Parousia e rinvio escatologico: per una topologia dell’evento liturgico

1. Introduzione: un significato filosofico della Liturgia

L’accostamento di filosofia e liturgia è di non facilissima intuizione, anzi si mostra senza dubbio problematico, dato che la prima riguarda una drammatizzazione di un evento fondatore che, a quanto sembra si colloca fuori della storia e sembra obliterarla in un kairós che quasi la sfiora non toccandola, per parafrasare il celebre paradosso barthiano, laddove la seconda esplica un discorso ontologico o fondato epistemicamente, o legato ad una evidenza in sé prima, o, in ultima analisi, consegnato ad un’esperienza di verità ermeneuticamente intesa come incontro e dialogo con l’evento dell’essere nel quale si presenta atleticamente il mondo nella radura storico-effettuale del linguaggio e dell’ethos per cui è ravvisabile il topos dell’essere.

Nonostante ciò, è forse possibile individuare un avvicinamento capace di favorire una riflessione teologica da un lato e, dall’altro il cammino di un pensiero che, in una via via più intensa operazione di consapevolezza, si sporga sull’altro confine dell’ Impensato (dove il suffisso sia inteso come privativo e come eccedente) o del pensato altrimenti, per poter abitare la terra degli uomini in un nuovo inizio.

Forse vi sono già nel suo alveo forme teoretiche che dicono di questa tangenza ed è ancora una volta la filosofia ermeneutica a darcene prova. In particolare ci si può riferire a due concetti magistralmente espressi da Hans Georg Gadamer nella sua Wahrheit und Methode,1 ovvero quello di Theoros e quello di Verwandlung ins Gebilde. Già in altra sede si era trattato del theoros2 in quanto partecipazione ad un evento, avente, dunque, juxta propria natura, il carattere della leithourgia in quanto atto comune, depositario di un senso che si e-ventua.3 Tuttavia, risulta essere altrettanto interessante il secondo, quello di Verwandlung ins Gebilde, che viene propriamente tradotto con trasmutazione in forma. Pur essendo una categoria estetica, essa è fondamentale perché dice di una messa in opera della verità tale che avviene nell’arte per cui si evince il carattere eventuale del mondo che si pare nell’opera. Gadamer parla altrettanto efficacemente di una trasfigurazione nella quale l’opra d’arte si faccia gioco. Qui, tuttavia, non ne va sic et simpliciter dell’azione rappresentativa dei giocatori, quanto della caratteristica stessa dell’opera che esibisce intrinsecamente la sua Bildung.

Trasmutazione significa che un qualcosa, tutto in una volta e in quanto totalità è qualcosa d’altro, e che questo qualcosa d’altro, che esso come trasfigurato è, è il suo vero essere, di fronte al quale il suo essere precedente non è nulla […]. Così trasmutazione in forma significa che ciò che era prima non è più. Ma anche che ciò che ora è, ciò che si presenta nel gioco dell’arte è il vero permanente.4

In ogni caso tale qualcosa d’altro «si manifesta come qualcosa di indipendente dall’azione rappresentativa dei giocatori e viene a consistere nel puro apparire di ciò a cui essi giocano» così che

Ciò che in tal modo è indipendente dal rappresentare dei giocatori continua tuttavia a rimandare. Un tale rimando non significa una dipendenza nel senso che il gioco riceva il suo significato definito solo per opera di chi via via lo gioca o vi assiste e neanche per opera di colui che, come autore, ne è anche il creatore in senso proprio, l’artista. Di fronte a tutti costoro il gioco ha invece una vera e propria autonomia, e proprio questo è ciò che sottolinea il concetto di trasmutazione.5

Appare evidente che l’indipendenza dell’opera (ergon) dalla rappresentazione che ne fa colui che crea rimanda ad un’identità dell’evento dell’arte ut sic che si propone come posa in opera della verità, serbando, fenomenologicamente, l’idea secondo la quale un eidos (in questo caso quello della Sache dell’opera d’arte stessa) è intrinsecamente ordinato ad una costituzione di senso. D’altra parte, però, ogni datità costituente senso, si correla all’intenzionalità della coscienza datrice di senso, in modo tale che si articoli una dialettica di Verfassung/Sinngebung.

In questo senso possiamo evincere come colui che partecipa di tale Verwandlung contribuisce a tale messa in opera in quanto ne è interpellato e coinvolto.

L’idea di trasmutazione e trasfigurazione si riferisce in maniera altrettanto efficace e pregnante alla liturgia, almeno per quanto attiene al suo aspetto fenomenologico. Essa in effetti sottende ed ipostatizza un drama. Se, infatti, drama è azione, l’evento liturgico presentifica l’e-venire della grazia che di fatto istituisce un kairós nel cuore stesso del tempo. D’altro canto, l’azione liturgica sottende una sorta di trasfigurazione, se il suo cuore sta nella consacrazione e nell’epliclesi, per cui il verbo intendit quod significat e significare è qui ostendere nel segno eucaristico il Corpo di Cristo.

Per questo motivo, possiamo evidenziare come nella liturgia si danno due istanze di ordine filosofico; la prima concerne l’idea di una messa in opera della verità che si evince dalla forma del memoriale che la liturgia pone in atto. Nella sua dimensione a-letica, infatti, la Verità si fa incontro come evento inedito e già sempre presente nel tempo a determinare una cesura entro cui leggere altrimenti la presenza e l’assenza, data la necessità della diacronia qui evidente. La seconda riguarda, invece, proprio la trasfigurazione tale che, come già asseriva Gadamer, solo nell’istante che conduce alla trasmutazione di una cosa, essa diviene ciò che è. In altri termini, la pura fenomenalità degli elementi ordinati alla celebrazione liturgica è da intendersi inserita nell’ambito di un orizzonte di senso più ampio che è quello teologico della Passione e Resurrezione, capace — nella sua efficacia di hapax — di trasfigurare in una forma altra i segni che lo attualizzano.

Tuttavia, questo ci offre lo spunto per una riflessione ancora più ampia, ovvero come la liturgia non compia il drama della Persona Christi solo nel climax dell’epiclesi, quanto invece come la dramatis Persona Christi informi (nel senso di operare una Bildung) tutto l’evento liturgico fino ad implicare i partecipanti, che, non possono sic et simpliciter limitarsi ad un assistere passivo, ma che sono, al contrario, testimoni di questa trasfigurazione. In tal senso la leitourghia è compimento incessante dell’Ekklesia in quanto Corpus mysticum.

Il significato della liturgia, quindi, non può neppure prescindere da una valenza antropologica del rito come dispiegamento di senso a partire dalla fattualità dell’esistenza, tanto che si potrebbe legittimamente intendere un intrecciarsi di sfera ontica ed ontologica dove si esplica, altresì, sia pur in altro modo, il fenomeno della comprensione e della chiarificazione dell’esistenza.

Come dire che la trasmutazione in forma intercorrente nel fenomeno della liturgia interrompe la continuità dell’esserci nel tempo sincronico e fa dell’uomo stesso un simbolo aperto. Se di gettatezza si vuol parlare, more heideggeriano, dovremmo forse intendere l’essere gettato nella relazione, e in questo evento relazionale non può non essere implicata l’irruzione dell’Alterità per eccellenza, grembo ad un tempo di ogni relazione: Dio in quanto mistero del mondo.6 Pregnanti a questo riguardo, sono le osservazioni di Elmar Salmann.

Dio compare in questo contesto indirettamente come garante della grazia degli inizi e dei possibili esiti […]. Egli non è un fenomeno tra gli altri ma fa si che ogni cosa appaia come epifenomeno e possa dunque comparire nella sua intensità, inesauribilità, correlatività, dignità(. .) Dio compare così come spazio, luce, orizzonte, simbolo, come garante ci sprona a cogliere e a interpretare le cos ein modo nuovo, inaudito, ricco che ci fa veder il mondo come problema, come progetto aperto.7

Come dire che, l’evento liturgico è il correlato intenzionale di un orizzonte di senso eccedente che non si mostra nella sua portata totalizzante ma che si rivela per l’appunto nell’intenzionalità simbolica, mostrandosi, altresì, come il contenuto latente e manifesto ad un tempo degli Erlebnisse a partire da cui si costituisce come senso. Allo stesso modo si può vedere come entrino nel significato filosofico della liturgia tanto una valenza simbolica del verbo e del gesto, quanto una valenza antropologica del rito come condizione di possibilità di una razionalità verbale ed ermeneutica, nonché un’istanza ludica che spezzi, nella sua forma di praxis theleia o, similmente di ergon, la sincronia usurante della produzione e del consumo. Da questo punto di vista, occorre anche leggere l’intuizione del monachesimo che vede la liturgia in quanto perfectum opus Dei sulla scorta delle istanze filosofiche della fenomenologia che si occupano delle correlazioni costitutive di senso per comprendere come, nel fenomeno liturgico, ne vada sempre di un nesso fra esperienza ed assoluto, fra antropologia e teologia, in modo tale che l’azione liturgica si esplichi come un poderoso atto ermeneutico.

Se, dunque, opus della liturgia ed opera d’arte esibiscono una sorta di affinità elettiva, tanto da farci riflettere sul significato filosofico, è opportuno anche soffermarci su di un altro aspetto altrettanto pregnante: il carattere verbale. Infatti, se, come visto, la liturgia assurge ad in-stitutio di un kairós nel quale è implicato sia l’aspetto intenzionale che quello simbolico, non si può escludere assolutamente il linguaggio. Inserita nell’alveo ricchissimo della cultura biblica, la parola che interviene nella liturgia ha un carattere performativo. Il suo plesso ontologico si trova nel fatto che essa è capace di chiamare in vita, e questo permette di trascendere la sfera meramente sincronica e strumentale in vista di una diacronia che trae la propria ragione d’essere dall’idea fondamentale che il linguaggio è l’orizzonte spirituale in cui ci troviamo in quanto coscienza interpellata ed invocata, capace, a nostra volta di interpellazione e di invocazione.

Punto fermo della traditio teologica è il Verbo del Principio, che già Agostino leggeva come la Persona Christi, essendo il Principio il Figlio per cui il mondo è stato fatto. Deus loquens Persona, quindi, presupposto della linguisticità dell’uomo e del mondo. Il nucleo dell’Incarnazione, dunque ha un valore performativo; non solo la Parola in quanto incarnata è la stessa performatività di Dio.

La liturgia si basa su questo carattere, essendo essa stessa in primis il memoriale di questa Parola e la presentificazione sacramentale del Suo rivelarsi come Corpo. Da perfetta iniziativa teo-noma qual è l’apparire del Verbo in forma umana per la salvezza, la Parola passa a sancire un’azione teandrica, già insista nella comprensione cristologica dell’ipostasi divina sottesa all’umanità di Cristo. Se è vero che, Cristo, non solo è apparso in forma umana ma nell’umanità delle parole ha articolato il mistero, l’evento liturgico non è che kerygma umano-divino per cui è nella sua ex-ousia annunciare Dio in parole umane, le quali rivelano, nel contesto celebrativo, la loro propria natura di symbolon, nonché la loro capacità di sym-ballein.

Si può dunque individuare una sorta di semiologia liturgica per cui il significante è dato dalla sua struttura e natura verbale, ed il significato dall’evento che è intenzionato, narrato, invocato. Quindi piano sincronico e diacronico del linguaggio si intrecciano disegnando in tal modo una topologia dell’essere che si fondi sull’ethos (in quanto dimorare) ma anche sulla pro-gettualità dell’esistente verso un Non-ancora capace, però di essere invocato nel linguaggio, che assurge, infatti, a modello della coscienza con-vocata. Il risuonare di istanze filosofiche è fin troppo evidente; principalmente intendiamo ricondurre tale plesso filosofico a due modalità dell’ermeneutica contemporanea, quella di timbro esistenzialista-fenomenologico rappresentata dall’opera di Paul Ricœur e quella più propriamente fenomenologica come si evince dall’opera di Martin Heidegger. Nella prima, infatti, la storicità della coscienza viene recuperata alla luce della narratività e dell’alterità che convoca presso di sé.8 Nella seconda, il pro-getto gettato che è l’esistenza implica l’apertura all’autenticità, proprio a partire dal zum Tode sein entro cui, tuttavia, il filosofo di Messkirch individua la fenomenologia della vita religiosa nel suo carattere tensivo di attesa della par-ousia.9

Narrazione e predicazione rappresentano, a nostro avviso, costituiscono gli strati del codice linguistico su cui la liturgia si basa. L’aspetto narrativo è dato dalla memoria della Heilsgeschichte, per cui l’Historie è sempre anche res gesta esplicata nell’apax del Verbo. L’aspetto predicativo è collegato al primo, essendo l’istanza del memoriale ipostaticamente ordinata al kerygma. In questo intrecciarsi di narratività e performatività si esplica il significato intrinseco della par-ousia sottratta all’onnipotenza del visibile, in ultima analisi all’ontologia della semplice presenza. La liturgia può venire ricondotta, nell’esplicazione del suo evento, alla fenomenologia del tempo religiosamente vissuto, la cui intenzionalità è un continuo rinvio ad altro, ma anche l’ospitalità stessa di questo altrove che disegna un crocevia fra storia e assoluto, non obliterando la prima ma conferendole la cifra di un’apertura da cui già si rivela l’evento kairologico.

Ci sembra utile riportare un passo tratto da Fenomenologia della vita religiosa di Martin Heidegger pregnante nell’evidenziare il rapporto tensivo fra tempo ed eternità nell’ambito della predicazione cristiana, che si esplica nel tempo ma non è del tempo:

Dobbiamo ora mostrare che la religiosità cristiana vive la temporalità […]. Con tutta la sua originarietà, la fatticità protocristiana non diventa in nessun caso né straordinaria né particolare. Per quanto assoluta possa essere la trasformazione dell’attuazione, riguardo alla fatticità mondana, tutto rimane come prima […]. Il senso della temporalità si determina in base al rapporto fondamentale con Dio, sia pure in maniera tale che soltanto chi vive la temporalità in modo conforme all’attuazione comprende l’eternità.10

Come si può vedere la fenomenologia del tempo che il Cristianesimo sancisce non prescinde dalla fatticità dell’esistenza. Il kerygma stesso necessita della storicità del tempo umano. Tuttavia, inserisce nella fatticità una cesura, una sorta di passaggio aperto. Tale cesura imprime un carattere prolettico al tempo e coniuga il futuro nell’alveo dell’apax legomenon dell’eterno. Come dire che la struttura linguistica della liturgia sancisce la sua struttura kerygmatica ed entrambe si rinviano in virtù della natura performativa della parola. Naturalmente è necessario esplicitare meglio questo nesso di parola e temporalità per poter rendere ragione dell’istanza filosofica connessa alla liturgia, che, da tale punto di vista, assurge anche ad ermeneutica della temporalità, essendo la fatticità dell’umano intesa come pro-getto gettato à la Heidegger da comprendersi nell’ambito di un riferimento teologico, dell’annuncio divino che risuona proprio nel mezzo dell’essere per la morte con la poderosa portata della sua paradossale dialettica.

Ecco dunque che il corpo di morte diventa la contestualizzazione eucologica, riassumendo esso il paradigma di un evento già stato, assiologico, di cui però è speranza. Per questo è necessaria la proclamazione e la partecipazione, affinché la Verwandlung ins Gebilde di cui si è parlato divenga il presupposto del memoriale, nonché del compiersi dell’eterno nel tempo, un compimento, però, che implica il rinvio.

Da vedere resta come l’istanza fenomenologia della fatticità che incide nel tempo kairologico della liturgia disegni anche un nuovo topos, una sorta di institutio della e nella Parola in modo tale da assumere una nuova accezione dell’esser-ci.

2. Institutio dello spazio-mondo nella Parola. Per una critica all’ontologia della presenza.

Nell’ambito dell’evento liturgico che rivela la dramatis persona del Verbo, implicando, in tal modo l’evento dell’essere di cui il linguaggio è dimora, si danno due modalità dell’esser-ci nel mondo e della progettualità trans-gressiva, corrispondenti, a loro volta, ad un modo dell’ethos in quanto dimorare. Da questo punto di vista non si può non citare il verso di Hölderlin: pieno di merito ma poeticamente/abita l’uomo su questa terra. Una connessione andrebbe colta fra l’avverbio ed il verbo. L’abitare o il dimorare sancisce un carattere del poiein, che in tal senso trascende la recta ratio factibilium e si riconnette alla trasmutazione in forma. Osserva Heidegger:

Parlandosi di «fare», non si intende affatto qui che siamo noi per iniziativa e opera nostra, a mettere in atto l’esperienza: «fare» significa qui provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca, adeguandoci ad esso. Qualcosa si «fa», avviene, accade. Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere dall’appello del linguaggio, assentendo ad esso. Se è vero che l’uomo ha autentica dimora della sua esistenza nel linguaggio, indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no, allora un’esperienza che facciamo del linguaggio ci tocca nell’intima struttura del nostro esistere.11

La dimora dell’uomo è nel linguaggio ed in esso si dà la formazione del topos in cui l’antropologico e l’ontologico si incrociano. In questo poetico dimorare, all’avviso di Heidegger, il mondo accade: es weltet,12diremmo in tedesco, si tratta di un accadere che implica la sottrazione dal fondamento e che sancisce un rinvio. Come dire che, nel linguaggio, l’evento-mondo è già ut sic un differre.

Il debito impensato heideggeriano — e qui ci spingiamo oltre Marlène Zarader — andrebbe, in tal senso anche verso una cripto-escatologia, per la quale il phainestai del mondo nell’evento del linguaggio rinvia diacronicamente all’essere, ridisegnando la fenomenologia della temporalità come fondamentale esistenziale e modalità di comprensione della progettualità.

L’abitare implica, quindi, un cor-rispondere ad un appello che crea una discontinuità rispetto alla presenza, esso non consegue, dunque, dall’ousia come fondamento ma dalla par-ousia come differenza.

Secondo Jean-Yves Lacoste la portata della par-ousia che si delinea nell’evento liturgico esclude assolutamente qualsiasi esperienza di Dio nel senso della semplice presenza che sfocerebbe in una presenza dell’oggetto fenomenico-coscienziale, dunque in tal senso la critica kantiana andrebbe recuperata in una rilettura feconda, in modo tale che l’evento liturgico, in quanto coniugato in una specifica condizione della carnalità dell’uomo come esser-ci, non sia poi così estraneo alla riflessione filosofica.13 Lo studioso francese scrive:

Il carattere fondamentalmente non esperienziale della liturgia ci consente di criticare ogni teoria in cui l’esperienza governa la conoscenza di Dio e la relazione dell’uomo a Dio, e la relazione dell’uomo a Dio si compie nel campo dell’esperienza della coscienza.14

Naturalmente è l’Erfahren che, qui, viene messo in questione, nel senso che tale campo esperienziale attiene alla conoscenza ontologica in quanto presenza e concetto. Resta però da chiedersi in che senso si parla di carattere non-esperienziale della liturgia. Certamente, l’evento liturgico dice di un evento storico-escatologico e si trova an der Grenze, per dirla in termini kantiani, perché il carattere linguistico che esibisce attiene alla Geschichtlichkeit dell’uomo in quanto invio storico, ma la Parola, come già insegna Heidegger è Er-orterung,15 ovvero indicazione del luogo da cui l’Ereignis si origina. Questo luogo (topos) oltre che essere, rilkianamente, piega nell’Aperto, è, molto più propriamente, piega del Mistero di Dio che si esplica nella storia come prolessi dell’eschaton. La liturgia, quindi è figura ermeneutica della Pro-messa, sempre all’intersezione fra kairós e storia, e del kairós non si dà esperienza come della semplice presenza del fenomeno; esso attiene all’intenzionalità in quanto possibile Sinngebung ma la donazione di senso legittima, perciò stesso il rinvio. La topologia che qui viene a crearsi si gioca, linguisticamente fra invio (Geschichtlichkeit) e rinvio. Tuttavia, qui, vi è molto di più che la differenza ontologica heideggeriana. E forse sarebbe maggiormente opportuno rivolgersi alla teologia, perché è realmente di una differenza teologica che si tratta. Il percorso è ravvisabile già nel tessuto della riflessione heideggeriana.

Nella celeberrima conferenza dal titolo Fenomenologia e teologia,16 Heidegger scrive:

La fede non è qualcosa per cui e in cui l’evento della salvezza si manifesta come un accadimento, quindi, non è, in un certo senso una forma diversa o modificata di conoscenza, ma, in quanto, appropriazione della rivelazione contribuisce essa stessa a costituire l’evento cristiano, cioè la forma di esistenza che fa della cristianità un destino specifico dell’esserci effettivo. La fede è quell’esistere che comprende credendo e, ponendosi nella storia, si manifesta, cioè accade, col crocifisso.17

Il circolo rivelazione-fede evidenzia innanzi tutto che non ci troviamo nell’ambito della conoscenza strictu sensu;in effetti l’appropriazione della rivelazione attiene all’analitica esistenziale per la quale ne va sempre della possibilità più propria dell’uomo, una possibilità che non prescinde dall’ontologia dell’effettività, che l’uomo — in quanto esser-ci nel mondo — è, la quale è connotata, a sua volta, dalla comprensione. Al primo circolo dunque ne corrisponde un secondo che è quello di credere-comprendere. Tuttavia si tratta di un daß e non di un was della comprensione, che sgombra il campo da qualsivoglia equivoco obiettivante. La comprensione attiene ad un evento che si dà all’interno del circolo ermeneutico ma che ha un valore di apax legomenon; l’evento è il kerygma della Croce.

Da tale punto di vista si può comprendere perché La coste sostenga che

Esposti all’assoluto e liberi di esporci alla sua condiscendenza, non abbiamo su di lui alcuna presa esperienziale che non sia soggetta priori ad una critica. È lecito (ma teoricamente arduo) richiamarsi all’esperienza della coscienza. Tale appello non può tuttavia dissipare l’inevidenza della presenza e l’ambiguiià con la quale la coscienza investe il Dio che crede di riconoscere come entrato nella sua sfera d’immanenza.18

L’evento staurologico non entra, né potrebbe nella sfera immanente della coscienza, né d’altra parte è un dato immediato della coscienza, neppure della coscienza credente, la quale, per altro è con-vocata dal Verbo del Crocifisso e in questa convocazione è costituita credente. Il carattere del sola fide sembra fondare l’esser-ci nel mondo del credente, che non può trovare in se stesso evidenza alcuna della Presenza divina. Il Verbum Crucis non è l’evidenza in sé prima nell’ordine della coscienza, quanto l’irruzione in essa della Promessa salvifica: oggi sari con me nel mio Regno.

La liturgia è legata a questo oggi del già e no ancora, istituisce, quindi, un qui novi perché è essa stessa istituita nell’in-fondata gratuità del Verbo. Il suo drama è quello di porsi come brisure de l’être. È perfectum opus non perché trova la sua finalità nell’immanenza di sé, quanto perché il fine escatologico, già dato, apax, irrevocabilmente nel climax della Croce di Cristo la attraversa in una tensione che la conduce ad un congedo dal mondo come fenomenologicamente dato per una partecipazione al mondo e del mondo come epifania del Mistero.

Come dire che l’evento liturgico sia una forma di xeniteia che dice di una patria sempre a venire e confida l’invio storico dell’uomo ad un a-Dio. L’ordine della parola che, nella liturgia, riecheggia il Verbo della Croce, ma ancora prima il Mistero della Sua convocante pres-entia, di cui sono segni la consacrazione e l’epiclesi sovverte, dunque, tipologicamente ogni luogo.

Inoltre, che la liturgia sia memoriale (haggadah), e dunque legata al ricordo ove si cela il compimento, secondo il retaggio ebraico-biblico evidenzia che la topografia che in essa si esplica è un fatto della Parola (Tatwort), nel senso che vi si configura una realtà spazio-temporale di volta in volta istituendo in virtù del risuonare verbale del celebrare, dell’attestare e dell’invocare, specchi di una fenomenologia del tempo attestata sulle tre ek-stasis e articolata nell’ad-tendere, ma, altrettanto specchi di un oggi che si pone nella storia da sempre trascendendola.

Per parafrasare Rosenzweig19 che ravvisa nella festa delle Capanne il riposo ed il compimento, l’attesa della dimora sicura prefigurata appena nella tenda, segno dell’esodo come conditio esistenziale, potremo dire che la liturgia cristiana è la festa della Par-ousia e del rinvio escatologico, la festa di una Presenza che, rinviata nell’Oggi del Padre, si dà come docta spes nella promessa del Figlio, che non è sic et simpliciter un testamento affidato alla Scrittura, ma il Paraclito stesso, per cui la Scrittura è oggi compiuta, quella Scrittura del Regno affidata, ora, così come era dall’eterno al messianismo regale del Crocifisso, letto a partire dalla chiave ermeneutica dell’eccedenza: la Resurrezione.

Stando così le cose, la liturgia, pur essendo juxta propriam naturam, orientata all’eschaton, è altresì radicata nella fatticità della vita cristiana come evento ordinario dell’esser-ci, che, tuttavia, esibisce il tratto extra-ordinario perché interrogata e messa in questione dal kerygma che esso stesso pronuncia. È ancora Heidegger a parlare:

Con tutta la sua originarietà, la fatticità protocristiana non diventa in nessun caso né straordinaria né particolare. Per quanto assoluta possa essere la trasformazione dell’attuazione, riguardo alla fatticità mondana, tutto rimane come prima […]. Il senso della temporalità si determina in base al rapporto fondamentale con Dio, sia pure in maniera tale che soltanto chi vive la temporalità in modo conforme all’attuazione, comprende l’eternità.20

La liturgia è una forma particolare di questa attuazione, o meglio il climax dell’apax legomenon compiuto in Principio, secondo il Vangelo di Giovanni, letto da Agostino come nel Verbo, (in Cristo), che ha attendato l’eternità fra noi. Naturalmente l’attuazione implica qui non più solo il ricordo, quanto, invece, l’ evento del Dio con noi che si compie nello Pneuma ove si radicano il gesto e la parola liturgici. Siamo, tuttavia, qui, ben oltre la verità della semplice presenza espressa nel concetto. Si vive la Verità dell’evento di Dio a partire dall’invio storico ravvisabile anche nella conclusione evangelica: Andate, annunciate, battezzate nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo… Ecco sarò con voi ogni giorno fino alla fine del modo. Ci sembra interessante soffermarci ad analizzare il linguaggio di questa piccola pericope. La prima frase, espressa all’imperativo, cela, tuttavia, un atto perlocutorio; un atto, cioè, che compie quanto dice. Battezzare è comunicare la novità della vita attraverso l’attestazione del Nome di Dio, espresso — secondo una suggestiva interpretazione dell’esegeta canadese Lacoque^[21] — a partire dall’azione stessa di Dio, che già nell’Esodo si rivela come Colui che sarà presente fra il popolo. La seconda frase, espressa al futuro, sembra riecheggiare quella Promessa del Primo Testamento. Non si tratta di un semplice futuro, traslato in un tempo indeterminato, e pur tuttavia, sincronico. Siamo dinanzi ad un futuro che, pur non cessando di essere futuro, dice di una modalità dell’essere divino già esperita nell’ambito della comunità, e per la stessa comunità, riconosciuta, come attestano i racconti giovannei delle apparizioni del Risorto. D’altra parte, però, si dà anche in tal caso un rinvio: la consumazione del tempo è condizione del ritorno che cancella ogni xeniteia, nello stesso Nome per cui ogni creatura riceve il nome nuovo sulla pietra bianca, secondo quanto recita l’Apocalisse. In questo frattempo (in questo topos fra il kairós ed i kairói), la Par-ousia è annunciata e predicata come performatività ed articolazione del sensus fidei, in uno spazio-tempo capax infiniti.

3. Fenomenologia del tempo e prolessi

Non c’è altra espressione più adatta a connotare il tempo liturgico se non quella di Franz Rosenzweig, Zeit geschieht, il tempo accade. D’altra parte, non è un caso che la temperie culturale nella quale emerge e si delinea il suo pensiero grammaticale sia la stessa nella quale si trova a filosofare Martin Heidegger, il quale a sua volta sottolinea che es gibt Zeit, si dà il tempo, traducendo l’espressione impersonale tedesca molto meglio il senso di un darsi di quanto non faccia la pur accettata espressione comunemente usata: c’è. La ragione di questo potrebbe essere ravvisata nel fatto che ricorrere all’espressione c’è implicherebbe un venire alla presenza nel senso dell’essere a portata di mano (Vor-handen) per una utilizzabilità (Zuhandenheit).21

Heidegger, così come Rosenzweig, sia pur con una differente declinazione, ritiene invece che la temporalità sia l’esistenziale fondamentale a partire da cui l’esserci esplica la sua possibilità più vera che è la comprensione, in modo tale che il tempo sia esplicabile come la Stimmung, ovvero come la tonalità emotiva a partire da cui l’esser-ci si scopre progetto. Dunque non sarebbe ammessa alcuna utilizzabilità quasi che il tempo dovesse o potesse essere im-posto come un prodotto della tecnica. Anzi, in realtà la temporalità è in-disponibile, non sottoposta al dominio della manipolazione, per questo il dar-si apre alla possibilità di ravvisare una donazione di senso, sulla cui portata ontologica restano ben pochi dubbi. Il tempo è dunque essere e l’essere si raccoglie in questa donazione:

Mediteremo sul tempo al fine di pensarlo per se stesso in ciò che gli è più proprio. Per questa via dovrà mostrarsi il modo in cui si dà (es gibt) essere, si dà (es gibt) tempo. In questo darsi (Geben) diviene visibile come sia da deteminare quel dare che, per essere ciò che rapporta essere e tempo, li tiene originariamente l’un l’altro insieme e li ap-porta come risultato della donazione.22

Il carattere rivelativo del tempo si esplica in questa donazione, che, per altro, è uno dei tratti fondamentali della fenomenologia e implica un originario dato ordinato alla coscienza intenzionale a partire da cui il senso si costituisce.

Viene dunque meno, in maniera feconda, non soltanto l’idea del fondamentum inconcussum ma anche quella della necessità. La donazione è eccedente, di per sé non necessaria, dice di una temporalità liberata originaria rispetto ad ogni possibile reductio alla presenza. Su questa stessa linea si attesta la liturgia come osserva in modo pregnante Jean-Yves Lacoste:

La liturgia in senso stretto non è necessaria. Ma il modo di questa sua peculiare non-necessità ci restituisce a sua volta un Assoluto non necessario. […]. In altri termini si afferma che Dio non è il fondamento ontoteologico del mondo e che la liturgia non è il segreto chiaro e distinto della vita[…] Qui suggeriamo di pensare questa non-necessità come una più-che-necessità.23

È chiaro che la non-necessità si coniuga con un’idea dell’esistenza eccedente l’esser-ci nel mondo, ma non è difficile anche ipotizzare un’idea del tempo come eccedenza di senso, dato che La coste arguisce ancora:

Se il concetto di necessario è, nella logica dell’esperienza ciò senza cui non possiamo esistere, allora l’Assoluto e la liturgia non sono necessari. Pertanto si definirà il più che-necessario come ciò che detiene le condizioni di un’esistenza che va oltre le misure dell’essere nel mondo.24

Pertanto, l’in-disponibilità, potrebbe essere letta nell’ambito di questa non-necessità, in modo tale che rovescia la prospettiva della semplice presenza in quanto si delinea come il più originario, una sorta di ereignetes Ereignis, per riprendere un’istanza di Bernhard Casper che prospetta, agostinianamente le tre estasi temporali per cui l’oggi ed il presente si esplica fra memoria ed ad-tesa. Tuttavia, se in Agostino, la fenomenologia del tempo non è che una confessio coram Deo, è possibile arguire che la temporalità ha una connessione con la linguisticità. Non solo perché il Verbum creatore esplica nel tempo la Sua potenza creatrice, ma anche perché la coscienza si comprende come memoria ed attesa, affidando alla parola l’enigma di se stessa*: mihi questio factum sum*.

Allo stesso modo Rosenzweig recupera la temporalità nel senso di una relazione per cui l’altro è preso sul serio e nel dialogo nulla è possibile anticipare. Per questo, il tempo è lo stesso accadere della relazione. Il pensatore di Kassel sottolinea così come il tempo sia il bisogno del pensiero e di un pensiero plasmato sul linguaggio e sulla parola come risposta ad un Tu. Il tempo diviene, allora, un dato fenomenologico, in cui si intuisce l’evento della Rivelazione a partire dal proprio divenire creatura, nonché quello della Redenzione, implicato nel comandamento dell’amore, per pensare la creazione come il dono mattutino di Dio all’uomo: la possibilità della parola. Dunque il tempo è il risuonare del Tu nella chiusura dell’io ed il destarsi dell’io all’apertura all’altro e ad ogni alterità.

Se Agostino articola il tempo in tre ek-stasis dispiegate fra attesa e memoria, Rosenzweig distingue la temporalità nell’ambito della grammatica, rispettivamente nell’imperativo del comandamento, nel presente della confessione, nel futuro anticipato dall’invocazione, ed ancora, in un passaggio dall’io-tu dell’intimità, alla terza persona, non dell’oggettivazione, ma della responsabilità, al noi della lode, ricorrente nella liturgia dove si anticipa l’eschaton in cui la parola di Dio e quella dell’uomo saranno davvero una.

Anche in questo caso, la temporalità è il dato incontrovertibile da cui partire per giungere a quel carattere di eccedenza che si esplica nella tonalità affettiva dell’esistenza. D’altra parte Agostino comprende la temporalità sia come evidenza in sé prima dell’esistenza, anticipando in maniera suggestiva un leit-motiv fenomenologico, sia come modalità della comprensione del senso. E, al contempo, la modalità della temporalità è un esistere dinanzi a Dio, in modo tale che il genere della confessione attesti il sapere di sé, ma un saper-si dell’io graziato. Così, heideggerianamente, la temporalità è un esistenziale fondamentale a partire da cui comprendere l’e-vento dell’eccedenza per cui e da cui prende avvio la ricerca.

La temporalità è per altro modellata sull’idea della cura e dell’inquietudine. La prima concerne rispettivamente la memoria e l’attesa, in modo tale che il senso ontologico della creaturalità assume la forma di un ek-. sistere coniugabile con il carattere della sovra-necessità che interrompe la continuità dell’esperienza e che, attenendo alla storicità, non è sussumibile sotto il criterio di ricerca delle scienze obbiettivanti. La seconda è rivelativa dell’esser-ci come convocato ad una decisione ad un tempo kairologica e ripetibile, secondo il carattere della ripresa, in modo tale che si pervenga ad una rappresentazione di se stessi come sempre attestati sulla completa rivelazione del dies septimus.

Resta da vedere quale rapporto intercorra fra liturgia e temporalità, così come ci si è soffermati sull’idea di una possibile topologia insita nell’evento liturgico. Certamente la liturgia è nel tempo ma non del tempo. Temporale è il suo manifestarsi come apertura ed interruzione, ma proprio perché interrompe la sincronia del quotidiano, essa stessa posta in una condizione di xeniteia rispetto alla quotidianità, essa è rivolta fuori del tempo e, come asserisce in modo pregnante La coste, sottende un paradigma di esistenza come veglia e vigilanza. Il carattere escatologico di questo tempo sotteso alla liturgia si avverte sia nella sovra-necessità, sia nella trascendenza rispetto all’essere nel mondo che essa prefigura.

Il più che necessario è smisurato. Rompe quella chiusura dell’esperienza che non racchiude certamente una pienezza d’essere ma costituisce la determinazione sorgiva dell’esistenza. Esso è l’escatologico ovvero la sua promessa intesi nel come eccedenza. La liturgia potrà forse procurarci il pane necessario alla vita, ma primaci offre il vino del Regno.25

Della liturgia come anticipazione-invocazione del Regno ha lungamente parlato Rosenzweig nel terzo libro della sua Stella della Redenzione attestando la grammatica della temporalità sottesa al suo pensiero del linguaggio nell’ambito dell’invocazione. L’invocare concerne ad un tempo il noi della comunità radunata nel Nome rivelato (interessante sarebbe da individuare quanto tale struttura rilevata da Rosenzweig celi un’istanza ecclesiologica condivisa dal Cristianesimo), ma anche il vocativo del Nome stesso, espresso nell’Egli alla terza persona. Tale illeità divina ha rotto con ogni tentativo di oggettivazione, si dona, al contrario, nella confessione che anticipa ad un tempo il suo e-venire e nell’inveramento che anticipa la verità della redenzione perché Dio stesso è la Verità.

Prolessi e parusia disegnano la geometria spirituale del tempo e prefigurano il Regno; tuttavia, proprio perché pre-figurato, il Regno sfugge alla cattura obiettivante della semplice presenza e viene invocato come av-venire assoluto su cui si esercita l’ermeneutica esistenziale dell’uomo, non più sic et simpliciter come pro-getto gettato nella fatticità incontrovertibile, ma come esistenza compresa a partire dall’evento inedito della Redenzione, il cui futuro, pur senza smettere di essere futuro illumina il passato e modula il presente secondo una convocazione alla veglia, estote parati la cui semantica evangelica sembra ancor più profondamente coniugarsi con la fenomenologia della temporalità che Heidegger ravvisa in S. Paolo.

La preghiera dunque disegna la temporalità ancora una volta nel senso della cura e dell’inquietudine.

Come ravvisa Heidegger, infatti, l’essenza della cura è l’anticipazione eterna che l’io prende su di sé, sospendendo il presente dell’esser-ci a ciò che non è a nostra disposizione, che non dominiamo, ed è già qui che si ravvisa una sovversione della semplice presenza. D’altro canto l’inquietudine è quella tonalità esistenziale che disegna sub specie eschaton la sua esistenza presente. Così pregare è, nell’evento liturgico, confessione di un esser-ci che si riceve dalla convocazione presso la Par-ousia ma anche inizio e d esperienza di un originario entro cui il tempo incontra il non-tempo e la sovra-necessità. Inizio come intenzionalità il cui riempimento rinvia al compimento escatologico e dunque temporalità come disvelamento di un senso che si trova al di fuori e en arrière, nel già della Promessa compiuta e per cui si invoca l’e-venire. La santificazione del Nome e la venuta del Regno divengono così il centro del tempo liturgico in grado di sovvertire ogni esperienza dell’essere nel mondo, eppure per la santificazione del Nome di Dio e per il Regno già venuto il tempo si attesta su di un’incoazione che è insieme compimento

Il tempo liturgico si manifesta dapprima come quello di un’incoazione. Forse esistiamo sempre nella modalità dell’inizio, del ritorno all’iniziale e del non-compimento. E per interpretare ciò che siamo in quanto inizio saremo sempre costretti a porre la questione dell’eschaton […].

C’è un paradosso allora nel proporre l’inizio come concetto primario su cui pensare la temporalità liturgica. La liturgia non simbolizza e anticipa dunque la fine? Ciò è vero, ma bisogna prestare maggiore attenzione al suo regime di anticipazione in modo da cogliere che, una volta assolti(bene o male) gli impegni del quotidiano, l’inoperosità notturna della liturgia non sigilla un compimento ma prospetta puramente la distanza che s tiene eparate storia ed escatologia.26

Si dà una corrispondenza fra non-tempo liturgico in quanto notturno vigilare il non-ancora sigillato nell’inizio (per questo diacronico) e non luogo dell’eschaton in quanto anticipazione di una fruizione ancora nascosta, quella stessa di cui parla l’Apocalisse, delle nozze dell’Agnello, segno dell’opera compiuta definitivamente, della perfetta opera che è la dimora di Dio con gli uomini. La veglia misura questo scarto in quanto dato fenomenologico ed esistenziale ad un tempo, modulato ancora una volta sul linguaggio della lode e dell’invocazione. L’intenzionalità escatologica è data nell’evento del pregare, il quale, però, rinvia ad una Erfüllung che eccede ogni anticipazione propria della fattualità esistenziale, e che pertanto è invocata in quanto già da sempre rivelata nella logica della sovra-necessità, una logica che rovescia l’esser-ci nel mondo e che si rivela nel Mistero dell’esser-convocati al di là della nostra morte. La liturgia vuole l’eschaton in modo tale che la sua linguisticità modulata sul Verbum efficax Dei assurga ad una specifica ermeneutica simbolica che manifesti l’als ob della Parousia divina, semantizzando il tempo nella grammatica dell’eschaton stesso dove si dispiega il senso del Suo essere Uno in tutto.

Su questa unità nella Verità che consacra al Mistero di Dio ogni invio nel mondo si concentra la preghiera sacerdotale di Gesù al capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, nella quale per altro, il Salvatore anticipa la Sua condizione di Risorto, a ridosso della Sua Passione, afermando l’essere nei suoi, così come il Padre è in Lui manifestando nel tempo della vita incarnata del Figlio quella gloria del Principio. Tuttavia, l’indicativo dell’asserzione (Io sono in loro e Tu in me) si intreccia all’invocazione affinché si manifesti nell’unità il Nome di Dio (Glorifica il Tuo Figlio, conserva nel Tuo Nome coloro che mi hai dati). Se la liturgia è la celebrazione del Risorto come ipostasi dell’eschaton divino, essa non può che esprimersi nell’invocazione che ne confessa ad un tempo l’eccedenza della grazia e l’indisponibilità, in quanto non si tratta assolutamente di un operare umano o di un uti consegnato alla sincronia dell’esperire, ma di un eventuarsi diacronico che spezzi il succedersi cronologico nel kairós ma che ponga il kairós stesso in uno scarto senza continuità.

Lacoste osserva:

Ma bisogna anche dire che essa non tenta di mettere la cura tra parentesi se non per consentire all’eschaton di inquietare ancor più violentemente il presente — l’inquietudine ci proibisce dunque qualsiasi fruizione in grado di generare sazietà, ricordandoci che la vicinanza dell’Assoluto di fronte al quale siamo liberi di porci rinvia ad una distanza ancor più grande.27

Qui si dà tuttavia una traslazione semantica della Stimmung (tonalità affettiva);la cura che struttura fenomenologicamente la capacità anticipatrice dell’esser-ci verso la possibilità più propria, nonché la sua fattualità esistenziale, si attesta sulla vocazione che rovescia i termini dell’esser progettati. Non già la Geworfenheit verso la neutralità del Sein ma la convocazione al di là della morte presso l’eschaton del Regno è la possibilità più alta, che, in tal senso, legittima l’asserzione heideggeriana per cui la possibilità si trova più in alto della realtà.

Essere con-vocati, in ogni caso, determina ulteriormente una diversa Stimmung. Non più l’angoscia ma l’inquietudine.

Coniugata al paradigma della veglia, l’inquietudine fonda la comprensione ontologica dell’uomo in quanto rivelatività del senso, di cui, tuttavia, non è che l’intenzionalità proiettata verso il riempimento. Essa si esplica come capacità prolettica che permette la divaricazione incontrovertibile fra presenza e Par-ousia. La seconda, infatti, si dona come sottrazione all’onnipotenza del visibile sul cui paradigma è, in ultima analisi fondata, l’ermeneutica del concipere secondo quel paradigma ottico che determina l’epoca delle immagini del mondo.28 Coniugata con la diacronia dell’evento liturgico, la parousia oblitera l’esperienza mondana della fatticità dell’essere così come quella della mondità del mondo, non solo perché attinge alla sovra-necessità generosa di Dio che si dona come mistero del mondo, ma anche perché si affida alla capacità di fruizione anticipatrice che conferisce il significato alla liturgia tout court.

Questo ci legittima a contestualizzare la liturgia in un ambito semantico in cui l’eschaton funga da significante di un significato ravvisabile nella sacramentalità dell’atto, ed il cui plesso di significazione sia scandito dalla Parousia come paradosso fecondo del già e non ancora. D’altro canto, da un punto di vista fenomenologico, la Par-ousia funge da riempimento dell’intenzionalità del senso che può essere solo anticipato. Come dire che la Sache selbst della liturgia è data dalla reale manifestazione della latens deitas nella specie eucaristica assolutamente irriducibile all’entificazione,29 anzi sacramentalmente donata come rinvio all’inapparente. L’e-videnza fenomenologica starebbe dunque più nella fruizione che non nella visione, trattandosi, in ultima analisi della teologica visio di cui la liturgia è speculum et aenigma.

Arguisce Lacoste:

La veglia liturgica è l’attesa dell’aurora d’un ultimo giorno, ma è anche quel campo d’esperienza in cui il chiaro-scuro del mondo si dilegua e in cui l’uomo può, in un intervallo gioire della presenza dell’Assoluto come se fosse una parusia. L’inquietudine non impedisce alla pace definitiva di regnare in anticipo sul nostro presente.30

L’intervallo sarebbe in definitiva il kairós ripetuto e sempre inedito nella storicità umana che apre la soglia del compimento. In realtà, con il kerygma evangelico il tempo è già compiuto. Ma, egualmente, questo compimento traslato nella vita eterna è lasciato nella temporalità all’inquietudine fissa sulla lettura dei segni dei tempi per scorgere l’evento della par-ousia, così che essa non può darsi mai senza il corrispondente rinvio escatologico. Da questo punto di vista la liturgia dice del tempo compiuto della salvezza nella ferialità dei giorni umani. Essa è interruzione, ma può esserlo in tanto in quanto la sua drammaturgia funge da approccio ermeneutico alla comprensione di questo già-non ancora, spartiacque fra il già da sempre compiuto en arché, paradigmaticamente e la sua condizione di incessante inizio. Luogo e non luogo, la liturgia rivela altresì una xeniteia per cui si è già sempre in patria. Essa stessa è custodia di un dono, tanto da esserne dispensatrice solo perché l’eterno ha da sempre abitato il tempo e si è rivelato nella forma grammaticale della Parola che coniuga la semantica dell’essere con l’av-venire o l’e-venire di una Presenza en arrière e en avant. In sintesi si tratta di una pres-entia che, ut sic può coniugarsi con l’Assenza, letta però, non già nel senso della privazione, quanto invece come eccedenza.

Ancora una volta la compagnia di Lacoste ci è preziosa per fissare l’attenzione su questo concetto:

Non luogo, non tempo: il paradosso di questa negazione è il paradosso filosofico della liturgia, e occorre ripercorrere brevemente le implicazioni emerse lungo tutto il corso delle nostre analisi. Esse sono riconducibili in realtà a un’unica questione fondamentale. La liturgia nel mettere fuori gioco la logica del luogo intesa come dialettica del «mondo» e della «terra» e nel mettere fuori gioco la logica della cura, rappresenta forse una forma particolarmente ricca e sistematica della distrazione.31

Cura, mondo e terra, nella loro coniugazione rispettiva di fattualità e topologia rinviano al Gevierte heideggeriano, che tuttavia non costituisce più di una Lichtung, di una radura sottesa all’evento dell’ultimità del divino. L’evento liturgico, de facto prefigura un topos al di là del luogo terrestre, essendo la topologia ivi implicata di ordine teologico e dunque sempre passibile di rinvio ed una veglia che sospende ogni cura, in quanto attesta l’evento del Regno proletticamente significato perché già avvenuto in un kairós fuori del tempo e per questo capace di interpretarlo nel carattere della decisione. Se di divertere si tratta, essendo la prolessi liturgica necessariamente anche analessi del dies septimus che dice di un’escatologia realizzata, tuttavia tale divertissement è già un convertere su quell’origine come ad-tesa rammemorante.

Per questo motivo si può evidenziare come l’evento liturgico sia ad un tempo ermeneutica ed euristica. Se, infatti, la sua ermeneuti attesta un inizio sempre nuovo che svela al tempo il suo altrove, l’istanza euristica sta, invece, in questo ek-sistere come vigilanza presso l’origine che si dona come rinvio nella testimonianza e nella grammatica dell’invocazione ove si preannuncia la stessa convergenza di tempo e senso

4. Dell’Assenza

Se è vero che la liturgia pone alla filosofia dei paradossi portando all’eccesso e al limite il suo linguaggio e decentrandolo dalla securitas della propria capacità di adequatio alla res, è indubbio che la paradossalità più evidente è quella che induce la stessa riflessione filosofica a fare i conti con la categoria dell’Assenza. Effettivamente, mentre la tradizione del pensiero ha conosciuto e di fatto conosce la categorizzazione del Nulla come ciò che eccede l’ente, sin dagli albori della formulazione metafisica,32 ben più difficile risulta fare i conti con l’Assenza. È evidente che affrontare la questione dell’Assenza implica prescindere dal paradigma dello spazio-tempo inteso come sincronia di catalogazione dei fenomeni, in modo da mettere in discussione l’idea della semplice presenza nella pretesa ontologica. Non soltanto Heidegger critica l’ontologia della semplice presenza. ma ancora prima Kant insegna che parlare dell’ essere di una cosa è riferirsi alla mera posizione di essa rispetto alle sue determinazioni. Dunque l’oggetto fenomenico-coscienziale sottende l’inevitabilità di un’istanza noumenica tanto da presupporre un dualismo gnoseologico, come lo chiama Bontadini, che si dona come cifra cercata, la più cercata e pure mai determinata e determinabile.

Stando così le cose si dovrebbe concludere che, in realtà, l’assenza ha da sempre mosso il pensiero e che alla filosofia non è sufficiente il per se notum, l’ignotum attraversa il suo sapere che, di fatto è agonistico ed agonico. Naturalmente l’ignotum non si identica con l’Assenza ma può affacciarsi un evidente intreccio se le categorie teoretiche, dicendo di un’inadeguatezza, piuttosto che di una adequatio, non sono che la grande metafora a figurare la mancanza del pensato che resta sempre al di là della terra sicura del pensiero. La stessa parola par-ousia si smarca dall’ousia intesa come sub-stantia e, in ultima analisi, hypokeimenon, essa, infatti confessa un sottrarsi alla presenza.

Dunque ciò che si comprende è rinvio all’in-comprensibile ed anche il venire alla vista è appena figura dell’inapparente.

Per questo la stessa fenomenologia come strenge Wissenschaft cerca l’eidos in quanto possibilità del darsi del fenomeno di realtà, epochizzando la res. Anch’essa si pone come euristica dell’originario, la cui manifestazione è affidata alla Sinnverfassung, alla costituzione di senso da me e per me, ma implica sempre un invisibile capace solo di pervenire alla vista spirituale. Anche in tal caso il pensiero deve perseguire un itinerario di spogliazione che renda la filosofia al più alto degli esercizi spirituali, quello di imparare la morte come l’ipostasi più autentica della diacronia.

Da ultimo è forse possibile individuare un’estetica dell’Assenza, proprio sulla base di tali istanze fenomenologiche. Se aisthesis rinvia al sentire, è forse possibile evidenziare che l’a privativo di Assenza sancisce di fatto un’interruzione del sentire come esercizio sincronico della sensibilità e come facoltà del visibile di rappresentazione della res. Tuttavia rimanda ad un diverso modo dell’ek-sistenza che dice di una radice invisibile della stessa res, intuibile in quanto phainestai, manifestazione. Suggestiva a questo proposito è la poetica ravvisabile nelle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, in cui l’angelo assurge a custode-messaggero dell’invisibile fascinans et tremendum, ma anche a necessaria salvezza delle cose in questo stesso invisibile, mediante il verbo poetico.33

Sarebbe altrettanto opportuno soffermarsi, qui, su una possibile connessione fra phainestai ed aletheia. Ciò che si manifesta è infatti ciò che si dà come il non-nascosto, in ogni caso anche il manifestarsi del non nascosto non elude lo scarto del nascondimento come piega che custodisce. Interessante, da questo punto di vista l’analisi etimologica di verità condotta da Heidegger, secondo cui la parola deriverebbe dall’indœuropeo wahara il cui senso è custodia. Che cosa dunque custodisce la verità? Forse il suo celarsi, così che essa non può che darsi come sempre celata. Donde la sua inesauribilità.

Altrettanto, nell’evento liturgico, la Parousia non coincidendo con la semplice presenza, si rivela come distanza su cui ravvisare, sia pur nell’ambito della analessi, un rinvio escatologico. In effetti, la fenomenologia della temporalità ivi contenuta sottende subito un’altra modalità di appartenenza al tempo della liturgia, così che essa sembra obliterarlo, nonostante la sua necessaria tangenza. Da un punto di vista fenomenologico essa disegna un piega all’interno del Mistero da cui lo ostende ma sempre come un compimento paradigmaticamente perfetto e pure sempre legato alla necessità pur sovra-necessaria dell’inizio. Il climax eucaristico della liturgia dice di fatto della Presenza di Cristo nella Sua comunità, ma, al contempo, non può ignorare lo scarto dell’assenza che sottrae la visibilità della Carne, pur nella gloria, secondo quanto narra l’episodio lucano dell’Ascensione, dove, per altro, il Salvatore assunto nella Gloria che aveva già prima che il mondo fosse, annuncia attraverso due uomini in bianche vesti (At1, 10) il Suo ritorno. Per questo motivo la celebrazione ha un carattere anticipante e questo per la potenza della Parola uscita e tornata dal misterioso seno del Padre che non cessa di prendere dimora. E sempre tale performatività del Verbum efficax permette una communio idiomatum così che ogni membro della comunità celebrante e tutti insieme può godere rispettivamente dell’attributo di membro del Corpo e Corpo di Cristo stesso portando nella carne il segno della glorificata Carne del Salvatore asceso al Padre, ma portando, nel presente del tempo storico, il segno della Passione compiuta e sempre in compimento. Per questo solo l’agire sacramentale che necessariamente implica l’agire nell’esempio di Cristo è capace di rendere ragione di una Parousia che assume i tratti dell’Assenza.

Ad ogni modo, se è vero che assenza è non presenza, e dunque indisponibilità alla presa concettuale dell’adequatio, per usare il linguaggio della metafisica, crediamo anche che sia possibile leggerla in sensus eminentior coniugandola all’invisibile e quindi come un’eccedenza rispetto al potere del visibile che cattura concettualmente. Essa prescinde assolutamente da qualsivoglia lettura entificante, così come implica la possibilità di una lettura esistenziale oltre qualsiasi precomprensione ontica. Se dunque l’Assenza si coniuga alla topologia del non-luogo espressa nella liturgia in quanto esplica il kairós estraneo al qui ed ora della disponibilità, essa sottende sua necessitate un invisibile, quell’invisibile sovra-essenziale e quell’Unum necessarium, pur nella sua sovra-necessità che può essere intentionaliter significato nella pro-tensione. Forse, allora, varrebbe la pena di leggere l’Assenza nell’ambito della fenomenologia della preghiera, nonché nell’ambito stesso della tras-gressione liturgica, una trasgressione di ordine simbolico e sacramentale, per poter meglio specificare questo plesso di sottrazione-presentificazione.

Da un lato la liturgia, in questa sua eccedente portata di significato, ci induce ancora a chiedere che cosa sia il tempo e l’Assoluto, quale il paradosso filosofico della sua necessità-non necessaria, quale la ragione di un’Assenza che solo essendo Assenza costituisce la significatività escatologia del tempo storico. Dall’altro il soggetto orante, che, in virtù dell’evento liturgico, costituisce nell’intersoggettiva condivisione di un significato eterocentrato, di cui è accertabile la portata noematica,34 il Corpo di Cristo è spinto a chiedesi della sua identità nella preghiera, a domandarsi come l’Assenza (dell’Assoluto) costituisca la progettualità del suo esser-ci.

Ancora una volta ci pare molto pregnante la riflessione di Lacoste:

Presenza a Dio e attesa di Dio aprono — per definizione — il campo della liturgia. Ma l’attesa può essere frustrata, da una parte (l’Assoluto può non venire all’esperienza della coscienza, cosa che, si converrà, è il pane quotidiano della preghiera), e dall’altra essa, non dà alcun diritto su ciò o colui che si attende. O ancora, la più bella architettura non può costringere una presenza. La nostra storicità ci vuole più definiti dall’attesa piuttosto che dalla gioia di una presenza piena e libera da ambiguità: ciò implica che nessuno preghi senza ammettere le condizioni nelle quali prega e che. anche se gli permettono di abbozzare oggi dei gesti di lode densi di un significato escatologico, qualificano innanzi tutto come inesperienza la propria relazione all’Assoluto.35

L’ attesa si connette all’Assenza e la prima connota fenomenologicamente l’esser-ci come piega ontologica sull’Altrove. Come già visto, anche il per se notum del pensiero è attraversato dall’ignotum e la mistica speculativa della nostra tradizione lo insegna molto bene. L’attesa, inoltre assume, e di fatto nella liturgia è così — si pensi al Mysterium fidei proclamato dopo la consacrazione — una connotazione escatologica grazie all’Assenza che dona una diversa modalità di esistenza davanti a Dio, la cui venuta è ogni volta ed apax, paradigmaticamente perfetta, ma al di là dell’esperienza della coscienza.

L’Assenza modula, d’altro canto, la preghiera. Questo evento così fruitivo e gratuito è di fatto l’esperienza di essere afferrati e consegnati, quella stessa esperienza, per cui Paolo dice io e non più io vivo ma Cristo in me (Gal 2, 20). Di fatto, però, nessuna categoria esperienziale può donarne ragione, quasi che la grammatica della preghiera sia oltre la grammatica dell’esperienza. Essa non può sottostare alla reductio ad un atto riflesso della coscienza, in quanto è piega del dono di tale eccedenza di grazia che si dona come ancora Assente.

Se, nella preghiera, e tanto più in quella liturgica che è perfectum Opus Dei, non più io vivo ma Cristo in me, sembra legittimo evidenziare come tutto sia ridonato nell’oggi di Dio, che ridisegna, tuttavia, il topos di un altro esser presente, nella veglia e nell’attesa.

Il pane spezzato nella Comunità di Cristo è azione dello Spirito Santo che sancisce il nodo pur dialettico e problematico fra storia e storia della salvezza. La liturgia viene a costituire un sovvertimento simbolico del mondo e della nostra storicità, per questo motivo la stessa intenzionalità della preghiera sottende uno scarto pur nell’anticipazione insita nella lode, la cui grammatica si lega necessariamente al carattere performativo del linguaggio in quanto articolazione del senso. È proprio la figura prolettica sottesa all’opus liturgico che sottolinea ancora una volta l’Assenza non solo come indisponibilità, secondo l’analisi sopra proposta, ma ancora come sospensione dell’esperienza della coscienza e della stessa realtà fenomenologica del tempo.

Osserva Lacoste:

Essere nel mondo e storicità sono coestensive; non saremmo capaci di essere affetti da una temporalità che non si organizzasse simultaneamente come storicità; e se il temo è pensato come orizzonte dell’essere, occorre forse che il mondo stesso, inteso fenomenologicamente non sia anche sprovvisto di storia: questa abbraccia dunque l’io ed il mondo. C’è un altro concetto di storia a nostra disposizione in base al quale la storicità non si basa soltanto sulla realtà fenomenologica del tempo e dell’essere-nel -mondo oltre che sulla coesistenza degli uomini (il co-eeserci) indissocaibilmente dal loro esserci, ma anche su una partecipazione a dialettiche che si sovrimpongono al fatto originario della nostra temporalità, della nostra mondanità con le loro relative implicazioni. La storia, in base a questo secondo concetto, non è soltanto ciò che ci attraversa sorgivamente in quanto semplicemente partecipi al gioco (non protologico né escatologico) del mondo. La storia è ciò che facciamo o che si produce attraverso la nostra azione producendoci a sua volta e venendoci ad integrare in un campo di giochi relazionali indeducibili dal nostro essere nel mondo.36

Come dire che la nostra storicità come progetto gettato sull’essere non può prescindere della storia a noi indisponibile ma che pure incide la nostra capacità di essere storici. Tutto ciò richiama indubbiamente il concetto di traditio così caro all’ermeneutica, per cui non si tratta più di una sorta di nietzschiana malattia storica propria di un’ipotesi antiquaria, bensì della dialettica che intercorre fra il nostro essere nel mondo e l’evento originario che determina il carattere esistenziale della nostra coscienza fenomenologica.

Se trasferiamo questo nucleo alla liturgia, risulta evidente che l’essere al mondo ivi prospettato si attaglia sull’evento della salvezza connotato dal fatto di essere un apax paradigmatico, il cui carattere di paradigma ed exemplum fonda il carattere sacramentale di quella particolare storicità che la liturgia costituisce. Tuttavia, se la sacramentalità è vox significans, non si può escludere che il signum in essa sotteso sta per altro. Tale alterità è il fatto che Cristo, avendo vinto la morte, non muore più, e che tuttavia la fenomenologia della temporalità nella quale si dispiega il senso esistenziale di questo evento, vive di fatto una ferita, una piaga fra il già ed il non ancora, e questo è lo spazio in cui l’Assenza sospende la sincronia della storicità per aprire alla diacronia della traccia, per usare il termine di Levinas. Dunque l’Assenza sancisce il rinvio escatologico, ma tale rinvio è ciò che connota della sua realtà assiologica il mondo e la storia.

Lacoste arguisce:

La liturgia, nonostante tale rottura non cessa di essere storica, (nel senso fenomenologico del termine). E il suo disinteresse allo spettacolo del mondo, non provoca certo un’estraneità al mondo o al gioco fenomenologico del mondo. […]

Pur restituendoci in qualche modo al mondo e alla storia, la liturgia prova la possibilità di una sospensione: essa simbolizza e realizza insieme, in un intervallo che la costituisce una pace ed una fraternità che, in termini di Weltgeschichte sono lo storico e l’escatologico.37

Storia ed escatologia nella liturgia si incrociano, ed è forse questo crocevia la vera istanza topologica che recupera la fenomenalità del mondo nell’orizzonte epifanico della manifestazione dell’invisibile ma anche l’Assenza come il già stato-a venire per cui la celebrazione è paradigmatica e insieme capace di rammemorare volta per volta l’evento confessato e creduto, l’evento narrato ed invocato, che per altro intesse la struttura della preghiera biblica da cui la liturgia trae la sua ragion d’essere.

Resta, inoltre, l’idea di un circolo ermeneutico nella liturgia tale che il Verbo stesso e la Sua Incarnazione ne sia la clavis, ma, per converso, tale che il carattere performativo della liturgia, facendosi memoriale, continui ad esserne l’esegesi, in virtù dello Spirito che rende nell’oggi l’eterno già compiuto. La tela viva dell’opus liturgico lascia intravedere nella sua traslucida evidenza il Mistero del Nascosto che pure, il carattere sacramentale della celebrazione, rivela e custodisce, in un dialettico compenetrarsi di già e non ancora, di esilio e conseguita patria. In tal modo anche l’Assenza, in quanto eccedenza di Grazia e di invisibile rammemora il dies septimus già compiuto, ma per cui il Padre opera sempre, così come dice Agostino in un adagio memorabile: Dies septimus nos ipsi erimus. Quasi che la liturgia sia null’altro che l’affidata memoria dell’eschaton.


  1. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1986, trad. it. e apparati di G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 2000. ↩︎

  2. Ci permettiamo di rinviare al nostro «Fenomenologia e religione: un intinerario di affinità?», Dialegesthai, anno 6, 2004, https://mondodomani.org/dialegesthai/paola-mancinelli-02↩︎

  3. Su questo rimandiamo in particolare alla riflessione teologica di Bernhard Casper, specie in una delle ultime opere, Das Ereignis des Betens, Alber, Freiburg-Basel-Wien 1998, trad. it. Evento e preghiera, Cedam, Padova 2000, in cui il filosofo e teologo di Freiburg parla di evento eventuato con un valore propriamente ontologico, a partire da un’esperienza del religioso come avvio di un passo intenzionale. ↩︎

  4. Cfr. Gadamer, Wahrheit…., trad. it. cit., pp. 245-247. ↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. Su questo si veda E. Jüngel, Gott als Geheimnis der Welt. Zur Begründung der Theologie des Gekreuzigten im Streit zwischen Theismus und Atheismus, trad. it. di F. Camera, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 2004. ↩︎

  7. E. Salmann, Presenza di Spirito. Il Cristianesimo come gesto e pensiero, Messaggero, Padova 2000, p. 36. ↩︎

  8. Si veda p. es. Soi-même comme un autre, Du Seuil, Paris 1990, trad. it. di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993 o Le conflit des interprétations, Du Seuil, Paris 1969, trad. it di R. Balzarotti e F. Botturi, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1995, opere nelle quali l’identità della persona è recuperata nella relazione e nella capacità di racconto, che risulta sempre essere legata alla storicità ed alla dialogicità intesa come forma di con-vocazione per cui la coscienza è sempre alla confluenza di ipse ed idem. Così si dà, ad un tempo, l’idea di una trascendenza del sé e quella di una permanenza della persona nei suoi atti riflessi ed intenzionali. Sull’idea della con-vocazione come istanza topologica si sviluppa la riflessione sul senso della liturgia. ↩︎

  9. Di Heidegger ricordiamo Phänomenologie des religiösen Lebens, 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion, a cura di M. Hung, Th. Regehly Augustinus und der Neoplatonismus, a cura di C. Strube, trad. it di G. Gurisatti e cura di F. Volpi, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2004, che, per altro, raccoglie le lezioni tenute su S. Paolo nel semestre invernale del 1920-21 ove il celebre allievo di Husserl evince nella fenomenologia della vita cristiana un paradigma di temporalità autentica, basandosi su 2Ts. ↩︎

  10. M. Heidegger, Phänomenologie…, trad. it. cit., p. 159. ↩︎

  11. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1998, p. 127. ↩︎

  12. Questa espressione che è tradotta con un neologismo italiano come mondeggia sancisce il carattere linguistico del mondo che Heidegger sottolinea in tutta la sua opera, quindi il suo istituirsi a partire dal linguaggio come Lichtung, radura dalla quale si rivela l’Ereignis↩︎

  13. Tentativi di cui per altro si può ravvisare la frequenza, a partire dagli scritti di E. Salmann, o dalla riflessione di Bernhard Casper, o anche dall’opera dello stesso Lacoste, Expérience et Absolu, Puf, Paris 1994, trad. it. di A. Patané, Esperienza e Assoluto. Sull’umanità dell’uomo, Cittadella, Assisi 2004, e che denotano un’attenzione fenomenologica al dato dell’esserci ma anche un’attenzione ermeneutica all’evento di senso esplicantesi a partire dalla progettualità dell’esser-ci nel mondo. ↩︎

  14. Cfr. J.-Y. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., p. 74. ↩︎

  15. Si veda tutta la bella analisi in Unterwegs…, trad. it. cit. ↩︎

  16. Tale conferenza è contenuta nel volume Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 3-34. ↩︎

  17. Fenomenologia e teologia, in ivi, p. 11. ↩︎

  18. Expérience…, trad. it. cit., pp. 74-75. ↩︎

  19. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Nijhoff, The Hague 1981, trad. it. di G. Bonola, La stella della Redenzione, Marietti, Genova 1987, p. 243. ↩︎

  20. M. Heidegger, Phänomenologie…, trad. it. cit., p. 160. ↩︎

  21. Si veda la pregnante analisi contenuta in Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1953, trad. it. a cura di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1970. ↩︎

  22. M. Heidegger, Zur Sache des denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, trad. it. di E. Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1970, p. 102. ↩︎

  23. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., pp. 109-110. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., p. 110. ↩︎

  26. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., pp. 112-113. ↩︎

  27. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., p. 113. ↩︎

  28. Si veda il saggio di M. Heidegger in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1950, trad. it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997. ↩︎

  29. Ci permettiamo rinviare al nostro «Eucaristia e fenomenologia», Reportata, 31 agosto 2004, https://mondodomani.org/reportata/mancinelli01.htm↩︎

  30. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., p. 114. ↩︎

  31. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., p. 115. ↩︎

  32. Si pensi in particolare a quella linea che attraversa il neoplatonismo di Plotino fino a giungere a Campanella. ↩︎

  33. Si veda per questo M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1987. ↩︎

  34. Su questo ci pare significativa la riflessione di A. Ales Bello, «La Potenza e il male», Dialegestai, febbraio 1999, https://mondodomani.org/dialegesthai/angela-ales-bello-01↩︎

  35. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., p. 73. ↩︎

  36. Lacoste, Expérience…, trad. it. cit., pp. 75-76. ↩︎

  37. Ivi, p. 77. ↩︎