa vita, perciò, sono presenti sei illuminazioni; ma esse hanno il loro crepuscolo perché ogni scienza sarà distrutta, e, per questo, ad esse succederà il settimo giorno, quello del riposo che non conosce crepuscolo, vale a dire l’illuminazione della gloria.52

Non vi è contraddizione dunque tra la conoscenza filosofica e la rivelazione, ma compimento e integrazione: la filosofia vede nel messaggio rivelato la prospettazione di quelle realtà somme, che rappresentano la possibilità massima del pensiero, pur nei limiti ontologici che questo presenta. Tutte le dimensioni della realtà e tutte le conoscenze trovano il loro senso ultimo nella Rivelazione e in Dio; il pensiero riesce a scoprire l’intelligibilità di tale senso ultimo.

Per ciò che concerne la questione del senso della conoscenza tecnica, la quale non deve ripiegarsi su se stessa, la Riconduzione ci offre un messaggio di straordinaria attualità e portata, proprio in virtù dell’intelligibilità del messaggio rivelato, intelligibilità foriera del senso ultimo della realtà e del sapere.53 In tale intelligibilità risuona e squilla la Trinità di Dio… e la Sua Consustanzialità.

L’arte meccanica produce oggetti artificiali, in tale arte possono vedersi tre aspetti fondamentali: la generazione e incarnazione del Verbo; la regola del vivere, l’Unione di Dio e dell’Anima. L’arte meccanica, dunque, è una e triplice e, inoltre, non è incurvata su se medesima, non è autoreferenziale, bensì è aperta alla realtà di Dio quale Principio dell’essere e dell’uomo. Riscoprire questo vincolo tra Dio-Principio ed Arte meccanica può essere per noi insegnamento e via, una via per uscire dall’autoreferenzialità della tecnica odierna, che assoggetta l’uomo e che da strumento è divenuta padrone, rifiutando qualsiasi norma etica e degenerando verso una disumanità spaventosa e ancora ignota negli esiti, potenzialmente anche catastrofici.

Il primo degli aspetti dell’arte meccanica, cioè la generazione e incarnazione del Verbo, è connesso alla produzione e alla capacità di produrre; il secondo, ossia la regola del vivere, è connesso all’effetto o qualità; il terzo, cioè l’unione di Dio e dell’anima, è connesso al frutto della produzione, cioè all’utilità.

La capacità di produrre si attua nel prodotto artificiale, il quale viene realizzato in virtù dell’immagine, dell’idea che l’artefice ha nella sua mente.54 La somiglianza tra il prodotto effettivo e l’idea nella mente dell’artefice, costituisce il vincolo tra il prodotto ed il produttore; questo vincolo è il senso fondante del prodotto medesimo. Ora, sostiene il Dottore Serafico, se il prodotto avesse conoscenza potrebbe conoscere il suo artefice, tramite l’immagine secondo la quale è stato realizzato. La conoscenza, in ogni caso, cerca il vincolo tra l’artefice originante e il prodotto, tramite un’idea archetipica presente nella mente dell’artefice che si riflette nel prodotto.55

Se il prodotto avesse gli occhi della conoscenza ottenebrati, l’immagine, secondo la quale è stato realizzato, dovrebbe abbassarsi sino ad esso per poter ripristinare la capacità di ricongiungersi all’artefice, proprio come il Figlio dovette farsi uomo per ripristinare l’occhio della contemplazione della creatura razionale, ottenebrato dal peccato. Dunque nell’arte meccanica, quanto alla produzione, ci si riconosce la parola generata ed incarnata, in modo che il sapere tecnico, non si incurvi su se medesimo, ma, tramite la ragione umana illuminata dalla Rivelazione, trovi il suo autentico senso, un senso così divino… e così umano.

Il riferimento ai concetti di vestigium e di imago,56 tanto importanti nell’Itinerarium, suffraga proprio questa valenza antropologica, etica e metafisica dell’arte meccanica, la quale, comprensibile in virtù del concetto di immagine, rivela la profonda «umanità» della tecnica, contraria alla deriva tecnologista della nostra epoca, nella quale spesso la tecnica ricade ad una vera e propria disumanizzazione.

Una volta considerato il primo aspetto dell’arte meccanica, si passa al secondo fondamentale aspetto: l’arte meccanica nel suo effetto e nella qualità dell’effetto. Questo secondo aspetto, a nostro avviso, amplifica il messaggio offertoci dall’esame del primo aspetto, in quanto approfondisce quanto la «tecnica» sia umana e sia legata, nel suo autentico valore e nel suo senso, alla regola del vivere. Ogni artefice, infatti, produce un prodotto che sia bello, utile e duraturo; la bellezza, la utilità e la durevolezza determinano l’apprezzabilità del prodotto. Queste tre qualità corrispondono alla regola del vivere, cioè al conoscere, al volere ed all’agire con costanza. La conoscenza rende bella l’opera e rinvia alla potenza razionale; la volontà rende l’opera utile, rinviando alla potenza concupiscibile; l’agire rende l’opera duratura, rinviando alla potenza dell’irascibile. Questi tre fattori, dunque, sono connessi alla triplicità delle facoltà dell’uomo e rivelano la risonanza antropologica dell’arte meccanica; in tal senso possono costituire un messaggio assai attuale. Possiamo, infatti, chiederci quanto la tecnica odierna nei suoi prodotti rispetti la soggettività dell’uomo e l’autentica «regola del vivere». Sono i suoi prodotti belli? Sono veramente utili? In che misura lo sono? È un determinato oggetto tecnico veramente utile all’uomo o rischia di schiavizzarlo? Questa utilità rispecchia, inoltre, una durevolezza, cioè una sua vera utilizzabilità per l’uomo? Se riflettiamo sulla vertiginosa ed incessante produzione di oggetti tecnici, intesi come beni di consumo, ci accorgiamo che l’uomo, ridotto ormai a «mero consumatore», è costretto a «rincorrere» questa produzione, più che a servirsene. La durevolezza del prodotto è oggi sostituita dalla sua effimera utilizzabilità.

Inoltre, dal punto di vista della ragione, il mondo della tecnica è veramente bello? La produzione tecnica realizza prodotti buoni ed ambienti abitabili per l’uomo inteso come essere razionale? Sono questi interrogativi che possiamo porci sulla scia del messaggio bonaventuriano, che ci prospetta una via, un’opportunità per una nuova comprensione e gestione della tecnica, che sia maggiormente consapevole delle autentiche prerogative umane e delle autentiche esigenze di un’umanità chiamata a riconquistare un modello di vita più autentico ed umano. La denuncia di Lorenz e di Morin, la riflessione di Heidegger, l’analisi di Giovanni Reale possono trovare nel messaggio bonaventuriano una risposta, tesa a riscoprire il giusto modo di intendere la tecnica all’interno di una comprensione sistematica e metafisica dell’uomo e della realtà. La metafisica in tal modo ci si presenta non come una sapere superato, comprensibile soltanto all’interno dello studio del passato, ma come un sapere attuale, in virtù del quale collegare la nostra epoca alla tradizione, riscoprendo forme di vita più autentiche all’interno della riscoperta della tradizione. Riscoprendo la nostra tradizione filosofica, così attenta all’essere umano e alla sua autentica Verità, la nostra epoca potrebbe riscoprire il senso della trascendenza e, in esso, «riscoprire» se stessa.

Il terzo aspetto, sul quale Bonaventura si sofferma, per ciò che concerne l’arte meccanica, è il prodotto come frutto. Considerando il prodotto come frutto, possiamo vedere in esso l’unione di Dio e dell’anima. Questo aspetto è fondamentale per il nostro discorso, in quanto costituisce uno dei vertici dell’interpretazione metafisica della tecnica e individua anche nell’arte meccanica la possibilità di unirsi a Dio. In questo aspetto è come se l’agire umano e quello divino si unissero per somiglianza, in una reciprocità concernente l’azione creatrice divina e l’azione produttiva umana. Il discorso metafisico diviene vera e propria esperienza spirituale.

Ogni artefice produce un prodotto o per riceverne lode, o per riceverne un vantaggio o per godere di esso:

secondo questi tre aspetti che sono presenti in tutto ciò che è desiderabile, e cioè il bene onesto, l’utile e il dilettevole.57

E questi tre fini della produzione umana riflettono pienamente le finalità per cui Dio creò l’anima razionale: perché Lo lodasse, Lo servisse e trovasse in Lui gioia e pace. Tutto ciò avviene per quella carità di Dio, per la quale noi siamo in Lui e Lui è in noi.58 In tal modo, la finalità dell’effetto della produzione umana si unisce e si inserisce nel piano creatore di Dio, alla cui sorgente vi è quell’amore in virtù del quale possiamo unirci a Lui. Alla luce di tale amore l’illuminazione dell’arte meccanica conduce all’illuminazione della Scrittura.59

Questo attuale e meraviglioso messaggio bonaventuriano riflette pienamente lo spirito francescano:

Laudate et benedicete mi signore, et rengratiate et serviateli cum grande humilitate.60


  1. Cfr. Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, p. 64. ↩︎

  2. W. Kasper, Teologia e Chiesa, traduzione di Dino Pezzetta, Queriniana, Brescia 1989, pp. 27-28. ↩︎

  3. Le coordinate metafisiche di tali concezione rientrano all’interno della metaidea del diverso e Platone le esprime in tal modo nel passo del Teeteto 158e-159a: «Rispondono, credo, con questa domanda: “Teeteto, ciò che fosse diverso in ogni aspetto, potrebbe mai avere una potenzialità identica a quella di ciò che è diverso? E non dobbiamo fare l’ipotesi che l’oggetto della nostra domanda sia in parte identico e in parte diverso, ma interamente diverso”. Teeteto: “Allora è impossibile che abbia qualcosa di identico, o in potenza o in qualsiasi altro modo, se è assolutamente diverso.”». ↩︎

  4. Teeteto, 152a. ↩︎

  5. Id. ↩︎

  6. Id., 152c. ↩︎

  7. Teeteto, 152d-e. ↩︎

  8. Cfr. Id., 153a-153d. ↩︎

  9. Id., 156a-b. ↩︎

  10. Id., 159e-160a. ↩︎

  11. Cfr. G. Vattimo, Fine della Modernità, Garzanti, Milano 1999, pp. 27-38. ↩︎

  12. Cfr. Parmenide, 160b-165e; G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle «Dottrine non scritte», Bompiani, Milano 2010, pp. 362-381; M. Migliori, Dialettica e Verità: commentario storico-filosofico al «Parmenide» di Platone, prefazione di Hans J. Kramer, introduzione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1990. ↩︎

  13. I contenuti di questo paragrafo sono esaminati in modo più articolato ed ampio in un mio precedente articolo pubblicato per la Facoltà di Filosofia della Università Pontificia Salesiana, in occasione di una tavola rotonda, <http://www.filosofia.unisal.it/nulla%20interventi/11.%20Periello,%20Relativismo%20protagoreo.pdf>. ↩︎

  14. Cfr. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Pagus Edizioni, Quinto di Treviso 1993. ↩︎

  15. Cfr. Platone, Repubblica, 436a-442b. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone…, pp. 315-355. ↩︎

  16. Cfr. Platone, Timeo 27c-29d e 34b-36d; G. Reale, Per una nuova…, pp. 634-672. ↩︎

  17. Cfr. P. De Vitiis, Prospettive heideggeriane, Morcelliana, Brescia 2006. ↩︎

  18. Cfr. K. Lorenz, Il Declino dell’uomo, Mondadori, Milano 1984. ↩︎

  19. Cfr. S. Babolin, L’uomo e il suo volto, Hortus Conclusus, Roma 2000. ↩︎

  20. Cfr. E. Morin, Terra-Patria, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994. ↩︎

  21. Questo atteggiamento è ideologico, in quanto esclude la possibilità che un agire libero dell’uomo possa decidere contro le tendenze generali, di riproporre una riflessione metafisica capace di elevarsi dalle tendenze generali per considerare ciò che è giusto in sé, è vero in sé, è bello in sé. D’altronde questo è l’autentico compito del pensiero filosofico, che dovrebbe riscoprire la sua autentica vocazione metafisica. ↩︎

  22. E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, pp. 116-129. ↩︎

  23. Ci sembra doverosa, tuttavia, una chiosa al pensiero di Severino sul marxismo. Il marxismo ha sì rappresentato una sorta di surrogato della religione cristiana o della metafisica, in quanto ne ha secolarizzato gli intenti in maniera estrema ed ideologica, tuttavia, come pensiero filosofico non può considerarsi sufficiente al superamento della situazione nichilistica odierna ed alla riscoperta delle sue origini metafisiche più autentiche. Il marxismo, infatti, si basa sul misconoscimento delle verità eterne e sulla ideologica soppressione di ogni attività o dimensione, che non ricada nel preciso progetto politico della rivoluzione comunista. Ciò non può essere accettato ed, inoltre, è stato all’origine di crimini orrendi contro l’umanità medesima. Dimenticando l’apertura fondamentale alla trascendenza e all’intelligibile, propria dell’essere umano, qualsiasi dottrina, anche la più raffinata, si mostra pericolosa, producendo nella storia stessa degli errori che spesso si rivelano essere disastrosi. Per ciò che riguarda la questione del socialismo democratico, questo più che rappresentare la vittoria della tecnica sulla metafisica, ci sembra rappresentare quasi il contrario. Proprio l’incontro ed il dialogo con la cultura occidentale, cristiana e liberale ha permesso al socialismo di riconoscere la centralità e inalienabilità dei diritti umani e della libera iniziativa ed ha permesso a correnti politiche o culturali di origine marxista di inserirsi fattivamente nei sistemi democratici, riconoscendo le fondamentali garanzie dei diritti umani. Per la questione si veda J. Ratzinger — M. Pera, Senza radici. Europa, Relativismo, Cristianesimo, Islam, Mondadori, Milano 2005. Di quest’opera mi sono avvalso soprattutto del contributo dell’attuale Pontefice Benedetto XVI, il quale sottolinea come il mondo contemporaneo occidentale sia caduto in uno stato di relativismo assai pericoloso per il completo sviluppo della persona umana. Le sue riflessioni mi sono sembrate di grande attualità ed assai pregnanti con la nostra presente indagine. ↩︎

  24. J. Ratzinger — M. Pera, Senza radici. Europa, Relativismo, Cristianesimo, Islam, Mondadori, Milano 2005, pp. 68-69. ↩︎

  25. Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, n. 47. ↩︎

  26. Cfr. M. Heidegger, L’Abbandono, a cura di Maurizio Ferraris, Il Melangolo, Genova 1986. ↩︎

  27. Nella terza tesi del Parmenide viene affrontato il tema del mondo senza l’Uno. Lo «straniero» di Elea, sottolinea come, negando il ruolo e la funzione dell’Uno, venga meno la possibilità medesima della molteplicità, giacché questa comporta una moltitudine di entità, le quali possiedono unità e sono, singolarmente prese, «une». Questa concezione ritorna, come vedremo, in chiave non solo henologica, bensì anche triadica nella riflessione metafisica di San Bonaventura. ↩︎

  28. Cfr. M. Heidegger, L’Abbandono, a cura di Maurizio Ferraris, Il Melangolo, Genova 1986. ↩︎

  29. Anselmo D’Aosta, Proslogion, introduzione, traduzione, note e apparati di Italo Sciuto, Rusconi, Milano 1996, cap. 1. ↩︎

  30. Si veda ad esempio: Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Bompiani, Milano 2000, V, 3. In tale Enneade si mostrano i fondamenti metafisici dell’attività contemplativa, la quale si costituisce in riferimento all’Uno principio supremo. Si veda anche lo studio, assai approfondito e dettagliato di M. L. Gatti, Plotino e la Metafisica della contemplazione, Cooperativa Universitaria Studio e Lavoro, Milano 1982. ↩︎

  31. Cfr. G. Reale, Saggezza Antica, pp. 71-83. ↩︎

  32. Cfr. G. Reale, Saggezza Antica, pp. 85-101. Di straordinaria attualità è, da questo punto di vista, il messaggio stesso di San Francesco, il quale nella Salutatio Virtutum 4-8, così si pronuncia: «Voi tutte, santissime Virtù, Sapienza, Semplicità, Povertà, Umiltà, Carità, Obbedienza / vi salvi il Signore / da cui emanate e provenite./ Non c’è assolutamente uomo al mondo / che possa avere una di voi / se prima non muore a se stesso. / Chi ne possiede una / e non disgusta le altre, / le possiede tutte. / E chi ne disgusta una, / le disgusta tutte / e tutte le perde. / Ognuna di esse / sbaraglia vizi e peccati». Questo messaggio si inserisce perfettamente nella grande tradizione spirituale medievale, che cerchiamo di riscoprire nel suo «perenne» significato. Si vedano a riguardo anche le riflessioni dell’attuale Pontefice sulla povertà francescana, quale esempio e modello in Benedetto XVI, Ricchezza nella Povertà. Il carisma di Francesco d’Assisi nelle parole del Papa, Edizioni Porziuncola, Assisi 2010. ↩︎

  33. Cfr. Gorgia, 492c-495b. ↩︎

  34. Emblematiche queste parole di San Bonaventura in Itinerario della mente a Dio IV,1, sorprendentemente simili a quelle di Anselmo nel Proslogion: «Offuscata dalle sue immaginazioni, non si raccoglie in se stessa per mezzo dell’intelligenza; adescata dalle passioni non ritorna in se stessa col desiderio di interiori soavità e di letizia spirituale. Quindi, interamente immersa nelle cose sensibili, non può rientrare in sé come nell’immagine di Dio». ↩︎

  35. Bonaventura, Itinerario della mente in Dio, I, 11. ↩︎

  36. Id., Iii, 1. ↩︎

  37. Id., IV, 2. ↩︎

  38. Cfr, Id., IV, 1. ↩︎

  39. Cfr. Bonaventura, Riconduzione delle Arti alla Teologia, introduzione di Letterio Mauro, traduzione di Silvana Martignoni e Orlando Todisco, Città Nuova, Roma 2006, par. 8. ↩︎

  40. Cfr. Bernardo DI Chiaravalle, De Consideratione, a cura di Edamo Logi, Cantagalli, Siena 1941, V, 4. ↩︎

  41. Cfr. Dante Alighieri, Divina Commedia, Pd. XXXVIII, vv. 44-114; si veda anche su tale aspetto lo studio di M. Gagliardi, Lumen Gloriae. Studio interdisciplinare sulla natura della luce nell’Empireo dantesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, in particolare le pp. 11-61 e le pp. 124-164. ↩︎

  42. Cfr. Bonaventura, Itinerario della mente in Dio, introduzione di Letterio Mauro, traduzione di Silvana Martignoni e Orlando Todisco, Città Nuova, Roma 2006, prologo. ↩︎

  43. Sono interessantissime a riguardo le considerazioni di Carlo Paolazzi, circa la convergenze, nella macrostruttura dell’Itinerarium bonaventuriano e del viaggio dantesco: il primo avvicenda illuminazione vespertina, mattutina e meridiana, il secondo avvicenda la discesa agli inferi, non estranea ad un percorso conoscitivo, la risalita nel Purgatorio e l’illuminante ascesa celeste all’empireo, che culmina nella visione di Dio. Questa convergenza trova ulteriore conferma nella grande vicinanza lessicale, che il Paolazzi individua, tra il XXXIII canto della Divina Commedia e i capitoli V, VI e VII dell’Itinerarium. Cfr. C. Paolazzi: «L’Itinerarium e Paradiso XXXIII: la Verna bonaventuriana nel “Poema Sacro”», in Studi Francescani, anno 97-2000, nn. 1-2, pp. 295-331. ↩︎

  44. Cfr. Itinerario della mente…, capp. V-VI. Il capitolo V tratta della conoscenza dell’unità divina tramite il suo nome che è l’Essere; il capitolo VI si concentra più sul Bene, quale nome divino. ↩︎

  45. Cfr. J. A. Merino, Storia della Filosofia Francescana, traduzione italiana di Luca Diego Fiocchi, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 1993, pp. 53-138 ed in particolare le pp. 53-69; C. Paolazzi, Il Cantico di Frate Sole, Porziuncola, Assisi 2010, in particolare le pp. 57-109. Significative a riguardo sono le stesse parole di San Francesco nella «Esortazione a lodare Dio», vv. 1-3: «Temete Dio e dategli gloria! / Il Signore è degno di ricevere lode e onore. / Voi tutti che temete Dio, lodatelo!…», ed ai vv. 9-10: «Ogni vivente dia lode al Signore! / Lodate il Signore perché è buono! / Tutti voi che leggete questo scritto, benedite il Signore». L’edizione utilizzata degli scritti di San Francesco è: Kajetan Esser Ofm, Gli Scritti di San Francesco d’Assisi, Editrice Messaggero, Padova 1982. ↩︎

  46. Cfr. Repubblica, 506d-509d e 517a-d. ↩︎

  47. Cfr. Riconduzione delle Arti alla Teologia, introduzione di Letterio Mauro, traduzione di Silvana Martignoni e Orlando Todisco, Città Nuova, Roma 2006, par. 1. Le sei illuminazioni derivano dalla «triplicazione» dell’illuminazione interiore, cioè della filosofia: filosofia razionale, naturale e morale. ↩︎

  48. Sotto l’arte della caccia ricadono molte arti come quella della preparazione dei cibi, delle leccornie o delle bevande. Si usa per designare tutte queste arti il termine che ne indica la parte più nobile. ↩︎

  49. Bonaventura, Riconduzione delle arti alla Teologia, par. 2. ↩︎

  50. Interessantissima ed assai avvincente per sistematicità è la suddivisione bonaventuriana della filosofia. Essa è una e trina: una come luce interiore, trina come tripartizione. La filosofia è razionale, naturale, morale, e questa sua triplicità si fonda su Dio medesimo quale norma e principio, giacché la filosofia razionale considera Dio come causa formale, la filosofia naturale come causa efficiente, la filosofia morale, come causa finale. Ma la tripartizione della filosofia, presenta ulteriori modalità, come quella concernente l’illuminazione della capacità intellettiva da parte della luce della conoscenza filosofica, questa può guidare la conoscenza interpretativa per la dottrina — filosofia razionale —, può guidare se medesima per la conoscenza — filosofia naturale —, può guidare la potenza motiva per la vita — filosofia morale —. Inoltre, la filosofia si fonda sulla Verità, sia se unitariamente intesa, che nella sua tripartizione: come filosofia razionale, si basa sulla verità del discorso, come filosofia naturale si basa sulla verità delle cose, come filosofia morale si basa sulla verità dei comportamenti. Ma interessantissima diviene la specificazione, sempre ternaria, di ognuna di queste tre sezioni della filosofia. La filosofia del discorso o razionale, a sua volta si suddivide in: grammatica, logica e retorica; la filosofia naturale in fisica, matematica e metafisica; la filosofia morale in monastica, economica, politica. Ognuna di queste presenta le sue specificità, all’interno di una visione intelligibile, sistematica ed organica della filosofia, che unitariamente cerca le ragioni interiori delle cose e si apre al mistero luminosissimo della rivelazione. Cfr. Bonaventura, Riconduzione delle Arti…, cap. 4. ↩︎

  51. Bonaventura, Riconduzione…., cap. 8. ↩︎

  52. Id., 7. ↩︎

  53. A tal punto mi sembrano interessantissime le riflessioni del P. Gabriele Allegra circa il pensiero di quel grande bonaventuriano, che è stato Dante Alighieri, in Scintille Dantesche. Antologia dai diari, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi e Francesco Santi, Edizioni Dehoniane, Bologna 2011, p. 155: «Che meraviglia il Paradiso di Dante! E meravigliose son pure quelle disquisizioni filosofico-teologiche che in esso abbondano, se si riflette all’ardore di Dante per il Sapere e per la Sapienza e se si comprende che per lui la vera grande poesia è Sapienza. Nel primo canto rapisce il cuore la descrizione o meglio la celebrazione dell’armonia dell’universo…» Questo testo bellissimo del Padre francescano Gabriele Maria Allegra raccoglie riflessioni quotidiane sulla Divina Commedia, opera della quale il P. Allegra era acuto lettore ed interprete. Il testo ci regala pagine di grandissima intensità teologica, filosofica e spirituale. ↩︎

  54. Qui «immagine» ha accezione di archetipo. ↩︎

  55. Scrive Bonaventura in Riconduzione 12: «L’artefice, inoltre, produce all’esterno un oggetto simile, quanto più possibile, al modello interno; e se potesse produrlo tale da amarlo e conoscerlo lo farebbe di certo. Se poi l’oggetto prodotto potesse conoscere il suo artefice, lo conoscerebbe grazie all’immagine secondo la quale è uscito dall’artefice». ↩︎

  56. Si veda quanto abbiamo detto sopra al paragrafo 2. ↩︎

  57. Bonaventura, Riconduzione…, 14. ↩︎

  58. Qui in modo meraviglioso torna, arricchito dal messaggio cristiano, il celebre insegnamento platonico presente proprio nel Teeteto sull’assimilazione a Dio quale ideale supremo della filosofia: il filosofo non si lascia inghiottire dalle occupazioni mondane e dalle preoccupazioni per il contingente, ma persegue l’ideale dell’assimilazione a Dio, facendosi quanto più possibile simile a Lui. Cfr, Teeteto, 173c-177c. ↩︎

  59. Id. ↩︎

  60. Francesco D’Assisi, Canticum Fratris Solis, 14-15. L’edizione utilizzata degli scritti di San Francesco è: Kajetan Esser Ofm, Gli Scritti di San Francesco d’Assisi, Editrice Messaggero, Padova 1982. ↩︎