Recensione a Caterina Conio, Mistica comparata e dialogo interreligioso

Caterina Conio, Mistica comparata e dialogo interreligioso, Jaca Book, Milano 2011, pp. 240.

È un doveroso tributo alla loro docente e maestra, quello che Angela Fiorentini, Gloria Germani, Fabio Ghelardi e Mauro Giani hanno dedicato a Caterina Conio. Quest’ultima, com’è ricordato anche nella quarta di copertina, nata a S. Stefano al Mare nel 1929 e deceduta a Milano nel 1996, è da considerarsi tra i massimi esperti di filosofia e di religioni dell’India che il mondo accademico italiano abbia mai avuto. Laureatasi prima a Firenze in Letteratura francese, quindi all’Università Cattolica di Milano in Filosofia, ha successivamente ottenuto anche un dottorato presso la Hindu University di Benares. Pioniera del dialogo interreligioso, nei primi anni Settanta ha fondato a Milano il Centro interreligioso «Henri Le Saux», del quale fu la prima divulgatrice in Italia, sia promuovendo le opere del benedettino francese sia dedicandogli delle monografie. Dopo aver insegnato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, ha tenuto la cattedra di Filosofia e Religioni dell’India presso l’Università di Pisa dal 1974 al 1996. Contestualmente alla docenza, la Conio è stata così autrice di numerose pubblicazioni in cui è sempre presente sullo sfondo il confronto filosofico e spirituale tra cristianesimo ed induismo, quali, ad esempio: Il pensiero indiano (Milano 1970); The Philosophy of Mandukya Karika (Benares 1971); Mito e filosofia nella tradizione indiana (Milano 1975); L’unità nella pluralità (Milano 1980); Abhishiktananda, sulle frontiere dell’incontro cristiano-indù (Assisi 1994).

Il volume in oggetto intende appunto raccogliere e sintetizzare i saggi più rappresentativi della studiosa incardinata nell’Università di Pisa, attingendo anche alla collana da lei fondata: i «Quaderni del Centro Interreligioso Henri Le Saux», che, sostanzialmente, corrispondono agli atti dei convegni da lei organizzati nella sua casa di Milano su specifiche tematiche interreligiose. A questo riguardo, si deve dare atto ai quattro curatori di aver operato un’ottima e rappresentativa selezione degli scritti della studiosa ligure che ben mettono in risalto non soltanto la varietà degli interessi della Conio, ma anche il contributo da lei apportato alla promozione di personaggi come Ramana Maharishi, Ananda Mayi Ma, J. Monchanin, B. Griffiths, H. Le Saux, T. Merton, A. Capitini, Gandhi ed altri ancora. Selezione, quella elencata, che mette appunto in evidenza la sensibilità spirituale della studiosa e la sua vocazione nonviolenta.

Ottimamente strutturato, l’indice enuncia le figure elencate secondo una logica ed un’organicità apprezzabile. Dopo le note di Mauro Giani, che ne ha raccolto l’eredità pubblicando un libro su Jules Monchanin, di cui la Conio per Marietti aveva curato il volume «Mistica dell’India, mistero cristiano», e un’introduzione di Angela Fiorentini, che di lei fu assistente, la prima sezione intitolata a Gandhi raccoglie appunto le sue dissertazioni sull’insegnamento nonviolento del Mahatma, ma anche gli articoli su Capitini e Vinoba Bhave. La seconda, intitolata «I monaci cristiani», è rivolta, come si accennava, ai monaci fondatori dell’ashram cristiano-indù di Shantivanam, nel sud dell’India, con l’aggiunta di Thomas Merton che fu autore a loro vicino e parimenti sensibile, perlomeno negli ultimi anni della sua vita, alla spiritualità dell’Oriente. Vi è poi una terza parte dedicata specificatamente a due tra i principali mistici del neoinduismo, come Ramana Maharishi e Ananda Mayi Ma, a cui segue una riflessione dedicata al problema del male e della sofferenza nella religiosità indiana. L’ultima parte del libro, ha infine per oggetto la sua ricerca di dottorato sulla Mandukya Upanishad, che in precedenza non aveva mai ricevuto alcuna traduzione in italiano. Di essa, il testo, ha appunto il merito di riprodurre ampi stralci. In postfazione c’è poi una considerazione della professoressa Donatella Dolcini, la quale, riassumendone al contempo l’animo più profondo e la vicenda accademica, le dedica un ricordo che ha per titolo: «Caterina Conio o il coraggio del non allineamento».

La sezione di maggiore rilievo scientifico del saggio pubblicato dalla Jaca Book, in ogni caso, su cui è appunto opportuno stendere qualche considerazione aggiuntiva, è quella dedicata al testo upanishadico della Mandukya. Quest’ultimo, introdotto da Gloria Germani, altra discepola della Conio poi distintasi con varie pubblicazioni che hanno sullo sfondo la spiritualità indiana, ne contestualizza e traduce un estratto, dal momento che, come si diceva, il suddetto studio era rimasto completamente inedito. Nucleo centrale di esso, è indubbiamente il capitolo dal titolo «La filosofia della Mandukya Upanisad», che mette in evidenza non soltanto le competenze della Conio nelle materie indiane, ma soprattutto il suo approccio alla filosofia dell’India, che, com’è tradizione nell’orizzonte metafisico dell’Oriente, non disgiunge l’elaborazione concettuale dall’esperienza spirituale concreta. Ciò vale appunto in misura particolare per la Mandukya, essendo un testo nato nel contesto della meditazione contemplativa di stampo mistico e non-duale. La Conio, riflettendo per l’appunto sui contenuti filosofici di questo testo upanishadico, ne dimostra e mette in evidenza uno degli aspetti maggiormente peculiari ed originali: quell’importanza del mondo che l’idealismo acosmico del monismo vedantico generalmente adombra e svilisce. Come scriveva: «La Mandukya Upanishad, tuttavia, a differenza dei testi buddhisti, non sembra insegnare un totale ripudio dell’elemento mondano. Al suo interno si trova anche un legittimo godimento dei piaceri del mondo: il godimento del mondo diviene illegittimo solo quando è preso in maniera assoluta» (p. 215). In altre parole, possiamo dire che l’interpretazione data dalla Conio al Vedanta non manca di aspetti innovativi e persino rivoluzionari, in quanto incentrata sul recupero della realtà cosmica ed in particolare della sua valenza soteriologica e gnoseologica. In un passo successivo chiariva appunto il concetto chiedendosi: «Che cosa ci induce a pensare che questa prima conoscenza sia solo un riflesso ma non il tutto? Nessuno può dubitare della realtà che è oggetto della conoscenza esteriore, a meno che uno non «sospetti» che non sia l’unica realtà conoscibile. Per esempio, il famoso mito della caverna platonica può essere considerato, con le dovute riserve, come un parallelo di quest’ascesa verso la Verità» (p. 215). La Conio, nutrita dagli insegnamenti di Le Saux, da lei conosciuto nel 1964 su indicazione di don Divo Barsotti, alla cui Comunità dei figli di Dio era legata, espone quindi una propria rappresentazione del non-dualismo indiano. Giunta infatti a commentare il quarto stato mistico della turiya, nel quale «tutto è assunto e tutto è visto in uno stato di eternità», scriveva che «La dottrina dell’Advaita rappresenta certamente una reale esperienza mistica: cioè un’esperienza di unità con l’Assoluto, che non è, tuttavia, né una semplice unità del molteplice né una giustapposizione di due entità autosufficienti e separate» (p. 219). Valgano, queste veloci e troppo sommarie citazioni, a dimostrazione di come la Conio sia stata una delle più profonde speculatrici sulla metafisica indiana che l’Italia abbia mai avuto, ragion per cui non soltanto questo testo sarebbe augurabile che andasse presto alle stampe nella sua interezza, ma anche ad attestazione di come tutta la sua produzione intellettuale meriti un posto di diritto nella storia filosofica sul pensiero indiano.

A prescindere da ciò, sebbene sia questo un punto sul quale ci piacerebbe insistere maggiormente, quest’ultima sezione dedicata alla Mandukya, concentra le pagine più accademiche e specialistiche del saggio, le quali, in un certo senso, bilanciano e compensano la generalità divulgativa degli altri capitoli, in quanto nati, come precisavamo, nel contesto di incontri interreligiosi il cui scopo principale era quello di promuovere e rendere accessibili figure ancora del tutto sconosciute negli anni Settanta ed Ottanta.

In conclusione, il volume presentato si deve considerare un ottimo esempio di come un libro, nato con l’obiettivo di commemorare una studiosa il cui ricordo affettuoso — nei suoi molti allievi — è rimasto immutato nel tempo, riesca anche nella difficile sintesi di far sposare divulgazione e approfondimento scientifico. Dobbiamo appunto essere grati ai curatori di aver riportato l’attenzione sui testi e sul contributo intellettuale di Caterina Conio, filosofa delle religioni a cui il contesto accademico italiano, in fondo, non ha ancora tributato il meritato onore, e che, in ogni caso, non deve permettersi di dimenticare.