Il divieto di idolatria tra universale e particolare

Alla memoria di Emilio Garroni

1. Il punto di vista

Confesso di essere particolarmente emozionata: le tematiche che sto per affrontare sono parte essenziale, non solo di un percorso teorico e professionale, ma anche della costruzione della mia identità. Scrivo appositamente “identità” senza specificazione, perché identità ebraica e non, sono diventate per me due astrazioni difficilmente distinguibili. Quanto sto dicendo è, forse, solo una conferma ulteriore di quel “disagio” che Alessandro Guetta, denunciava come “l’anomalia della condizione ebraica”: la difficoltà, se non impossibilità, degli ebrei di pensare l’universale a prescindere dalla particolarità del proprio sé, dalla giustificazione della propria esistenza. “Anomalia” che avrebbe gravi implicazioni metodologiche ed epistemologiche, oltre che socio-politiche, compromettendo la possibilità dell’ebraismo di essere oggetto di studio e di riflessione scientifica come ogni altra cultura. Questo limite, secondo Guetta, potrà essere superato solo nel momento in cui, all’interno e all’esterno dell’ebraismo, non si porrà più, per esso, il problema del rapporto tra universale e particolare.

Guetta pone una questione importante che merita sicuramente una seria e approfondita riflessione. In questo intervento, tuttavia, vorrei mostrare l’esigenza di mantenere sempre aperto il problema del rapporto tra universale e particolare: non solo in quanto specificità dell’atteggiamento anti-idolatrico del monoteismo ebraico, ma come necessità universale di una modalità “scientifica” — ossia non ingenua e non metafisica — di pensiero, fondata sulla lucida e critica consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità, e di un atteggiamento etico non moralistico, alternativo sia al dogmatismo che al relativismo. È proprio su questo punto, fra l’altro, che a mio avviso diventa concretamente possibile il confronto e il dialogo multiculturale tra maggioranze e minoranze, tra la specificità della tradizione culturale ebraica e la “generale” produzione scientifica e filosofica.

Il mio interesse per l’idolatria — scusate se sento di nuovo il bisogno di ricorrere a quel metodo “anomalo” che non può fare a meno della prima persona — ha coinciso con la presa d’atto di un’esperienza al tempo stesso emotiva e concettuale, interna ed esterna. Ho riscoperto l’ebraismo tramite la filosofia e, paradossalmente — se si tiene conto dei consolidati luoghi comuni che ruotano attorno al rapporto tra arte ed ebraismo — , tramite studi di estetica. Ancor prima di leggere Levinas, Buber, Rosenzweig, Benjamin, Maimonide, studiando Kant, Hegel, Heidegger, Wittgenstein e ascoltando le lezioni di estetica di Emilio Garroni, percepivo qualcosa di non totalmente raffigurabile che entrava però in risonanza con aspetti che mi appartenevano in modo essenziale, quasi primordiale. Aspetti che, solo a poco a poco, scoprivo aver a che fare con quella identità ebraica, fino a quel momento vissuta esclusivamente come un destino scomodo che non riuscivo semplicemente ad assumere, ma che, quanto più tentavo di cancellare, tanto più mi restava incollato. Un’identità ossessionata da domande da capogiro, la cui “diversità” — in realtà il fatto stesso di essere, indipendente da qualsiasi come e curiosità effettiva — ero costantemente costretta a spiegare ad altri, senza il supporto di alcun biglietto da visita. Ferita dal dolore per ogni manifestazione anche lieve di antisemitismo, dal rancore di una memoria tutta privata, emotiva e astratta: l’angoscia di essere sopravvissuta per caso all’“orco” nazista, di cui non ero nemmeno stata vittima.

Leggendo la Critica del Giudizio, mi imbattei nel brano in cui Kant, per spiegare la categoria del sublime, fa riferimento al divieto di immagini del popolo ebraico:

Non è da temere che il sentimento del sublime abbia da perdere qualcosa per questo modo astratto d’esibizione […], quell’astrazione è un’esibizione dell’infinito. […] Forse non v’è nel libro delle leggi degli ebrei un passo più sublime di questo comandamento: “Tu non ti farai alcuna immagine o figura di ciò che è in cielo, o in terra, o sotto la terra, etc. ”.1

Il rapporto tra Israele, il Dio irrappresentabile, la Torà e il resto del mondo, veniva ad apparirmi come la rappresentazione — la “figura” direbbe Hegel — di quella “terza” modalità di relazione tra l’universale e il particolare, oggetto di riflessione della Terza Critica kantiana, che oltrepassa tanto lo schema deduttivo che quello induttivo, che non è riducibile né al paradigma conoscitivo né a quello morale, pur essendo da entrambi richiesta come condizione necessaria: il paradossale principio della facoltà di Giudizio, il “senso comune”, che è un nodo indissolubile di universalità e particolarità, normatività e contingenza, una condizione che è allo stesso tempo un condizionato, l’esempio di una regola che non si può addurre, un fondamento che media e distingue senza mai esaurire il proprio compito di mediazione, essendo sempre ancora da comprendere e da costruire dentro alla molteplice contingenza empirica. Nella premura anti-idolatrica del monoteismo ebraico — in quel Dio che, come dice Levinas, “viene all’idea”2 solo “attraverso la prassi umana”, “sui crocevia dove si incontrano i cammini umani”3 — vedevo incarnato quel procedimento semantico che Kant definisce “simbolico” o “estetico”, di un’universalità che non ha la forma né di un concetto né di una regola né di un’immagine, che può essere solo indicata attraverso esperienze o significati particolarmente esemplari — che si rivelano tali a un contingente atto giudicativo — senza esserne mai adeguatamente espressa. Universalità “sublime”, ma allo stesso tempo concreta e fragile, sempre a rischio di “volgarizzarsi” o di essere “profanata”, in quanto priva dell’illusione mitologica di poter trascendere questo rischio, con la pretesa di autofondarsi e autogarantirsi.

Attraverso quel passo kantiano, è come se improvvisamente, e con grande piacere liberatorio, avessi scoperto il fondamentale insegnamento ebraico che, pur nella quasi assenza di tradizione, religione, riti, immagini, mi era stato trasmesso, al punto da costituire un elemento fondante della mia identità. Talmente fondante, da rasentare l’ossessione: il bisogno spasmodico di smascherare tutto ciò che si rivela sotto sembianze idolatriche. Una severa esigenza etico-critica di smascheramento degli idoli, mista a una irresistibile attrazione per essi: l’impossabilità di restarci dentro, ma anche di esserne mai totalmente fuori; non poterli combattere senza conoscere; non riuscire ad agire, parlare, pensare, scrivere, creare o anche distruggere, senza prima aver percorso e sviscerato tutte le implicazioni particolari e generali di una questione. L’ossessione, oltre al “disagio”, iniziava a rivelare anche un gusto, uno stile, una fisionomia. Tramite lo studio — di cose filosofiche ed ebraiche — sono riuscita a conquistare un’identità ebraica positiva, contraddistinta finalmente, non solo da emozioni astratte e contraddittorie, ma anche da contenuti effettivi. Contenuti che sono anche una forma: un metodo di relazione polare e asimmetrica, ovvero di mediazione rispettosa e curiosa, tra l’universale e il particolare, l’identità e le differenze, l’astrattezza dello sguardo teorico e la contingenza dell’esperienza storica, che mi rendeva possibile oltrepassare tanto l’isolamento che la giustificazione apologetica. Una “pratica teoretica di riflessione, paradossale, ardua e quasi ossessiva” che “opera e nello stesso tempo si autotematizza”,4 per sorvegliarsi e mettersi a riparo dai suoi stessi rischi idolatrici; e che, senza rinunciare a istanze di certezza, pretese di senso e di universalità, assume fino in fondo il paradosso, al tempo stesso epistemologico ed esistenziale, del nostro essenziale far parte del mondo che abitiamo, utilizziamo, costruiamo, valutiamo e organizziamo, senza mai poterlo totalmente e definitivamente padroneggiare per mezzo di miracolose “chiavi” prospettiche assolute o privilegiate.

2. La doppia chiave

Inizierò il mio intervento con una citazione talmudica, per sintetizzare con un’immagine metaforica le diverse implicazioni del mio discorso:

Rabbà ben R. Hunà disse: “ogni uomo che possiede la conoscenza, senza timore del Signore, è come un tesoriere cui è stata affidata la chiave interna ma non la chiave esterna: come può entrare? ”.

Si tratta di una delle varie interpretazioni rabbiniche, raccolte in Shabbàth, 31a, del versetto di Isaia XXXIII, 6: “C’è la fiducia nei tuoi tempi, scudo di salvezza sono saggezza e conoscenza e il timore di Dio sarà il suo tesoro”. Rabbà sostiene che quando l’uomo è condotto davanti al giudizio divino, se egli ha adempiuto tutte le mitzvòth con il timore di Dio è bene, altrimenti è come se non le avesse adempiute. Rav Jannài proclama: “Guai a colui che non ha un cortile e, tuttavia, fa lo stesso un cancello! ”. Similmente Rav Hoshajà, in Shemòth Rabbah, XL, 1, ritiene che chiunque ha conoscenza, ma non ha timore del peccato, non ha nulla, come l’artigiano senza il suo strumento.

Non è questo il luogo per un’analisi dettagliata di tali citazioni né mi soffermerò, per ora, sulla possibilità di intendere il “timore del Signore” già come timore del rischio di idolatria, ossia come modalità che deve orientare il corretto adempimento di ogni singolo comandamento. Vorrei sottolineare, piuttosto, l’immagine di “chiave” usata da Rabbàh ben R. Hunà e la presenza, in tutte le citazioni riportate, di due dimensioni distinte, ma talmente correlate, da annullarsi in assenza l’una dell’altra: la chiave interna e la chiave esterna, il cortile e il cancello, l’artigiano e lo strumento, la fiducia o le mitzvòth o la conoscenza e il timore, lo scudo e il tesoro, i tempi umani e quelli divini. Duplicità che tenterò di mostrare come fondamentale per la concezione specificamente ebraica dell’anti-idolatria.

Per quanto riguarda l’immagine di “chiave” — con la sua duplice connotazione di chiave interna ed esterna — , essa sintetizza bene anche l’intenzione del mio intervento: vuole essere, infatti, una sorta di premessa metodologica volta a esplicitare un orientamento unitario, una chiave interpretativa generale, ma al tempo stesso interna a ogni questione specifica, a mio avviso, particolarmente adatta a impostare le problematiche di ordine più strettamente storico, politico, giuridico, etico attinenti al tema di questo Mokèd: “la dimensione ebraica tra universale e particolare”.

Compiere una sorta di “passo indietro” è ciò che, tradizionalmente, contraddistingue una riflessione filosofica in genere. Come afferma Levinas, nello spiegare il suo progetto di “filosofia della singolarità ebraica”, bisogna individuare le strutture o modalità originarie mediante cui la “realtà spirituale” del giudaismo si è formata, continuamente si rinnova e “mostra un modo essenziale dell’umano”.5 Risalendo dal tema “verso la ”modalità“ attraverso la quale ad esso si accede”, si scopre che la modalità è “essenziale al senso di questo tema stesso”.6 “È origine — scrive ancora il filosofo — ciò che dà la chiave del suo enigma”, “la presenza della chiave che interpreta nel segno che deve essere interpretato”.7 I “significati molteplici” richiedono un “senso unico” “da cui attingere la loro stessa significanza”; un “avvenimento primordiale in cui vanno a disporsi tutti i passi successivi del pensiero e tutta la vita storica dell’essere”. “Più che nel non-senso — commenta Levinas — , l’assurdo consiste nell’isolamento dei significati innumerevoli”, “dipende dalla molteplicità nell’indifferenza pura”; la “crisi del senso” è “crisi del monoteismo”.8

Anche Maimonide, nella Guida dei perplessi (II, 2), cerca una “chiave” per elucidare i punti difficili della Legge e rendere manifesta la vera realtà dei suoi significati. Tali operazioni non sono, tuttavia, da intendersi come elucubrazioni filosofiche astratte, come sovrastrutture giustapposte in modo estrinseco alla tradizione ebraica. È la tradizione stessa, infatti, a indicare l’esigenza metodologica di una simile “chiave” unitaria: l’antico rabbino Shimòn b. Patzì, racconta il Talmud, introdusse una lezione sul libro delle Cronache con la seguente premessa: “Tutte le tue parole sono una e noi sappiamo come trovare il loro significato interno”.9 E ancora, in Shabbàth, 30b, si racconta che i saggi stavano per nascondere il libro dei Proverbi perché incoerente, ma si ricordarono di quanto era già accaduto per il libro di Qohéleth che volevano nascondere per lo stesso motivo: “Non abbiamo esaminato il libro di Qohéleth e trovato una conciliazione? Dunque, anche in questo caso, mettiamoci a cercare! ”.

Spesso, secondo quanto testimoniano testi talmudici e midrashici, i maestri si interrogano e discutono sulla possibilità di “condensare” il senso generale della Torà sotto uno o più comandamenti. Già nella Torà — come ricorda il Talmud, in Makkòth, 24a — sono rintracciabili analoghi tentativi di condensazione: Davide ridusse i comandamenti a undici principi (Salmi, XV); Isaia una volta a sei (Is., XXXIII, 15-16) e un’altra a due (Is., LVI, 1); Micah a tre (Mic., VI, 8); Amos (Am., V, 4) e Habakkuk (Hab., II, 4) a uno: rispettivamente “cercatemi e vivrete” e “il giusto vivrà per la sua fede”. Nel Midràsh Rabbà,10 i maestri, interpretando il versetto di Esodo, XXXI, 18: “Quando il Signore finì di parlare [kekalothò], diede a Mosé le due tavole della Legge”, si domandano: “Come poteva Mosé imparare tutta la Torà? Della Torà, infatti, è detto: ”è più alta del cielo, più profonda del baratro, più lunga della terra e più larga del mare“ (Giobbe, XI, 9). Poteva, dunque, Mosé impararla solo in quaranta giorni? ” Ricorrendo a un gioco di parole, i maestri rispondono: “furono solo i principi [kelalìm] che il Padre Eterno insegnò a Mosé sul monte Sinai”, non tutte le 613 mitzvòth. Bar Qapparà — si ricorda in Berakhòth, 63a — si chiedeva: “Qual è un breve capitolo della Legge da cui dipendono tutti gli elementi della Legge? ” Il maestro riteneva fosse il versetto di Proverbi, III, 6: “In tutte le tue vie consideralo [il Signore], ed Egli appianerà i tuoi sentieri”.

Tra i comandamenti più frequentemente assunti come “prioritari” risultano: il Decalogo, il divieto di idolatria, lo studio della Torà, il rispetto del prossimo; in casi più sporadici, l’unità di Dio, la pratica delle mitzvòth, il timore verso Dio, lo Shemà, l’imitatio dei, l’onore dovuto ai genitori, il Sabato, il divieto di falsa testimonianza, il precetto dello tzitzìth, ovvero di farsi delle frange agli angoli delle vesti come “promemoria” dei comandamenti. Non si arriva mai a un accordo su tale “primato” ed è importante sottolineare questa pluralità di pareri: il comandamento assunto di volta in volta come “prioritario” non si erge a dogma del monoteismo, a parzialità privilegiata in cui il divino si manifesta. Ridurre la Torà all’univocità di un concetto significherebbe già tradirne idolatricamente il senso.

Bisogna però prendere sul serio questo tentativo di risalire all’unità: un’unità che non si può definire, non si può rappresentare — così come è vietato farsi immagini di Dio — , ma che è pur sempre indispensabile, per potersi fare un’idea del “patto” tra l’unità/unicità irrappresentabile del divino e la molteplicità irriducibile dell’umano e riuscire a trovare un orientamento in quello che viene definito il “mare del Talmud”.

Riproponendo in tempi moderni la domanda “se e in che misura esiste un’essenza dell’ebraismo”, Leo Baeck spiega bene il senso di questi tentativi di sintesi e gerarchizzazione dei comandamenti: vanno intesi come l’interrogarsi sul problema fondamentale che contraddistingue l’ebraismo come fenomeno storico. “Creativo e quindi storico è infatti soltanto ciò che ha la sua intrinseca unità” nell’esigenza di riproporre “incessantemente il problema del suo significato”, arricchendosi e rimodellandosi in sempre nuove modalità di soluzione. Si tratta dell’unità — precisa ancora Baeck — di “un metodo più che di un sistema”, e di un metodo che è “sempre necessariamente anche una storia”.11 Un’unità paradossale, da modularsi sempre secondo la molteplicità. “È un’ossessione ebraica — scrive Dante Lattes — quella dell’unità”12 — unità di Dio, del popolo ebraico e dell’umanità in genere — ; ma l’era messianica, che incarna l’ideale simbolico-regolativo di riscostruzione dell’unità, per i maestri talmudici, arriverà solo quando sarà salvaguardata ogni sfumatura di senso, accanto al “nome proprio” di chi l’ha enunciata per primo.

“Volendo dire qualcosa di sistematico sull’asistematicità del pensiero ebraico”, Schalom Ben-Chorin afferma che esso “prende le mosse dal concreto e dal caso particolare e procede”, per associazioni e senza sintesi, “in direzione dell’universale”.13 Questa frase ci riporta nuovamente a Kant: sembra quasi parafrasare la prospettiva estetico-simbolica del “giudizio riflettente” che cerca l’universale, non come normatività originaria già data, ma da costruirsi all’interno di singoli atti di giudizio empirici, grazie al supporto di esperienze particolarmente feconde di significati e di idee, e che tenta di unificare i fenomeni secondo la loro concreta differenza specifica e non solo secondo la loro generica identità formale.

“Come applicare la Torà a una attualità così differente politicamente, socialmente ed economicamente dall’ordine considerato dalla Legge? ” si chiede ripetutamente Levinas. La situazione descritta dal Talmud “è l’esempio di una situazione data resa umana dalla legge”, “si può dedurne la giustizia per ogni situazione”, se si è capaci di “liberare dagli esempi antichi e di riferire alle situazioni nuove, i principi e le categorie che essi contengono”.14 Levinas definisce “metodo paradigmatico” questa paradossale relazione di identità-differenza tra universale e particolare che contraddistingue il modo di pensare biblico-talmudico: le idee non si determinano mediante un processo di astrazione e cristallizzazione concettuale, ma conservano un rapporto pluridimensionale, dinamico, creativo e al tempo stesso critico, con le situazioni empiriche concrete da cui sono state originate e a cui devono continuamente tornare ad applicarsi in forme necessariamente sempre diverse. L’“universalità paradigmatica” non ha la struttura di una “forza che si espande”, ove chi la esercita non se ne separa ma cresce con essa, subordinando a sé violentemente tutto il resto. Il suo movimento è, piuttosto, quello di “un’idea che si propaga”, che diventa patrimonio comune distaccandosi dal suo punto di partenza, ma conservando, al tempo stesso, la modulazione peculiare che il suo creatore le conferisce.15

Anche Rosenzweig è alla ricerca di una generale “legge dello stile e del pensiero ebraico” e ne trova caratteristiche esemplari in quello che definisce lo “stile musivo” delle poesie di Jehudà Ha-Levì. In modo simile all’anacronismo e all’apparente casualità e incoerenza con cui i maestri talmudici accostano e interpretano diversi passi della Torà, negli inni di Ha-Levì — come in tutta la poesia ebraica medioevale — le citazioni bibliche sono inserite nella trama delle poesie in modo che “un altro presente si spinga davanti al presente che le circonda”. Tra passato e presente, realtà testuale e realtà storica si innesta un rapporto costante di reciproco arricchimento e vaglio critico. Questo stile risponde al “comandamento di non conciliare l’inconciliabile con il conciliabile” (Lettera a Hans Ehrenberg, 28/12/1910); consiste cioè nella rinuncia a determinare mitologicamente le essenze e i fondamenti ultimi, nella capacità di superare le oscillazioni tra le alternative antinomiche prive di nessi, per istallarsi all’interno dell’esperienza effettiva che è sempre esperienza di relazioni: “Nell’unica realtà di cui abbiamo esperienza, tutte le nostre esperienze sono esperienze di ponti gettati”.16

3. Il “primato” del divieto di idolatria

A questo punto è possibile determinare meglio anche contenutisticamente la nostra “chiave” che, per ora, è apparsa come un’unità storico-metodologica, come l’unità di un problema. Qual è questo problema che l’ebraismo continuamente ripropone a se stesso e che è sia un contenuto che una forma? Nonostante la molteplicità di pareri, un posto privilegiato è indiscutibilmente attribuito da commentatori e pensatori, antichi e moderni, al divieto di idolatria, espresso esemplarmente in Esodo, XX, 4-6 e Deuteronomio, V, 8-10:

Non avrai altri dèi al Mio Cospetto. Non farti scultura alcuna né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra. Non ti prostrar loro e non adorarli poiché Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce il peccato dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che Mi odiano. E che uso bontà fino alla millesima generazione per coloro che Mi amano e che osservano i Miei precetti.

Questo “geloso concetto di Dio” è, secondo Dante Lattes, l’“espressione categorica del più assoluto monoteismo”, “l’idea centrale, l’idea base”17 di Israele, “dalla quale discendono tutte le altre come corollari”.18 Umberto Cassuto vede nella concezione assolutamente trascendente di Dio, espressa dal secondo comandamento, e nel “corollario pratico” del divieto di immagini che ne deriva, una vera e propria “rivoluzione spirituale”.19 Carattere rivoluzionario del monoteismo ebraico a cui Vittorio Dan Segre, attribuiva le principali cause della giudeofobia antica, ma che, a mio avviso, rimane un elemento fondamentale per riflettere anche sulla contemporaneità.

Sempre in età moderna, Ascher Ginzberg, detto Ahad Ha-am, in Jewish and Christian Ethics, reinterpreta la risposta che Hillèl, secondo un famoso aneddoto talmudico, avrebbe dato a un pagano che voleva gli venisse insegnata tutta la Torà stando su un piede solo: “Ciò che tu detesti non farlo al tuo prossimo: questa è la Torà per intero, il resto è commento, vai e studia”.20 “Se il pagano della vecchia storia fosse venuto da me”, scrive Ahad Ha-am, “la mia risposta sarebbe stata: ”Non devi farti alcuna immagine scolpita o ritratto, questa è tutta la Torà, tutto il resto è commento“”. “L’assoluta tendenza a sollevare la coscienza religiosa e morale al di sopra di ogni forma sensibile limitata, ponendola in un nesso immediato con l’ideale astratto che non ha alcuna figura” è, secondo Ginzberg, la “qualità fondamentale della dottrina giudaica, per la quale si distingue dalle altre dottrine”.21

Nella Guida dei perplessi, opera interamente finalizzata ad estirpare la falsa credenza nella corporeità di Dio, Maimonide afferma più volte che lo “scopo primo”, il “pilastro”, il “centro” della legge nella sua globalità, è di mettere fine all’idolatria, cancellandone tutte le “tracce”, i “monumenti”, distruggendo tutto ciò che vi può condurre o che è in rapporto con essa, anche soltanto nel ricordo.22 Nel Libro della conoscenza, scrive che il divieto di idolatria “è davvero il comandamento essenziale” che “ha, da solo, la stessa importanza di tutti gli altri comandamenti messi insieme”.23

Maimonide è, in questa opinione, portavoce fedele e diretto della tradizione: in molti brani talmudici e midrashici si parla del divieto di idolatria come “comandamento primo”. “Primo” innanzitutto in senso cronologico: secondo Rav Jehudà, “Adamo ricevette un unico comandamento: il divieto di idolatria”.24 Interpretando Numeri, XV, 23, “dal giorno che vi ha dato i comandamenti in poi”, Rav Ishmaèl — si racconta in Horajòth, 8b — si chiedeva: “qual è il comandamento che è stato dato proprio all’inizio prima di ogni comandamento? Sicuramente il divieto di idolatria”. Similmente, Rav David Hoffmann, un commentatore del XIX secolo, interpreta il versetto di Deuteronomio, XXVII, 8: “Scriverai sulle pietre tutte le parole di questa legge con chiara scrittura”, nel senso che “soltanto il divieto di idolatria doveva essere scritto”. Come, infatti, scrivere su pietra, per quanto grande questa possa essere, e, per di più, scrivere distintamente, i circa 400. 000 versetti della Torà?

Il divieto di idolatria è, quindi, non solo il presupposto fondante del patto sinaitico, ossia del costituirsi del popolo ebraico, ma è riportato all’origine della stessa condizione umana, all’origine della civiltà, assumendo un “primato” assiologico oltre che cronologico, universale e non solo nazionale.

Talmente grave è la trasgressione idolatrica che la pena per essa non prevede né attenuanti né indulti: non è concessa nemmeno sotto minaccia di morte;25 per essa si verrà puniti anche nel mondo futuro e non solo da un tribunale umano;26 è l’unica colpa per la quale si è punibili anche solo per i sentimenti e le intenzioni.27

Ponendo indirettamente un’equivalenza suggestiva tra idolatria e assenza di chiarezza, l’interpretazione di Hoffman rivela l’accezione più importante del “primato” della proibizione dell’idolatria: la sua capacità sintetico-rappresentativa, il suo contenere un significato chiaro e distinto, comprensibile ed esaustivo, particolarmente adeguato a esprimere simbolicamente l’unità universale irrappresentabile. Il divieto di idolatria riassume infatti il senso complessivo della Torà sia in negativo che in positivo. I maestri talmudici28 interpretano il versetto di Numeri, XV, 22, “se cadrete in errore e non eseguirete tutti questi precetti”, come: “se l’errore idolatrico vi avrà condotto a non eseguire più alcuno dei precetti”. Secondo Rashì, che così interpreta Esodo XXXII, 34, talmente grave è stata la colpa del vitello d’oro che “non vi è nessuna punizione che colpisca Israele in cui non ci sia, in parte, una punizione per quella colpa”.29 Viceversa, il versetto di Esodo, XXIII, 13, “State ben attenti a tutto ciò che vi ho prescritto, non menzionate mai il nome di divinità straniere”, sta a significare che, talmente importante è il divieto di nominare divinità idolatriche, che astenersene equivale all’adempimento di tutti gli altri precetti. In Chullìn, 5a e Horajoth, 11a, i maestri spiegano che per “apostata” bisogna intendere, non colui che trasgredisce un singolo comandamento, ma colui che si oppone all’intera Torà; la trasgressione idolatrica, però, è talmente grave da oltrapassare la distinzione tra Legge in genere e leggi particolari e identificarsi con l’apostasia stessa.

4. Frontiere di identità?

I maestri si spingono ancora oltre nello scavalcamento di confini tra particolarità e universalità della Legge, aprendo prospettive molto interessanti rispetto alle questioni poste da questo Mokèd: come il popolo ebraico si identifica in relazione al diverso, allo straniero? Come concepisce la propria specificità in seno all’umanità? Il divieto di idolatria sembra svolgere a tal proposito un ruolo cruciale, essendo la definizione stessa del monoteismo ebraico inscindibile dal modo di concepire l’idolatria: la “chiave interna” dalla “chiave esterna”.

Secondo Maimonide, “un Israelita che pratica l’idolatria è assimilato sotto tutti gli aspetti a un non ebreo”, non è un trasgressore di un singolo comandamento, ma un “apostata” nei confronti della Legge per intero.30 Ancora più radicalmente, in Meghillà, 13a, Rav Jochanàn ritiene che “chiunque ripudia l’idolatria”, anche un pagano, “è chiamato ebreo”. Tra i diversi esempi che il rabbino utilizza a riprova della sua opinione, il più significativo è quello tratto da I Cronache, IV, 18, ove Bithjà, la figlia del Faraone, è chiamata “giudea”, in quanto, come si legge in Esodo, II, 5, “scese al fiume a lavarsi”, ovvero “a purificarsi dagli idoli della casa paterna”. In semplice giustapposizione, senza apparente connessione, ma aggiungendo in realtà elementi fondamentali, Rav Jochanàn menziona poi il detto secondo cui Bithjà “partorì Mosè”, perché chiunque alleva un bambino o una bambina è come se lo partorisse. Questa aggiunta, oltre a spiegare il contenuto effettivo della ribellione anti-idolatrica di Bithjà, a mio avviso, svincola la definizione dell’identità da criteri di ‘appartenenza’ etnico-biologica, facendola piuttosto dipendere da un tipo di comportamento, radicato in una vicenda storica. “Partorì Mosè” si potrebbe intendere, inoltre, anche in senso metaforico più generale, non solo come la causa per cui Bithjà viene considerata “giudea”, ma come l’effetto creativo, riproduttivo dell’essersi liberata dagli idoli: fecondità intrinseca al superamento delle antinomie, alla capacità e al coraggio della mediazione.

Se andiamo poi a rileggere il brano di Cronache da cui Rav Jochanàn trae la propria interpretazione, la situazione si complica ulteriormente, facendosi ancora più interessante:

La moglie di Mèred gli partorì Miriam, Sciammai, e Jshbac padre di Eshtemòa; mentre la moglie giudea gli partorì Jèred padre di Ghedor, Chèver padre di Sochò e Jecuthiel padre di Zanòach. I primi furono figli di Bithjà, figlia di Faraone che Mèred aveva preso.

Ci sono due mogli di Mèred di cui una ebrea e una non, ed è evidente che Bithjà è quella non ebrea. Ma Rav Jochanàn rimescola tutte le carte operando una sintesi: c’è un’unica moglie di Mèred, chiamata ebrea e questa moglie è Bithjà che, invece dei figli biologici elencati in Cronache, è “madre” di Mosè.

Similmente Rav Meìr, notando che nel versetto di Levitico, XVIII, 5: “Manterrai i miei statuti e i miei giudizi, se l’uomo farà così, vivrà in essi”, non sono nominati né sacerdoti né leviti né Israeliti ma “l’uomo in genere”, ne deduce che “un pagano che studia la Torà è considerato come un sommo sacerdote”.31

Altri brani della Torà sembrerebbero, viceversa, stabilire una contrapposizione rigida e invalicabile tra paganesimo idolatrico e monoteismo anti-idolatrico, popolo ebraico e nazioni straniere. In particolare, in una delle versioni più estese e più “iconoclastiche” del divieto di idolatria che si trova in Deuteronomio, IV, 15-20, dopo aver elencato minuziosamente tutto ciò di cui è vietato fare un’immagine e che è vietato adorare, si aggiunge:

Guardatevi parimente, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna e le stelle e tutte le schiere celesti, di non traviarvi prostrandovi a loro e servendoli, poiché il Signore tuo Dio li ha assegnati a tutti gli altri popoli che abitano sotto tutti i cieli, mentre il Signore prese voi e vi fece uscire dal crogiuolo del ferro, dall’Egitto perché foste per Lui un suo possesso speciale come siete oggi.

Il popolo ebraico è “possesso speciale di Dio”, mentre gli idoli, le costellazioni appartengono agli altri popoli. I popoli “abitano sotto tutti i cieli”, mentre la dimora del popolo ebraico rimane indeterminata e connotata solo in negativo, per esclusione — “fuori dall’Egitto”, “fuori dal crogiuolo del ferro” — secondo il procedimento tipico del “sublime”, della mistica, o di quello che Hegel definisce come “cattivo infinito”.

Mi chiedo però se non sia possibile dare un’interpretazione diversa di questo versetto: non come una definizione rigida di frontiere, di spazi abitabili contrapposti e invalicabili, ma di modi diversi di relazionarsi all’unico luogo possibile. Nell’ebraismo si crea una dimensione duale, verticale all’interno del semplice esistere che, per diventare umanamente abitabile, necessita di una costante costruzione e ricostruzione della mediazione tra l’universale e il particolare, rappresentata dalla pratica delle mitzvòth e dalla riflessione sul modo di applicarle correttamente.

Vorrei, inoltre, portare l’attenzione sul fatto che anche gli altri popoli è Dio stesso che li ha assegnati alle schiere celesti. Mi chiedo se questo versetto, anziché esprimere un’esibizione narcisistica di forza e di onnipotenza da parte del Dio monoteistico che subordina e vincola i popoli pagani al destino dei loro idoli, non possa invece essere interpretato come un monito rivolto al popolo ebraico stesso: proprio nel momento in cui lo sta eleggendo come “possesso speciale”, sta definendo con esso un rapporto privilegiato — che, sappiamo, è fatto di amore, odio, tradimenti, separazioni e riconciliazioni, crescite e regressioni — , proprio nel momento in cui gli sta affidando il difficile compito anti-idolatrico, il Padre Eterno gli ricorda che esistono gli altri popoli, aventi diritto a un proprio spazio vitale, da rispettare e salvaguardare, perché provenienti anch’essi dal Dio unico. Mi chiedo cioè se quel versetto non possa essere interpretato come una messa in guardia dalla facile tentazione di interpretare la lotta all’idolatria nel senso del fanatismo e dello “scontro tra civiltà”.

5. Iconoclastia?

A questo punto, cerchiamo di capire meglio cosa significa proibire l’idolatria. È assai consolidata la tendenza a identificare divieto di idolatria e divieto di immagini, invertendo il rapporto di causa-effetto tra i due, come se quest’ultimo costituisse il divieto vero e proprio e non una sua applicazione specifica, anche se particolarmente esemplare. Tale appiattimento trova supporto in alcuni testi biblici e talmudici, in cui l’attitudine anti-idolatrica sembra esplicitarsi attraverso elenchi dettagliatissimi, contenutistici e formali, delle immagini vietate: è vietato fare scultura o immagine, non solo di Dio, ma “di qualsiasi cosa” (Es., XX, 4) e “di qualsiasi forma” (Deut., IV, 16); “di ciò che è nei cieli, lassù, di ciò che è in terra, quaggiù, e di ciò che è nelle acque al di sotto della terra”, di “figura maschile o femminile” — cosa che apre importanti prospettive interpretative in ottica femminista32 — , “di qualsiasi animale”, uccello, rettile o pesce che sia, dei pianeti e delle stelle (Deut, IV, 16-19), dei cherubini e degli angeli. Non possono essere fatti idoli né di legno (Deut., XVI, 21) né di pietra (Lev., XXVI, 1) né d’argento né d’oro (Es., XX, 23) né di qualsiasi altro metallo (Lev., XIX, 4). Nemmeno — così la Mekiltà33 interpreta il versetto “di ciò che è nelle acque al di sotto della terra” — “dell’abisso, delle tenebre, dell’oscurità”, dell’“immagine che si rispecchia nell’acqua” e degli “shabirìm”, gli spiriti maligni, è permesso fare immagini.

Ci troviamo di fronte a un furore iconoclastico estremo, volto a frenare la libertà espressiva e le potenzialità artistico-creative del popolo ebraico o che, viceversa, sarebbe addirittura l’effetto di una sua assenza congenita di gusto e di talento estetico? Negli ultimi decenni, numerosi studi di diversa provenienza disciplinare34 hanno dimostrato come infondati luoghi comuni interpretazioni di questo tipo.

Dalle testimonianze stesse della Bibbia e delle leggi rabbiniche contro l’idolatria — raccolte soprattutto nel trattato talmudico Avodà Zarà — e dalle ulteriori conferme apportate dalle scoperte archeologiche, risulta, fra l’altro, che forme di rappresentazione e fenomeni artistici tra gli ebrei sono sempre esisistiti, a partire dalle descrizioni bibliche per la costruzione del Tabernacolo della testimonianza e del Tempio di Salomone. Tali fenomeni non risalgono soltanto a momenti di forte pressione assimilatoria o di allentamento dell’ortodossia; non possono essere liquidati come “trasgressivi” e, in alcuni casi, nemmeno come semplicemente “tollerabili” in quanto esclusivamente e innocuamente estetico-decorativi.35

Non è l’immagine in quanto tale, per sua stessa essenza, ad essere idolatrica, ma l’uso che se ne fa, il significato che le viene attribuito, la funzione che svolge all’interno della società di riferimento. Non basta quindi astenersi dalle immagini per risolvere il problema dell’idolatria, tanto più che lo stesso problema delle legittimità/illeggittimità delle immagini rispetto alla proibizione dell’idolatria non si è mai concluso, ma torna continuamente, nel corso dei secoli, a riproporsi all’interno delle discussioni rabbiniche.

Quanto l’iconoclastia non sia intrinsecamente legata a un atteggiamento anti-idolatrico è, tra l’altro, evidenza di drammatica attualità: le statue distrutte dai talebani, le Twin Towers, l’abbattimento della statua di Saddam Hussein, i kamikaze, gli interventismi e pacifismi “senza se e senza ma”, le polemiche su “crocefisso sì”, “crocefisso no” che prendono il posto di una effettiva riflessione sul laicismo.

6. “Non ti farai immagine alcuna dell’Idolo”

Nella Mekiltà di Rav Ishmaèl, troviamo una risposta più interessante rispetto a questa apparente iconoclastia generalizzata. Vi si narra che un filosofo chiese a Rabbàn Gamlièl: “se non c’è alcuna utilità e verità negli idoli, perché il Signore non li distrugge del tutto? ” Perché, rispose Rabban Gamlièl, “è forse un’unica cosa ad essere adorata? ” Tutto, “il sole, la luna, le stelle, le costellazioni, i monti, le colline, i ruscelli e le valli e perfino l’uomo” è suscettibile di culto idolatrico, cosicché il Padre Eterno dovrebbe distruggere l’intero universo. Come abbiamo appena visto, la Mekiltà avverte che è vietato fare un’immagine anche degli “shabirìm”, degli spiriti maligni: mi sembra un punto estremamente importante che rivela la questione dell’idolatria in tutta la sua complessità. Cosa significa che è vietato fare immagini/idoli del ‘male’? Non è solo il Dio monoteistico a dover rimanere irrappresentabile, ma anche ciò che gli è assolutamente contrapposto: gli dèi pagani, gli idoli stessi. È vietato, cioè, definire l’essenza dell’idolatria, stabilire una volta per tutte, in modo aprioristico in cosa essa consista, facendone un principio autonomo contrapposto; è vietato frammentare l’unità monoteistica in un’antinomia morale.

Il divieto di idolatria non è un principio dogmatico di separazione tra la Torà e gli idoli, il bene e il male, il popolo ebraico e il mondo esterno, l’universale e il particolare, ma definisce il monoteismo ebraico come consapevolezza critica che l’idolatria — ossia il rischio di confondere o immobilizzare i due poli della relazione — è un rischio intrinseco alla condizione umana. Come scrive Rosenzweig:

Il paganesimo non è affatto un semplice spauracchio infantile filosofico-religioso, […] ma la verità in forma elementare, invisibile, non-rivelata. Così, dunque, ogni volta che il paganesimo non vuole essere invisibile, bensì figura, non vuole essere segreto, ma rivelazione, diventa menzogna. Ma come elemento componente, e come segreto dentro all’intero, al visibile e al rivelato, è perenne. […] La rivelazione non distrugge per nulla il paganesimo autentico, il paganesimo della creazione; ma fa sì che a esso avvenga il miracolo del rinnovamento.36

In nessuno dei tentativi di definizione dell’idolatria ne troviamo descritta l’essenza, ma sempre un uso, un comportamento, un significato, una relazione, una modalità.

In Avodà Zarà, III, 4, si spiega che “è proibito tutto ciò che viene usato come divinità, ma ciò che non viene usato come divinità è permesso”: quindi può trattarsi dello stesso oggetto — immagine, statua, o qualsiasi altra cosa — di cui si può fare un uso idolatrico o meno. Nel Midràsh Rabbà si afferma che “ogni qual volta si trova l’espressione ”jeshivà“, sedersi, si ha a che fare con una trasgressione idolatrica”.37

Di nuovo nella Mekiltà, ci si interroga sul significato dell’espressione “altri dei”. Tra le varie risposte che vengono formulate, le seguenti sono estremamente significative: gli idoli sono detti altri dèi, perché rendono altri, alienano i loro servitori; perché sono estranei, ovvero indifferenti, impotenti nei confronti di chi rende loro culto, come similmente afferma Rashì commentando Deuteronomio, XI, 16: “altri dèi” significa “stranieri ai loro adoratori: questi gridano verso di loro ma essi non rispondono, quindi gli idoli sono per i loro adoratori come degli stranieri”. Poiché i loro adoratori, prosegue la Mekiltà, hanno bisogno ogni giorno di forgiarsi altri idoli per surrogare la mancanza del vero Dio; perché ritardano — verbo che ha la stessa radice achar di “altro” — la venuta del bene nel mondo.

Più avanti, Rav Hananià b. Antìgonos tenta una ‘definizione’ della stessa idolatria: “è idolo qualunque cosa tu lasci regnare su di te, fosse pure un pezzo di legno o di argilla”.38 Nel Salmo, LXXXI, 10, è scritto similmente: “Non sia in te un dio straniero”. Rav Abìn — in Shabbàth, 105b — e Rav Janài — in Nedarim, IX, 1 — ne deducono la seguente interpretazione: “non innalzare a padrone lo straniero in te, non ti lasciar dominare dalle passioni straniere”, non essere altro da te o in te, non essere cioè alienato, scisso, straniero a te stesso, servo di una parte di te stesso. “Io sono il Signore tuo Dio, cammina davanti a Me e sii intero”,39 comanda il Signore ad Abramo e, più avanti40 a ogni uomo. Idolatria e schiavitù sono in rapporto reciproco di causa-effetto, al punto da diventare per i commentatori sinonimi. L’idolatria/schiavitù esterna è, inoltre, sempre già idolatria/schiavitù interna — torna la doppia chiave, interna ed esterna — . Rashì ricorda che il Targum traduce Deuteronomio, IV, 28: “Là voi servirete altri dèi”, come: “Là voi servirete dei popoli che servono idoli”. Spiega Rashì: “poiché voi servirete quelli che li servono, sarà come se li servirete voi stessi”. Similmente nella Mekiltà così viene interpretato il versetto di Esodo, XX, 2, “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, la casa degli schiavi”: “significa ”dalla casa degli idolatri“, poiché erano schiavi degli idoli”; gli ebrei “erano schiavi di schiavi”.

La differenza tra monoteismo e idolatria non risponde alla domanda essenzialistica “che cosa? ”, ma al “come” contingente di ogni singolo comportamento pratico-giudicativo, che non può mai essere congelato in un definitivo risultato antinomico. Qualsiasi cosa — oggetto, idea, parola, sentimento, credenza, azione — è, infatti, indipendentemente dalla sua natura, dal suo contenuto, dalla sua verità o falsità, suscettibile di trasformarsi in idolo. L’idolo non è semplicemente il dio degli altri popoli, tanto più che l’emblema dell’idolatria, il vitello d’oro, è stato costruito dagli stessi ebrei; non è semplicemente un’immagine, un pezzo di marmo o di legno a cui ci si prostra; non è nemmeno un falso valore, l’ignoranza del vero: i maestri ritengono — come si legge in Sanhedrìn, 102a — che si è molto più esposti al rischio idolatrico se si è raffinati, intelligenti, istruiti, capaci di arrivare a idee sintetiche.

L’idolo non è né un oggetto tangibile né un concetto chiaramente definibile e circoscrivibile. Avodà Zarà — l’espressione ebraica per “idolatria”, che letteralmente significa “culto straniero” — è, piuttosto, una relazione, una funzione, un comportamento, un modo di rapportarsi all’alterità che sta sotto il segno della riduzione o dell’alienazione. Idolatrica è, infatti, ogni forma di scissione dell’unità — unità del vero, del senso, di Dio, del mondo, dell’umanità, dell’individuo — in una molteplicità irrelata; “l’importanza sproporzionata assegnata ad una componente della verità”;41 la cancellazione della complessità di un intero nell’omogeneità di un assoluto; ogni sostituzione feticistica di una mancanza con la certezza del possesso; il “nascondimento di ciò che è nascosto42”; l’assenza fusionale di distanza; la confusione di una direzione per la meta raggiunta; l’opposizione antinomica e predefinita tra il bene e il male; ogni forma di schiavitù, sia pure di sé a sé; l’adesione a un’idea che smette di interrogarsi sul proprio intrinseco tenore problematico.

7. Idolatria della Torà

A tal punto l’idolatria è concepita nella tradizione ebraica in modo non essenzialistico, che molti testi mettono, più o meno esplicitamente, in guardia dal rischio di trasformare in idoli la stessa Torà, le stesse mitzvòth e persino la stessa premura anti-idolatrica.

Potrebbe essere letto in quest’ottica l’episodio — narrato in Numeri, III, 3-4 e Levitico, X, 1-3 — della morte dei due figli di Aronne, Nadav e Avihù, dovuta all’aver questi acceso un “fuoco straniero”, ovvero un fuoco aggiuntivo rispetto a quello prescritto dalla legge. Un eccesso di zelo cultuale, diventa esso stesso idolatrico e infatti, in Ecclesiaste, VII, 16-17, si avverte similmente: “Non essere troppo giusto. Non essere troppo malvagio”. In Ta’anith, 7a, si dice che lo studio della Torà può essere “elisir di vita”, ma anche “veleno di morte”. In Berakhòth, 28b, Rabbì Elièzer critica l’irrigidimento liturgico, in quanto denaturazione della stessa liturgia: “chi rende la propria preghiera un dovere fisso, la sua preghiera non è più tale”. In Makkòth, 22b e Qiddushìn, 33b, si denuncia “l’ottusità di coloro che si alzano in piedi davanti al rotolo della Torà, ma non davanti al loro maestro o a una persona importante”. In Yebamòth, 6b, si interpreta il versetto di Levitico, XIX, 30, “avrete timore per il mio Santuario”, nel senso di “non bisogna divinizzare il santuario”. In Jomà, 23a, è narrato un episodio di vero e proprio fanatismo religioso: durante una gara di corsa, grazie alla quale si sarebbe dovuto stabilire chi avrebbe rimosso le ceneri dall’altare, accadde che un sacerdote accoltellò il suo giovane rivale che stava per arrivare primo. Il padre del giovane, trovando il figlio ancora moribondo, esclamò: “Mio figlio non è ancora morto, quindi il coltello non è diventato impuro! ” “Questo episodio insegna — si legge nella Ghemarà — che l’impurità dei loro oggetti era per loro più importante dello spargimento di sangue”.

“Non avrà parte al mondo futuro”, perifrasi di ‘idolatra’, si legge in Sanhedrìn 99a-b, non solo il pagano o colui che afferma che “la Torà non viene dal cielo” o “che interpreta contrariamente all’Halakhà la parola della Torà”,43 ma — come spiega Levinas in una lezione su questi brani talmudici44 — anche “colui per il quale la Torà esiste chiusa, come istituzione o come oggetto sacro”.45 È idolatra, proseguono i maestri, “colui che studia la Torà senza insegnarla”, ovvero colui che concepisce lo studio della Torà come un’attività intellettualistica di solitaria erudizione. “Chiunque non fa attenzione alla Mishnà”, ovvero alla Torà orale, in quanto chiave interpretativa e applicativa della Torà scritta. “Chiunque ha la possibilità di studiare la Torà e non se ne occupa”, ovvero colui per il quale la Torà è solo un formulario dogmatico di regole pronte per l’uso. “Chiunque studia la Torà senza ripetere la lezione”, ovvero colui che prende alla lettera un significato metaforico, “cosa che”, afferma Levinas, “è la negazione dello spirituale e l’origine di ogni idolatria”.46 “Chiunque apprende la Torà e l’oblia”, ovvero colui che non tiene conto dell’essenza rigeneratrice della memoria, del suo essere apertura all’alterità e non ripetizione dell’identico: costui, affermano i rabbini, “assomiglia alla donna che partorisce un bambino per sotterrarlo”. L’idolatria sembra essere intesa in questi testi come un “peccato di lettura”, come l’effetto di un fraintendimento, di un’incomprensione, di una interpretazione superficiale o parziale.

Il rabbino chassidico Menachem Mendel di Kotzk, fornisce una suggestiva interpretazione47 di Deuteronomio, IV, 23: “Badate bene di non dimenticare il patto e che vi facciate una statua, un’immagine di ogni cosa, secondo quanto ha comandato il Signore tuo Dio”. Rebbe di Kotzk, ricordando l’aggiunta apparentemente ridondante, con cui Rashì spiega tale versetto — “Che ti ha ordinato di non farlo” —, così la interpreta: tale precisazione vuol dire che bisogna badare a non farsi statue e immagini a partire da “ciò che ti ha ordinato” il Signore. Non bisogna, cioè, utilizzare le mitzvòth per farne delle statue, perché, precisa il rabbino, si può compiere una mitzvà, in tutti i suoi dettagli e con tutto lo zelo possibile, senza rendersi conto che non è l’anima della mitzvà che si sta realizzando, ma il suo idolo. Pericolo che anche Rashì evidenzia nel commentare il versetto di Esodo, XXIII, 13, “State bene attenti a tutto ciò che vi ho prescritto”:

State ben attenti cioè, nell’eseguire ogni precetto positivo, a non compiere anche il contrario, cioè il precetto negativo. Ogni volta che nella Torà si prescrive un’osservanza, vi è implicita un’avvertenza negativa, cioè a non fare una certa cosa.

Adempiere una prescrizione e rispettare una proscrizione non sono propriamente le due facce della stessa medaglia: nell’obbedienza è sempre implicato un rischio di trasgressione, ma può anche capitare che una trasgressione sia solo apparente o, in casi limite, persino necessaria a un adempimento. In Shebuòth, 29a, vengono individuate tutte le possibili sfumature del rischio idolatrico di confondere una parte della mitzvà per il tutto della Legge: riguardo al comandamento “adempiete la Torà che Dio vi ha ordinato”, si potrebbe fare la riserva mentale che nella parola ‘Torà’ sono inclusi i peccati; si potrebbe pensare che con essa si intende solo la Torà scritta e non anche quella orale, solo uno o più precetti e non tutti i seicentotredici; si potrebbe, infine, avere in mente un idolo anziché Dio, in quanto gli idoli sono anche chiamati dèi. Si denuncia inoltre esplicitamente anche un uso idolatrico dello stesso divieto di idolatria: ricordando come in Horajòth, 8a — ma, come abbiamo visto precedentemente, in molti altri brani — l’attitudine nei confronti dell’idolatria è considerata, talmente importante, da essere equiparata all’adempimento o meno dell’insieme dei comandamenti, in questo testo si mette in guardia da un’interpretazione ingenuamente letterale di tale condensazione, che arrivi a considerare solo il divieto di idolatria, separandolo dalle altre norme o dal suo autentico contesto interpretativo. Anche questa separazione è, nella prospettiva monoteistica, idolatrica. Un rischio analogo fu intravisto da Maimonide e altri maestri rispetto al decalogo: questi volevano abolire la lettura giornaliera dei dieci comandamenti — rito che si tramandava dai tempi del Tempio — “a causa degli appigli dei minìm”, o eretici, che ritenevano che solo questi erano importanti e non il resto della Torà.48

8. L’idolo in agguato tra la norma e la sua applicazione

In questi brani emerge una particolare sensibilità e, soprattutto, una profonda consapevolezza dei maestri talmudici, nei confronti di un problema generale estremamente importante — oggetto attualmente di un acceso dibattito giuridico e filosofico —: il problema della differenza tra norme, loro applicazione e loro garanzie.

Come scriveva Kant nella Critica della ragion pura:

sebbene la scuola possa doviziosamente porgere […] ad un intelletto limitato, regole prese a prestito dalla conoscenza altrui, tuttavia la facoltà di servirsi rettamente di esse deve appartenere allo scolaro stesso, e nessuna regola che possa essergli prescritta a questo scopo, si sottrarrà all’abuso, quando manchi una tale dote naturale. Perciò un medico, un giudice, o un uomo politico può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, […] e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse […] perché manca di capacità naturale di giudizio […], ed egli può sì intendere l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso, […] l’intelletto è capace di venir istruito e provveduto mediante regole, ma […] la capacità di giudizio è un talento particolare, il quale non può esser insegnato, ma può soltanto essere esercitato […].49

In qualsiasi norma vi è sempre un rischio di “abuso”, perché le garanzie di una corretta applicazione non sono contenute nella norma stessa che, per quanto precisa e dettagliata sia, non può prevedere in anticipo tutti i suoi possibili casi ed è sempre, comunque, affidata alla capacità — capacità che, come spiega Kant, è più simile a una sensibilità immaginativo-intuitiva che a una conoscenza teorica acquisibile — di chi la mette in atto. “I principi generali e generosi — scrive similmente Levinas — possono rovesciarsi nell’applicazione”, tale passaggio non è “puramente deducibile”,50 “non deriva da un’operazione logica”.51 Per questo alcuni maestri talmudici, in Sanhedìin, 73a-74a, esprimono dei dubbi sulla legittimità di infliggere una punizione come risultato di una deduzione logica “ad majus” e Rashì interpreta il versetto “ordinai ai vostri giudici” (Deuteronomio, I, 16) come: “Bisogna ordinargli di essere circospetti nel giudizio. Se vi si ripresenta una stessa questione più volte, non dite ”si è già posta“, ma discutetela”.

Perché si chiedevano i maestri talmudici i comandamenti sono 613?

a Mosè furono insegnati seicentotredici comandamenti: trecentossessantacinque negativi corrispondenti ai giorni dell’anno solare e duecentoquarantotto positivi, tanti quanti sono le membra del corpo umano. Rabbi Chaninà dice: “Qual è il versetto che ce l’insegna? ” — “È per noi che egli dettò una Torà a Mosè, essa resterà eredità della comunità d’Israele” (Deuteronomio, XXXIII, 4). Torà secondo il senso numerico delle sue lettere ebraiche, equivale a seicentoundici. Se vi si aggiungono i due primi comandamenti del decalogo enunciati sul Sinai e che noi intendemmo dalla bocca stessa dell’Eterno, si ha seicentotredici.52

Levinas rintraccia in questa “contabilità strampalata” tre insegnamenti:

a) Ogni giorno vissuto sotto il sole è virtualmente una depravazione: esso richiede un nuovo divieto, una nuova vigilanza che quella di ieri non può garantire; b) La vita di ogni organo del corpo umano, di ogni tendenza […], è scaturigine di vita possibile. Forza che non si giustifica da sola, e deve perciò essere dedicata […] a un servizio; c) Per il codice che contiene seicentotredici comandamenti non è sufficiente il numero dato dalla deduzione del valore numerico [seicentoundici] delle lettere che contengono la parola Torà. Non è un sistema giustificato unicamente dalla sua coerenza: esso instaura l’ordine della vita […].53

Il problema dell’applicazione e delle garanzie oltrepassa la coerenza e la precisione delle norme, “trascende” la completezza del sistema chiuso. Non mi sembra casuale il fatto che questo “sovrappiù” venga associato dai maestri con i primi due comandamenti, ossia con quelli più esplicitamente monoteistici e anti-idolatrici: “Io sono il Signore Iddio tuo che ti fece uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi” e “Non avrai altri dei al Mio cospetto. Non farti alcuna scultura né immagine”. Un sistema normativo che non si interroga su quel problema o lo affronta in modo inadeguato, facendosi sculture o immagini, ossia ricorrendo a soluzioni aprioristiche e dogmatiche, trattando quel problema come una norma tra le norme, cadendo in circoli viziosi, tautologie, rimandi all’infinito, oppure congelando aporie contingenti in antinomie permanenti, strumentali a giustificare sostituzioni o sospensioni indebite, immunità, privilegi e conflitti di interesse…, è un sistema idolatrico: porta alla schiavitù, all’assenza di libertà, all’esilio in Egitto — esilio dai diritti di “cittadinanza”, esilio dalla condizione umana — .

“L’opera più alta” della giustizia, della libertà, dell’eticità — scrive Levinas — sta nel grado di consapevolezza del proprio pericolo, sempre latente, di degenerare o rovesciarsi nel proprio contrario e nella capacità di darsi quante più garanzie possibili contro questo stesso rischio.54 Similmente, secondo Heidegger, “il livello di una scienza” — ma anche, potremmo aggiungere, della legge e dell’etica — “si misura dall’ampiezza entro cui è capace di ospitare la crisi dei suoi stessi fondamenti”.55

Nel dialogo scritto da Jehudà Ha-Levì, il re dei Khàzari afferma: “non lodare troppo il tuo popolo e non omettere ciò che è noto a tutti: il vitello d’oro”. Il saggio risponde: “Grande è colui i cui peccati sono considerati grandi”.56 Non bisogna leggere in questa risposta pose don giovannesche o kierkegaardiane che inneggiano alla sospensione dei valori, a un gusto per l’esperienza e per la trasgressione che oltrepassa l’etica — quella che Levinas chiama “tentazione della tentazione”.57 Tale risposta non va confusa nemmeno con un eroismo rassegnato al destino quasi meccanicistico di un’umanità intesa secondo la spaccatura verticale di un prima e un poi, di cadute cui seguono salvezze; paradigma in base al quale quanto più ignobile è il peccato tanto più elevata è la redenzione. La risposta del saggio aiuta, piuttosto, a comprendere il senso realmente monoteistico del divieto di idolatria: nella radicalità con cui definisce l’idolatria come massimo disvalore, abominio, tabù e vieta qualsiasi contatto con essa, nella chiarezza con cui stabilisce una separazione rigida tra popolo ebraico e genti pagane, ciò che è legittimo e ciò che è trasgressivo, quel divieto non si separa mai, però, dal ricordo del vitello d’oro, ossia dalla consapevolezza di un rischio di idolatria insuperabile, interno allo stesso impegno anti-idolatrico.

In Berakhòth 8b, Rav Jehudà ricorda, infatti, che i frammenti delle prime tavole, spezzate da Mosé in atto di sdegno in seguito alla costruzione del vitello d’oro, si trovano nell’Arca insieme alle seconde tavole ricostruite dopo la riconciliazione tra il Padre Eterno, il popolo ebraico e Mosè. L’insegnamento che l’antico maestro ne deduce, “usate riguardo nei confronti di un vecchio che ha dimenticato per forza maggiore il suo sapere”, secondo lo studioso Daniel Epstein, significa che l’idolatria è una colpa di oblio. “Solo la memoria”, scrive Epstein, “compresa la memoria delle nostre debolezze, fonda la nostra dignità di uomini.58 L’idolatria è oblio non solo della Torà, delle mitzvòth, del rapporto privilegiato con Dio, ma anche oblio dell’oblio, oblio dell’assenza di garanzie, oblio della non definitività e assolutezza dei criteri, oblio del rischio di idolatria: ”Ricorda — ammonisce Mosè — , non dimenticare quanto facesti adirare il Signore tuo Dio nel deserto" a causa del vitello d’oro.59

Quanto più la consapevolezza del rischio idolatrico è “grande”, quanto più è radicata nell’esperienza effettiva e scevra di rimozioni, tanto più è possibile evitarlo e prevenirlo. L’impegno anti-idolatrico del monoteismo ebraico si misura, quindi, non solo dalla generale enunciazione del principio, dalla precisione con cui tenta di definire in anticipo i parametri distintivi dell’idolatria, ma soprattutto dalla profondità con cui è capace di interrogarsi sulle forme storiche concrete di idolatria e dalla scrupolosità direi “giuridica” con cui, in assenza di Una Garanzia assoluta e definitiva, riesce a darsi forme ‘istituzionali’ concrete di garanzie, che siano legittime, adeguate alle sempre diverse esigenze applicative e dotate di effettiva forza normativa.

Di fronte al vitello d’oro, Mosè spezza le tavole della Legge appena ricevute, non solo per lo sdegno, il senso di impotenza e di fallimento nei confronti del popolo idolatra, così privo di auto-controllo, così rozzo e incline al peccato; ma anche perché scopre l’inadeguatezza della Legge stessa, la sua eccessiva astrattezza e inefficacia applicativa, una sorta di presunzione e di “difetto di giudizio” — direbbe Kant — da parte di Dio.

Quelle tavole, si legge nel testo biblico, erano “opera divina”, “scritte dai due lati, sull’una e sull’altra faccia”, con “caratteri divini”:60 i commentatori sottolineano la natura quasi miracolosa di queste tavole, le cui parole sembrano sospese nel vuoto, prive di supporto materiale, ma visibili da tutti i lati, come delle grandi insegne luminose. Sono tavole troppo divine, troppo assolute, troppo perfette per l’uomo. È a quel punto che Mosè si schiera dalla parte del popolo contro Dio: “Perdona la loro colpa o altrimenti cancellami dal libro che Tu hai scritto”.61 Secondo il Midràsh Rabbà,62 “Mosè spezza le tavole per salvare Israele in modo tale da poter dire: ”Non sapevamo cosa c’era scritto“”, cioè, come spiega Gavriel Levi in un suo commento su questi brani, per liberarlo, scioglierlo giuridicamente da una legge inapplicabile, “impossibile in partenza”,63 adatta a uno spot pubblicitario ma non alla vita concreta. Secondo un’altra spiegazione, Mosè “spezza le tavole per unirsi al peccato: loro hanno costruito il vitello ma io ho spezzato le tavole”. Mosè rifiuta di essere l’unico salvatore del mondo, rifiuta di estraniarsi mitologicamente dalla condizione umana, rifiuta una Legge che si pretende pura e assoluta avendo espulso fuori di sé la colpa, non essendosi cioè sufficientemente misurata con la trasgressione e garantita anche contro se stessa. Per questo Resh Lakish afferma che “ci sono tempi in cui la soppressione della Torà può significare la sua istituzione”64 e addirittura interpreta il versetto “le tavole che tu hai spezzato”65 come: “che hai fatto bene a spezzare”, ossia come un’approvazione divina del gesto di Mosè.

Molti commentatori, antichi e moderni, hanno sottolineato la differenza tra le prime e le seconde tavole: queste ultime sono frutto della collaborazione tra Dio e Mose. “Tagliati [pesol] due tavole di pietra uguali alle precedenti e Io vi scriverò le parole che erano già nelle precedenti che tu hai spezzate”, leggiamo in Esodo, XXXIV, 1. È sempre Dio a scrivere i contenuti della Legge, ma è Mosè questa volta a dover procurare il supporto — la pietra, cioè un materiale grezzo, naturale, duro, resistente — e a doverlo scolpire, cioè trasformare in materiale adatto alla scrittura — secondo il midràsh, usando la tecnica di Michelangelo che toglie dal blocco il sovrappiù. Sono tavole solide, concrete che partono dal basso, costruite dall’uomo e a misura d’uomo — “taglia per te” — . Il verbo “pesol” è inoltre, in modo estremamente significativo, la stessa parola usata nel divieto di fare immagini/idoli: queste tavole hanno qualcosa in comune con gli idoli, in un certo senso si compromettono con essi. ‘Compromissione’ che non toglie nulla al rigore e alla sostanza della Legge, che non implica un ridimensionamento dei suoi principi, una rinuncia al monoteismo: nonostante tutto le nuove tavole sono “uguali alle precedenti”, Dio vi scriverà le stesse “parole che erano già” in quelle che Mosè “ha spezzato”. Nel menzionare il gesto quasi ‘sacrilego’ di Mosè è come se Dio implicitamente ne accettasse e legittimasse il significato — che è, al tempo stesso, un’accusa contro l’idolatria del popolo e l’idolatria della Legge —, ponendolo alla base della ricostruzione delle tavole. Come scrive Gavriel Levi, le seconde tavole “sono costituite da una frattura ineluttabile che è ormai dentro di esse e che nelle prime non c’era”:66 contengono la loro trasgressione (da parte del popolo) e la loro contestazione (da parte di Mosè); accettano di mettersi alla prova e confrontarsi con l’idolatria concreta, esterna e interna. Insieme alle norme, queste tavole contengono il problema di come applicarle e garantirle.

È la stessa Torà quindi a mettere in guardia contro la sua stessa idolatria e a indicare le precauzioni per evitarla: tramite avvertimenti espliciti, ma, in modo assai più significativo, implicitamente attraverso la sua stessa struttura organizzativa, il suo carattere pluridimensionale — insieme scritto e orale, narrativo, normativo, interpretativo, etico — , contraddistinto da un’interdipendenza essenziale tra livelli che rimangono tuttavia distinti. Il valore e la validità di ogni singola norma, il significato di ogni singolo versetto è solo alla luce della Legge e del senso generale della Torà e nella relazione — che al tempo stesso la limita e la garantisce — con le altre norme, con la realtà dei fatti e con la capacità interpretativa e critica, necessaria alla sua applicazione. La Legge in generale, viceversa, vive soltanto all’interno della specificità di ognuna di quelle relazioni che al tempo stesso la realizza, la determina, la controlla, la salvaguarda e la trasforma.

Risulta più comprensibile, allora, perché anche il “semplice” astenersi dall’idolatria può sintetizzare il senso di tutta la Torà: non si tratta né di una credenza superstiziosa né di un’imposizione dogmatica ma della scrupolosità di un metodo che è insieme forma e contenuto, particolare e universale, normativo e storico. Nel divieto di idolatria è contenuta, infatti, una messa in guardia contro la fortissima tentazione, sempre presente, di prendere ciascuno dei valori della Torà come più essenziale degli altri; la condizione, per nulla scontata, di un adempimento dei singoli comandamenti attento a non snaturane la finalità, scindendo l’unità irrappresentabile del monoteismo nell’antitesi iconoclastica tra due o più idoli di polo opposto.

9. Il divieto sopra al divieto

A questo punto, forse, non sembrerà troppo azzardato il tentativo di spiegare il senso realmente monoteistico del divieto di idolatria tramite un paragone con il sistema delle democrazie costituzionali. Non attribuisco a tale paragone — sia ben chiaro — una funzione “storico-dimostrativa”; non voglio cioè provare apologeticamente che tutto è già contenuto nella Torà, persino l’invenzione della democrazia costituzionale: sarebbe un’operazione anti-storica oltre che concettualmente indebita. Intendo utilizzare quel paragone — che come tutti i paragoni funziona solo fino a un certo punto e proprio grazie allo scarto differenziale che in esso permane — soltanto in chiave ermeneutico-esplicativa nei confronti di paradigmi teorici e metodologici generali che, forse, possono aiutarci anche ad affrontare i problemi del presente.

Non è casuale il fatto che il paradigma costituzionale rigido sia un’invenzione del dopoguerra: fascismo e nazismo hanno, infatti, rivelato tragicamente la fragilità strutturale dello stato di diritto. La democrazia soltanto “formale”67 — che si limita cioè a definire le modalità di legittimazione del potere e dei processi decisionali — è sempre a rischio di rovesciarsi in autarchia, decretando “democraticamente” e “a maggioranza” la propria dissoluzione. Attraverso le carte costituzionali, i diritti fondamentali e la separazione dei poteri, la democrazia si pone a riparo da e contro se medesima. L’interazione tra questi diversi livelli si configura come un sistema di limiti e vincoli sopraordinato al potere statale e alla produzione giuridica, come un “diritto sopra al diritto” che “circoscrive la sfera dell’indecidibile”, di ciò che si sottrae alle decisioni della maggioranza, perché delimita, condiziona e sorveglia la validità delle stesse decisioni. Questa “doppia legalità” crea una divaricazione tra validità procedurale e contenutistica delle leggi, tra norme e garanzie, che permette di salvaguardare il ruolo regolativo, garantista e critico del diritto, anche nei confronti di se medesimo. Il paradigma costituzionale implica, infatti, la possibilità di interpretare lacune, antinomie e ineffettività delle norme, non come difetti della realtà giuridica ma come “violazioni” del diritto vigente e afferma l’obbligo — sotto forma di un meta-obbligo interno agli obblighi specifici — di riparazione o di completamento da parte del legislatore.

Ritroviamo il doppio livello della citazione iniziale: la doppia chiave, interna ed esterna. Vorrei interpretare anche il divieto di idolatria sulla base di questa multilateralità. Avremmo quindi una proibizione di primo livello, che potremmo definire come “particolare” — anche se enuncia il divieto “universale” di trasformare qualsiasi cosa, pensiero, azione in idolo — e che riguarda la sua applicazione concreta ed effettiva, legata a situazioni storiche contingenti, a concezioni morali specifiche, a cosa si intende o si debba intendere in quel dato momento per idolo. Divieto particolare che non deve mai staccarsi da un divieto di secondo grado, ad esso sovraimposto, come una sorta di norma costituzionale, che contiene una generale istanza etico-critica che sorveglia la validità delle specifiche modalità applicative, vietando di rovesciare la stessa premura anti-idolatrica in un’idolatria invertita di segno.

Solo se rimane quanto più possibile astratto, irrappresentabile, separato da qualsiasi ideologia parziale o credo specifico, da ogni rappresentazione preliminare del bene e decisione aprioristica sulla giustizia, questo “divieto sopra al divieto” può diventare espressione di un’ideale di giustizia universale e obiettiva che, solo di volta in volta, in singoli giudizi concreti e storici, determina i mezzi per il raggiungimento del proprio scopo, anziché trasfigurarsi nello strumento indebito, mascherato dietro imperativi etici, per attuare esclusioni, discriminazioni e guerre.

10. Il divieto di idolatria al di sopra dell’etica

Si capisce allora perché, come abbiamo visto precedentemente, Ahad Ha-am colloca il divieto di immagini/idolatria, come principio primo della Torà, al di sopra persino del rispetto per l’altro, al di sopra cioè dell’etica stessa: un’etica realmente “monoteistica” deve conservare all’interno dei suoi principi normativi, dei suoi valori e delle sue scelte, della sua struttura organizzativa e delle sue forme istituzionali, l’apertura e la disponibilità a una dimensione radicalmente irrappresentabile; una sorta di indecisone trascendentale come condizione delle concrete scelte morali

Tutte le interpretazioni che assumono il divieto di idolatria su uno solo dei due livelli sono, a mio avviso, iconoclastiche, nel senso in cui hanno già univocamente attuato la scelta e rinunciato aprioristicamente a rappresentare e comprendere l’altro; e quindi idolatriche, nel senso in cui i maestri talmudici denunciano un’iconoclastia precipitosa e irriflessa che non è altro che costruzione di nuovi idoli.

Sono quindi, secondo me, idolatrici due opposti atteggiamenti solo apparentemente ostili all’idolatria: sia un’interpretazione dogmatica che ha già definito univocamente l’idolo contro cui opporsi (l’immagine in quanto tale, l’arte, lo straniero, la donna, etc.), generando una contrapposizione antinomica tra due principi generali, congelati in essenze sovrastoriche permanenti: Monoteismo / Paganesimo, Identico / Diverso, Vittima / Persecutore, filo-Israeliani / filo-Palestinesi, Occidente / Oriente). Sia un’interpretazione relativistica che rinuncia a comprendere il senso unitario dell’idolatria, frantumando il monoteismo in una molteplicità antinomica e irrelata di significati e atteggiamenti storico-empirici, nella quale non ci sono più criteri per stabilire nessi e distinzioni, per identificarsi e distinguersi.

Nel primo caso il divieto di idolatria è troppo pieno di rappresentazioni pregiudiziali e di odio/paura nei confronti del “nemico”; nel secondo è troppo vuoto di senso e di criteri metodologici e, quindi, pronto a riempirsi di qualsiasi contenuto, anche del suo contrario. Escludendo la mediazione del particolare, l’interpretazione dogmatica rinuncia a capire i fatti reali: emblematica in tal senso è la posizione dello storico delle religioni Erwin Goodenough che, nel suo lavoro monumentale, Jewish Simbols in the Greco-Roman Period,68 inventa il mito di un giudaismo eterodosso, ellenistico-filoniano, per poter spiegare le produzioni artistiche ebraiche di quel periodo, altrimenti incomprensibili nell’ottica di un giudaismo rabbinico pregiudizialmente concepito come rigidamente iconoclastico.

L’atteggiamento relativistico, viceversa, ha il merito di riportare lo sguardo sugli idoli storici concreti e sulla molteplicità di attitudini nei loro confronti, interne alla stessa ortodossia ebraica; ma finisce per appiattire il problema dell’idolatria su questi diversi, infiniti, multiformi fenomeni storici. Rinunciando a rappresentare l’universale, il sé, l’identico, rinuncia anche a capire l’idolatria come ‘problema’.

Questa tendenza si ritrova nelle — per altri versi importanti — riflessioni di Joseph Gutmann secondo cui, talmente diversificati sono stati i contesti con cui il divieto di idolatria si è dovuto confrontare e le esigenze a cui si è dovuto adattare, che “sarebbe più appropriato parlare di Secondo Comandamento al plurale”.69

Un atteggiamento simile si rintraccia anche in un saggio di carattere più filosofico, Idolatry, nel quale Moshe Halbertal e Avishai Margalit analizzano i diversi modi di concepire l’idolatria: la sua raffigurazione antropomorfica come tradimento, infedeltà, secondo una metafora di relazione erotico-sentimentale esclusiva fra uomo e Dio, caratteristica delle narrazioni bibliche; la concezione filosofico-razionale di Maimonide, secondo cui l’idolo è l’errore concettule, la falsità; quella normativa di Jehudà Ha-Levì che considera idolatriche tutte le forme di adorazione diverse da quelle che Dio stesso ha comandato; oppure l’interpretazione di Nachmanide, secondo cui l’idolo è la separazione ribelle di una dimensione dall’intero; fino al rovesciamento operato dai filosofi post-moderni che rivalutano la pluralità pagana di contro all’idolatrica unità dell’identico. Dalla molteplicità di queste interpretazioni, i due studiosi scoprono che, seppure la negazione dell’idolatria è essenziale all’auto-definizione dell’ebraismo, il “muro di separazione non è mai fisso e opposte concezioni dell’idolatria definiscono differentemente i margini della città di Dio, lasciando fuori, nei campi pagani, zone che altre considerano parte integrante della città”,70 e concludono che è vietato definire il significato del divieto di idolatria. Questo è giusto, ma nei limiti in cui non ci dimentichiamo dell’importanza anche, in qualche modo, di quella dimensione unitaria e simbolica, seppur problematica, di cui parlavo all’inizio del mio intervento, che rappresenta l’esigenza imprescindibile di capire il senso dell’idolatria; senso che non significa necessariamente definizione dogmatica e assoluta.

Un’anti-idolatria dogmatica porta allo “scontro tra civiltà”, quella relativistica all’assimilazione o all’indifferentismo etico; in entrambi i casi si innesca tuttavia una proliferazione a catena di nuovi idoli in perenne conflitto reciproco. Vedendo un teschio trascinato dalla corrente, ricorda il Pirké Avòt, Hillel esclama: “Sei stato ucciso perché hai ucciso, ma chi l’ha fatto sarà ucciso! ”,71 frase che rappresenta suggestivamente il furore iconoclastico come riproduzione inarrestabile di nuove violenze.

11. Conclusione

Concludo aprendo un fugace sipario sulla situazione attuale. Nel clima di terrore globale e di iconoclastie apocalittiche che ci troviamo a vivere, tornano a prevalere linguaggi mitologici di contrapposizione tra bene e male, buoni e cattivi, “orientalismi”72 contro “occidentalismi”,73 rivendicazioni di appartenenze emendate dalle proprie commistioni. Una reale comprensione dei fatti è oscurata da slogan parziali che si pongono come assoluti, da usi strumentali, se non pornografici, di principi universali che sciolgono l’incantesimo delle verità e responsabilità storiche: in nome di un’astratta democrazia, non c’è più differenza tra democrazia e tirannide, libertà e schiavitù; una memoria idolatrata come valore in sé, viene a equiparare e legittimare tutte le memorie e tutti gli oblii. In questo clima torno a percepire un “disagio”, l’angoscia di un’assenza di collocazione, perché ogni adesione rischia immediatamente di essere trascinata in un blocco oppositivo “senza se e senza ma”.

Di fronte al rischio che questo disagio torni a consolidarsi in un isolamento rancoroso non c’è altra scorciatoia che mantenere congiunte, il più possibile collettivamente, le due chiavi dell’anti-idolatria, interna ed esterna, universale e particolare, e tentare di capire in ogni singolo momento quando e come è il momento di aprire o di chiudere, di distruggere immagini o costruire senso, al fine di ridare voce e memoria all’altra faccia dell’unità.

In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla.74

Hillèl, il vecchio, diceva: In un tempo in cui si raccoglie, tu spargi; in un tempo in cui si sparge, tu raccogli.75

Vi è un tempo per spezzare le pietre e un tempo per rimetterle insieme […], un tempo per lacerare e un tempo per ricucire.76


  1. Immanuel Kant, Critica del Giudizio, Roma-Bari, Laterza 1984, p. 182. ↩︎

  2. Espressione che dà il titolo all’opera: Emmanuel Levinas, Dio che viene all’idea, a cura di Silvano Petrosino, Milano, Jaca Book 1983. ↩︎

  3. Id., Quattro letture talmudiche, Genova, il melangolo 1982, pp. 42-70. ↩︎

  4. Emilio Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Roma-Bari, Laterza 1986, pp. 140-141. ↩︎

  5. Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Napoli, Guida 1986, pp. 53-54. ↩︎

  6. Id., Dio che viene cit., p. 111. ↩︎

  7. Id., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book 1990, p. 96. ↩︎

  8. Id., Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, p. 58. ↩︎

  9. TB, Meghillà, 13a. ↩︎

  10. Shemòth Rabbà, Ki Thissa, cap. 41, p. 6. ↩︎

  11. Leo Baeck, L’essenza dell’ebraismo, Genova, Marietti 1988, pp. 9-11. ↩︎

  12. Dante Lattes, Nuovo Commento alla Torà, Crucci, Assisi/Roma 1976, p. 11 e Nel solco della Bibbia, Bari, Laterza, 1953, pp. 113-115. ↩︎

  13. Schalom Ben Chorin, La fede ebraica. Lineamenti di una teologia dell’ebraismo sulla base del credo di Maimonide, Genova, Il Melangolo 1997, pp. 24-26. ↩︎

  14. Emmanuel Levinas, Difficile Liberté. Essais sur le judaïsme, L’Harmattan, Paris 1984, pp. 245-246. ↩︎

  15. Id., Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, p. 34. ↩︎

  16. Franz Rosenzweig, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991, pp. 187, 155, 270. ↩︎

  17. Dante Lattes, Nuovo Commento alla Torà, op. cit., p. 273. ↩︎

  18. Id., Nel solco, op. cit., p. 101. ↩︎

  19. Umberto Cassuto, A Commentary on the Book of Exodus, The Magnes Press, Jerusalem 1987, p. 453. ↩︎

  20. TB, Shabbàth, 31a. ↩︎

  21. Asher Ginzberg (Ahad Ha-am), Jewish and Christian Ethics, in Essays — Letters — Memoirs, tr. by L. Simon, East and West Library, Oxford 1946, p. 128. ↩︎

  22. Moïse Maïmonide, Le guide des Egarés, Verdier 1979, pp. 29-30, 37, 513, 517, 519, 537-538. ↩︎

  23. Id., Le livre de la connaisssance, Presses Universitaires de France, Paris 1961, IV sez., cap. II, p. 232. ↩︎

  24. TB, Sanehdrìn, 56b. ↩︎

  25. TB, Sanhedrìn, 74a. ↩︎

  26. TJ, Pea, I, 1. ↩︎

  27. TB, Qiddushìn, 40a. ↩︎

  28. In TJ, Sanhedrìn, VII, 9 e TB, Chullìn, 5a. ↩︎

  29. Rashì di Troyes, Commento all’Esodo, a cura di S. J. Sierra, Marietti, Genova 1988. Cfr TB, Sanhedrìn, 102a. ↩︎

  30. Moïse Maïmonide, Le livre, op. cit., IV sez., cap. II, p. 232. ↩︎

  31. TB, Sanhedrìn, 59a. ↩︎

  32. Rimando per tali quesioni al mio articolo “Lascia aperta la porta! ” Levinas e storie di idolatria sessuata, in “Sofia. Materiali di filosofia e cultura di donne”, 1 (1996), pp. 37-55. ↩︎

  33. Mekilta de Rabbi Ishmael, The Jewish Publication Society of America, Philadelphia 1976. Il dono della Torah. Commento al Decalogo di Esodo 20 nella Mekiltà di Rabbi Ishmael, Città Nuova, Roma 1982. ↩︎

  34. Per i riferimenti bibliografici e un’analisi più approfondita del problema dell’immagine e dell’arte in relazione al problema dell’idolatria, rimando alla mia tesi di dottorato in Metodologie della filosofia, dal titolo Tra monoteismo e iconoclastia. L’anti-idolatria come metodo di interpretazione della filosofia di Emmanuel Levinas (Università di Messina, 1998) e alle seguenti pubblicazioni: “Un bel rischio da correre”: idolatria ed estetica nel pensiero di Levinas, in “Simbolo, metafora, linguaggi” (Atti del convegno omonimo), a cura di Guido Coccoli e Caterina Marrone, Roma, Gutenberg 1998, pp. 203-217. Un’estetica implicita. Saggio su Levinas, Guerini, Milano 1997. Il doppio“volto”. Arte ed ebraismo in Levinas, in “La Rassegna mensile di Israel”, 3 (1996), pp. 25-77. ↩︎

  35. Interpretazione con cui molti studiosi giustificano i fenomeni artistici prodotti dalle antiche comunità ebraiche. Vedere ad esempio il saggio di J. B. Frey, La question des images chez le juifs, in “Biblica”, XV, 1934. ↩︎

  36. Franz Rosenzweig, Il nuovo pensiero, in “La scrittura”, op. cit., pp. 266, 274. ↩︎

  37. Shemòth Rabbà, Ki thissà, 41, 7. ↩︎

  38. Mekiltà; Il dono, op. cit., pp. 64-66. ↩︎

  39. Genesi, XVII, 1. ↩︎

  40. Deuteronomio, XVIII, 13. ↩︎

  41. Claude Riveline, Les différentes formes de l’idolatrie dans la Bible et aujourd’hui, in Idoles. Données et débat (Actes du XXIV Colloque des intellectuels juifs de langue française, Denoël, Paris 1985, pp. 11-37, p. 26. ↩︎

  42. Stéphan Mosès, La pointe d’Enoch. L’art et l’idole selon les sources juives, in “Idoles”, op. cit., pp. 133-151. ↩︎

  43. TB, Sanhedrìn, 99 a-b. ↩︎

  44. Emmanuel Levinas, Mépris de la Thora comme idolâtrie, in “A l’heure des nations”, Minuit, Paris 1988, pp. 67-88. ↩︎

  45. Ivi. p. 79. ↩︎

  46. Ibidem↩︎

  47. Interpretazione citata da Raphaël Perez, in Tu n’auras pas d’autres divinitée, in “Les dix paroles”, a cura di Meïr Tapiero, Les Editions du Cerf, Paris 1995, pp. 163-186, pp. 182-183. ↩︎

  48. TB, Berakhòth, 12a; TJ Berakòth., I, 5, 8. ↩︎

  49. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Einaudi, Torino 1957, pp. 214-217. ↩︎

  50. Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Guida, Napoli 1986, p. 152. ↩︎

  51. Id., Difficile Liberté. Essais sur le judaïsme, Folio, Paris 1984, p. 170. ↩︎

  52. TB, Makkòth 23a-23b. ↩︎

  53. Emmanuel Levinas, L’aldilà, op cit., p. 186. ↩︎

  54. Emmanuel Levinas, Adriaan Paperzak, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 1989, pp. 18-19. A cui si aggiunge: Emmanuel Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, pp. 33, 246-247. ↩︎

  55. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 25. ↩︎

  56. Yehudah Ha Lewi, Il re dei Khàzari, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 48-53. ↩︎

  57. Emmanuel Levinas, La tentazione della tentazione, in “Quattro letture”, op. cit., pp. 65-97. ↩︎

  58. Daniel Epstein, La faute de veau d’or et le geste de Moïse, in “Le dix paroles”, sous la direction de Meïr Tapiero, Cerf, Paris 1995, pp. 507-511. ↩︎

  59. Deuteronomio, IX, 7. ↩︎

  60. Esodo, XXXII, 15-16. ↩︎

  61. Esodo, XXXII, 32. ↩︎

  62. Shemòth Rabbà, 46. ↩︎

  63. Gavriel Levi, La T. orà come sogno ebraico e l’ebreo come sogno della Torà, in “Ebraismo e cultura europea del ’900”, a cura di Marco Brunazzi e Anna Maria Fubini, Giuntina, Torino 1990, pp. 63-69. ↩︎

  64. TB, Menahoth, 99b. ↩︎

  65. Esodo, XXXIV, 1. ↩︎

  66. Ibidem↩︎

  67. Questa e le seguenti espressioni tra virgolete sono prese da Luigi Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di Ermanno Vitale, Laterza, Roma-Bari 2002. ↩︎

  68. Vi è qui implicita una critica all’“etica come filosofia prima” di Levinas che, a mio avviso, rischia a volte di dimenticare idolatricamente le sue irrappresentabili condizioni extra-etiche. Rimando per un approfondimento di questa critica al mio saggio già citato Un’estetica implicita e alla successiva tesi di dottorato (Cfr. nota 34). ↩︎

  69. Erwin R. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period, edited and abridged by J. Neusner, Princeton University Press, Oxford 1988. ↩︎

  70. Joseph Gutman (edited by), No Graven Images. Studies in Art and the Hebrew Bible, Ktav Publishing House, New York 1971, p. XV. ↩︎

  71. Moshe Halbertal, Avishai Margalit, Idolatry, tr. by Naomi Goldman, Cambridge, Harvard University Press, London 1992. ↩︎

  72. Pirké Avòt, II, 6. ↩︎

  73. Edward W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2002 (1978). ↩︎

  74. Ian Buruma, Avishai Margalit, Occidentalism. The West in the Eyes of Its Enemies, The Penguin Press, New York 2004. ↩︎

  75. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 78. ↩︎

  76. TB, Berakhòth, 63a. ↩︎