Le dimensioni della vulnerabilità e la vita buona: un’introduzione ai concetti

In effetti, chi ci proteggerà — a parte Dio o la morte — se per essere del tutto tranquilli bisogna poter dominare completamente tutti gli eventi imprevedibili della vita?

— R. Castel, L’insicurezza sociale

1. Premessa

La questione della vulnerabilità è oggi un aspetto centrale nelle riflessioni di politica sociale e politica economica. Nonostante la complessità di significati che il concetto di vulnerabilità racchiude, essa è generalmente intesa e analizzata dal punto di vista economico come esposizione concreta delle condizioni di vita individuali ai processi di impoverimento. Tuttavia, per comprendere appieno l’indiscutibile impatto che il concetto di vulnerabilità ha nello sviluppo delle policies pubbliche è necessario non perdere le molteplici dimensioni di significato che esso porta con sé. D’altra parte, la stessa assunzione della prospettiva della vita buona nel recente Libro Bianco del Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali sul futuro del welfare italiano chiama ad una considerazione più complessiva della questione della vulnerabilità collegata al complessivo sviluppo della persona umana. E ancora, la stessa scelta di assumere nella stesura del Libro Bianco come riferimento la dimensione della vita buona esprime una certa dose di ambiguità nella misura in cui il concetto di vita buona è tendenzialmente schiacciato solo sulla presenza attiva nel mercato del lavoro. In realtà la dimensione della vita buona ha un punto di riferimento ineludibile di natura aristotelica che apre a notevoli complessità sulla natura stessa della vita buona, su cosa renda tale la vita degli uomini e su come sia possibile riconoscerla. Dentro questo quadro il tema della vulnerabilità non può essere considerato solo in chiave economica, e può rappresentare un riferimento produttivo per le policies orientate alla promozione del benessere solo se si coglie per intero il suo fronte semantico.

Proprio in questa direzione la Dichiarazione di Barcellona del 1998 propone una definizione più articolata del concetto di vulnerabilità, segnando una svolta in relazione alle questioni che questo concetto inevitabilmente apre. A chiusura di un percorso durato tre anni su stimolo della Commissione Europea e coordinato dal Centre for Ethics and Law di Copenhagen, ventidue esperti europei di bioetica afferenti a varie discipline, nel corso del meeting conclusivo tenutosi a Barcellona, hanno redatto un documento di principi condivisi in ambito bioetico, biomedico e biotecnologico.

Nell’articolazione del documento, accanto ai tradizionali principi di autonomia, integrità e dignità umana, per la prima volta viene inserito il principio di vulnerabilità. Di questi quattro principi la vulnerabilità costituisce certamente il principio innovatore ed è presentata secondo due linee concettuali:

  1. vulnerabilità come espressione della finitezza e della fragilità dell’esistenza umana;
  2. vulnerabilità come oggetto di interesse per l’intero ambito morale.

Si legge nella Dichiarazione, nella parte dedicata all’articolazione dei quattro principi:

Vulnerabilità esprime due idee fondamentali. (a) La prima esprime la fragilità e la finitezza dell’esistenza umana su cui poggia, nelle persone capaci di autonomia, la possibilità e la necessità di ogni vita morale. (b) La vulnerabilità è l’oggetto di un principio morale che richiede l’esercizio della cura nei confronti delle persone vulnerabili. Le persone vulnerabili sono quelle persone la cui autonomia e dignità o integrità possono essere minacciate. In questo senso tutti gli esseri umani, in quanto portatori di dignità, sono protetti da questo principio. Ma il principio di vulnerabilità richiede specificamente non solo di non interferire con l’autonomia, la dignità o l’integrità degli esseri umani, ma anche che essi ricevano assistenza affinché possano realizzare il loro potenziale. Da questa premessa ne consegue che vi sono diritti positivi per l’integrità e l’autonomia che fondano le idee di solidarietà, non discriminazione e comunità.1

L’affermazione della vulnerabilità come principio di riferimento introduce un punto di innovazione importante all’interno della riflessione bioetica, e nella misura in cui riconosce il carattere universale della condizione di vulnerabilità essa apre attenzioni nuove anche nella riflessione che interessa la produzione delle politiche di welfare. Torneremo diffusamente più avanti (par. 3) ad analizzare l’ampio spazio di significato aperto dalla definizione di vulnerabilità proposta dalla Dichiarazione di Barcellona. In apertura, accogliendo le sollecitazioni che essa consegna alla riflessione, ci limitiamo ad indicare alcune linee semantiche che sembrano appartenere in modo diretto al concetto di vulnerabilità:

  • vulnerabilità come vivere in condizione di dipendenza;
  • vulnerabilità come esposizione all’agire di eventi esterni non dipendenti dalla propria volontà (influenza della fortuna-tyche nella possibilità e stabilità della felicità);
  • vulnerabilità intesa come condizione di fragilità nell’agone competitivo della società economica;
  • vulnerabilità come esposizione ad un vulnus, all’essere ferito (ma resta da precisare il cosa dell’essere-ferito-in);
  • vulnerabilità ontologica, intesa come la mancanza che è filigrana dell’umano (vivere come esseri vulnerabili);
  • vulnerabilità della vita buona (della vita morale);
  • vulnerabilità del sistema di funzionamenti e capacità individuale;
  • vulnerabilità definita secondo parametri sociali (di cosa? di condizioni di benessere? di status relazionali?).
  • Queste diverse dimensioni semantiche possono essere indagate percorrendo tre sentieri di analisi:
  • il primo ha origine nella riflessione critica circa le caratteristiche proprie dello stato di natura dell’uomo e dei possibili equilibri;
  • il secondo sentiero di analisi ha origine nell’osservazione della condizione ontologica dell’uomo in quanto essere mancante;
  • il terzo sentiero di analisi assume come riferimento la natura vulnerabile della vita morale.

Quando si parla di vulnerabilità, in realtà, spesso si dimentica che si sta facendo riferimento ad una caratteristica costitutiva della condizione umana. L’uomo per sua natura è un essere vulnerabile, e lo è in modi e gradi diversi. E sono proprio i modi e i gradi della condizione di vulnerabilità nella quale si sviluppa nel tempo l’identità biografica di ciascuno a dover richiamare le attenzioni di chi intende agire con l’obiettivo di ridurne il peso. Se consideriamo che l’uomo vive la sua vita attraverso un corpo, coesistendo con altri uomini — non esiste l’Uomo ma gli uomini, scriveva con grande profondità Hannah Arendt2 — e aspirando ad una vita buona, i modi e i gradi che declinano la vulnerabilità possono essere riconosciuti all’interno di tre dimensioni contenitive del vivere umano: la vita sociale, la corporeità, la vita morale.

A ciascuno di questi tre percorsi di riflessione si dedicherà uno spazio proprio di analisi, e si tenterà in conclusione di proporre in un quadro di insieme le connessioni tra le diverse dimensioni semantiche individuate, suggerendo le ricadute che tali connessioni possono avere nel processo di produzione delle policies orientate al benessere e alla sicurezza sociale.

2. Vulnerabilità e vita sociale

L’incardinamento reciproco di vulnerabilità e vita sociale ha origini antiche e si fa visibile all’incrocio delle domande sul senso e sui fondamenti del con-vivere, fatte sorgere dalla percezione del configgere fra interessi egoistici e sollecitazioni altruistiche, e dalla necessità di contenere l’esposizione dell’esistenza all’agire degli eventi ad essa esterni.

In questa prospettiva il bisogno di sicurezza spesso appare posto alle origini della con-vivenza, e lo è secondo due linee interpretative. La prima descrive le caratteristiche del legame tra condizione di vulnerabilità e giustificazione della vita sociale ponendo l’alternativa tra l’immagine dell’uomo come animale egoistico e quella dell’uomo come animale simpatico, tra l’interesse per sé mosso dalla volontà di sopravvivere e di massimizzare il proprio vantaggio e l’interesse per l’altro mosso, per dirla con Hume, dall’identificazione con i sentimenti altrui e dalla correlata impossibilità di restare indifferenti all’interesse dei propri simili.3 L’alternativa si pone, inevitabilmente, tra Hobbes e le contr’Hobbes, come scrive la scuola antiutilitarista del MAUSS.4

Il punto di partenza non può che essere l’esito hobbesiano, che è quello di una struttura sociale, di una dimensione pubblica, capace di rispondere alla paura del proprio simile, alla paura dell’altro uomo. L’uomo è vulnerabile proprio perché esposto all’azione libera del suo simile. Scrive Hobbes:

In primo luogo pongo, come inclinazione generale di tutti gli uomini, un desiderio perpetuo e senza tregua di potere e potere, che cessa solo con la morte. […] Da questa eguaglianza di capacità scaturisce l’eguaglianza nella speranza di attuare i nostri fini. Quindi se due uomini desiderano la stessa cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, essi divengono nemici, e, nel perseguire il loro fine (che è principalmente la conservazione di sé, e a volte solo il piacere), si sforzano di distruggersi o sottomettersi a vicenda.5

L’antropologia hobbesiana descrive gli uomini come esseri tra loro assolutamente eguali nel diritto a rivendicare per sé vantaggi funzionali alla propria sopravvivenza, e dunque di agire egoisticamente per l’acquisizione di tali vantaggi e la difesa della propria vita dall’insidia, pure legittima nello stato di natura, dell’altro uomo. Questa è la condizione umana nel suo stato di natura, e a questa condizione umana è assolutamente immanente la caratteristica di vulnerabilità dell’esistenza. Hobbes cancella così, d’un colpo, la concezione aristotelica dell’uomo come zoon politikon: ora «gli uomini non traggono piacere dalla compagnia reciproca, ma al contrario molta molestia, se non c’è un potere capace di tenerli tutti in soggezione».6

La vita sociale, dunque, non è più una condizione naturale che poggia sulla naturale tendenza dell’uomo alla cooperazione,7 ma una costruzione artificiale prodotta dal patto tra gli uomini di reciproca rinuncia a parti della propria libertà di agire, così da evitare la guerra di tutti contro tutti. Si tratta di una scelta che non ha radici morali, ma anch’essa assolutamente egoistiche: si sceglie il patto perché la guerra di tutti contro tutti minaccerebbe in misura insostenibile la propria sopravvivenza, e difendere la propria individuale sopravvivenza è la prima legge di natura a cui l’uomo deve rispondere. È questo il patto che permette e giustifica l’origine dello Stato, persona artificiale nelle cui mani ciascun uomo, individualmente, consegna parte della propria libertà di agire e che garantisce con la forza (e la paura ad essa collegata) il rispetto del patto stesso e l’osservanza delle norme che da esso scaturiscono. Infatti:

Le leggi di natura (come la giustizia, l’equità, la modestia, la pietà, e, insomma, fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi) di per se stesse, senza il terrore di un potere che ne causi l’osservanza, sono contrarie alle nostre passioni naturali, che ci inducono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili. E i patti, senza le spade, sono solo delle parole, prive della forza di dare agli uomini una qualsiasi sicurezza.8

La con-vivenza è così ridotta ad uno spazio giuridico che contiene in equilibrio, attraverso la forza e la paura della sanzione, le naturali tensioni tra diritti (affermazione della mia libertà riducendo la libertà altrui) e doveri (affermazione della libertà altrui riducendo la mia libertà), e rinvia ad una immagine dell’uomo percepito come individuo incapace di coo-perazione ma capace di agire egoisticamente all’interno di tale spazio giuridico, in funzione del proprio interesse individuale, tenendo conto di tale equilibrio e vivendo dinamiche di riconoscimento (giuridico e biografico) .9

La priorità data all’equilibrio diritti-doveri poggia sulla valutazione razionale del maggior costo collegato al conflitto esteso che sarebbe prodotto dallo scontro tra le libertà di Ego e di Alter. Lo spazio giuridico che definisce l’equilibrio diritti-doveri è lo spazio di compatibilità tra le libertà di Ego e di Alter, che su un piano pragmatico disegna un sistema positivo di azioni distinto da un sistema negativo di azioni. Il sistema di azioni che esprime la libertà di Ego e Alter non è più aperto all’infinito, ma contenuto all’interno di un sistema normato (e dunque produttore di sanzioni).

Questo processo rivela la vulnerabilità individuale come motore primo della con-vivenza civile, e dell’insicurezza che essa genera ne impregna il tessuto connettivo depauperato di qualsiasi capitale fiduciario.

Seppure per cenni, e in modo parziale, in questa sede è opportuno evidenziare i due sforzi principali di superamento della posizione hobbesiana: da un lato Locke e il tentativo della cultura liberale; dall’altro la prospettiva anti-utilitarista aperta dal tentativo di Mauss di affermare la dinamica del dono come fatto sociale totale fondativo del legame sociale. Tutti e due questi tentativi tentano di rispondere alle richieste di protezione che sorgono dalla percezione individuale della condizione di vulnerabilità, anche se esprimendo una originaria differenza che ci sembra sostanziale. Il tentativo di Locke, e con lui della cultura liberale, continua a collocare la vulnerabilità all’esterno dell’uomo: la vulnerabilità non è una componente interna all’umano, ma l’esito di una esposizione a minacce esterne (sia essa inscritta nell’agire dell’altro uomo o nel manifestarsi del mondo). Per contro, il tentativo anti-utilitarista sposta l’origine della vulnerabilità all’interno dell’umano e della sua costitutiva relazionalità, e in questa prospettiva essa non è più fonte di minaccia — e dunque, con questa valenza, dimensione da contenere — ma condizione di possibilità del legame sociale e della relazionalità.

Locke riposiziona la socialità e la relazione morale all’interno dello stato di natura, descrivendo nuovamente l’uomo come creatura socievole e razionale. In questa sua recuperata originaria apertura alla socialità, per Locke l’uomo può rispondere alle sue esigenze di protezione attraverso la proprietà.10 È la proprietà che protegge l’uomo dalle fragilità dovute alla sua costitutiva esposizione al mondo e alle sue minacce. Grazie alla proprietà l’individuo può esistere per se stesso e può proteggersi dagli imprevisti che sono propri dell’esistenza umana in relazione al mondo. Questa prospettiva, pienamente borghese, risponde all’individuo che agisce egoisticamente per il proprio interesse, contenuto all’interno di una con-vivenza civile solo perché sottoposto individualmente al potere del Leviatano, con l’immagine del cittadino riconosciuto nella sua autonomia e indipendenza attraverso la proprietà. Non è più la sovranità assoluta del Leviatano a rendere possibile la con-vivenza civile, ma è la sovranità sociale del proprietario a rendere possibile il contenimento della condizione di vulnerabilità all’interno della naturale socialità umana. E con la proprietà sono il lavoro e il reddito ad assumere la funzione di prima trincea protettiva dell’individuo nei confronti dell’insicurezza e della vulnerabilità. Il modello sociale fordista è stata la concretizzazione più piena di questo punto di equilibrio: divisione funzionale del lavoro, alti livelli di occupazione, produzione di reddito stabile, accessibilità crescente al consumo e alla proprietà, riconoscimento diffuso all’interno di una comunità di proprietari. A riprova di ciò, notiamo oggi come sia proprio il collasso di questo modello a riattivare l’ansia per l’esposizione ad una insicurezza prolungata nel tempo, che blocca la progettabilità della propria vita nel momento in cui ne aumenta gli esiti della vulnerabilità e ne riduce le risorse per risolverli. E così si assiste ad un percorso di precarizzazione del lavoro e del reddito, di riduzione delle possibilità di accesso al consumo e alla proprietà, di riduzione degli spazi di riconoscimento all’interno di una comunità che pure continua ad essere essenzialmente una comunità di proprietari.

Sul piano della forma istituzionale, anche per Locke è evidente che affinché sia possibile per l’individuo proprietario godere della sua condizione è necessaria l’esistenza e l’azione di uno Stato capace di proteggere non tanto l’uomo ma la sua proprietà, unica garanzia di contenimento della propria condizione di vulnerabilità:

Il grande e principale fine per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assogettano ad un governo, è la salvaguardia della proprietà.11

Seppure per sentieri diversi rispetto a quelli indicati dalla antropologia hobbesiana, anche per Locke e per l’ideologia liberale allo Stato sono affidati compiti prevalenti di protezione dagli esiti della vulnerabilità. Qui, tuttavia, l’individuo è considerato come oggetto secondo dell’azione protettiva: è la proprietà il primo oggetto di protezione, perché è essa che garantisce la reale tutela individuale.

All’interno dello stesso focus individualistico è possibile riconoscere una ulteriore linea interpretativa che pone il bisogno di sicurezza alle origini della con-vivenza, e coglie l’uomo nella sua solitaria esposizione all’agire del mondo e della fortuna. Non è più l’agire egoistico dell’altro uomo a generare insicurezza e ad esporre alla vulnerabilità, ma il mondo. Qui, è la paura verso un mondo comune e ostile, il rischio comune a cui si è esposti nella solitudine, che spinge l’uomo verso la ricerca di una con-vivenza strumentale. Anche su questo sentiero il rapporto tra con-vivenza e bisogno di sicurezza è individuato come punto di origine della comunità, del legame sociale, delle declinazioni storiche e istituzionali del con-vivere. La percezione della vulnerabilità individuale nei confronti di una minaccia comune motiva l’orientamento a cooperare con il proprio simile. Attraverso la produzione di sistemi simbolici connettivi, la cooperazione con l’altro simile diviene risorsa strumentale per la sopravvivenza in un mondo tendenzialmente ostile.

La stessa spinta a sentirsi parte di una comunità, a riconoscersi come parte di una comunità, ad appartenere ad un sistema simbolico di valori e tradizioni che orienta il vivere pratico, è spiegata dalla necessità di rispondere al bisogno individuale di sicurezza attraverso i livelli di protezione che la con-vivenza può garantire. La natura protettiva della con-vivenza, le sue dinamiche connettive determinate dal comune bisogno di sicurezza nei confronti delle minacce portate dal mondo, spingono anch’esse verso identificazioni di tipo istituzionale alle quali è affidato il compito di orientare e permettere la vita degli uomini nella città, la sua progettabilità, attraverso il consolidamento di sistemi simbolici (rituali e mitici) capaci di trasfigurare l’ostilità del mondo esterno e attraverso l’articolazione di strumenti di riduzione del rischio. La polis è così ridotta a luogo di protezione, lasciando al di là delle sue mura la barbarie, l’esposizione alle insidie naturali, la dipendenza dall’ignoto.

Questa tipologia di risposta alla condizione di vulnerabilità tende ad allontanarsi da strutture sociali basate su logiche protettive caratterizzate dalla forza delle reti di relazioni primarie di dipendenza e protezione e dall’alto grado di prossimità. Ad esse è sostituita l’identificazione data dal con-vivere nello stesso luogo strutturata su relazioni di tipo funzionale, numerose ma polarizzate su scambi duali contratti in spazi temporali ridotti, e che per questa loro natura necessitano di forti sistemi simbolici connettivi definiti su base territoriale — è il vivere nello stesso luogo, nella stessa città, nello stessa valle, nello stesso spazio, che definisce la nostra identità comune e ci fa più forti dinanzi alle minacce del mondo. Questa natura del convivere apre lo spazio di significato al cui interno gli uomini costruiscono il senso storico della loro con-vivenza, e dà spesso forma a identificazioni istituzionali di tipo esclusivo. Di queste dinamiche ne sono prova le molte forme di contrazione localistica presenti anche all’interno degli Stati nazionali.

Che si tratti di insicurezza prodotta dall’agire del mondo o che si tratti di insicurezza generata dall’agire egoistico dell’altro uomo, questi sentieri rendono necessaria la costituzione di un soggetto istituzionale, di una personalità collettiva, che chiamiamo Stato, a cui si chiede protezione e riduzione della propria esposizione alla vulnerabilità. Il grado di protezione che si richiede dallo Stato al fine di ridurre tale esposizione dell’individuo determina la forma e la natura che lo Stato assumerà dinanzi all’individuo e ai gruppi sociali, e la natura della sua risposta alla preoccupazione sicuritaria. Scrive efficacemente in proposito Robert Castel:

La sicurezza può essere totale se, e soltanto se, lo Stato è assoluto; se ha il diritto o, in tutti i casi, il potere di schiacciare senza alcun limite ogni velleità di attentare alla sicurezza delle persone e dei beni. Ma lo Stato, se diventa poco o tanto democratico, e a mano a mano che lo diviene, pone dei limiti all’esercizio di quel potere che si realizza pienamente solo attraverso il dispotismo o il totalitarismo. Uno Stato democratico non può essere uno Stato protettore a qualunque costo, poiché questo costo sarebbe quello calcolato da Hobbes: l’assolutismo del potere statuale.12

Il percorso seguito dagli anti-utilitaristi coglie invece la vulnerabilità non come una condizione di fragilità da contenere, ma come l’opportunità stessa del legame sociale. Ed è proprio la dinamica del dono a permettere questo cambio di prospettiva nella visualizzazione della condizione di vulnerabilità. Secondo Marcel Mauss il dono costituisce un fatto sociale totale capace di costituire e animare

in certi casi la totalità della società e delle istituzioni […], e in altri casi solo un grandissimo numero di istituzioni, soprattutto quando gli scambi e i contratti riguardano piuttosto individui.13

L’intuizione che Mauss descrive nel suo Saggio sul dono è quella dell’universalità del triplice obbligo di donare, ricevere e ricambiare che ha accompagnato gli uomini nel processo di costruzione delle società arcaiche. Alain Caillé, e con lui il movimento dei maussiani, tenta di estendere la scoperta di Mauss alle società contemporanee, sino a compiere il passo non percorso da Mauss: l’articolazione di un paradigma del dono. Tale paradigma è considerato terzo tra l’utilitarismo individualista da un lato e l’olismo funzionalista dall’altro. Per Caillé il paradigma del dono permette di osservare la generazione del legame sociale non più a partire dagli individui colti come entità tra loro separate e in costante competizione; né a partire da un’idea di società pre-esistente e totale che funzionalmente governa la generazione del legame sociale tra gli individui. Attraverso la dinamica del dono è possibile osservare la generazione del legame sociale non lungo l’asse verticale che dall’individualismo sale verso la totalità sociale pre-esistente, ma lungo l’asse orizzontale caratterizzato dall’insieme delle interrelazioni umane che legano gli uomini gli uni agli altri rendendoli protagonisti dello spazio sociale. In questo senso, scrive Caillé,

la scommessa sulla quale si basa il paradigma del dono è che il dono costituisca il performatore per eccellenza delle alleanze. Ciò che le suggella, le simboleggia, le garantisce e le rende vive. Si tratti di un dono iniziale o di un dono ripetuto talmente tante volte da non apparire più neanche tale, è donando che ci si dichiara concretamente pronti a giocare il gioco dell’associazione e dell’alleanza e che si sollecita la partecipazione degli altri allo stesso gioco.14

In questa sede non interessa discutere se, e in che misura, sia giustificata l’assunzione operata dai maussiani dell’evento dono in forma paradigmatica nell’interpretazione del fatto sociale, in alternativa al paradigma utilitarista e a quello olista. Piuttosto, interessa capire come e in che misura l’evento dono possa intercettare la condizione di vulnerabilità attraverso la metafora della scommessa e la dimensione dell’incertezza. Il punto di forza della prospettiva del dono si rivela nei tratti di paradossalità che il dono stesso esprime: la coestensività di obbligo e spontaneità, interesse e disinteresse; separare una di queste dimensioni dalle altre vorrebbe dire annullare la possibilità stessa del dono. Ciò che tiene insieme le quattro dimensioni, e che permette di distinguere decisamente il dono dallo scambio, sono la fiducia e l’incertezza, vere anime del dono, l’altrove indicato da Jacques Godbout:

La non-equivalenza, la spontaneità, il debito, l’incertezza ricercata nel cuore del legame si oppongono alla teoria delle scelte razionali e al contratto. Ma il piacere del gesto, la libertà si oppongono alla morale del dovere e alle norme interiorizzate del modello olista. Il dono obbliga a uscire da questi due paradigmi, e a cercare altrove.15

Quando dono pongo in disequilibrio la mia relazione con l’altro: ho dato e in qualche misura sono divenuto creditore nei confronti dell’altro, ponendo questi dinanzi all’obbligo di ricambiare; ma la possibilità che l’altro effettivamente ricambi il dono ricevuto è sottoposta alla sua libertà, il mio credito è esposto all’incertezza. Tuttavia nel momento in cui decido di donare dichiaro la mia fiducia nel fatto che l’altro ricambi, un giorno, il dono ricevuto, rivelando egli in tal modo la sua fiducia nei miei confronti attraverso la scelta di esporsi, a sua volta, all’incertezza del mio controdono. In realtà al centro del dono non c’è il valore economico dell’oggetto che dono, ma l’eccedenza simbolica che questi porta con sé, e tale eccedenza si concretizza nel legame che tra me e l’altro si costituisce a partire dall’evento dono. Di fatto la prospettiva del dono pone l’origine del legame sociale sulla persistenza di un debito tra le parti ed in questa persistenza si manifesta il punto di rottura definitiva con l’ottica dello scambio. Nello scambio il debito viene contratto e contestualmente estinto: do e ricevo in cambio. Nel dono il debito contratto non solo non viene estinto ma viene alimentato esponendosi reciprocamente all’incertezza del controdono: do e (forse) riceverò in cambio, e con il contro-dono che attendo la mia posizione sarà trasformata da creditrice a debitrice. Il dono primario attiva una spirale in apertura di dono e contro-dono, esposta all’incertezza del concreto verificarsi del contro-dono e sospinta dalla fiducia che tale contro-dono (forse…) accadrà. Il legame sociale si genera e si consolida nell’attesa che sostiene quel forse. A questo proposito Jacques Godbout precisa ulteriormente:

contrariamente al mercato che è fondato sulla liquidazione del debito, il dono è fondato sul debito. […] Il debito volontariamente mantenuto è una tendenza essenziale del dono così come la ricerca dell’equivalenza è una tendenza del modello del mercato.16

La circolarità del dono che allarga lo spazio di indebitamento reciproco positivo rende possibile l’apertura costante del legame nella tensione del debito reciproco. Il dono come moto sociale perpetuo, continua possibilità del legame fondato sulla scoperta del debito reciproco. All’interno di questa dinamica la vulnerabilità di ciascuno — resa concreta dal crescere dell’indebitamento reciproco e dell’apertura all’incertezza — non è più una esposizione da contenere ma risorsa su cui poggiare perché il legame con l’altro si dia. Condizione di possibilità del legame e dell’eccedenza simbolica che lo nutre: posso legarmi all’altro solo in quanto vulnerabile, perché esposto all’incertezza della sua risposta al mio dono. Ed è solo in questa incertezza che può nascere l’eccedenza simbolica che nutre il legame.

Su frequenze analoghe si esprime lo sforzo di rilettura del concetto di comunità che tenta di sganciarlo dalle principali filosofie politiche, unite dalla condivisione di una idea della comunità come proprietà dei soggetti che essa accomuna. In qualche misura la comunità è sempre una qualità attribuita alla natura del soggetto, o nel senso che essa è un predicato che permette di qualificare gli uomini come appartenenti ad uno stesso insieme, o come entità prodotta dall’unione di più soggetti. La comunità è sempre una totalità, un’entità sostanziale, inscindibile nella sua determinazione concettuale e simbolica. Una entità forte, che protegge e riduce la vulnerabilità individuale. In rapporto a questa tradizione di analisi è interessante la lettura proposta da Roberto Esposito facendo leva sul valore semantico del sostantivo munus, interno al vocabolo communitas.

Il munus, sottolinea Esposito, supera la giustapposizione pubblico-privato ed apre ad un’altra area di significato, centrata sul concetto di dovere ed articolata nella gamma semantica espressa dai vocaboli onus, officium e donum. Il munus è un atto donativo che appartiene per specie alla categoria del donum, ma che non condivide con questi la particolare dinamica del dono e contro-dono individuata da Mauss. Il dono, si è visto, apre al contro-dono in una prospettiva di incertezza, tenendo insieme obbligo e libertà, sino ad ancorare l’atto del dare non tanto all’attesa del contro-dono quanto all’eccedenza simbolica prodotta nella precaria (perché disponibile alla libertà di non rispondere al donatore) possibilità, ora aperta, del legame tra donatore e donatario. Per contro il munus si caratterizza per la sua valenza di doverosità, è il dono che si è obbligati a compiere per gratitudine dovuta nei confronti di che ci ha beneficiati. Il dovere del munus a seguito del beneficio ricevuto rompe la reciprocità istituita dalla dinamica circolare dono-controdono. L’accento è posto sull’obbligatorietà del dare come disobbligazione nei confronti di chi ci ha beneficiato: accogliendo il beneficio ho contratto un obbligo che ora debbo necessariamente soddisfare con il mio munus. Se il dono nel suo pieno significato contiene in sé il contro-dono, poiché un dono che precluda in assoluto la possibilità del contro-dono sarebbe un atto violento che inchioderebbe permanentemente il donatario nella sua condizione di debitore, il munus propriamente indica solo il dono che si dà in soddisfazione ad un obbligo e non ciò che si riceve o che si è ricevuto. Secondo questo schema, dunque, se il donum pone la possibilità del legame nell’eccedenza simbolica prodotta, in uno spazio di incertezza, dalla dinamica circolare dono-controdono, il munus pone la possibilità del legame nel reciproco debito che impegna ciascuna delle parti ad un atto di disobbligazione. Secondo Esposito questa analisi rende possibile reinterpretare la comunità nel senso di com-munitas, ovvero un insieme di persone legate reciprocamente dalla doverosità del munus. Com-munitas diviene il luogo abitato da persone che condividono una condizione debitoria a seguito di un beneficio ricevuto, e che si relazionano conseguentemente rispondendo alla doverosità del munus, all’obbligo posto dalla gratitudine che esige una nuova donazione. Scrive Esposito:

Ne risulta che communitas è l’insieme di persone unite non da una «proprietà», ma, appunto, da un dovere o da un debito. Non da un «più», ma da un «meno», da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura una modalità difettiva, per colui che ne è «affetto», a differenza di colui che ne è, invece, «esente» o «esentato».17

La vulnerabilità, la mancanza, la stessa condizione di essere mancante, sono anche qui risorsa per la nascita del legame sociale, e non rischio da contenere.

Queste considerazioni permettono di proporre una prima schematizzazione del concetto di vulnerabilità lungo l’asse con origine naturale nell’intuizione hobbesiana che colloca l’insicurezza (la vulnerabilità societaria) nel cuore stesso della coesistenza umana. Sì, perché seppure sia lontana l’intenzione di schierarsi con il giusnaturalismo di Hobbes, non si può non riconoscere che la forza e la crudezza della sua visione e della sua capacità di cogliere il bisogno sicuritario interno alla condizione umana lasciano agli sforzi delle altre prospettive l’onere della prova.

Seppure in modo schematico, come esiti dei percorsi di risposta alla questione della vulnerabilità sin qui trattati è possibile incontrare il riferimento a specifici modelli di welfare: il modello del welfare to work, ad esempio, lungo l’asse liberale (ma anche lib-lab. .) di risposta ai questionamenti sulla vulnerabilità tematizzato con le posizioni di Locke; oppure lo spazio del welfare relazionale aperto dall’analisi della vulnerabilità dall’interno delle posizioni anti-utilitariste.

3. Vulnerabilità e corporeità

L’apparire del corpo sposta l’origine della vulnerabilità dall’esterno all’interno dell’umano, insediandola inevitabilmente — o forse meglio sarebbe dire inesorabilmente — nella struttura ontologica dell’uomo. La relazione tra vulnerabilità e corporeità si rivela infatti come dato noumenico a chiunque osservi la condizione umana. Ed in effetti noi siamo innanzi tutto corpo, io sono innanzi tutto il mio corpo, senza il quale non potrei nascere, pensare, sentire, giudicare, emozionarmi, gioire, soffrire, morire. Il mio corpo è, più essenzialmente, corpo-vulnerabile: vulnerabile ai colpi dell’altro uomo, vulnerabile alle forze della natura, vulnerabile alle cadute dei fragili equilibri psichici che lo animano dall’interno.

Ed è proprio l’essere io originariamente corpo-vulnerabile a fare del gesto di cura forse il gesto più originario e descrittivo della condizione umana: si è uomini e donne, concretizzazione storica dell’umano, nella capacità di agire il gesto di cura. Martin Heidegger in Essere e Tempo, affrontando la questione della Cura come tratto costitutivo dell’Esser-ci, ripropone questo antico mito:

La «Cura», mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La «Cura» lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la «Cura» pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la «Cura» e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la «Cura» che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la «Cura». Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami «homo» poiché è fatto di «humus» (Terra)».18

Uomo, corpo, vulnerabilità e cura appaiono così come polarità di un unico spazio esistenziale che possiamo chiamare vita umana. Heidegger recupera questo mito per presentare la Cura come condizione di possibilità di tutte le modalità dell’Esserci di essere nel mondo e in quanto tale essa è il fondamento ontologico della realtà nella prospettiva della coscienza. Senza l’esprimersi della Cura ogni modalità di essere-nel-mondo è negata all’Esserci: senza Cura l’uomo è depotenziato completamente nelle sue possibilità di conoscere e stabilire relazioni nel mondo e con il mondo. Potremmo dire altrimenti che privato della Cura l’uomo è lasciato in balia della vulnerabilità del proprio corpo, esposto alla fragilità costitutiva interna al proprio nascere e stretto nella precarietà del legame con il futuro, impossibilitato a conoscere il mondo.

Nella favola di Igino la Cura è ciò che tiene uniti terra e spirito, corporeità e spiritualità, origine nel dato transeunte e aspirazione alla permanenza, preminenza del contingente e proiezione progettuale. Ed è la Cura a rendere indistinguibili nell’homo queste polarità «finché esso vive»: è la Cura che rende possibile che homo sia. Vita e Cura in qualche misura si fondono in un unico atto vitale che è l’essere-nel-mondo di quella creatura il cui nome è homo poiché è fatto di vulnerabilità.

Ma la predominanza della Cura nel tessuto ontologico dell’umano fa sì che sia proprio attraverso di essa che accada l’apertura al mondo e all’altro: poiché nella sua natura ontologica l’Esserci è cura, egli può porsi in rapporto al mondo e agli altri uomini solo attraverso la cura.

In rapporto al mondo la Cura assume la forma del prendersi cura: l’Esserci si apre al rapporto con il mondo prendendosi cura delle cose che nel mondo si danno alla sua conoscenza. Il prendersi cura heideggeriano permette di cogliere la struttura relazionale al cui interno si dà il rapporto tra possibilità e effettività dell’Esserci, può rendersi concreta la progettualità esistenziale dell’uomo in relazione al mondo. Nel prendersi cura l’uomo può formarsi e divenire ciò che egli effettivamente può divenire. Qui la vulnerabilità dell’Esserci nella sua apertura al mondo è accolta, e nel gesto di cura trascesa nell’effettiva accessibilità dell’Esserci ad un orizzonte di possibilità capaci di dare forma al suo essere-nel-mondo. Questo in relazione alle cose che si danno nel mondo.

Nei confronti degli altri la lettura heideggeriana della Cura assume la forma dell’aver cura, ed è questo aspetto che più ci interessa in questa sede. La condizione esistenziale dell’uomo è segnata inevitabilmente dal far parte. Non vivo da solo, al contrario il mio esser-ci è caratterizzato nel senso di essere-con-gli-altri, è essenzialmente con-essere per usare una categoria heideggeriana.19 Per Heidegger l’essere-con-gli-altri emerge dall’osservazione fenomenologica della modalità di porsi dell’esserci nei confronti di altri esserci e si evidenzia come carattere originario ed essenziale della condizione umana. La riduzione fenomenologica operata da Heidegger permette di osservare l’uomo in una delle sue condizioni oggettive: io non sono mai solo nel mondo, ma sempre con-altri. Per questo il mio essere è originariamente ed essenzialmente con-essere; del mondo, potremmo dire, in ogni momento faccio parte con-altri. È in questa dinamica che nella rete di relazioni inter-personali che disegna la struttura del suo con-essere l’Esserci ha cura del corpo dell’altro e della progettualità esistenziale che questi esprime in relazione al mondo. In questa propensione la cura può assumere modi propri e modi difettivi che si sostituiscono all’altro nel suo prendersi-cura del mondo:

L’aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla «cura», sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto. Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati. […] Gli altri possono essere trasformati in dipendenti e in dominati, anche se il predominio è tacito e dissimulato.20

Questa prospettiva difettiva dell’aver cura insidia l’orientamento progettuale dell’altro, la sua capacità di proiezione nel tempo. L’altro essere è colto nella sua manifestazione di fragilità e invaso nella sua possibilità di comprensione del mondo e di costruzione di reti relazionali. Detto altrimenti, dentro il linguaggio heideggeriano, è toccata la stessa struttura del suo essere-nel-mondo e del suo con-essere, in lui è minacciata la stessa possibilità di realizzazione biografica del più proprio poter-essere. L’uomo che nel proprio corpo vive la concretizzazione storica della vulnerabilità attraverso il rivelarsi della malattia, nel subire l’aver-cura difettivo rivelato dall’analisi heideggeriana scopre in una lacerazione esistenziale come l’Esserci che esso è possa essere determinato dall’agire di altri. Il proprio corpo fragile diviene terra di conquista dell’agire non autentico di altri, che attraverso l’aver-cura difettivo si appropriano per sostituzione dello spazio esistenziale che al corpo fragile appartiene. Rileva acutamente Cristina Palmieri nel suo studio sulla cura educativa come

posto in questi termini, questo modo di aver cura sembra presentificare un rischio insito nelle relazioni d’aiuto […]: quello di occuparsi dell’altro vedendone solo il bisogno di cure, prevedendo ogni sua richiesta, decidendo per lui. L’aver cura in cui si «sostituisce dominando» sembra ben evocare la forma di una relazione educativa che rende il destinatario della cura oggetto di essa, senza concedere il minimo spazio alla sua capacità intenzionale, espressiva, al suo desiderio, al su poter essere.21

Per contro, la vulnerabilità del corpo chiede l’aver cura autentico, quel gesto di cura capace di permettere nel tempo della nudità il permanere della co-originaria fusione di terra e spirito, secondo il mito di Igino, di corporeità segnata dall’irriducibilità dell’ora e di proiezione segnata dall’apertura dell’esserci al suo poter-essere nel tempo, del limite che è proprio della corporeità e dell’infinito desiderio d’essere che muove la nostra emozionalità (o la nostra anima, se si vuole…). Uscendo dall’orizzonte di pensiero heideggeriano, la cura autentica è chiamata ad incontrare la nudità del Volto, come rivela l’intuizione filosofica di Lévinas. Se Heidegger aveva definito in punto finale la cura autentica nella relazione d’aiuto orientata a rendere l’altro esserci consapevole e libero per la propria cura, autentica perché nella relazione con l’altro si rivela capace essenzialmente di lasciarlo-essere, di coglierlo semplicemente nell’autenticità del suo esserci,22 Lévinas afferma la coestensività dell’atto di comprensione dell’Altro e della inseparabile sua invocazione nei confronti dell’Io. Lévinas afferma un primo principio particolarmente significativo: nella mia relazione con l’Altro l’atto dell’invocazione è un atto costitutivo, contestuale all’atto della comprensione; nel momento stesso in cui comprendo l’altro io lo invoco, lo chiamo, lo nomino. E, ugualmente, l’Altro mi invoca, mi chiama, mi nomina, nel momento in cui mi comprende. Qui compare un passaggio fondamentale della ricerca di Lévinas, e utile in questa sede per meglio perimetrare il concetto di vulnerabilità: la mia responsabilità per l’altro uomo invocata dal Volto dell’Altro, colto come Volto radicalmente vulnerabile. A partire dall’apparire del Volto, che è corpo e non semplice metafora, Lévinas costringe ad una contorsione radicale attorno alla soggettività. Ciò che mi costituisce in prima istanza non è più la mia soggettività, ma il Volto dell’Altro che mi chiama alla responsabilità nei suoi confronti, responsabilità nei confronti di un Volto che si esprime nella sua nudità, nella sua debolezza, nel suo esporsi totalmente al mio potere:

nella mia analisi, il Volto non è affatto una forma plastica, come un ritratto: la relazione con il Volto è al tempo stesso il rapporto con l’assolutamente debole — il rapporto con ciò che è assolutamente esposto, nudo e denudato, è il rapporto con il denudamento e di conseguenza con ciò che è solo e può subire l’isolamento supremo che si chiama morte.23

Il mio essere è originariamente essere-per-l’altro. E se nell’essere-per-la-morte di Heidegger, esito finale dell’autenticità dell’Esserci, il per indicava l’orientamento esistenziale dell’esistenza (della mia esistenza) sino a fare dell’angoscia il sentimento più autentico dell’esserci, nell’essere-per-l’altro il per fonda radicalmente nella responsabilità la mia esistenza.

La soggettività, in quanto definita dalla responsabilità verso l’Altro, diviene una soggettività comandata, costituita dall’incontro con Altri che chiama alla responsabilità nei suoi confronti.

La vulnerabilità, così, si trova ad essere considerata come condizione che si esprime tra due polarità. La prima è abitata dal Volto dell’altro, che si espone vulnerabile nella sua nudità, e che dalla sua vulnerabilità chiama alla responsabilità nei suoi confronti, Volto vulnerabile di cui sono ostaggio nell’obbedienza al comandamento “tu non ucciderai”: è questa la lezione di Lévinas.24 La seconda è abitata dal darsi della mia sollecitudine fondata sulla stima di sé come persona capace di “aspirazione ad una vita buona-con e per gli altri-in istituzioni giuste”: è questa la lezione di Ricœur.25 Vulnerabilità umana che appare nella dialettica tra il “Tu non ucciderai!” e l’“Eccomi!”, tra la nudità radicale dell’altro che chiede Cura e la responsabilità di chi risponde con il gesto di cura.

Attraverso questo percorso la vulnerabilità si rivela, originariamente, nella sua natura di dimensione costitutiva degli uomini, destinati a dispiegare ed intrecciare le loro biografie tra finitudine della corporeità e temporalità, tra nudità del corpo e contrazione del tempo disponibile, tra denudamento e cura, tra fragilità del Volto che invoca e sollecitudine dell’Io che risponde.

Ma quale risposta dare a questa condizione? Quali evocazioni suscita lo scoprirsi radicati nella vulnerabilità, il vedere riflesso nello specchio che è l’Altro il nostro essere innanzi tutto Volto vulnerabile, nudo nella sua esposizione alla ferita?26 Forse che il contrasto della vulnerabilità può far scivolare verso l’occultamento del corpo? Con grande sensibilità Ivo Lizzola evidenzia che

occultare il corpo è occultare la storia del corpo che si disfa e si spezza. Il corpo è bellezza (per momenti definiti) e ombra (sicuramente). Si prova a nascondere il corpo mortale, ed esaltare il corpo bello e vitale. Ma senza l’uno non si dà l’altro: il corpo va accolto nella sua «doppiezza», nella sua ambiguità, nel dubbio e nella prova che porta in sé. […] . Perché la «stortura» del corpo è vissuta e fatta provare come esclusione? O salutata da troppo enfatiche accettazioni? Per non affrontare la finitezza e la deteriorabilità che è in noi, che è la nostra carne.27

E, ancora, l’incardinamento della vulnerabilità nel corpo può diventare fatto pubblico o deve restare fatto privato? Il suo apparire nella relazione come corpo ferito può accedere allo spazio pubblico o è destinato a restare segregato nello spazio privato? La vulnerabilità del corpo rinvia, di nuovo, ad una responsabilità collettiva, segnando la vita sociale con la concretezza delle lacerazioni che essa genera nelle biografie degli individui?

Come si è detto in apertura, la Dichiarazione di Barcellona del 199828 segna una svolta in relazione a questi interrogativi, riconoscendo la vulnerabilità come espressione della finitezza e della fragilità dell’esistenza umana e come oggetto di interesse per l’intero ambito morale. In questa fondamentale definizione del concetto di vulnerabilità la stessa dignità della persona è fatta poggiare sul riconoscimento della fragilità e della finitezza come trame strutturali della condizione umana. Come nel mito di Igino, l’uomo è presentato nella sua totale esposizione, Volto segnato dalla vulnerabilità, per continuare a stare nelle categorie utilizzate sino ad ora. Lo stesso principio di autonomia, tradizionalmente assunto come riferimento primo nella riflessione bioetica di origine nord americana,29 qui è inscritto nella fragilità dell’uomo vulnerabile. In modo ancor più forte il principio affermato a Barcellona lega la condizione di vulnerabilità all’espressione della vita morale. Con altre parole, nel testo si riconosce che l’affermarsi nelle biografie individuali degli esiti laceranti resi possibili dalla vulnerabilità minaccia la stessa possibilità personale di sviluppare una completa vita morale. Ma su questo aspetto più diffusamente si proverà a dire nel paragrafo che segue.

Nella Dichiarazione di Barcellona sono affermati alcuni ulteriori e importanti aspetti che incardinano al principio di vulnerabilità:

  • la polarità minaccia-protezione;
  • la priorità dell’azione pubblica orientata al sostegno delle persone per la piena realizzazione del loro potenziale umano;
  • la produzione di diritti positivi.

La scoperta della condizione di vulnerabilità che segna la corporeità dell’esistenza umana si pone come fondamento della stessa azione istituzionale, chiamata a concretizzare la necessità di proteggere i cittadini dalle inevitabili minacce allo sviluppo personale che la loro vulnerabilità rende possibili. Non si tratta di contrastare la vulnerabilità, ma di assumerla come principio orientatore delle policies, declinando l’intensità dei sistemi di protezione dai suoi effetti in considerazione dei gradi di dipendenza che essa genera nelle biografie individuali. Si è dipendenti, infatti, in modi e misure diverse: diverse sono le forme di dipendenza che assume la disabilità; diverse sono le forme di inabilità a cui espone l’avanzare dell’età anziana; diverse, ancora, sono le forme di dipendenza generate dalle malattie degenerative (alzheimer, SLA, sclerosi multipla…); diverse, infine, le dipendenze collegate alle diverse forme di terminalità della vita. Da questo punto di vista l’assunzione del principio di vulnerabilità trova risposte nell’analisi del concetto di disuguaglianza proposto da Sen, per il quale le diseguaglianze in spazi diversi (reddito, beni primari, libertà, utilità, altre opportunità) possono essere molto diverse fra loro in ragione di variazioni interpersonali nelle relazioni fra le variabili che animano tali spazi. E in questa variabilità assume rilevanza lo spazio dei funzionamenti effettivamente accessibili alla persona. Scrive Sen:

La libertà effettiva di una persona nel perseguire i propri fini dipende 1) da quali sono i suoi fini e 2) da quanto potere essa ha nel convertire i beni primari nell’appagamento di questi fini. […] Un tipo di variabilità ha a che vedere con le differenze nei fini e negli obiettivi. […] Ma esiste un’altra importante diversità — le variazioni nella nostra abilità di convertire le risorse in libertà effettive. Tali variazioni, collegate al genere, l’età, le dotazioni genetiche e molti altri elementi, ci danno poteri assai differenziati di apportare libertà alla nostra vita anche quando possediamo lo stesso paniere di beni primari.30

La variabilità dell’abilità personale nel convertire le risorse in libertà effettive è evidentemente sensibile al grado di dipendenza che la vulnerabilità genera nelle biografie individuali, e al crescere dei suoi esiti essa amplifica il progressivo deteriorarsi dei functioning individuali.31 Questa è la complessità lacerante che la vulnerabilità assume quando si fa corpo, e questa complessità non è indifferente al dato economico: come è evidente la condizione di povertà, infatti, amplifica ulteriormente l’impatto che gli esiti della vulnerabilità hanno sul corpo. È più difficile con risorse precarie continuare ad affermare la propria dignità umana e la propria vita morale dinanzi all’esplodere della vulnerabilità.

Si pongono dunque questioni di giustizia ed equità nella costruzione dei sistemi di protezione, ed efficacemente la Dichiarazione di Barcellona sottolinea come il riconoscimento del principio di vulnerabilità assuma una valenza fondativa in relazione alle stesse idee di solidarietà, non discriminazione e comunità. In questa prospettiva la dipendenza che è espressione della condizione di vulnerabilità, piuttosto che essere gestita secondo logiche di contrasto, con un maggior grado di coerenza con la natura dell’esistenza umana deve essere ricollocata dentro lo spazio della relazionalità. La vulnerabilità riscoperta nella dimensione della Cura ci indica nel dato della co-esistenza e della con-vivenza lo spazio al cui interno inscrivere le azioni di risposta alle dipendenze che essa genera. Qui la cura tende a caratterizzarsi come etica pubblica orientata alla produzione di dinamiche connettive. Come sottolinea Vanna Iori,

la cura come etica pubblica produce politiche di condivisione volte a contrastare l’incuranza ed a promuovere un aver cura delle relazioni. […] assumersi la responsabilità etico-politica dell’esterno significa porre l’accento sul ruolo della cultura della domiciliarità, che è cultura del sentirsi accolti e riconosciuti in un contesto di comunità territoriale.32

La malattia è la veste che la vulnerabilità assume quando abita il corpo, e il suo apparire sembra espellere dalla vita quell’apertura progettuale che è costitutiva dell’Esserci. È ancora possibile un progetto di vita nella malattia? Ed in effetti, come ricorda Lizzola, il progetto di vita nella malattia non può essere semplicemente una estensione dell’impulso vitale che ha accompagnato il tempo della sanità, quel tempo nel quale la vulnerabilità appariva come immagine vaga offuscata dalla chiara percezione del proprio potere, apparentemente infinito, sul corpo e sul mondo. Nella malattia il progetto di vita va «ripreso, ridetto, anche agonisticamente».33 Anche agonisticamente, non contro qualcuno, ma contro la percezione di annullamento che il controluce della vulnerabilità lascia come traccia sul proprio corpo. Perché l’esperienza della malattia appare inevitabilmente come un attacco all’integrità personale, decomponendo d’un colpo la co-originarietà tra persona, corpo e tempo. Quella co-originarietà che solo Cura rende possibile, come ci ricorda il mito narrato da Igino, e la cui essenzialità per il nostro poter essere è stata velata allo sguardo della nostra coscienza proprio dall’ipertrofia del senso di autonomia.

Nelle biografie ferite dalla vulnerabilità che si è fatta malattia accade, così, l’affermarsi dell’isolamento e della chiusura. La malattia si afferma come spazio privato, luogo chiuso di sofferenza e decomposizione dei legami sociali. Questa decomposizione colpisce oltre il corpo malato, segnando le vite degli stessi caregiver e rendendo fragili i legami familiari. L’isolamento dalle reti sociali e la sovraesposizione delle risorse di cura disponibili all’interno dei sistemi familiari concorrono ad ampliare gli esiti del processo di vulnerabilizzazione, vale a dire la concretizzazione della condizione ontologica di vulnerabilità in esiti biografici che contraggono — fragilizzando il corpo — la reale possibilità di esprimere pienamente il proprio più autentico poter essere. Gli stessi familiari che agiscono la cura sono in questo modo toccati dalla riduzione della loro capacità di risposta alla vulnerabilità. Si parla in questo caso di dipendenza secondaria,34 intendendo con questo concetto la condizione di quei caregiver che per le alte esigenze di cura delle persone fragili con cui sono in rapporto non sono più in grado di provvedere ai propri bisogni quotidiani, esponendo agli esiti della vulnerabilità la loro stessa condizione di vita.35 Così, alla vulnerabilità da malattia si somma una certa vulnerabilità da cura, con l’esito di rendere più complesso e intenso lo spazio di destrutturazione delle integrità personali. Scrive Giuliana Costa in proposito:

La «vulnerabilità da cura» non è l’esito della rottura, dell’assenza o dell’indebolimento spinto dei legami familiari, quanto il risultato di una loro tenuta ad oltranza, sia per fattori endogeni alle famiglie sia per le condizioni di contesto in cui esse si trovano a fronteggiare gravi problemi di cura. Chi è posto di fronte a problemi e bisogni di cura di un familiare non più in grado di badare a se stesso vede minacciato il proprio benessere e la propria capacità di scelta perché condivide [la] comune condizione di fluttuazione nello spazio sociale […] o perché si sente sospeso […] sopra un piano che sa essere destinato a inclinarsi. È qualcuno che, preso dentro il cerchio del care, è sottoposto a strettoie inedite; è qualcuno […] che è più esposto a rischi di invalidazione sociale.36

Si pone dunque la questione su come disinnescare il potenziale di chiusura che esprime quello che Costa definisce come cerchio del care, e che potremmo altrimenti dire come circolarità espropriante l’integrità personale tra il dirsi del bisogno di cura e il farsi della risposta di cura, dove per assurdo è la stessa autenticità sia del bisogno che della risposta ad essere fonte espropriante. L’assunzione preventiva del principio di vulnerabilità, così come declinato nella Dichiarazione di Barcellona, può costituire l’elemento che riduce la stretta di questa dinamica. L’aggancio che essa propone delle idee di solidarietà e comunità al principio di vulnerabilità, inteso come oggetto di un principio morale e ispirazione del diritto positivo, permette di vedere nella malattia, oltre il lato buio della ferita e della dipendenza, la possibilità dell’apertura che essa ancora contiene. La malattia può divenire anche spazio pubblico, luogo di produzione di legame sociale, spazio agonistico in cui ri-dire la proiezione progettuale dell’essere, la sua apertura dinanzi ad un orizzonte di possibilità che pure (nonostante…) continua ad essere presente; la malattia può divenire questo se la vulnerabilità che la genera è accolta preventivamente come principio orientatore di policies di protezione e di sostegno, che riconoscano i diritti positivi di chi esprime bisogni di cura e di chi vi risponde agendo la cura. Policies capaci di guardare attraverso lo spettro della vulnerabilità l’intero fronte delle componenti costitutive del vivere, richiamando Sen, o più ancora del con-vivere. Tra queste certamente va riconosciuto l’atto di cura, espressione della domanda di dignità di un corpo che ora si dice nel suo bisogno di cura, e dell’esigenza morale di rispondere ad un bisogno di accudimento che appare sempre in tempi annunciati, e dirompente in tempi inattesi delle biografie umane.

4. Vulnerabilità e vita morale

Non a caso nel nostro tentativo di perimetrazione del concetto di vulnerabilità il riferimento alla corporeità è stato posto tra i riferimenti alla vita sociale e alla vita morale. Come si è potuto notare nel paragrafo che precede, infatti, l’analisi del rapporto tra vulnerabilità e corporeità ha alternativamente rinviato al legame sociale e alla dimensione morale in considerazione del fatto che il corpo è la fragile membrana che rende possibile il contatto — e lo scontro — con l’altro e l’involucro imprescindibile della vita interna che muove la ricerca della vita buona. Senza corpo è impossibile la stessa pensabilità sia dell’uno che dell’altra. Per quanto riguarda il rapporto tra vulnerabilità e vita morale, già la Dichiarazione di Barcellona, come si è visto, ha legato il principio di vulnerabilità alla possibilità e necessità di ogni vita morale. Si tratta ora, nel breve spazio a disposizione, di focalizzare la forma che tale legame assume in primis, seppure con esercizio complesso, circoscrivendo il concetto di vita buona e successivamente verificando come anche questa aspirazione umana sia segnata dalla vulnerabilità.

Qualsiasi riflessione attorno al significato di vita buona non può non prendere le mosse dalla ricerca etica aristotelica. Proviamo ad accennarla in vista degli esiti attesi da questa breve riflessione sul tema della vulnerabilità.

La ricerca etica aristotelica prende le mosse dall’assunzione della dimensione dell’agire come costitutiva della condizione umana. In questa prospettiva diviene fondamentale per Aristotele l’individuazione del fine specifico dell’azione umana. Così come ogni arte e ricerca scientifica possiede un fine al cui perseguimento è orientata, ugualmente dovrà essere per l’azione dell’uomo. Tale fine sarà il bene supremo tra i beni perseguibili dall’uomo attraverso la sua azione. Ora, scrive Aristotele,

una tale cosa tutti ritengono che è soprattutto la felicità. Questa infatti noi scegliamo sempre per se stessa e non mai a motivo di altro; invece l’onore, il piacere, l’intelligenza ed ogni virtù li scegliamo sì anche per se stessi […], ma li scegliamo anche in vista della felicità, supponendo che mediante essi saremo felici. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi beni, né, in generale, a motivo di altro.37 [Pertanto] la felicità è manifestamente alcunché di perfetto e di autosufficiente, essendo il fine delle cose che sono oggetto d’azione.38

La felicità è così individuata come il fine specifico dell’azione umana, ed in relazione agli altri fini dell’agire essa si pone come bene supremo tra quelli che sono oggetto d’azione. Questa acquisizione apre tuttavia uno spazio di questionamento ulteriore circa la reale natura di tale bene supremo e circa la relazione che esso ha con l’uomo stesso. In effetti riconoscere che la felicità è un bene supremo, il fine più perfetto tra i molteplici fini dell’attività umana, resterebbe un’acquisizione parziale se non si verificasse la coerenza tra tale fine e l’opera propria (ergon) dell’uomo in quanto essere agente e non si riconoscesse la coincidenza tra tale opera propria dell’uomo e quella certa vita attiva dell’anima secondo la regola. Se dunque, scrive a questo proposito Aristotele,

poniamo come opera propria dell’uomo una certa vita, e questa consiste in un’attività e in un’azione accompagnate da ragione, ed è proprio dell’uomo virtuoso realizzare bene e perfettamente queste cose, ed ogni cosa è ben compiuta secondo la virtù che le è propria; se è così, il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta. Inoltre, in una vita compiuta.39

Attraverso questo percorso Aristotele ottiene alcune acquisizioni importanti:

  • l’uomo ha un’opera che gli è propria, e tale opera è una certa vita attiva secondo ragione, capace di realizzare costantemente nella prassi la virtù del giusto mezzo;
  • tale opera è realizzata in misura eccellente dall’uomo virtuoso, capace cioè di deliberare saggiamente in relazione all’universale e al particolare;
  • il fine che tale opera persegue è il bene supremo: la felicità.

Resta da intendere cosa sia concretamente la felicità. La risposta a tale domanda renderà possibile cogliere il punto di apertura che rende disponibile la vita buona alla vulnerabilità.

Proiettando nell’orizzonte di una «vita compiuta» la felicità conseguita dall’uomo attraverso la realizzazione virtuosa dell’opera a lui propria, Aristotele àncora il bene supremo nel terreno delle attività piuttosto che delle disposizioni. La vita di un uomo è compiuta quando finalmente scopre e assume il suo fine perfetto, fine che non pone termine al vivere ma si concretizza nell’attività secondo virtù e non nel possesso di un bene. Il bene supremo è tale che non può essere posseduto, ma solo vissuto attraverso l’agire virtuoso. Dire che la felicità consista nel possesso della virtù vuol dire chiudere il fine perfetto nell’ambito delle disposizioni, e quindi esporlo alla possibilità di non tradursi in un bene. Scrive Aristotele:

Ebbene, con coloro che sostengono che la felicità consiste nella virtù o in una particolare virtù la nostra definizione è concorde: infatti è propria della felicità l’attività secondo virtù. Ma senza dubbio differisce non poco intendere il bene supremo nel possesso o nell’uso, ossia in una disposizione o in un’attività. Infatti è possibile che la disposizione, pur sussistendo, non produca nessun bene […]; invece non è possibile che l’attività non produca nessun bene: infatti agirà necessariamente ed agirà bene. Come alle Olimpiadi non sono i più belli ed i più forti ad essere cinti della corona, ma coloro che prendono parte alle gare (sono infatti alcuni di costoro che vincono), così sono coloro che agiscono che a giusto titolo diventano padroni delle cose belle e buone che vi sono nella vita.40

La felicità non consiste nel semplice possesso della virtù ma nel suo uso. Con altre parole, essa non è una disposizione ma un’attività desiderabile per se stessa. L’ergon dell’uomo, l’opera che più gli è propria, dunque, ha per fine un bene supremo che si rende manifesto in quanto attività desiderabile per se stessa. Il bene supremo perseguito dall’uomo attraverso l’opera a lui più propria rivelandosi come attività si caratterizza contestualmente nella prospettiva del divenire. Esso, in quanto attività, non sarà mai posseduto ma tenderà piuttosto a coincidere con il vivere stesso. Più precisamente, tenderà a coincidere con la vita buona:

All’inizio si è detto infatti che la felicità è una sorta di attività, e l’attività è evidentemente un divenire e non sussiste come qualcosa che si sia acquistato una volta per tutte. Ora, l’esser felice consiste nel vivere e nell’esser attivi, e l’attività dell’uomo dabbene è virtuosa e piacevole per se stessa.41

«L’essere felice consiste nel vivere e nell’essere attivi». Questo ancorare il fine supremo dell’agire al vivere stesso, e alla vita compiuta nell’esercizio delle virtù etiche, permette di allargare la riflessione sul fine dell’agire verso la natura del vivere dell’uomo. Poiché la felicità è un’attività che consiste nel vivere esercitando le virtù, si tratta ora di comprendere quale è la natura del vivere umano.

La felicità, in quanto fine perfetto, è un bene autosufficiente perseguibile per se stesso. Ciò potrebbe far pensare che l’uomo felice possa dunque bastare a se stesso e vivere da solo. Aristotele mette in guardia in modo esplicito da questo errore. Per Aristotele l’uomo felice non è un solitario, ma un essere vivente che stabilisce con i suoi simili legami sociali e vincoli d’amicizia. La felicità, bene supremo tra quelli perseguibili dall’uomo attraverso l’opera a lui più propria, è attività nell’esercizio delle virtù etiche. Ma tali virtù sono sempre in vista di qualcuno. La vita compiuta nell’esercizio delle virtù, e dunque vita felice, è sempre vita con altri ed in presenza di altri, fondata sul bisogno che l’uomo ha della compagnia di altri uomini. Ciò si spiega con la natura composta dell’uomo, essere fatto di corpo (di nuovo…) e anima. Le virtù etiche, spiega Aristotele, sono virtù umane proprio perché ancorate alla condizione corporea in cui l’uomo è inscritto e permettono all’uomo felice di essere sempre consapevole della sua condizione umana, per natura portata alla ricerca del legame con i suoi simili. Per questo l’uomo felice non è mai un solitario, e per questo non è possibile pensare una vita felice realizzata lontano dal luogo privilegiato in cui l’uomo può stringere legami con altri uomini: la polis. Ancor più profondamente Aristotele sottolinea come la felicità e la sua natura attiva sia umana solo in virtù dell’umanità che caratterizza le attività ad essa connesse. Non ci si domanda cosa sia la giustizia solo per conoscerne il senso, ma per vivere da uomini giusti compiendo atti giusti; non ci si domanda cosa sia la bontà solo per comprenderne il senso, ma per vivere da uomini buoni compiendo atti buoni. La riflessione etica è sempre una riflessione attiva non per se stessa quanto piuttosto sempre rivolta all’altro. Infatti, spiega Aristotele,

noi compiamo l’uno verso l’altro atti giusti, atti coraggiosi e gli altri atti che sono conformi alle virtù badando in materia di contratti, di relazioni e di azioni di ogni sorta così come in materia di passioni, a ciò che è conveniente a ciascuno. Ora questi atti sono, in tutta evidenza, umani.42

Questi atti «sono, in tutta evidenza, umani» proprio perché sempre orientati verso l’altro che traspare, già in queste parole, come fine dell’azione etica. Ma «sono, in tutta evidenza, umani» anche perché fondati, originariamente, nell’atto sorgivo dello stringere legami con altri attraverso la relazione e lo scambio.43 La felicità, dunque, fine della vita umana e bene supremo tra i beni dall’uomo perseguibili attraverso la sua opera, consiste in un’attività secondo virtù antropologicamente fondate nella condizione corporea dell’uomo proprio perché la vita umana si esprime originariamente attraverso la costruzione di legami sociali.

D’altra parte gli stessi atti virtuosi per poter essere realizzati hanno bisogno di beni esteriori, di un mondo inteso come condizione fisica dell’esistere. Tale mondo è un mondo condiviso con altri, e all’interno di questo mondo, utilizzando i beni che lo compongono, mi si rende possibile stringere legami e quindi compiere atti virtuosi. La vita felice, pertanto, l’eudaimonia, in quanto attività umana, è possibile solo all’interno di quello che Heidegger definisce come mondo-ambiente,44 e nella misura in cui, nel mondo-ambiente che lo contiene, l’uomo vive relazioni e stabilisce legami sociali. Si può tentare di rappresentare questa relazione concettuale attraverso la seguente formulazione di tipo assiomatico: la vita è umana perché espressa attraverso la costruzione di legami sociali in un mondo di beni esteriori (mondo-ambiente), al fine di perseguire la felicità che consiste nel compimento di atti virtuosi (vita felice).

Questa prospettiva della vita buona è ripresa nella ricerca filosofica di Paul Ricœur — lo abbiamo già accennato — il quale definisce l’orizzonte etico della persona secondo un ritmo ternario: prospettiva della “vita buona” — con e per l’altro — all’interno di istituzioni giuste.45 Un breve accenno in proposito può ulteriormente aiutare a cogliere con quale intensità la vulnerabilità si inscriva nella dinamica della vita morale.

Il primo movimento di questo ritmo ternario (prospettiva di una “vita buona”) rinvia alla profondità del desiderio, al sentimento di speranza che precede ogni atto di volontà. La sua formulazione completa sarebbe, in realtà: «Ah! Possa io vivere bene, nell’orizzonte di una vita compiuta e, in questo senso, felice!».46 In questa aspirazione l’elemento etico sta nella stima di sé, nel percepirsi capaci di iscrivere le proprie azioni all’interno degli eventi che caratterizzano il mondo, capaci di intrecciarle con gli eventi dell’esperienza che viviamo e che ci si propone, portatori del diritto ad una vita compiuta. E questo diritto non scaturisce primariamente da una convenzione giuridica, bensì dal profondo desiderio che permea il mio essere persona. D’altra parte, tale stima di sé supera la dimensione dell’astrattezza e dell’autocompiacimento solo se si colloca nella prospettiva dialogica imposta dall’irrompere dell’altro nel mio orizzonte e solo se si completa nel cogliersi pienamente all’interno di istituzioni giuste. Il secondo movimento (con e per l’altro) definisce per Ricœur la sollecitudine, vale a dire il movimento del sé verso l’altro in risposta alla chiamata di questi. Per Ricœur

la sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma […] ne dispiega la dimensione dialogale. Per spiegamento […] intendo certamente una rottura nella vita e nel discorso, ma una rottura che crea le condizioni di una continuità di secondo grado, tale che la stima di sé e la sollecitudine non possono viversi e pensarsi l’una senza l’altra.47

Il terzo movimento (all’interno di istituzioni giuste) introduce il concetto di istituzione, intesa come struttura del vivere insieme di una comunità storica non riducibile al sistema di relazioni interpersonali in essa contenuto ma a tale sistema collegata costitutivamente.

Questa declinazione ricœuriana, ancora pienamente aristotelica, permette di cogliere in misura ulteriore la vita buona nella sua prospettiva dinamica in quanto aspirazione umana di natura etica dipendente dal legame con altri — nello spazio privato, attraverso la sollecitudine — e dal dispiegarsi secondo giustizia degli accadimenti propri dello spazio pubblico. La persistenza dei legami sociali e della possibilità della sollecitudine in relazione ad essi, dei beni esteriori attraverso i quali è possibile la vita materiale (mondo-ambiente) e della giustizia nello spazio pubblico, tale persistenza è condizione perché l’individuale aspirazione alla vita buona possa impregnare le biografie di ciascuno e mostrarsi nella narrazione di una vita (… di una storia) pienamente umana.

Da queste considerazioni la vita morale (intesa come aspirazione alla vita buona) appare definita lungo alcune linee di concretizzazione:

  • l’agire correlato a tutte le forme di amicizia, amore, sollecitudine per l’altro da sé;
  • l’agire correlato al vivere in quanto cittadino, cioè al vivere secondo giustizia in uno spazio politico e istituzionale costruito dagli uomini nella loro tensione alla vita compiuta;
  • l’esercizio nel proprio tempo biografico del sistema di virtù etiche.48

Tali linee di concretizzazione, a causa della loro natura, esigono per il loro esito positivo l’esistenza di condizioni esterne alla volontà della persona che agisce e tali per cui non possono essere garantite né assicurate dall’agire intenzionale della persona. Si rende visibile proprio all’interno della natura della vita buona quella fragilità del bene evidenziata da Martha Nussbaum nella sua lettura della tragedia classica. Scrive la Nussbaum:

eventi al di là del nostro controllo possono influenzare in senso positivo o negativo non soltanto la nostra felicità, il nostro successo o la nostra soddisfazione, ma anche componenti etiche essenziali della nostra vita: il riuscire o meno ad agire in modo giusto nella vita pubblica, l’essere o meno in grado di amare e di prenderci cura di un’altra persona, l’avere o meno la possibilità di agire con coraggio.49

D’altra parte, la natura stessa degli elementi che fanno di una vita una vita buona, cioè la rendono vita morale, sono tali per cui possono esistere solo se esposti al rischio. Il rischio è parte costitutiva di quei valori che la rendono possibile. La vita morale non è vita interiore, ma per sua costituzione vita esposta al mondo esterno attraverso l’attività, aperta all’altro, e dunque ogni virtù che la costituisce è tale proprio perché esposta al suo fallimento o alla sua negazione. La vita buona è fatta di valori instabili, esposti ad eventi indipendenti dal nostro volere: amare vuol dire esporsi all’instabilità dell’amore; legarsi all’altro, esporsi alla possibilità della sua perdita; agire giustamente, esporsi alla sopraffazione della forza prepotente. L’intera vita morale, nei termini che si è tentato di accennare attraverso il pensiero aristotelico, appare esposta radicalmente alla possibilità della perdita, all’instabilità. Al peso della fortuna, in fine, perché conseguenza negativa della condizione etica, come evidenzia la Nussbaum,50 è la vulnerabilità alla sorte.

In questo senso la Dichiarazione di Barcellona coglie un elemento di verità quando ricorda come l’idea di vulnerabilità costituisca al tempo stesso possibilità e necessità di ogni vita morale. Possibilità perché l’instabilità che la caratterizza è ciò che permette il posizionamento soggettivo all’interno di uno spazio di questioni morali, la narrazione del chi sono io? attraverso la narrazione del proprio esserci all’interno di uno spazio di questioni che hanno a che fare con ciò che è giusto e ciò che è buono con riferimento alla rete di beni relazionali nella quale perseguiamo il nostro più autentico poter-essere.51 La vulnerabilità è possibilità della vita morale perché permette alla persona di divenire essa stessa prospettiva, per sé e per altri, attraverso la posizione che essa assume in questo spazio di questionamenti instabili.

Necessità perché il desiderio di vita morale cerca l’instabilità che è data dalla contestuale presenza di polarità estreme nell’orientamento dell’agire. Solo se messo nella possibilità di scegliere all’interno di una topografia morale, riprendendo la prospettiva di Taylor, e dunque di rischiare la scelta ingiusta e l’equilibrio tra opposte richieste, posso far vivere la mia vita morale; e per questo ho bisogno che la vulnerabilità in me sia viva. La nostra vita morale non cerca stabilità, ma che le nostre anime restino «simili alle piante e fragili, luoghi di riflessi e di acque correnti».52

5. Vulnerabilità e aspettative di protezione sociale: quali equilibri nella produzione di policies?

È diffusa la convinzione che l’idea di vulnerabilità definisca «la cronicizzazione, la quotidianizzazione, la familiarizzazione dell’incertezza».53 O, ancora, essa è raffigurata come una sorta di terra di mezzo che si apre fra il tempo dell’invulnerabilità e quello della sconfitta, della povertà conclamata o del disagio cronicizzato. Non è forse il desiderio — o l’illusione — di invulnerabilità a farsi strada in controluce nel dichiarato impegno di contrastare la vulnerabilità? E non si corre il rischio di coprire implicitamente il concetto di benessere con il nascosto desiderio di invulnerabilità? Per ritrovarsi, in fine, a ripetere con Castel «chi ci proteggerà — a parte Dio o la morte — se per essere del tutto tranquilli bisogna poter dominare completamente tutti gli eventi imprevedibili della vita?».54 Chi ci proteggerà se il nostro desiderio di invulnerabilità si rivela, d’improvviso, un vano rifugio?

In realtà la vulnerabilità non è una terra di mezzo ma la terra nella quale l’esistenza umana si manifesta e la progettualità della vita di ciascuno si esprime. Come si è tentato di mostrare, la condizione di vulnerabilità è inscritta nella condizione umana e in essa si manifesta pienamente nelle tre dimensioni che la concretizzano: vita sociale, corporeità e vita morale. La Dichiarazione di Barcellona con molta precisione ha colto questa natura della vulnerabilità.

Lo schiacciamento dello spazio semantico del concetto di vulnerabilità sul dato dell’insicurezza porta con sé la perdita dello spettro di lettura che esso in realtà rende disponibile. In questo senso l’accentuazione valutativa della condizione di vulnerabilità, colta come situazione privativa da contrastare, rischia di rendere periferica l’attenzione verso la reale gamma di funzionamenti disponibile agli individui e l’effettivo portafoglio di capacità che essi hanno per la trasformazione di tali funzionamenti nel loro migliore progetto di vita.

Quando si descrive la vulnerabilità sovrapponendole i significati di parole come incertezza, inquietudine, disorientamento, mancanza di fiducia, solitudine, ciò che accade è la perdita di visibilità del concetto di vulnerabilità e la messa fuori asse della condizione di incertezza e disorientamento rispetto alle sue cause e alle risposte che essa richiede. Questa messa fuori asse tende ad assolutizzare la percezione dell’incertezza, in un vortice di ossessione sicuritaria che si traduce in una domanda diffusa di sicurezza totale che gli stessi sistemi di protezione con difficoltà riescono ad accompagnare: aumenta l’aspettativa sociale di sicurezza e parallelamente cresce la forbice tra ciò che si attende e ciò che i sistemi di protezione sono in grado di dare. Ma è possibile pensare la sicurezza totale? È possibile effettivamente neutralizzare l’esposizione tra insicurezza sociale e insicurezza civile? Proprio la perdita della visuale offerta dall’accoglimento positivo dell’idea di vulnerabilità chiude la convivenza nella morsa stretta dalla dinamica dell’insicurezza, avvitandola in una spirale instabile che al crescere della risposta di protezione fa crescere la domanda di sicurezza. Di più, nell’impossibilità di risolversi in sicurezza totale l’aspettativa di protezione sociale rischia costantemente di tradursi in certificazione — attraverso la concessione del sussidio — della deprivazione vissuta nella condizione di uomo individualizzato. Come lucidamente analizza Castel,

essere protetto significherebbe allora essere appena dotato del minimo di risorse necessarie per sopravvivere in una società che limiterebbe le sue ambizioni ad assicurare un servizio minimo contro le forme estreme della deprivazione. Una tale dicotomia nel regime delle protezioni sarebbe rovinosa per la coesione sociale.55

La vulnerabilità è la nostra condizione prevalente di vita. L’esistere in quanto esseri umani significa esistere in modo vulnerabile nella relazione con gli altri uomini, nella relazione con il proprio corpo, nella relazione con il nostro desiderio di vita buona. In questo senso la vulnerabilità va assunta positivamente come prospettiva dell’azione pubblica, ed è dunque abitando la condizione di vulnerabilità, dal suo interno, che vanno riscoperte le ragioni del patto sociale, le prospettive lungo le quali spingere le policies di sviluppo del benessere e di tutela della piena dignità della persona.

In realtà non è il processo di vulnerabilizzazione che deve essere bloccato — perché vorrebbe dire bloccare la stessa natalità: nel nascere divengo vulnerabile — ma il processo di pauperizzazione degli individui con riferimento alle risorse che sono loro necessarie per gestire gli esiti collegati alla condizione di esseri vulnerabili. Non è la vulnerabilità a produrre incertezza e disorientamento, ma la riduzione costante delle risorse necessarie a vivere tale condizione e la contrazione delle capacità individuali e collettive necessarie a trasformare tali risorse in progettualità. Quando l’idea di vulnerabilità sociale è utilizzata per indicare lo stato di incertezza in cui vivono gli individui sospesi tra l’evidenziarsi del rischio di perdere una condizione di benessere — tendenzialmente percepita in termini di facilità di accesso ai livelli di consumo medio — e la certificazione di uno stato di povertà — tra l’altro ad essi ascritto spesso proprio attraverso l’intervento del sistema di protezione -, quando l’idea di vulnerabilità sociale è utilizzata in questa direzione di fatto si sta descrivendo quello che più immediatamente è possibile definire come processo di impoverimento. L’incertezza ascritta alla vulnerabilità è in realtà conseguenza dell’attivarsi nelle biografie individuali e familiari di un processo di impoverimento descrivibile attraverso la perdita di tutti o di parte di quei funzionamenti fondamentali alla vita umana, perdita che carica alcuni eventi di un peso dirompente e devastante per la stessa pensabilità del futuro. Certamente il processo di impoverimento assume forme e velocità diverse a seconda delle strutture sociali nelle quali si manifesta. Nella società fordista il processo di impoverimento è stato più immediatamente caratterizzato in termini occupazionali e di reddito. L’inclusione, e dunque l’accesso ai livelli di consumo medio e il riconoscimento in una società di proprietari, era pensata come funzione immediata dell’aver parte alla divisione funzionale del lavoro e le lotte per il riconoscimento più immediatamente quindi si potevano esprimere in termini di diritti sul lavoro e rivendicazioni di adeguamento salariale, nella convinzione che il lavoro fosse di per sé e in misura sufficiente un fattore includente. Nella società post-fordista non è più così, o quanto meno non è più tutto così immediato. Il processo di impoverimento non si esprime più attraverso un secco dentro-fuori in relazione al reddito e al lavoro, ma attraverso un più lento scivolamento che si sviluppa già dentro le condizioni di acquisito accesso al mercato del lavoro (si pensi alla questione dei lavoratori poveri). E tuttavia non è qui in gioco la vulnerabilità — che resta la condizione ontologica del vivere umano, la scena nella quale si mostra l’agire degli uomini — quanto piuttosto le forme diverse che il processo di impoverimento assume al mutare dei rapporti sociali di produzione e delle dinamiche di riconoscimento. Forse possiamo dire che proprio l’idea dell’inclusione nel e attraverso il lavoro è stata la causa dell’offuscamento di una condizione di vulnerabilità che ci appartiene originariamente. E ora che questa idea è collassata portando con sé il velo che nascondeva la persistenza della vulnerabilità nelle nostre vite, ora l’idea di vulnerabilità appare come elemento destabilizzante — da contrastare forse nella nuova illusione di recuperare quel velo ormai strappato che ci permetteva di pensarci in un desiderio appena sussurrato di invulnerabilità. Come già detto, questa tendenza a coprire il processo di impoverimento con il concetto di vulnerabilità rischia da un lato di causare la perdita di visibilità dei fattori produttivi interni all’idea di vulnerabilità e dall’altro di offuscare lo sguardo sulle forme che il processo di impoverimento oggi assume. Per questo ci sembra necessaria la riconsiderazione nella produzione delle policies delle specifiche dimensioni di significato che spiegano i due concetti.

È questo focus che permette di tenere agganciata l’idea di vulnerabilità alle idee di equità e giustizia, perché, attraverso il recepimento del dato consustanziale all’esistenza che rappresentiamo con l’idea di vulnerabilità, centra l’attenzione delle policies sulla questione, posta in evidenza dal capability approach, circa il grado di equilibrio tra functioning e capability nella effettiva possibilità delle persone di progettare e vivere il loro miglior tipo di vita in relazione al sistema di valori che esse assumono come riferimento.

Diversi sono gli approdi disponibili a seconda se l’idea di vulnerabilità viene analizzata rispetto agli individui o rispetto alle persone. Nel primo caso l’individuo — proprio in quanto in-dividuum — è considerato nella sua singolarità, ed in tal senso la sua domanda di protezione è infinita. Nel secondo caso la vulnerabilità apre alla possibilità di forme di protezione incardinate sulla relazione di prossimità. Qui si pone la questione della gestione inter-soggettiva della condizione di vulnerabilità. L’uomo individualizzato è schiacciato dal peso della vulnerabilità. Per contro, si deve tener conto del fatto che l’uomo è relazionalità e anche la vulnerabilità, che pure pesa individualmente, può essere sostenuta solo relazionalmente.

L’innesto della relazionalità nella prospettiva aperta dal capability approach permette di collocare la risposta alle sollecitazioni della vulnerabilità fuori dall’alternativa tra protezione totale di tipo pubblico e individualizzazione della protezione limitandosi a disegnare il quadro normativo al cui interno l’individuo può proteggersi da solo, se possiede le risorse per farlo. In qualche misura la stessa visione del welfare to work, con la logica dell’attivazione che lo anima, resta dentro questa strettoia, perché tende ad utilizzare risorse pubbliche in quantità minima per muovere individualmente i soggetti secondo uno schema di scambio sociale predefinito che, di fatto, certifica la pauperizzazione avvenuta. Il welfare to work si sviluppa all’interno di un tema interpretativo della povertà che resta regolato dall’immagine del povero abile, riconoscendo il diritto all’aiuto pubblico solo in presenza di evidenze comportamentali che esprimano responsabilizzazione attraverso l’accettazione di un lavoro, quale che sia, come percorso di ri-accettazione all’interno della vita sociale. In questa prospettiva non viene affermato un diritto, ma prodotto un esito assistenziale con finalità inclusive attraverso la convergenza dell’accertamento di un bisogno e della valutazione circa la disponibilità alla responsabilizzazione — valutazione che assume inevitabilmente valenza morale. Ciò che resta esclusa è la libertà e la responsabilità della persona di agire per la realizzazione del proprio progetto di vita, in un quadro di giustizia ed equità. Questa prospettiva può essere recuperata se si posiziona la riflessione sugli esiti della vulnerabilità e sui collegati bisogni di protezione sociale riferendola allo sviluppo di processi di capacitazione tali da spostare i pesi dell’attenzione dall’oggetto del bisogno (la casa o la cura, ad esempio) alle reali capacità di agire tale oggetto.56 Nella programmazione del sistema di servizi tale conversione dell’intenzionalità operativa sposta la priorità sullo sviluppo delle capacità di agency attraverso la reale disponibilità per le persone di un paniere non negoziabile di funzionamenti in quanto persona umana.57 La pauperizzazione delle risorse necessarie a gestire gli esiti collegati alla condizione di esseri vulnerabili, a cui prima si è fatto cenno, tocca come è evidente tutti gli ambiti del vivere quotidiano: lavoro, casa, salute, istruzione, accesso al consumo e alla proprietà, dimensione affettiva, relazioni sociali. Una attenzione centrata sull’oggetto del bisogno tende a strutturare servizi orientati all’acquisizione di una disponibilità minima di tale oggetto: assistenza alloggiativa per l’oggetto casa; borse lavoro e assistenza economica per l’oggetto lavoro; servizi di residenzialità per l’oggetto accudimento; centri diurni per l’oggetto socialità. Se invece l’attenzione si sposta verso il sistema di capacità necessarie all’uso consapevole dell’oggetto del bisogno, allora gli stessi servizi possono essere orientati allo sviluppo di capacità di abitare, di imparare, di lavorare, di costruire legami sociali, di aver cura di/prendersi cura di…, favorendo la reale acquisizione di capabilities. Si osservi lo schema proposto di seguito e ripreso dal lavoro di Ota De Leonardis:

| | | | |————————————————————————————|——-|————————————————————| | Casa | → | Abitare | | Scuola | → | Imparare | | Lavoro | → | Lavorare | | Socialità | → | Costruire-legami-sociali | | Accudimento di… | → | Aver cura / Prendersi cura di… | | ↓ | | ↓ | | Acquisizione di un minimo sociale per la sopravvivenza | | Capacità di agency e funzionamenti |

Questa conversione dall’oggetto all’azione, nella logica proposta dalla Dichiarazione di Barcellona, permette di superare la visione valutativa della condizione di vulnerabilità, intesa come situazione penalizzante da contrastare o ridurre, e favorisce l’acquisizione dell’idea di vulnerabilità come ambito umano di concretizzazione dell’agire. In questo senso essa ri-orienta le policies fuori dalla trappola determinata dalla polarizzazione escludente tra sicurezza totale e auto-protezione, e le muove nella direzione del miglioramento del grado di libertà positiva58 disponibile per le persone. Si tratta di un cambio di visuale che porta con sé effetti importanti a più livelli: il passaggio dal ragionare per strutture al ragionare per processi; la necessità di pensare a forme di riconversione della spesa pubblica; la necessità di ripensare le forme organizzative dei servizi; una maggiore attenzione ai risultati; una maggiore evidenza della responsabilità della decisione politica.

Queste sfide possono avere nell’idea di vulnerabilità lo spazio di orientamento per il loro potenziale trasformativo.

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  1. Traduzione a cura dell’autore. Testo originale: «Vulnerability expresses two basic ideas. (a) It expresses the finitude and fragility of life which, in those capable of autonomy, grounds the possibility and necessity for all morality. (b) Vulnerability is the object of a moral principle requiring care for the vulnerable. The vulnerable are those whose autonomy or dignity or integrity are capable of being threatened. As such all beings who have dignity are protected by this principle. But the principle also specifically requires not merely non interference with the autonomy, dignity or integrity of beings, but also that they receive assistance to enable them to realise their potential. From this premiss it follows that there are positive rights to integrity and autonomy which grounds the ideas of solidarity, non-discrimination and community.» The Barcelona Declaration policy proposals to the European Commission, November 1998, by Partners in the BIOMED-II Project, Basic Ethical Principles in Bioethics and Biolaw, par. C 4; AA.VV., Final Project Report on Basis Ethical Principles in European Bioethics and Biolaw, Institut Borja de Bioetica (Barcelona) & Centre for Ethics and Law (Copenhagen), 2000. ↩︎

  2. «Nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno. Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra». H. Arendt, La vita della mente, Bologna, il Mulino, 1987, p. 99. ↩︎

  3. Cfr. D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, Milano, Rusconi, 1980. ↩︎

  4. Cfr. L’homme est-il un animal sympathique? Le contr’Hobbes, Revue du MAUSS, n. 31, premier semestre 2008, Paris. ↩︎

  5. Th. Hobbes, Leviatano, parte prima-cap. 10, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 64 e 71. ↩︎

  6. Ivi, p. 73. ↩︎

  7. «Trovandosi in disaccordo nelle opinioni circa il miglior uso ed applicazione delle loro forze, non si aiutano ma si ostacolano l’un l’altro, annullando le loro forze con l’opposizione reciproca». Ivi, parte seconda-cap. 17, p. 103. ↩︎

  8. Ivi, p. 102. ↩︎

  9. Su questo tema, complesso, si veda A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Milano, il Saggiatore, 2002; si veda anche, su questa stessa collana, P. Raciti, Riconoscimento, in Quattordici voci per un glossario del welfare, a cura di A. Scialdone, I libri del Fondo Sociale Europeo, Roma, ISFOL, 2008. ↩︎

  10. Cfr. J. Locke, Il secondo trattato sul governo, Milano, Rizzoli, 2001. ↩︎

  11. Ivi, par. 124. ↩︎

  12. R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Torino, Einaudi, 2004, p. 18. ↩︎

  13. M. Mauss, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1991, p. 286. ↩︎

  14. A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 12. ↩︎

  15. J. T. Godbout, Dallo scambio al dono, in «Animazione Sociale», n. 8-9/1999, p. 38; dello stesso autore si veda anche Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 e Il linguaggio del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. ↩︎

  16. Ivi, p. 36. ↩︎

  17. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi, 1998, p. XV. ↩︎

  18. Mito tratto da Fabularum liber del mitografo romano Igino, proposto da M. Heidegger in Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1976, p. 247. ↩︎

  19. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., pp. 148-167. ↩︎

  20. Ivi, p. 157. ↩︎

  21. C. Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 27. ↩︎

  22. «Opposta a quella è quella possibilità di aver cura che, anziché porsi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la «Cura», ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si prendano cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura.», M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 158. ↩︎

  23. E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Milano, Jaca Book, 1998, p. 138. ↩︎

  24. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, 1998, pag 204. ↩︎

  25. Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1996 e La persona, Brescia, Morcelliana, 1998. ↩︎

  26. Il termine vulnerabile deriva, appunto, dal latino vulnerare che vuol dire «ferire», «lacerare». E dunque essere vulnerabile (la condizione di vulnerabilità) significa letteralmente «suscettibile di essere ferito». ↩︎

  27. I. Lizzola, Aver cura della vita. L’educazione nella prova: la sofferenza, il congedo, il nuovo inizio, Troina (En), Città Aperta Edizioni, 2002, p. 73. ↩︎

  28. Per la citazione integrale si veda a p. 5. ↩︎

  29. I tradizionali quattro principi della bioetica nord-americana sono: autonomia, non maleficienza, beneficialità e giustizia. Questo schema teorico dà centralità al principio di autonomia della persona, tenendo in posizione periferica la considerazione della concreta condizione di vulnerabilità che segna la corporeità dell’esperienza umana. ↩︎

  30. A. Sen, La disuguaglianza. Un riesame critico, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 122 e 123. ↩︎

  31. Cfr. C. Ranci, Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, il Mulino, 2002. ↩︎

  32. V. Iori, Cura, in Quattordici voci per un glossario del welfare, a cura di A. Scialdone, I libri del Fondo Sociale Europeo, Roma, ISFOL, 2008, p. 41; si veda anche V. Iori e M. Rampazi, Nuove fragilità e lavoro di cura, Milano, Unicopli, 2008. ↩︎

  33. I. Lizzola, Aver cura della vita. L’educazione nella prova: la sofferenza, il congedo, il nuovo inizio, op. cit., p. 68. ↩︎

  34. Questo concetto è proposto da E. F. Kittay in A feminist public ethic of care meets the new communitarian family policy, in «Ethics», volume 111, n. 3, Aprile 2001, pp. 523-547. ↩︎

  35. Circa questa dimensione della cura si segnala l’attenzione di Martha Nussbaum nel suo sforzo di individuazione della lista di capacità che descrive la condizione umana: «Una riflessione corretta sulla cura impone di pensare a un ampio intervallo di capacità sia dal lato di chi la riceve sia dal lato di chi la fornisce» (Le nuove frontiere della giustizia, Bologna, il Mulino, 2007, p. 186). ↩︎

  36. G. Costa, Quando qualcuno dipende da te. Per una sociologia della cura, Roma, Carocci, 2007, p. 27. ↩︎

  37. Aristotele, Etica Nicomachea, I 1097 a 34 - 1097 b 6. ↩︎

  38. Ivi, I 1097 b 20-21. ↩︎

  39. Ivi, I 1098 a 12-18. ↩︎

  40. Ivi, I 1098 b 30 e ss. ↩︎

  41. Ivi, IX 1169 b 28-32. ↩︎

  42. Ivi, X 1178 a 10-14. ↩︎

  43. Marcel Mauss direbbe piuttosto, come abbiamo visto, di originarietà del dono piuttosto che dello scambio nel fondare la socialità dell’uomo. ↩︎

  44. «Mondo può avere anche un altro significato ontico. In questo caso non denota l’ente che l’Esserci essenzialmente non è e che si incontra nel mondo, ma ciò in cui un Esserci effettivo ‘vive’ come tale. ‘Mondo’ ha qui un significato preontologicamente esistentivo. Dal che nascono diverse possibilità: ad esempio, il mondo come mondo comune ‘pubblico’ o il ‘proprio’ e più vicino (privato) mondo-ambiente. […] Il mondo più prossimo all’Esserci quotidiano è il mondo-ambiente». M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit., pp. 90-91. Non ci sembra azzardato questo accostamento del pensiero di Heidegger ad Aristotele, anche alla luce della riflessione proposta da Paul Ricœur in Sé come un altro, ed in particolare nel X studio di quest’opera là dove Ricœur analizza «la riappropriazione di Aristotele attraverso Heidegger» sottolineando il rapporto tra Cura (Sorge) e praxis, tra orientamento teleologico della praxis e aver-da-essere dell’Esserci (Dasein), tra phrónesis e coscienza morale-esistenziale (Gewissen) (op. cit., p. 425). ↩︎

  45. P. Ricœur, Sé come un altro, op. cit., p. 266. ↩︎

  46. P. Ricœur, La persona, op. cit., p. 40. ↩︎

  47. P. Ricœur, Sé come un altro, op. cit., p. 275. ↩︎

  48. Aristotele individua come virtù etiche le seguenti: giustizia, coraggio, generosità, liberalità, mansuetudine, temperanza. ↩︎

  49. M. C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna, il Mulino, 2004, p. 2. ↩︎

  50. Ivi, p. 551. ↩︎

  51. Su questo punto si veda C. Taylor, La topografia morale del sé, Pisa, Edizioni ETS, 2004. ↩︎

  52. M. C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, op. cit, pag 745. Con riferimento alla inevitabile esposizione che è propria della vita morale, ci sembra interessante riportare quanto la Nussbaum sottolinea commentando l’Eucuba di Euripide: «l’essere umano, in quanto essere sociale, vive sospeso tra la bestia e il dio e, diversamente da queste creature autosufficienti, mostra che la sua essenza è aperta e vulnerabile e che i suoi interessi fondamentali sono di natura relazionale. […] Possiamo diventare dei o cani, creature senza fiducia — talvolta per aver trascorso una vita in contemplazione e talvolta per una serie di accidenti, anche senza avere desiderato questa metamorfosi» (Ivi, p. 739). ↩︎

  53. Così N. Negri nel suo intervento al convegno di presentazione del Programma Triennale di Politiche Pubbliche di Contrasto alla Vulnerabilità Sociale e alla Povertà — Fragili Orizzonti, della Provincia di Torino (17 marzo 2006). ↩︎

  54. R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, op. cit., p. 7. ↩︎

  55. R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?,op. cit., p.78. Su questo tema si veda anche R. Castel-C. Haroche, Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi. Entretiens sur la construction de l’individu moderne, Paris, Fayard, 2001. ↩︎

  56. Su questo tema si fa riferimento alla ricerca di Ota De Leonardis, a cui si rinvia. Dell’autrice si veda almeno In un diverso welfare. Sogni e incubi, Milano, Feltrinelli, 2002. ↩︎

  57. Qui va segnalato il dibattito in corso tra gli studiosi che afferiscono al Capability Approach con riferimento alla definizione di una lista di capacità imprescindibile. In particolare si segnala da un lato la posizione espressa dal liberalismo della oggettività posizionale proposto da Sen, che esprime l’idea di uguaglianza nelle opportunità in termini di uguale capacità degli individui di funzionare e dunque di libertà degli individui di disegnare il miglior vettore di funzionamenti che permette loro di vivere la vita scelta consapevolmente in relazione ad un dato contesto, di esprimere «la libertà complessiva di cui un individuo gode nel perseguimento del proprio star bene» (A. Sen, La disuguaglianza. Un riesame critico, op. cit., p. 208); dall’altro, la posizione di Martha Nussbaum, che su sentieri aristotelici individua una lista di capacità (fanno riferimento ai seguenti ambiti: vita, salute fisica, integrità fisica, sensi-immaginazione-pensiero, emozioni, ragion pratica, affiliazione, altre specie e natura, gioco, controllo del proprio ambiente) la cui completa disponibilità per le persone è condizione imprescindibile per poter definire giusta una società (si veda su questo M. C. Nussbaum, Giustizia Sociale e Dignità Umana, Bologna, il Mulino, 2002). ↩︎

  58. Si intende con questo termine la capacità effettiva delle persone di vivere la vita che ciascuno sceglie come la propria miglior vita. Si veda su questo tra gli studi di A. Sen almeno La disuguaglianza. Un riesame critico, op. cit. e Razionalità e libertà, Bologna, il Mulino, 2005. ↩︎