Il palato dei filosofi. Breve storia di un senso misconosciuto

1.

Quale posto occupa il gusto nella gerarchia dei sensi? E in che misura i filosofi ne hanno riconosciuto il valore teoretico e il ruolo gnoseologico? La tradizione filosofica occidentale che ci riporta almeno a duemilacinquecento anni fa, e che ha fortemente condizionato il nostro modo di sentire, di percepire e anche di pensare la realtà, ha collocato il fulcro della nostra razionalità nella vista e nell’udito, i sensi ‘cognitivi’, a scapito del tatto e specialmente del gusto e dell’olfatto, relegati al rango di sensi ‘minori’. Le ragioni di questa marginalizzazione vanno ricercate anzitutto nell’atteggiamento razionalistico dominante in questa tradizione, che ha fatto del dualismo mente-corpo un suo tratto caratteristico, riprodotto in altre dicotomie ancora oggi centrali negli studi sulla conoscenza, sulla mente e sulla percezione: intelletto vs sensibilità, ragione vs passione, astratto vs concreto, attivo vs passivo, cultura vs natura, computazionale vs neurale (riferita, quest’ultima, ai due contrapposti paradigmi delle attualissime scienze cognitive). Troppo impegnati a pensare e a esaltare le abilità intellettuali, i filosofi hanno finito col dimenticare di avere un corpo dotato di sensi che mediano il rapporto con la realtà. Sebbene in questo panorama non siano mancati i paladini della conoscenza sensibile, a partire da Protagora, Aristotele, Epicuro, Lucrezio, Tommaso d’Aquino, fino ai materialisti, ai sensisti e agli empiristi del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento, la speculazione filosofica ha mantenuto un prevalente atteggiamento di ‘cecità cognitiva’ nei confronti della conoscenza sensibile e in particolare nei confronti dei sensi più compromessi con l’esperienza corporea, con il desiderio e con i bisogni primari legati alla sopravvivenza, sottovalutandone il ruolo nella conoscenza del mondo circostante.

Diversamente dal vedere, dall’udire e in qualche misura anche dal toccare — comportamenti coscienti e misurabili, fonti più affidabili e necessarie di conoscenza del mondo — , gustare e annusare, le due modalità chimiche di accesso alla realtà esterna, sono comportamenti associati all’animalità, intimamente connessi con le emozioni e con gli appetiti, temuti per la loro capacità di scatenare passioni primarie talvolta incontrollabili. Se la vista e l’udito sono sempre pronti e attivi (o almeno così crediamo), il gusto agisce occasionalmente, mentre l’olfatto pur essendo l’unico senso sempre attivo perché connesso alla respirazione è un dispositivo sensoriale di cui siamo poco consapevoli, e questo contribuisce a spiegarci perché siamo meno esperti nel gustare e nell’annusare anziché nel vedere e nell’udire. Si aggiunga che la soggettività delle impressioni forniteci da questi sensi è di solito analizzata in una forma centrata sul soggetto percipiente anziché sull’oggetto, e ciò acuisce la difficoltà a trasformare le sensazioni del palato e del naso in oggetti stabili, circoscrivibili e pertanto condivisibili attraverso il linguaggio. Gustare e annusare sono esperienze per così dire ‘private’, intime (due individui distinti non possono godere dello stesso oggetto contemporaneamente e ricavarne le medesime sensazioni), variabili, con un raggio d’azione estremamente limitato rispetto ai sensi della ‘distanza’, la vista e l’udito, e per ciò stesso non sono facilmente comunicabili come i nostri sensi ‘pubblici’. Ecco perché sono ritenuti inaffidabili dal punto di vista della conoscenza e conseguentemente sono poco esercitati nella cultura occidentale, che di certo non si è preoccupata dell’educazione del gusto e dell’olfatto. La ‘prossimità’ caratteristica del gusto (il suo dover entrare direttamente in contatto con gli oggetti) è peraltro tale da esporre al rischio di far confondere soggetto e oggetto percepito che, diventando addirittura un’unica entità, ostacolano l’analisi e il giudizio della cosa gustata da parte di chi la gusta. Diversamente dal gusto (e dal tatto, l’altro senso di contatto), la vista e l’udito invece agiscono a distanza dai loro oggetti, un’altra ragione della loro presunta superiorità sul piano epistemologico e della loro elezione a unici delegati della conoscenza.

La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è sancita chiaramente da Hegel: «il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da fare con la materialità come tale e con le sue qualità immediatamente sensibili […] » (1823: 48). E se la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la danza, la poesia e il cinema sono annoverate storicamente tra le arti per definizione, alla culinaria e alla distillazione (preparazione di alcolici) — strettamente legate al gusto — come anche alla profumeria (creazione dei profumi) — espressione della genialità dei ‘nasi’ — , si fatica ancora a riconoscere tale statuto. Assimilando la culinaria alla retorica, già Platone le aveva negato dignità artistica, considerandola una pratica empirica finalizzata al piacere e al diletto più che una forma di conoscenza (Gorgia 462d, 522a). E d’altra parte, come osserva N. Perullo (2006: 52), «la caratteristica di scomparire, consumati, apparentemente senza tracce residue, fa dell’esperienza degli oggetti alimentari qualcosa che appare irriducibile a una dimensione puramente museale, conservativa o replicativa». Nel dominio della gastronomia fa eccezione solo il vino, che una relativa capacità di conservazione avvicina all’opera d’arte: non a caso esistono i collezionisti di vini, comparabili ai collezionisti di quadri, mentre non si danno collezionisti di pietanze, semmai di ricette o di ricordi saporiti (ivi: 60, 62).

Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto. Ma nonostante questa svalutazione filosofica, la capacità — immanente al gusto — di giudicare gli alimenti e di apprezzarli si riflette nel linguaggio comune in virtù dell’analogia tra il sapere e il sapore, semanticamente imparentati al latino sapio nel senso di percepire con giustezza, conoscere. Il sapiente è colui che vuole assaporare, fiutare, arguire: sapore deriva quindi da sapere nel senso di ‘aver gusto’, aver odore’. E l’olfatto, poi, se da una parte è intimamente legato all’intelligenza del corpo, agli appetiti, alla sessualità, dall’altra parte, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali dettate dal senso comune, ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale: ‘sagace’ deriva dal latino sagire, ‘fiutare’, e ancora oggi è sinonimo di prontezza cognitiva, di istinto infallibile, di quel ‘sesto senso’ o senso della conoscenza intuitiva celebrato dal più olfattivo dei filosofi, Nietzsche, che non esitava ad affermare «il mio genio è nel mio naso» (1888: 128), additando nel fiuto uno strumento sottile di conoscenza. Di una persona dotata d’intuito, in genere si dice che ‘ha naso’, capacità cioè di cogliere subito ciò che il cervello comprendere più lentamente. Ma ‘avere naso’ significa anche essere capace di riconoscere ciò che altri non percepiscono.

Questo saggio vuole esser pertanto una rapida investigazione sulle concezioni del gusto nella storia della filosofia occidentale, attraverso gli esempi più significativi, per mostrare la scarsa importanza attribuita a questa componente fondamentale della nostra cognizione sensoriale, non senza citare qualche eccezione.

2.

Certo non si può dire che nella storia della filosofia manchino considerazioni occasionali sul senso del gusto, sul cibo, sulla cucina o sull’alimentazione, né tanto meno sul mangiare e sul bere. Studiato soprattutto come una forma di conoscenza sensibile all’interno delle dottrine gnoseologiche e fisiologiche che trattano dell’anima e delle sue facoltà, nonché del rapporto tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza, l’argomento tuttavia non è stato mai oggetto di trattazioni sistematiche: l’eccessivo coinvolgimento con il corpo, con la sfera affettiva e passionale e con i piaceri frivoli (per lunghissimo tempo rimossi nella nostra cultura anche per effetto della tradizione cristiana e della sua condanna dei piaceri del corpo), e la debole attitudine cognitiva hanno determinato l’esclusione del gusto dalla ricerca filosofica.

Questa marginalizzazione ha inizio almeno con Platone, che estromette dalla riflessione filosofica tutto ciò che ha da fare con il corpo, con il piacere, con la concupiscenza, e specialmente con le intemperanze che minacciano la sovranità della ragione preposta all’esercizio della virtù: il cibo, il gusto connesso al suo consumo e la pratica culinaria rientrano pienamente in questa condanna. «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere? — osserva il Socrate di Platone nel Fedone (24-27) — Niente affatto — risponde Simmia — E di quelli dell’amore? Nemmeno. […] Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose». Idea ribadita nel Timeo (73a), dove la golosità è considerata una nemica della filosofia e della cultura in genere. E tanto il Timeo quanto La Repubblica riflettono la medesima ‘psicologia’ in cui l’anima appetitiva e ferina — incline alla brama di cibi e di bevande, alle pulsioni più basse appartenenti all’ambito della necessità animale — deve sottomettersi all’anima razionale, e i piaceri della conoscenza devono prevalere su quelli del corpo. Per di più, Platone colloca la culinaria tra le pseudo arti, come la retorica e la ginnastica, pratiche empiriche lontane dalla conoscenza e orientate solo ad allettare i sensi.

Com’è tipico del suo atteggiamento antidealistico e della sua conseguente curiosità scientifica, Aristotele giudica l’anima inseparabile dal corpo: essa è la sostanza (nel senso di forma) di un corpo (cfr. Dell’anima, d’ora in avanti DA). Pur considerando l’esperienza sensibile il movente di ogni conoscenza, egli non esitava a proporre una gerarchia dei cinque sensi come modi reciprocamente incommensurabili di percepire la realtà esterna: in questa gerarchia, il gusto è collocato tra i sensi minori. La vista e l’udito, i sensi della ‘distanza’, concorrono maggiormente allo sviluppo della ragione: la vista più di tutti gli altri ci permettere di cogliere molte differenze tra le cose e ci dà più conoscenze, oltre ad essere il senso migliore ai fini della nostra conservazione; l’udito contribuisce indirettamente all’intelligenza per il suo rapporto con il linguaggio e con l’apprendimento (Metafisica, 980a; Del senso e dei sensibili, d’ora in avanti DSS, 436b-437a). Assimilato al tatto, il senso più acuto nell’uomo anche rispetto agli altri animali, il gusto è un senso della ‘vicinanza’ con cui giudichiamo la gradevolezza o sgradevolezza del cibo: senza ricorrere a mezzi percettivi estrinseci, entrambi realizzano un’adesione diretta all’oggetto (nel caso del gusto, lo spazio d’adesione è la bocca).

Nonostante l’analogia tra questi due sensi, il gusto, proprio perché «è una forma di tatto» (DA, 421a) situato nella lingua, è più perspicuo dell’olfatto. Un senso, quest’ultimo, poco raffinato e «di molto inferiore a quello degli animali e alle altre nostre sensazioni» (DSS, 441a), che Aristotele colloca al confine tra i sensi della distanza e quelli della vicinanza (DSS, 445a). Dalla mescolanza di dolce e amaro derivano i sapori, distinti da Aristotele in sette classi, individuate più facilmente degli odori in virtù della maggiore acutezza del gusto: dolce-grasso, amaro, salato, aspro, pungente, agro, acido (DSS, 442a). Caratterizzati da una scarsa propensione all’astrazione e dalla mancanza di un vocabolario specifico, difficilmente identificabili per la loro evanescenza, gli odori traggono la loro identità dal genere dei sapori — un genere meno vago — e, grazie all’affinità degli oggetti percettivi, ne mutuano persino nomi e definizioni: così diciamo che «l’odore del croco o del miele è dolce, quello del timo o di altre cose del genere è pungente, e allo stesso modo per gli altri casi» (DA, 421a-b).

Quanto al comportamento dell’uomo saggio nei confronti dei piaceri materiali del gusto e del tatto e dei piaceri intellettuali della vista e dell’udito, nell’Etica Eudemia Aristotele assume una posizione netta che non lascia dubbi sulla superiorità riconosciuta ai sensi intellettuali rispetto a quelli corporei: cedere ai primi, godendo per esempio degli odori o dei gusti dei cibi, è segno di debolezza morale, cedere ai secondi, emozionandosi di fronte a una melodia, alla vista di una cosa bella o all’odore di un profumo delizioso, vuol dire invece rafforzare la propria umanità, differenziarsi dagli altri animali.

Non rispetto a tutti i piaceri né a tutte le cose piacevoli il moderato è moderato, bensì lo è, a quanto sembra, intorno a due tipi di sensazioni, quelle del gusto e quelle del tatto, che anzi in realtà si riducono a quella del tatto. Il temperante non è tale, infatti, rispetto al piacere che proviene dalla vista delle cose belle, in cui non ci sia desiderio erotico, né rispetto al dolore suscitato dalle cose turpi, né rispetto al piacere proveniente dall’ascolto di suoni armonici o dal dispiacere di quelli disarmonici, e neppure rispetto ai piaceri e dispiaceri dell’odorato, provenienti da buoni o cattivi odori. […] Se dunque qualcuno o vedendo una bella statua o un cavallo o un uomo, o ascoltando un canto, non volesse più mangiare, né bere, né fare l’amore, ma volesse solo vedere quelle belle cose o ascoltare quei canti, non sarebbe intemperante, come non lo sembrano quelli che sono incantati dalle sirene. Invece l’intemperanza è relativa a quei due tipi di sensazioni, per le quali soltanto anche gli altri animali dotati di sensibilità provano piacere e dolore, cioè le sensazioni del gusto e del tatto. […] Si deve porre, in generale, l’intemperanza in rapporto alle sensazioni tattili. […] L’ubriachezza, la voracità, la lussuria, la golosità e tutti i vizi siffatti sono relativi alle sensazioni suddette e l’intemperanza si suddivide appunto in queste parti. Invece rispetto ai piaceri provenienti dalla vista o dall’udito o dall’olfatto nessuno è detto intemperante se eccede (EE, 1230b-1231a; cfr. anche Etica Nicomachea, 1118a-b).

La disapprovazione dei piaceri corporei e delle intemperanze legate al cibo, alle bevande, al sesso e ai due sensi più carnali, gusto e olfatto, si rafforza nell’epoca cristiana, accentuando la contrapposizione tra corpo e spirito, anche se l’esercizio della virtù diventa una questione di volontà più che di saggezza. Nei suoi scritti Agostino d’Ippona riprende la distinzione aristotelica tra sensi della distanza e sensi di contatto, i primi spirituali e i secondi materiali, riconoscendo il ruolo primario della vista, il più nobile e il più intellettuale dei sensi. La superiorità dei sensi razionali si manifesta nell’oggettività delle sensazioni fornite dalla vista e dall’udito e nella loro possibilità di essere condivise da più persone simultaneamente. Questo non accade con il naso e il palato, i sensi più ‘personali’, quelli che richiedono l’appropriazione e la trasformazione dell’oggetto da parte del soggetto percipiente: «anche il cibo, quantunque sia il medesimo e sia consumato tutto da me e da te insieme, non può tuttavia essere preso tutto da me e tutto da te al modo che io odo tutta una parola e tu la puoi udire tutta nel medesimo tempo. Così tu puoi vedere di una determinata figura tanto quanto ne veggo io. Al contrario è necessario che del cibo e della bevanda una parte passi in me e l’altra in te» (De libero arbitrio, II: 7, 17, citato in Prosperi 2007: 57). La percezione dei sapori resta pertanto un’esperienza intima, non accessibile contemporaneamente a individui distinti. Quanto al piacere derivato dai sensi, Agostino non ha dubbi: come ogni forma di libidine, appetiti e desideri alimentari vanno domati nella misura in cui oltrepassano le necessità di nutrimento. «Questo piacere del mangiare, dunque, lo si deve reprimere non col mangiare, ma con l’astinenza» (Contra Iulianum, 14, 67, cit. in Prosperi 2007: 67).

Pur fondandosi sull’esperienza sensibile, la teoria gnoseologica di Tommaso D’Aquino mantiene la distinzione tra i sensi superiori, la vista — il più perfetto e spirituale — e l’udito, entrambi dediti alla conoscenza, e i sensi inferiori, olfatto, gusto e tatto, prevalentemente affettivi. Giacché subiscono un cambiamento fisico sia dell’organo sia dell’oggetto, tatto e gusto sono i sensi più materiali. Assimilato al tatto, il gusto si differenzia da esso per il fatto di essere limitato alla cavità orale e specialmente perché, al contrario di quello, non è necessariamente modificato dall’oggetto che gli si presenta: se a contatto con un corpo caldo la mano inevitabilmente si scalda, la lingua, a contatto con il sapore di un cibo, non ne assume le caratteristiche (Summa Theologiae, I, q. 78, a. 3 e a. 31, citato in Prosperi 2007: 249, 279-80).

La preoccupazione di tenere separate sensorialità e spiritualità non coinvolge in alcun modo Montaigne, fautore di una visione olistica dell’essere umano, dove i piaceri spirituali non escludono quelli materiali. I sensi, benché subordinati alla ragione, sono il fondamento di ogni conoscenza ma anche fonte di godimento, e questo vale in modo speciale per il palato e per il naso. Il suo apprezzamento per i buoni odori e per i piaceri a essi connessi trova compiuta espressione nel libro I dei suoi Saggi (1580-1595), in un capitolo a carattere autobiografico (cap. LV). Incline ad apprezzare anche i piaceri della buona cucina e a descriverli in modo seducente, Montaigne si rammarica di non possedere l’arte di aromatizzare i cibi i cui segreti sono noti a «quei cuochi che sanno adattare gli odori eterogenei con il sapore delle vivande, come specialmente fu notato in casa di quel Re di Tunisi il quale, all’epoca nostra, approdò a Napoli per abboccarsi con l’imperatore Carlo. I suoi cibi erano conditi di droghe odorose, con tale abbondanza, che un pavone e due fagiani arrivavano al prezzo di cento ducati per prepararli alla loro maniera; e quando venivano tagliati, riempivano non solo la sala, ma tutte le camere del suo palazzo, e fin le case del vicinato, di un profumo assai soave che non si perdeva tanto presto» (ivi: 340).

Nel Seicento, Cartesio ribadisce il primato intellettuale della vista, considerando tatto e gusto i sensi più grossolani: «ogni comportamento della nostra vita dipende dai nostri sensi e, poiché la vista tra questi è il più universale e il più nobile, non v’è alcun dubbio che le invenzioni che servono ad accrescerne la potenza siano tra le più utili che si possano dare» (Diottrica 1637: 185; cfr. anche 1664). Non esistono comunque sensazioni indipendenti dalla sostanza pensante e le informazioni mutevoli fornite dai sensi non servono a farci conoscere la vera essenza delle cose ma soltanto a mantenere in vita il corpo e a informarci su ciò che è utile o dannoso. Il vero va ricercato attraverso un’indagine del pensiero che oltrepassi l’apparenza dei dati sensoriali. È quanto emerge dalla nota analisi del pezzo di cera, che trasformatosi davanti al fuoco perde le sue caratteristiche sensoriali (odore, gusto, colore, forma), restando solo un pezzo di cera:

che si trovava dunque in questo pezzo di cera che si conosceva tanto distintamente? Nulla certo di quelle cose che mi pervenivano attraverso i sensi […] . La cera stessa non era cioè questo sapore dolce del miele, né la fragranza dei fiori, né questo candore, né la forma, né il suono, ma un corpo che poco fa mi appariva visibile sotto questi aspetti ed ora sotto altri. […] . Poiché mi è ora noto che i corpi stessi non sono propriamente percepiti dai sensi o dalla facoltà dell’immaginazione, ma dal solo intelletto, e che non sono percepiti perché li tocchiamo o li vediamo, ma solo perché li concepiamo, mi è assolutamente manifesto che non v’è nulla che possa conoscere con maggior facilità ed evidenza della mia mente (1641, Seconda Medit.: 677, 680).

3.

Nel secolo dei Lumi, i filosofi sensisti, i materialisti e gli edonisti, sostenitori del valore della conoscenza sensibile (e quindi della corporeità), fonte di tutte le conoscenze razionali, operano un ribaltamento della classica gerarchia dei sensi: così il primato della vista viene trasferito al tatto, il «più filosofico» dei sensi (Diderot 1751), quello che ci dà accesso al mondo esterno. Nel Trattato delle sensazioni (1754), Condillac raffigura questo progetto di riabilitazione attraverso il noto esperimento mentale della statua (uno schema già proposto da Diderot, che lo definiva un esperimento di «anatomia metafisica» (1751): privandola dapprima di tutti i sensi e quindi di qualsiasi idea, egli immagina di animare la statua fornendole progressivamente uno per volta i cinque sensi, per dimostrare che tutte le nostre conoscenze e tutte le nostre facoltà derivano dalle sensazioni. Il bisogno di nutrimento fa sì che i sapori, più necessari alla statua rispetto agli odori, la colpiscano con maggiore vivacità: «il gusto può di solito contribuire più dell’odorato alla sua felicità e alla sua infelicità». Data però l’analogia tra i due sensi, la statua talvolta potrà fare confusione tra un sapore e un odore (1754: 389-90). Se il gusto, come gli altri sensi, contribuisce alla formazione delle conoscenze e allo sviluppo delle facoltà cognitive — con la differenza che l’impellenza di nutrimento può distogliere la statua dai piaceri degli altri sensi — è pur vero che con le sensazioni del gusto l’uomo crede di essere sapore, come con quelle della vista crede di essere colore e così via: solo l’intervento del tatto, istruendo tutti gli altri sensi, trasforma le modificazioni semplici dell’anima in qualità degli oggetti esterni e quindi in idee (ivi: 541). La riflessione nasce dunque dal tatto, l’unico senso che permette all’anima di conoscere la realtà, di distinguere l’io dagli oggetti esterni.

Anche con Rousseau il tatto continua a riconquistare terreno sul piano cognitivo, divenendo complementare alla vista. Senso della lontananza, senza il quale non percepiremmo alcuno spazio, proprio per la sua estensione la vista è tra tutti i sensi il più fallace (1762: 61); esso pertanto ha bisogno della verifica del tatto che con la sua precisione, seppur limitata ai confini delle mani, ci fornisce le conoscenze più certe. Nonostante sia sempre attivo, il tatto è tra tutti i sensi quello che giudica in modo più limitato e grossolano ma più preciso, dandoci accesso diretto alle conoscenze necessarie per la nostra conservazione. L’occhio a sua volta ci permette di giudicare in modo più immediato, ancora prima che la mano raggiunga l’oggetto (1762: 149-50, 158-9). Quanto al gusto, un senso materiale, Rousseau ne evidenzia l’intima connessione con l’odorato, che per così dire lo anticipa (ivi: 186-7), e la peculiarità affettiva: «mille cose sono indifferenti al tatto, all’udito, alla vista; ma non c’è quasi nulla di indifferente al gusto»; la sua lontananza dall’immaginazione lo differenzia tuttavia dall’olfatto, definito al contrario «il senso dell’immaginazione» (ivi: 180, 186). Riguardo alla ghiottoneria, un appetito naturale, una passione della fanciullezza preferibile alla vanità, con l’età sarà sostituita da mille sentimenti impetuosi. Quando permane negli adulti è invece un «vizio di cuori privi di qualità. L’anima del ghiottone è tutta nel suo palato; egli è fatto solo per mangiare; nella sua stupida incapacità, è al suo posto solo a tavola, non sa giudicare altro che piatti» (ivi: 181).

Nella gerarchia sensoriale di Kant, il gusto, al pari dell’olfatto, la cui importanza è limitata soltanto alla tutela del nostro benessere, non gode di una posizione privilegiata. Soggettivo più che oggettivo, dedito più al godimento che alla conoscenza, questo senso di contatto è strettamente connesso all’odorato: se «l’odore dei cibi è una specie di pregustazione», la perdita dell’olfatto invece impoverisce anche il gusto (1798: 575, 578, 580). Diversamente dall’annusare, il gustare è tuttavia più incline alla socialità perché promuove la condivisione del godimento, ma come quello non può essere l’oggetto di una teoria critica. L’imprecisione che lo caratterizza esclude dunque la possibilità di una ‘ragion critica’ del gusto alimentare.

La polemica nei confronti della filosofia disincarnata, della mente privata dell’esperienza corporea e dei sensi inferiori in particolare, si accende con Feuerbach che individua nell’uomo «il superlativo vivente del sensualismo, […] il più sensuale e il più sensibile di tutti gli esseri del mondo. Egli ha in comune i sensi con l’animale, ma soltanto in lui la sensazione da essere relativo, subordinato ai bassi scopi della sopravvivenza, diventa essere assoluto, fine in sé, godimento in se stesso»: così, solo rendendo gli uomini felici li si può migliorare, «volete farli felici, allora andate alle sorgenti di ogni felicità, di ogni gioia — ai sensi. La negazione dei sensi è la fonte di ogni pazzia, di ogni malvagità, di ogni malattia nella vita umana, il riconoscimento dei sensi è la fonte della sanità fisica, morale e teoretica» (1846: 122-3). Oltre a teorizzare l’importanza dei sensi, ragion d’essere dell’esistenza umana e fondamento dell’attività di pensiero, entro una concezione olistica dell’uomo («tutto dicono i sensi, ma per capire i loro detti bisogna collegarli. Pensare significa leggere nelle loro connessioni i vangeli dei sensi» — ivi: 127; e già nello scritto del 1843 contrapponeva alla vecchia filosofia in «continua disputa contro i sensi» la nuova filosofia che, al contrario, «è la filosofia dei sensi» — 1843: 122), Feuerbach abolisce la classica gerarchia restituendo dignità cognitiva al gusto e all’olfatto. «Anche i sensi inferiori, come l’odorato e il gusto, si elevano, nell’uomo, alla dignità di atti spirituali e scientifici», perché, diversamente dal determinismo animale, oltrepassano i vincoli che li legano ai bisogni fisiologici: libertà e universalità sono, infatti, tratti specifici dell’uomo preso nella sua totalità» (ivi: 137).

La riabilitazione del gusto trova espressione nella sua difesa dello stomaco, generalmente denigrato come attributo bestiale: «lo stesso stomaco dell’uomo, per quanto noi lo guardiamo con disprezzo, non è una cosa ferina ma umana, perché è universale, cioè non è limitato a un genere particolare di alimenti. D’altronde, è per questo motivo che l’uomo non è schiavo di quella voracità con cui la bestia si butta sulla preda» (ivi: 138). Il gusto umano rintraccia il suo fondamento nella specificità del corpo umano, nella sua mancanza di restrizioni alimentari e per ciò stesso di limitazioni: la stazione eretta e la possibilità di manipolare il cibo sono le condizioni necessarie dell’onnivorità. Dal sapore decisamente materialistico, la nota affermazione di Feuerbach secondo cui «l’uomo è ciò che mangia» (1850: 144) — perché i cibi si trasformano in sangue e questo a sua volta in cervello e cuore, quindi in pensieri e sentimenti — restituisce al mangiare e al bere («gli atti più umili agli occhi della nostra pseudocultura soprannaturalistica» — ivi: 136) valore filosofico, al punto da individuare nella questione dell’alimentazione la soluzione di uno dei più complicati rompicapi filosofici, il problema mente-corpo: «ora sappiamo sulla base di motivi scientifici ciò che da tempo il popolo sapeva per esperienza, ossia che mangiare e bere mantiene congiunti anima e corpo, che quindi il legame cercato è l’alimentazione» (ibidem). Ecco perché per migliorare la cultura e i sentimenti di un popolo bisogna migliorare i suoi cibi.

La rivalutazione della saggezza del corpo e dei sensi, ivi inclusi quelli meno spirituali, continua con Nietzsche. Nel denunciare tra le pericolose idiosincrasie dei filosofi quella nei confronti dei sensi, Nietzsche osserva che «possediamo ogni scienza esattamente nella misura i cui ci siamo risolti ad accogliere la testimonianza dei sensi — nonché nella misura in cui li affiniamo, li armiamo e insegniamo loro a pensare fino in fondo» (1889: 42). Nel contesto della sua critica spietata nei confronti della religione cristiana e della filosofia idealista, oltre a elogiare il naso come senso perspicace, indicando nel fiutare uno strumento di conoscenza psicologica («e quali raffinati strumenti di osservazione abbiamo nei nostri sensi! Il naso, per esempio, di cui ancora nessun filosofo ha parlato con riverenza e gratitudine, è talora il più delicato strumento che sia posto a nostra disposizione» — ivi 41-2), Nietzsche rivela nel problema dell’alimentazione, ancor più che nelle curiosità da teologi, una questione dalla quale dipende «la salvezza dell’umanità» (1888: 33-4). E indicando nelle questioni morali, in ogni specie di passioni, insomma in tutto ciò che dà colore all’esistenza argomenti di studio meritevoli di ben altra attenzione da quella loro riservata, Nietzsche si chiede, per esempio, se si conoscono gli influssi morali degli alimenti e se «esiste una filosofia del nutrimento», rispondendo che «non esiste ancora una tale filosofia! » (1882: 59).

La fenomenologia classica, invece, non sembra abbia dato peso ai sensi carnali, ed è significativo che Merleau-Ponty, nonostante la sua attenzione per il corpo, nella Fenomenologia della percezione (1945) — un saggio in cui la fenomenologia diventa una conoscenza interamente centrata sul corpo e sulla percezione che lo investe nella sua globalità, e dove la sinestesia è considerata un’esperienza quotidiana — non riconosca nel gusto una forma di sapere. La filosofia contemporanea mantiene la contrapposizione tra soggetto e oggetto, continuando a legittimare la subordinazione del corpo alla mente, dei sensi all’intelletto, e all’interno dei sensi continua a valorizzare le conoscenze forniteci dalla vista in virtù della loro oggettività, misurabilità e comunicabilità. Il filosofo fenomenologo Hans Jonas in un saggio dal titolo emblematico, The nobility of sight (1954), argomenta e difende le ragioni della centralità di cui la vista ha sempre goduto in ambito filosofico. Nel contesto dell’attuale filosofia della mente e specialmente all’interno della riflessione sulla coscienza, la questione dello statuto ontologico dei qualia (quelle sensazioni prettamente soggettive che accompagnano gli stati percettivi come degustare un cibo o un vino, annusare il profumo euforizzante di un gelsomino o ammirare un tramonto) è assai controversa e divide quanti come Daniel Dennett (1988) giudicano queste qualità mere apparenze, esperienze assolutamente ‘private’, descrivibili solo dalla persona che le prove e perciò prive di interesse scientifico, e quanti invece come John Searle (2004) ammettono la presenza di sensazioni qualitative in ogni esperienza cosciente e ritengono impossibile affrontare il problema della coscienza riducendolo agli aspetti meccanici del cervello senza spiegare anche le sensazioni soggettive.

Lo psicologo americano Howard Gardner, autore della teoria delle ‘intelligenze multiple’ (1983), nel descrivere e classificare il carattere multiforme dell’intelligenza, pur osservando che un uso acuto dei sistemi sensoriali ne fa dei candidati naturali per un’intelligenza umana, non sembra incline a concedere tale riconoscimento all’acutezza del gusto e dell’olfatto, tagliati fuori così dai sette macroraggruppamenti dell’intelligenza da lui ipotizzati. E nel panorama contemporaneo delle scienze cognitive, il modello computazionale della mente (intesa come sistema di manipolazione di simboli, separato dal corpo e dal mondo) adottato dagli studiosi della prima generazione eredi dell’intelligenza artificiale, continua ad avere molti sostenitori. La teoria della mente incarnata (embodied cognition), caratteristica invece delle scienze cognitive di seconda generazione, superando il tradizionale dualismo platonico-cartesiano, ha restituito dignità cognitiva al corpo e all’esperienza sensoriale, assumendo che i vari aspetti della conoscenza (idee, pensieri, concetti, categorie) siano modellati dal corpo e dalla struttura del cervello. Ma anche entro questo nuovo approccio continua a prevalere la visione classica della gerarchia dei sensi, dove il primato della visione — attorno al quale del resto è saldamente organizzata gran parte della nostra esperienza e dei nostri schemi cognitivi e di rappresentazione della realtà — è confermato dalla quantità di studi a essa dedicati nell’ambito della ricerca psicologica, neuroscientifica, etno-antropologica, linguistica e filosofica. Per fare solo un esempio, l’attualità di questo primato viene sancita in modo esplicito dall’etologo e neuroscienziato G. Vallortigara quando afferma: «nella nostra specie la visione è il senso più importante tra le modalità sensoriali, ed è stata studiata così bene da costituire la modalità privilegiata per una comparazione dei mondi percettivi delle diverse creature» (2000: 15).

4.

Nell’ultimo ventennio, comunque, non sono mancati lavori filosofici — variamente orientati — sul tema del gusto materiale e del cibo a esso connesso, una facoltà di cui ci serviamo per conoscere quella sensazione complessa che è il sapore degli alimenti, una forma di sapere che coincide anche con un piacere. Tali lavori sono segno di un cambiamento motivato da un nuovo modo di intendere e di praticare la filosofia come quell’amore per la sapienza che dovrebbe includere il nostro modo di stare nel mondo e di conoscerlo come esseri fatti di corpo e di carne e non solo di mente.1 Una filosofia, insomma, attenta alle questioni inerenti l’esperienza quotidiana, questioni come gustare e apprezzare un alimento o una bevanda, entro cui piacere e conoscenza vengono a realizzare un’armonia talmente perfetta che questo solo dato sarebbe a nostro avviso sufficiente a eleggere il gusto materiale a oggetto d’interesse filosofico. Riservare al senso del gusto l’attenzione che merita può allargare il nostro modo di stare al mondo e di valutarlo, permettendoci di assaporarlo con maggiore consapevolezza, senza contare poi il contributo che questo tipo di ricerche può apportare alla comprensione del ruolo dell’esperienza corporea nella conoscenza.

5. Riferimenti bibliografici

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  • Vallortigara G., 2000, Altre menti. Studio comparato della cognizione animale, il Mulino, Bologna.

  1. Cfr. per esempio: M. Onfray, Les ventres des philosophes, Grasset, Paris, 1989 e La raison gourmande, Grasset, Paris 1995; Telfer 1996; L.M. Heldke, D. Curtin (eds.), Cooking, eating, thinking: transformative philosohies of food, Indiana University Press, Bloomington 1992; C. Korsmeyer, Making senses of taste. Food & philosophy, Cornell University Press, Ithaca, London, 1999; e in italiano: F. Rigotti, La filosofia in cucina, il Mulino, Bologna 1999 e Gola. La passione dell’ingordigia, il Mulino, Bologna, 2008, e i saggi di estetica gastronomica di N. Perullo, Per un’estetica del cibo, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo, 2006, L’altro gusto. Saggi di estetica gastronomica, Edizioni ETS, Pisa, 2008, Filosofia della gastronomia laica. Il gusto come esperienza, Meltemi, Roma 2010. Di prossima uscita è anche una nostra piccola filosofia del gusto: R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari, 2011. ↩︎