Letture analitiche e (post)analitiche della Critica della ragion pura

1. Due tesi per un unico problema

La cosiddetta filosofia analitica anglo-americana si è confrontata costantemente con Kant ed ha apportato agli studi sul filosofo tedesco quella tendenza all’articolazione puntuale, quell’attenzione per il medium linguistico e, più in generale, quella tipica modalità di sviluppare tematiche filosofiche grazie agli strumenti della logica e della matematica che la contraddistinguono fin dai suoi albori. Certamente con quest’affermazione non si vuole affatto minimizzare la tradizionale interpretazione fenomenologica d’area tedesca, cosa che del resto non fanno neanche gli analitici (N. Findlay: Kant and the Trascendental Object. A Hermenetic Study). Nel corso della prima metà del XX secolo la linea prevalente tra i filosofi analitici è stata quella di sostenere che, anche se Kant aveva sicuramente sollevato importanti questioni relative alla natura e alla possibilità della nostra conoscenza, i successivi sviluppi della logica e della matematica, delle scienze naturali e della stessa filosofia avevano comportato il parziale rifiuto della sua filosofia trascendentale. A onor del vero, soprattutto in Gran Bretagna e in America, almeno fino all’inizio del secolo scorso, l’impronta hegeliana sull’interpretazione del pensiero kantiano era ancora molto forte (basti pensare a filosofi come McTaggart e Bradley in Gran Bretagna o a Royce in America). Nella seconda metà del secolo, in piena Auffuhrungspraxis, nei paesi di lingua inglese c’è stata una rivitalizzazione degli interessi verso il pensiero kantiano originale sia in merito alle questioni etiche, sia per quelle squisitamente teoretiche, al punto da riuscire a competere, come si diceva poc’anzi, con le interpretazioni continentali. Nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, Kant ci propone la «sua» rivoluzione filosofica analoga a quella operata da Copernico in astronomia (K.r.V.: B XVI-XVII): il dibattito fra i filosofi analitici, fra le altre cose, si è sviluppato proprio nel contesto della presunta legittimità di tale rivoluzione, quindi sarà utile isolare quattro temi portanti e macroscopicamente importanti che sono il risultato di questa mai sottovalutata operazione filosofica kantiana:

  1. Il problema relativo ai giudizi sintetici a priori.
  2. Il nucleo della rivoluzione copernicana, ossia che gli oggetti devono essere conformi alle reali possibilità cognitive dell’essere umano.
  3. L’a priori come condizione necessaria per una possibile conoscenza delle apparenze.
  4. L’idealismo trascendentale (apparenze/cosa in sé) sia secondo l’interpretazione tradizionale (a), sia secondo quella non-tradizionale (b).

Prima di procedere oltre, è opportuno soffermarsi brevemente su queste fondamentali tematiche, soprattutto sull’ultima, se non altro per l’importanza degli illustri studiosi kantiani, più o meno recenti, che vi si sono dedicati.

  1. Kant afferma che nel porre la questione centrale della Critica della ragion pura è «già non poco quando un gran numero di ricerche può essere raccolto sotto forma di un unico problema» (K.r.V.: B19) perché «il vero e proprio problema della ragion pura è […] nella domanda: Come sono possibili giudizi sintetici a priori? » (K.r.V.: B19).
  2. L’idea di base della rivoluzione copernicana è che gli oggetti devono essere conformi alla nostra conoscenza (K.r.V.: B XVI), in particolar modo alle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell’intelletto (le categorie).
  3. Kant afferma che la legittimità epistemica della nostra applicazione di tali forme a priori nasce dal loro carattere di necessità e di condizioni di possibilità dell’esperienza stessa (K.r.V.: A94/B126 corsivi miei).
  4. Infine, Kant presenta la «sua» rivoluzione copernicana come inseparabile dall’idealismo trascendentale e l’ha esposta con una formulazione (K.r.V.: BXVII-XX) che ha provocato il sorgere di due interpretazioni radicalmente opposte all’interno della tradizione analitica: non è un caso infatti, che lo stesso Kant, già dopo la pubblicazione della prima edizione della Critica, si fosse reso conto del rischio di fraintendimento connesso al termine trascendentale e che successivamente sia nei Prolegomeni (293, 375), sia nella seconda edizione della Critica (B519 nota) avesse definito l’idealismo formale o critico: nel corso della trattazione, cercheremo comunque di mostrare che il concetto di trascendentale non ha mai subito sostanziali ripensamenti da parte del filosofo di Konigsberg. Kant sostiene che «la nostra […] conoscenza della ragione arriva solo fino ai fenomeni, lasciando senz’altro che la cosa in sé sia per se stessa reale, ma a noi sconosciuta» (K.r.V.: BXX). Questa affermazione ha incoraggiato l’interpretazione tradizionale (a) che un allievo di A. Gurwitsch, H. E. Allison definisce «separability thesis» (Allison 2004: XIV); i sostenitori di questa interpretazione tradizionale (a) tendono a separare il contenuto teoretico-analitico della Critica della ragion pura da qualsiasi coinvolgimento con quel «disastroso modello» (Strawson 1966: 10) identificato con l’idealismo trascendentale. Questa «separability thesis» ha tuttora molto successo fra gli studiosi del pensiero kantiano (P. Guyer, R. Langton, J. McDowell, R. Brandom ecc.).1 Prima di soffermarci su di essa, vediamo qual è la «tesi» (quella che abbiamo chiamato al punto quattro l’interpretazione (b) non-tradizionale) che le si contrappone, con lo scopo di rendere ben chiara l’attuale situazione degli studi kantiani in lingua inglese. In effetti l’interpretazione non-tradizionale (b) accentua la sua attenzione su un’affermazione che Kant ci dà soltanto una pagina prima di BXX (che è, come abbiamo appena visto, quella da cui (a) prende le mosse). Vediamo cosa dice il filosofo tedesco: «I medesimi oggetti possono venir considerati, per un verso, come oggetti del senso e dell’intelletto, per l’esperienza, e per l’altro invece come oggetti semplicemente pensati, tutt’al più per la ragione isolata, nel suo sforzo di elevarsi al di sopra dei limiti dell’esperienza: dunque sotto due aspetti ben diversi» (K.r.V.: BXVIII-XIX nota, corsivo mio). Su questi «due aspetti ben diversi» si poggia quell’interpretazione non- tradizionale (b) dell’idealismo kantiano che viene appunto definita come la tesi dei «due aspetti» contrapposta a quella (a) dei «due mondi». Uno dei sostenitori di spicco di (b) è senz’altro il già citato Allison, ma in una chiave interpretativa più o meno simile si muovono Bird, Friedman, Butts, Kitcher, Longuenesse, ecc. .2 I sostenitori di (b) tendono ad evidenziare i due punti di vista e di prospettiva che «gli stessi oggetti» si trovano ad assumere: non solo come oggetti di possibile conoscenza empirica, ma anche come naturali esigenze di cui la mente umana non può fare a meno qualora li intenda come ideali della ragion pura e non come oggetti di una possibile conoscenza. Quindi non «due mondi» (a) di cui uno conoscibile e l’altro inteso al limite come movente causale relegato in una non bene specificata dimensione sovrasensibile (Strawson 1966: 224), ma come «due aspetti» (b) la cui differenza, che ovviamente permane, è di natura epistemica e non ontologica.

2. Un caposcuola: P.F. Strawson

Strawson accetta della Critica il rifiuto della metafisica trascendente come scienza e quello dei dati privati della coscienza come unici elementi certi di conoscibilità (il cogito cartesiano); ciò che non accetta è il motivo per cui questa parte plausibile debba essere necessariamente intrecciata alle tematiche dei punti 3-4. L’«a priori» è visto da Strawson come il segno riconoscibile che il problema della Critica è di ordine terminologico; in essa si configura un mondo empirico sul quale l’indagine conoscitiva dell’uomo è impostata essenzialmente sulle funzioni interne delle sue facoltà. Scrive Strawson: «La terminologia dell’intera Critica è psicologica. Kant, infatti, attribuisce ogni carattere necessario della concezione dell’esperienza alla natura delle nostre facoltà» (Strawson 1966: 9). Il merito di Kant, secondo il filosofo inglese, è stato, da una parte quello di aver delimitato i «confini del senso» nella linea superiore, bloccando gli «audaci voli» dei razionalisti dogmatici; dall’altra, in quella inferiore, di aver dato ai sensi una parziale struttura utile per sbarazzarsi dell’empirismo più radicale ed ingenuo. L’errore è però stato quello di «tracciare i confini del senso da un punto a loro esterno, un punto che, se i confini sono esattamente tracciati, non può esistere» (Strawson 1966: VIII): questo «punto esterno» è per Strawson l’idealismo trascendentale (4). Si potrebbe dire, banalizzando un po’, che l’aspetto kantiano più in sintonia con Strawson è quello… humeano! Ma poiché il saggio di Strawson è tutt’altro che banale, leggendolo ci si rende conto sin dall’inizio che l’analisi del filosofo inglese è volta principalmente a verificare tutte le volte che Kant viola il suo (di Strawson) apprezzato principio di significanza per cui ogni concetto ha un valore reale solo e soltanto se ad esso corrisponde un’adeguata condizione empirica. Kant nella Critica della ragion pura dà due distinte definizioni di tale principio (B299/B302), ma è interessante notare che mentre nella seconda edizione a B302 aggiunge una nota di sole sette righe, nella prima edizione si prolunga diffusamente su questo argomento (A245/246). Perché? Anche se il senso più generale delle due edizioni è il medesimo, ossia che le categorie hanno un uso empirico perché da sole non contribuirebbero ad alcun tipo di utile conoscenza, nella prima Kant scrive: «Le categorie abbisognano, oltre che dei concetti puri dell’intelletto [e qui ci si potrebbe chiedere: ma non sono le categorie i concetti puri dell’intelletto?], di talune determinazioni della loro applicazione alla sensibilità in generale […] in mancanza [delle quali], le categorie non costituiscono per nulla concetti mediante i quali un oggetto possa essere conosciuto» (K.r.V.: A245). Il senso di tale affermazione è molto chiaro: lo potremmo definire un modello del principio di significanza. Leggiamo, però, il medesimo passaggio così come ce lo consegna Kant nella seconda edizione: «Il gioco di prestigio con cui si sostituisce alla possibilità logica del concetto […] la possibilità trascendentale delle cose […] può ingannare solo gli inesperti» (K.r.V.: B302 corsivo mio). E ancora: «Ne consegue incontestabilmente, che i concetti puri dell’intelletto non potranno essere mai di uso trascendentale» (K.r.V.: B303 corsivo mio). In A, come detto, il discorso è molto chiaro e il concetto di trascendentale, peraltro non citato apertamente, mantiene comunque la sua positiva validità teoretica; in B Kant si premura di tagliare questo passaggio e inserisce il termine centrale di tutta la sua filosofia con senso manifestamente negativo. Proviamo a fare delle ipotesi. Se seguiamo Strawson la risposta, probabilmente, ce l’abbiamo già: Kant nel 1787 si rende conto che il termine trascendentale è passibile di fraintendimento (come in effetti è accaduto) e allora, tradendo i suoi desiderata iniziali lo va a distinguere da tutto ciò che rappresenta la reale e possibile conoscenza empirica. Potrebbe essere così, soprattutto perché ci troviamo nel capitolo in cui Kant ci parla della distinzione fra fenomeni e noumeni: ma onestamente ci sembra una spiegazione debole perché costantemente smentita da innumerevoli altre accezioni positive del termine trascendentale contenute in tutta l’Analitica dei Principi. L’altra possibilità è quella che Kant, poiché di lì a poco avrebbe pubblicato la Critica della ragion pratica (1788), abbia sentito l’esigenza di separare nettamente ciò che in natura possiamo conoscere effettivamente come esseri condizionati da leggi causali e dal nostro limitato apparato cognitivo da ciò che invece si presenterà come assolutamente incondizionato e libero in ambito morale. Strawson non a caso afferma che l’idealismo trascendentale è lo strumento utilizzato da Kant per salvaguardare gli interessi della morale e della religione (Strawson 1966: 12-228). Anche questa ipotesi sembra che possa essere rifiutata perché Kant non usa mai nella Ragion pura il termine sovrasensibile in senso epistemologico, men che meno come pseudo-sinonimo di trascendentale (A. Nuzzo Analisi filosofica e coscienza storica: una vera alternativa? ). Sembrerebbe sufficiente per mettere da parte questa seconda opzione rispondere che Kant, quasi sempre-in fondo lo diceva lui stesso che «di Mendelssohn3 ce n’è uno solo»- (Kant Epistolario filosofico: 126-127) è molto chiaro nel distinguere uso trascendentale da uso trascendente della ragione. A parer nostro le possibili vie interpretative da seguire per uscire da questa impasse sono due, al termine delle quali si tenterà di dimostrare che il concetto di trascendentale sia nella prima che nella seconda edizione ha sempre, tranne rarissime eccezioni dovute allo stile di scrittura kantiano talvolta torbido, significato positivo. La prima via potremmo definirla quella «della differenza escatologica» fra la Critica dell’81 e quella dell’87. Kant nella prima edizione, sempre nel capitolo relativo ai fenomeni e ai noumeni, sostiene che una definizione delle categorie non è necessaria, perché l’uso di esse è sintetico e che comunque non sarebbe stato possibile darla, pur volendolo (K.r.V.: A241). Invece sappiamo che nella seconda edizione è presente una dettagliata definizione di ognuna delle categorie. Ci troviamo d’accordo con S. Marcucci (Guida alla lettura della ragion pura di Kant), secondo cui la finalità squisitamente gnoseologica della prima edizione, viene riformulata da Kant nella seconda con un taglio più spiccatamente sistematico. A suffragare tale interpretazione basta leggere l’Appendice alla Dialettica trascendentale in A645/B673 in cui il filosofo tedesco ci dice che la ragione (non l’intelletto, la ragione!) immette nella conoscenza quel carattere sistematico utile a darle carattere di unità. Ciò che Strawson sembra non accettare è il valore epistemologico di tali affermazioni kantiane, che sono peraltro, a parer nostro, proprio l’aspetto più prezioso dell’idealismo trascendentale. E con questo giungiamo alla seconda via che definiremo «il grande bluff» della (2) rivoluzione copernicana (almeno secondo Strawson e i suoi rampolli). In tutti i manuali scolastici il copernicanesimo viene citato come il punto di partenza della svolta «critica» della filosofia kantiana: come in ogni generalizzazione, si tratta ovviamente di una spiegazione a «maglie larghe», ma che contiene molta verità, seppur semplificata. Si potrebbe infatti ipotizzare che parte del copernicanesimo kantiano sia già presente, senza essere esplicitamente citato, in opere precedenti al 1781 come «La Falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche» in cui Kant prende decisamente le distanze dalla logica aristotelico-scolastica; nei lavori pubblicati fra il 1764 e il 1766 (Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Sogni di un visionario ecc.) in cui l’influenza dell’empirismo inglese e la presa di coscienza della «dignità della natura umana» oltre che del sentimento della bellezza, sono un chiaro ripensamento in chiave soggettivistica della ricerca filosofica kantiana; per non parlare, poi, della Dissertatio del 1770 a cui alcuni critici retrodatano l’inizio vero e proprio del criticismo. Detto ciò, il copernicanesimo tout court fa la sua comparsa nella prima Critica, e piaccia o no, rappresenta la svolta trascendentale della filosofia kantiana: dare di esso una lettura negativa, significa dare una lettura negativa del totale impianto dell’idealismo trascendentale. Siamo al centro delle critiche strawsoniane. Secondo l’interpretazione di Strawson, la conoscenza delle caratteristiche dell’esperienza dipende dal «soggettivismo trascendentale», cioè da una mente che produce le sue rappresentazioni. È interessante a tal proposito il parallelo che Strawson costruisce fra Kant e un filosofo x dalla «mentalità scientifica» (Strawson 1966: 28-30): riassumendo si potrebbe dire che entrambi considerano impossibile avere consapevolezza delle cose come sono in sé, visto che la nostra conoscenza ci consente di giungere solo agli oggetti che «affettano» la nostra sensibilità e che quindi ci appaiono soltanto tramite questa nostra modificazione. Il filosofo x però, non nega come invece fa Kant, o, meglio sarebbe dire, non fa alcuna distinzione reale fra le cose come sono in sé e come ci appaiono; ciò che nega è che le proprietà che quelle cose hanno siano percepite dal senso comune («in condizioni normali») come cose in sé. Kant invece nega anche alla scienza di riuscire a giungere alla conoscenza delle cose in sé, perché il suo sistema conoscitivo fa affidamento soltanto sulle funzioni psicologiche dell’uomo: le stesse forme a priori della sensibilità, lo spazio e il tempo, sono da Kant considerate in noi e nulla per se stesse (K.r.V.: A36/B52-A37/B54). A Strawson sembra inconcepibile una teoria che preveda che degli oggetti possano modificare la nostra sensibilità, quando essi, come sono in se stessi, non sono in uno spazio distinto da noi. Interpretato così è inevitabile un’affermazione di questo tipo: «Viene alla luce un aspetto dell’idealismo trascendentale che […] nega al mondo naturale ogni esistenza indipendente dalle nostre rappresentazioni. […] Kant è più vicino a Berkeley di quanto non voglia riconoscere» (Strawson 1966: 24). L’accostamento dell’idealismo trascendentale kantiano a quello berkeleyano è cosa antica:4 quella più pertinente all’argomento qui trattato e senz’altro che ha influenzato molto Strawson è la critica di Prichard in Kant’s Theory of Knowledge (pp. 71-100). Secondo Prichard, l’intera costruzione kantiana delle apparenze è viziata dall’aver Kant confuso fra la conoscenza delle cose così come ci appaiono e il fatto che noi possiamo conoscere solo una classe particolare di cose: le apparenze, appunto. Questa critica va letta a parer nostro in modo non molto dissimile da quella di Strawson: le cose che non sono di per sé in uno spazio distinto, ci sembrano apparire in un certo spazio (che kantianamente è una delle due forme a priori della sensibilità) e quindi noi conosciamo gli oggetti dell’esperienza soltanto nel momento in cui spontaneamente li poniamo di fronte a noi: ci pare di essere nel più pieno esse et percipi berkeleyano.5 Al termine della sua disamina, Prichard giunge alla conclusione che, poiché conoscere qualcosa significa conoscerla realmente per ciò che essa è in sé e non per ciò che ci sembra, la teoria kantiana ci porta a dover ammettere che nulla è veramente conoscibile (Prichard 1909: 78-79). Secondo Prichard, insomma, malgrado i suoi lodevoli sforzi, Kant non si allontana affatto da Cartesio. Diciamo subito che né Strawson, né tutti i suoi illustri seguaci, arrivano a tanto: si limitano a ridimensionare la portata rivoluzionaria del copernicanesimo. Per tutti, da Strawson agli attuali Guyer e Langton fino ai super-celebrati McDowell e Brandom, frutto di questa pseudo-rivoluzione non sono altro che, da una parte la creazione di un regno sovrasensibile (la metafisica dell’idealismo trascendentale) collocato chissà dove in cui la cosa in sé giace ed è per noi inconoscibile, dall’altra un regno soggettivo fatto di mere rappresentazioni (le apparenze) di cui è regista assoluta la sola psiche umana. Due mondi, appunto, come si diceva all’inizio. Ora dovrebbe risultare più chiaro il senso da dare alla separability thesis di cui si è parlato più sopra: essa rappresenta l’operazione con cui Strawson recide ogni legame fra ciò che ancora di Kant è valido, ossia l’argomento analitico del principio di significanza e ciò che invece è visto come l’oscura trascendental story dell’idealismo. Scrive Findlay a proposito: «Strawson dispone, come nelle bottiglie di vetro di un museo di medicina, tutti gli organi che ha reciso dal trascendentalismo kantiano come inutili o incoerenti rispetto al suo principio di significanza» (Findlay 1981: 377).6

3. Nuovi teorici della tradizione

Due fra i più noti studiosi del pensiero kantiano contemporaneo che possiamo sicuramente iscrivere nel club dell’interpretazione tradizionale (a) sono P. Guyer e R. Langton: entrambi partono da posizioni anti-idealistiche strawsoniane e danno una lettura molto interessante degli argomenti trattati. Guyer in Kant’s and the Claims of Knowledge polemizza vivacemente con la prima edizione di Kant’s Trascendental Idealism di Allison asserendo che quest’ultimo ha provato senza successo a banalizzare l’idealismo kantiano riducendolo «ad una anodina raccomandazione di modestia epistemologica» (Guyer 1987: 336). Il punto di partenza di Guyer è lo stesso di Strawson: separare l’idealismo trascendentale dagli argomenti ancora validi contenuti nella prima Critica; però poi ci dà delle soluzioni originali. Guyer crede in un’interpretazione «forte» dell’idealismo kantiano (ovviamente in senso negativo); egli non dà spazio ad alcuna possibilità che preveda che la cosa in sé possa essere considerata un aspetto dello stesso oggetto di cui fa parte anche l’apparenza (interpretazione non-tradizionale b): egli afferma drasticamente che «siamo del tutto certi che le cose in sé non sono [esistono] così come appaiono (Guyer 1987: 333) e perciò non sono né spaziali, né temporali. Fin qui, a parte la netta separazione ontologica di cui diremo più avanti, nessun problema rilevante. Il problema sorge quando Guyer afferma che in fondo a Kant non serviva teorizzare la dicotomia fra apparenze (spaziali e temporali) e cose in sé (sovrasensibili) «perché l’ontologia dalla quale [Kant] prende le mosse, già include due classi di oggetti come tavoli e sedie e le nostre rappresentazioni di essi» (Guyer 1987: 335 corsivi miei). Secondo Guyer l’idealismo kantiano è necessario per trasferire le proprietà spaziotemporali dagli oggetti della nostra esperienza alle apparenze, intese come mere rappresentazioni o entità mentali (Guyer 1987: 335). Questo ci consente di interpretare il suo pensiero asserendo che evidentemente attraverso il concetto di cosa in sé, Guyer si riferisce alle cose dell’esperienza private delle proprietà spaziotemporali. Guyer ritiene che tutto ciò che ha ancora valore nella Critica è contenuto nelle Analogie dell’esperienza e nella Confutazione dell’Idealismo, anzi in queste due parti egli intravvede ciò che definisce come «la [reale] teoria trascendentale dell’esperienza» (Guyer 1987: 335), ossia un’esperienza che non abbia nulla a che spartire con la dogmaticità dell’idealismo trascendentale. La posizione della Langton è in un certo senso ancora più estremistica: in Kantian Humility ci presenta Kant nei panni di un convinto realista assoluto sostenitore della legge di causalità. Ovviamente la studiosa non nega che in alcuni passaggi (non pochi ci viene da dire), Kant si esprime in modo molto diverso da quello degli empiristi tout court, tuttavia questi non sono così significativi da far passare Kant come un modello di idealismo. Anzi, l’«umiltà» di Kant nell’ammettere l’impossibilità dell’uomo di giungere alla conoscenza delle cose in sé, non solo è compatibile, ma è assolutamente richiesta da tale realismo. Inoltre la Langton sostiene che l’«umiltà» kantiana nei confronti della conoscenza delle cose in sé «non ha nulla a che vedere con la sua concezione dello spazio e del tempo all’interno della sensibilità umana» (Langton 1998: 102, nota 7); piuttosto, il concetto della cosa in sé kantiana è identificato dalla Langton con le monadi (sostanze con proprietà intrinseche) leibniziane.7 Proviamo a riassumere in tre elementi essenziali la posizione della Langton: il primo è l’affermazione che le cose in sé sono «sostanze» aventi delle proprietà intrinseche e che le apparenze sono il frutto di «rapporti» fra queste proprietà; il secondo è che tali proprietà relazionali fra le apparenze non sono affatto riconducibili a quelle intrinseche delle sostanze; il terzo, ed ultimo, è la sua (della Langton) dichiarazione di intenti: il realismo puro frutto dell’enfatizzazione del carattere di recettività della conoscenza umana. Poiché le proprietà attraverso cui le cose modificano la nostra sensibilità sono meramente relazionali e, come abbiamo visto, non godono di alcun collegamento con le proprietà intrinseche delle cose in sé e poiché al fine di ottenere una reale conoscenza empirica degli oggetti, noi dobbiamo esserne modificati, ne consegue che non ci è possibile conoscere le proprietà intrinseche (le cose in sé): questa, secondo la Langton, è l’«umiltà» kantiana (Langton 1998: 124-25/139). Oltre alle questioni direttamente collegate a (2) e (4) c’è un’ulteriore derivazione della critica che è stata molto discussa negli ultimi anni da alcuni fra i più celebrati filosofi (post) -analitici. Nel 1994 sono stati pubblicati due testi che hanno accentrato sui loro autori l’attenzione della maggior parte degli addetti ai lavori e non solo del campo strettamente filosofico: si tratta di Mente e Mondo di J. McDowell e di Making It Explicit di R. Brandom nei quali la teoria della conoscenza concettuale di Kant è stata rivista e sviluppata alla luce dei lavori di W. Sellars e della sua concezione dello «spazio logico delle ragioni» (Sellars 1956: 54) e della sua critica al Mito del Dato. Per certi aspetti, si potrebbe sostenere che Sellars ha considerato il suo sistema filosofico come uno sviluppo analitico delle quattro tematiche kantiane evidenziate all’inizio. In Is there a Synthetic A Priori? , Sellars ha ipotizzato una concezione del sintetico a priori che esplicitamente riesuma (1). Secondo il filosofo statunitense «ogni struttura concettuale include proposizioni che, benché sintetiche, sono vere ex vi terminorum, ma ogni struttura concettuale concorre nel «mercato» che si chiama esperienza (Sellars 1953: 320). Un argomento centrale di questa teoria successivamente portato avanti da Brandom sostiene che i nostri concetti hanno il contenuto e il significato che hanno, fondamentalmente in virtù delle loro funzioni sottoposte a «regole normative» che sono attive nelle inferenze, nelle azioni e nelle rispondenze agli impatti degli oggetti esterni da parte dell’essere umano, come se fossero implicitamente rette da «principi materiali di inferenza» e non da principi logico-formali tout court (Brandom Making It Explicit). Senz’altro una delle letture kantiane recenti che ha fatto maggiormente discutere i critici è quella che emerge in Mente e Mondo di J. McDowell. Nel tentativo di porre fine all’oscillazione fra l’adozione del Dato come elemento ultimo, definitorio e giustificativo, della nostra conoscenza (il Mito del Dato sellarsiano) e il coerentismo idealistico alla Davidson, in cui «niente può valere come una credenza, tranne un’altra credenza» (Davidson 1984: 310), vale a dire una realtà che ha solo una valenza causale sui nostri pensieri, il filosofo inglese ipotizza un «concettuale senza confini» (McDowell 1994: 25), un’esperienza intesa contemporaneamente come ricettività (passiva) e spontaneità (attività dei concetti). Senza voler entrare nello specifico delle soluzioni mcdowelliane, ciò che interessa qui è evidenziare il fatto che secondo McDowell già in Kant è presente questo tipo di esperienza concettualizzata: per un siffatto motivo, scrive McDowell «Non è un caso che io sia stato in grado di esprimere ciò che sostengo in termini kantiani» (McDowell 1994: 44). Preso atto di una dichiarazione «genealogica» così perentoria, desta qualche perplessità l’affermazione fatta nella Prefazione di Mente e Mondo in cui McDowell asserisce di essere stato profondamente influenzato dall’interpretazione di Strawson della Ragion pura, pur non essendo certo che «il Kant di Strawson sia davvero Kant» (McDowell 1994: VIII). Oppure, quella ancora più ambigua: «Mi piacerebbe […] pensare a questo lavoro [Mente e Mondo] come a uno studio preliminare alla lettura della Fenomenologia» (McDowell 1994: IX). Che le origini del pensiero di McDowell vadano trovate altrove? Oppure, forse McDowell ha bisogno di trovare un’origine al suo pensiero? (si veda a tal proposito l’articolo di Nuzzo: Analisi filosofica e coscienza storica: una vera alternativa? ). Anziché provare a dare risposte a queste domande che forse, a parer nostro, non hanno una reale pregnanza filosofica, ci sembra di poter asserire che anche per McDowell, come per Strawson, dobbiamo distinguere in Kant il lato positivo (che nel caso di McDowell è l’intuizione concettualizzata) da quello oscuro del trascendentalismo. L’argomentazione mcdowelliana, al riguardo, è molto articolata ed elegante: secondo il filosofo inglese, in Kant abbiamo una ricettività che nella sua cooperazione con l’intelletto, da una parte non apporta nulla «di suo» e dall’altra invece sì. Nel primo caso, tale ricettività non pone di fronte all’intelletto qualcosa di Dato che possa essere considerato come extra-concettuale e quindi come possibile fine ultimo giustificativo delle nostre credenze: in Kant ogni oggetto esterno si deve riferire alla sfera del contenuto pensabile (McDowell 1994: 44). Nel secondo, però, bisogna tener presente che Kant «ha anche un punto di vista trascendentale» (McDowell 1994: 44): l’errore del filosofo tedesco, secondo McDowell, è che il trascendentalismo comporta un impatto fra la ricettività e un mondo sovrasensibile che, così teorizzato, sembra avere maggiore indipendenza e realtà del mondo empirico ordinario. Kant è stato in grado di aver strutturato le forniture della ricettività con dei vincoli concettuali dando ad esse una giustificazione di tipo razionale e un legame certo e indissolubile alle nostre credenze su di esse: è lo «spazio logico delle ragioni» sellarsiano vittorioso sul Dato e su qualsiasi possibile deriva scettica. Ma Kant, come ormai abbiamo ben capito secondo (a), ha preteso che il collegamento venisse dall’«esterno», da un sovrasensibile che in questo modo si impone come la «sede della vera oggettività» (McDowell 1994: 45). A parer nostro un’ottima analisi dell’interpretazione mcdowelliana di Kant è in McDowell’s Kant: Mind and World di G. Bird. Lo studioso, convinto assertore dell’interpretazione non tradizionale (b) divide il testo in tre parti: nella prima è trattato il rapporto Kant-McDowell, nella seconda vengono avanzate delle obiezioni alle posizioni di McDowell e nella terza è proposta una diversa lettura di Kant. Della prima si è già detto, ora riassumeremo brevemente la seconda, mentre della terza si parlerà in seguito. Innanzitutto, Bird ci dice perché McDowell si sente così vicino a Kant: entrambi si trovano di fronte ad un’impasse filosofica; da una parte Kant cerca una soluzione al plurisecolare conflitto fra razionalisti ed empiristi, dall’altra McDowell tende a mediare all’interno dell’oscillazione fra «crudo naturalismo» (McDowell 1994: XIX) e coerentismo idealistico. Lo scopo di entrambi i filosofi è quello di risolvere un dualismo filosofico: il dualismo fra l’empirismo bruto e un idealismo infondato (Bird 1996: 222). McDowell si riallaccia però a due delle critiche che già Strawson aveva sollevato: il trascendentale in Kant è utile per salvaguardare gli interessi della morale e della religione ed inoltre non contribuisce affatto alla costruzione di un’«intelligibilità del significato» (McDowell 1994: 104). La terza «critica» è invece originale e riguarda un concetto di primaria importanza nella filosofia di McDowell e assente in quella di Kant, che per motivi di pertinenza ci limiteremo solo a citare: la seconda natura. La prima, generalissima critica, che Bird conduce contro McDowell è quella di non aver compreso la differenza (che Kant esplicitamente esprime in K.r.V. A296/B352) fra uso trascendente e uso trascendentale della ragione: è stato già detto che si tratta di un’obiezione importante all’interpretazione (a). La seconda è inerente al fatto che McDowell sembra non prendere in grande considerazione la distinzione kantiana fra aspetti formali (l’a priori) e materiali (l’a posteriori dell’esperienza) andando a definire «oscuro» il trascendentalismo perché considerato una teoria empirica, psicologica e materiale proiettata comunque verso una dimensione trascendentale (Bird 1996: 229): sostanzialmente sembrerebbe che McDowell abbia voluto «empiricizzare» esageratamente il pensiero kantiano. Bird sottolinea che a priori per Kant non significa «prima» inteso a livello temporale, né tantomeno va considerato in qualità di sinonimo di sovrasensibile: «La terminologia kantiana indica [con a priori] [quelle] condizioni formali presupposte all’esperienza e non un riferimento materiale a qualche principio sovrasensibile che la procede cronologicamente» (Bird 1996: 231). Si tratta piuttosto di una precedenza delle condizioni di possibilità dell’esperienza stessa.8 Come si diceva sopra, l’interpretazione (a) ha il torto, secondo Bird, di aver dato della costruzione analitica del pensiero kantiano una visione strettamente empiristica, non tenendo in debita considerazione il fatto che Kant non si rivela mai un «fenomenalista empirico» (Bird 1996: 232). Il trascendentale non dovrebbe avere secondo Bird una valenza causale o temporale, ma modale ed epistemica: inoltre il ruolo del sovrasensibile (termine che ricordiamolo ancora una volta, non appare mai né come aggettivo, né come sostantivo prima della seconda Critica), demarca il confine fra contesto epistemico e morale, non, come sembra ipotizzare McDowell, in quello teoretico che emerge nella prima Critica. In più, Bird attira l’attenzione su un aspetto che a tutta prima può sembrare filosoficamente un po’ingenuo, ma che ha la sua importanza: i due riferimenti teoretici kantiani, vale a dire sensibilità e intelletto, sono riferiti alla natura dell’essere umano non alla sua realtà noumenica. «Dunque soltanto da un punto di vista umano possiamo parlare di spazio, di esseri estesi, ecc. Ma se prescindiamo dalla condizione soggettiva, la sola sotto cui possiamo ricevere un’intuizione esterna ed in tal modo essere affetti dagli oggetti, la rappresentazione dello spazio perde ogni significato» (K.r.V. A26/B42 corsivi miei). Ci sembra di poter concordare con l’interpretazione (b) di Bird ed Allison secondo cui il termine «rappresentazione» non va inteso in senso ontologico, ma epistemico: quindi non «perde significato» nel senso che non esiste, bensì perde significato per le nostre limitate condizioni di possibilità conoscitive. A parer nostro, quest’ultima affermazione si ricollega al tema (2), ma sotto una diversa prospettiva. Se volessimo trovare un comun denominatore fra tutte le diverse posizioni (a) che sono state trattate, potremmo dire che è il seguente: la rivoluzione copernicana ha avuto il merito di capovolgere i rapporti fra soggetto ed oggetto, fra mente e mondo, ma il risultato mirabile di questa operazione filosofica è stato macchiato dalla colpa trascendentale.

4. Una moderata epistemologia: H.E. Allison

Perché invece non provare ad ipotizzare che è proprio grazie alla «scoperta» del trascendentale che Kant è riuscito ad abbandonare l’idea di una realtà incondizionata e necessaria, per una nuova e positiva valutazione del limite delle funzioni conoscitive umane? Sarebbe opportuno considerare all’interno della rivoluzione copernicana non solo il «semplice trasferimento della funzione fondante dalla realtà fondatrice dell’oggetto alla realtà fondatrice del soggetto» (Chiodi 2005: 13), quanto il fatto che la limitazione stessa è ciò che rende realizzabili un insieme di condizioni possibili. Pertanto leggere la Deduzione Trascendentale delle categorie, ossia il cuore del copernicanesimo kantiano, come un mero passaggio dall’incondizionato dell’oggetto all’incondizionato del soggetto, ci sembra non considerare a pieno la collocazione eminentemente epistemica in cui essa va collocata. Anche l’interpretazione (b) prende le mosse dall’analisi del copernicanesimo kantiano ed interessante è la lettura che ne dà Allison in Kant’s Trascendental Idealism (Allison 2004: XV-XVI). Fatta propria la distinzione kantiana fra realismo trascendentale e idealismo trascendentale (K.r.V. A369/371), Allison propone un parallelo, utile a condurre ad una spiegazione del problema in termini di «due aspetti» diversi e non di «due mondi» diversi. Nella prima edizione del suo libro, infatti, Allison considera il realismo trascendentale un prodotto del modello teocentrico della conoscenza; l’idealismo trascendentale, invece, di quello antropocentrico. Ma ciò che conta di più è il fatto che il primo è un modello di conoscenza intuitivo, il secondo discorsivo. Scrive Allison: «Quindi, la cosiddetta rivoluzione copernicana di Kant deve essere interpretata non solo come un «esempio di passaggio» dal modello di conoscenza teocentrico a quello antropocentrico, ma […] anche come un passaggio da quello intuitivo a quello discorsivo, ossia un passaggio a ciò che realmente intendiamo con conoscere» (Allison 2004: XVI corsivo mio). L’idealismo trascendentale, secondo questa lettura, ha innanzitutto il pregio di essere una «dottrina di modestia epistemologica» (Allison 2004: XVI): grazie ad essa, una volta per tutte, l’uomo si libera del paragone mortificante con ciò che comunemente era definito lo «sguardo di Dio sulle cose».9 L’idealismo trascendentale così inteso rappresenta la controparte epistemologica al passaggio dall’eteronomia all’autonomia «che è da tutti riconosciuto come l’essenza della rivoluzione kantiana in ambito morale» (Allison 2004: XVI). Come si è detto più sopra, Allison è stato accusato da Guyer di aver banalizzato il trascendentalismo kantiano con il fine di renderlo accettabile; egli ha risposto (questo è stato uno dei motivi per una seconda edizione), sostenendo che l’idealismo trascendentale non deve essere scisso dalle teorie analitiche kantiane e soprattutto che esso è la matrice originaria della discursivity thesis (Allison 2004: XIV): la conoscenza umana, poiché discorsiva, si fonda su concetti e intuizioni sensibili. A differenza dell’idea di Strawson secondo cui la conoscenza teorizzata da Kant è composta dalla dualità fra concetti generali e casi particolari di questi concetti (il principio di significanza), Allison ritiene che la tesi della discorsività crei una netta cesura «con l’epistemologia dei suoi [di Kant] predecessori (razionalisti ed empiristi) e riconoscere questo fatto è la chiave per comprendere il suo idealismo» (Allison 2004: XV). Su questo fronte diviene centrale il concetto di «condizioni epistemiche» (Allison 2004: XV/11/17/19), intese dallo studioso americano come vere e proprie condizioni oggettivanti, senza le quali non sarebbe possibile porre in relazione le nostre rappresentazioni degli oggetti con gli oggetti medesimi: tali condizioni non devono quindi essere confuse con quelle psicologiche o empiriche, ma soprattutto grazie al loro carattere a priori rappresentano la controparte trascendentale all’idealismo berkeleyano, poiché esse non creano oggetti, ma garantiscono le condizioni possibili di conoscenza degli oggetti. Questa lettura epistemologica dell’idealismo trascendentale vede nella tradizionale distinzione fra apparenze e cose in sé non «due mondi» contrastanti, ma «due aspetti» delle medesime cose (cioè, appunto, come appaiono e come sono in sé); alla tradizionale (a) distinzione ontologica, la (b) contrappone la doppia prospettiva dello human point of view:

  1. le condizioni epistemiche dipendono dalle forme della nostra sensibilità e l’idealismo trascendentale è l’aspetto di questa forma, non è altro proveniente da qualche luogo esterno all’umano stesso.
  2. la cosa in sé è l’altro aspetto, che però le condizioni epistemiche dell’uomo semplicemente non raggiungono poiché all’uomo è negata ogni possibilità di intuire intellettualmente.

Se seguiamo Allison nei suoi ragionamenti, nel momento in cui interpreta il motto kantiano secondo cui delle cose abbiamo conoscenza di come appaiono e non di come sono in sé, siamo ben lontani dall’esse et percipi berkeleyano perché una «tale conoscenza è pienamente oggettiva, essendo retta da condizioni epistemiche a priori» (Allison 2004: 17). Non bisogna mai dimenticare, e Kant ce lo ricorda continuamente lungo tutta la Ragion pura, la distinzione fra intuizione sensibile (umana) e intuizione intellettuale (divina) e la differenza fra apparenze e cose in sé ricalca tale distinzione, quindi l’impossibilità, almeno per l’uomo, di giungere a conoscere le seconde. Anzi, Allison ci propone anche una lettura delle cose in sé interessante perché ad esse attribuisce un certo «contenuto»: un contenuto di natura squisitamente ed unicamente logica poiché «deriva da un uso delle categorie [le condizioni epistemiche intellettuali] sganciato dalle condizioni sensibili (gli schemi) che le concretizzano: un uso di questo tipo per Kant è meramente logico, non reale» (Allison 2004: 17). L’«umiltà», quindi, lungi dall’essere un ripensamento kantiano in chiave iperrealistica scevro da qualsiasi forma di idealismo (Langton), non può affatto prescindere dal trascendentalismo inteso come conseguenza della discursivity thesis, perché è proprio grazie ad esso che la cosa in sé non viene considerata come un corpo estraneo ontologicamente separato dall’apparenza, ma soltanto un’astrazione puramente logica di essa. Allison prende spunto dai distinguo fatti da Kant sia in K.r.V. (B519), sia in Prolegomeni (375) a proposito dell’idealismo trascendentale che, come abbiamo visto precedentemente, il filosofo tedesco denomina anche formale e critico. Lo studioso americano ci dà di questa distinzione la seguente spiegazione: «Questo idealismo [trascendentale] è «formale» nel senso che è una teoria sulla natura e le possibilità delle condizioni sotto le quali gli oggetti possono essere conosciuti dalla mente umana. È «critico» perché è fondato su una riflessione delle condizioni e dei limiti della conoscenza discorsiva, non sul contenuto della consapevolezza sulla natura della cosa in sé» (Allison 2004: 35-36). Affermare che gli oggetti sono in noi «come mere rappresentazioni» (K.r.V.: A490-91/B518-19) non significa che noi li creiamo, ma che trascendentalmente abbiamo le condizioni epistemiche atte a conoscerli come oggetti per noi: questo, secondo Allison è il senso più puro da dare alla rivoluzione copernicana. Cercando di semplificare al massimo il discorso, potremmo dire che gli oggetti sono in noi in senso trascendentale, vale a dire che abbiamo (per dirla con Allison) le condizioni epistemiche per poterli conoscere: questo tipo di idealismo non prevede la dipendenza ontologica degli oggetti dalla nostra mente, non è un idealismo alla Berkeley: è «formale» e non materiale proprio in virtù di questa netta distinzione.

5. La realtà dell’apparenza: G. Bird

G. Bird, che preferisce definire la distinzione fra interpretazione tradizionale (a) e non-tradizionale (b) con i termini «materiale/formale», piuttosto che «due mondi/due aspetti», ritiene che questo problema interpretativo dipende da ciò che Kant dice nell’Estetica. Quando il filosofo tedesco afferma che «tempo e spazio sono forme dell’intuizione», che sono «condizioni soggettive della sensibilità» che «non sono nulla al di là delle nostre rappresentazioni» che «esistono nella mente a priori», sembra proprio volerci dire che sono «dipendenti dalla nostra mente» (Bird 1996: 236). Da qui, all’accusa di idealismo alla Berkeley o di «platonismo sfrenato» (McDowell 1994: 90), il passo è breve. Bird ci propone una lettura non-tradizionale dei termini «soggettivo» e «dipendente dalla mente», una lettura, cioè, che propone un Kant costruttore di un inventario descrittivo dell’esperienza (Bird 1996: 239). L’analisi di Bird si muove lungo due direzioni che mirano alla stessa meta: dimostrare che la terminologia kantiana è ben lungi dal voler delineare una demarcazione fra stati mentali soggettivi e mondo oggettivo rappresentato. Nella prima, Bird sostiene che la nostra esperienza esterna non può non essere identificata con le nostre rappresentazioni che abbiamo di essa: proprio nel concetto kantiano di rappresentazione, Bird non vede altro che il tentativo operato dal filosofo tedesco di annullare la dicotomia fra stati mentali privati e mondo esterno. La seconda è una conseguenza della prima, in quanto parlare di «nostre» rappresentazioni e di «nostra esperienza» significa esprimersi in merito alla generale esperienza della vita umana e non a particolari stati soggettivi mentali o percettivi del singolo individuo. È evidente l’accento posto da Bird sulla dimensione olistica del pensiero kantiano e sul rifiuto del filosofo tedesco di qualsiasi forma empiristico-atomistica dell’esperienza: rifiuto che consente a Kant di affermare che gli scettici non hanno affatto compreso la struttura dell’esperienza (Bird 1996: 239). Il riferimento di Bird al «punto di vista umano» (K.r.V.: A26/B42) è svolto con lo scopo di giustificare le asserzioni kantiane in merito allo spazio ed al tempo: affermare, come fa Kant, che le due forme a priori della sensibilità non sono costruite a partire dall’esperienza, ma che si riferiscono all’esperienza, significa sostenere che esse hanno un ruolo conoscitivo all’interno dell’esperienza umana. Da una parte, Bird insiste sul fatto che Kant concede al mondo noumenico un riferimento concettuale che però non può essere tradotto in conoscenza poiché si trova ad avere un ruolo meramente regolativo; dall’altra sottolinea le caratteristiche delle relazioni dell’esperienza che corrispondono alle relazioni fra le rappresentazioni che gli esseri umani hanno di essa: le apparenze non si riferiscono alla realtà, esse sono la realtà. Questo, secondo Bird, non corrisponde al dualismo tradizionale fra ciò che è dipendente dalla mente e ciò che non lo è, ma piuttosto può essere definito, come fa S. Haack in Reflections on Relativism, come una «debole» o «forte» dipendenza dalla mente. Al termine di questa riflessione ci sembra di poter asserire che l’obiettivo più prezioso che ci propone (b) è quello di un Kant tutto intero: il trascendentalismo, lungi dall’essere il «lato oscuro» del filosofo di Konigsberg, viene ad essere invece il filo conduttore modale e formale che funge da collante per il suo complessivo impianto filosofico. Esso rappresenta non una commistione al sovrannaturale (a), ma solo la possibilità di concepirlo come noumeno. Tale concepibilità non lo rende affatto reale, ma serve come movente per dare carattere di sistematicità alla nostra conoscenza che è, e rimane, almeno per Kant, legata all’esperienza sensibile. Per questo vorremmo concludere con un argomento sollevato da B. Longuenesse in Kant and the Capacity to Judge: in questo testo la studiosa sottolinea un aspetto secondo noi cruciale per gli ulteriori sviluppi sugli studi kantiani: quello relativo alle forme logiche dei giudizi. Queste ci aiutano a gettar luce sugli argomenti più importanti dell’Analitica e a considerarla come un tutto unico e ci rivelano una possibile sistematica unità fra la teoria dei giudizi della prima Critica e l’analisi dei due tipi fondamentali di giudizio riflettente, l’estetico e il teleologico, della Critica del Giudizio. Secondo noi, mettendo da parte interpretazioni più o meno tradizionali, questa rappresenterebbe un’ulteriore via agli studi sul saggio di Konigsberg, che potrebbe proporci nuove sfide tese alla scoperta di quell’inesauribile tesoro che è la filosofia di Immanuel Kant.

6. Bibliografia

  • Allison H. E. 2004. Kant’s Trascendental Idealism: An Interpretation and Defense. Yale University Press, New Haven and London.
  • Bird G. 1962. Kant’s Theory of Knowledge. London: Routledge and Kegan Paul.
  • Bird G. 1996. McDowell’s Kant: Mind and World, Philosophy, vol. 71, pp. 219-243
  • Brandom R. 1994. Making It Explicit: Reasoning, Representing, and Discoursive Commitment. Harvard University Press, Cambridge (Mass.)
  • Butts E. 1984. Sogno e ragione in Kant. La metodologia del doppio governo. Armando, Nuove Edizioni Romane, 1992.
  • Davidson D. 1984. Verità e Interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
  • Findlay N. 1981. Kant and the Transcendental Object. A Hermenetic Study, Clarendon Press, Oxford.
  • Guerra A. 2007. Introduzione a Kant. Laterza, Roma-Bari.
  • Guyer P. 1987. Kant and the Claims of Knowledge. Cambridge and New York: Cambridge University Press.
  • Haack S. 1996. Reflections on Relativism, Philosophical Perspectives, 10, Miami.
  • Kant I. 1783. Prolegomeni ad ogni metafisica che vorrà presentarsi come scienza. Laterza, roma-Bari, 1995.
  • Kant I. 1787. Critica della ragion pura, UTET, Torino, 2005.
  • Kant I. Epistolario filosofico. 1761-1800, Il Melangolo, Genova, 1990.
  • Kitcher P. 1990. Kant’s Trascendental Psychology. New York: Oxford University Press.
  • Langton R. 1998. Kantian Humility: Our Ignorance of Things in Themselves. Oxford: Oxford University Press.
  • Longuenesse B. 1998. Kant and the Capacity to Judge, trans. By Charles Wolfe. Princeton: Princeton University Press.
  • Marcucci S. 2007. Guida alla lettura della Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari.
  • McDowell J. 1994. Mente e Mondo, Einaudi, Torino, 1999.
  • Neiman S. 1994. The Unity of Reason, Oxford University Press, Oxford.
  • Prichard H. A. 1909. Kant’s Theory of Knowledge. Oxford: Clarendon Press.
  • Renaut A. 1997. Kant aujourd’hui, Aubier, Paris.

  1. Vedi bibliografia. ↩︎

  2. Vedi bibliografia. ↩︎

  3. Kant elogia Mendelssohn anche nella prefazione dei Prolegomeni. La lettera in questione, datata 16 agosto 1783, è importante per due motivi: il primo è che in essa Kant afferma che la Ragion pura (1781) è stata scritta «di volo» in quattro o cinque mesi, ma è il prodotto di una riflessione di almeno dodici anni; si giunge quindi al fatidico 1769 definito dal filosofo di Konigsberg «anno di gran luce». Il significato di questa frase ha dato molto da fare agli studiosi kantiani: alcuni (Fischer) credono che Kant si riferisca al risveglio dal «sonno dogmatico» dovuto all’influenza humeana, altri (Erdmannn, Paulsen) pensano che Kant si riferisca alla «scoperta» della antinomie. Il secondo motivo è che leggendo questa lettera tra le righe : «[alla] poca cura della forma si può sempre rimediare [e] riparare a questo difetto in una trattazione successiva», sembra che Kant avesse già in mente l’idea di una seconda edizione. ↩︎

  4. Già il 19 gennaio 1783 Garve-Feder nella «Gottingische gelehrte Anzeigen» accusa Kant di idealismo «alla Berkeley». Kant risponderà duramente a questa critica nell’Appendice ai Prolegomeni, affermando: «Il mio preteso giudice non ha capito niente» (Prol. 1783: 149). ↩︎

  5. Un’interessante critica della lettura kantiana di Prichard è contenuta in Bird Kant’s Theory of Knowledge (pp1-17). ↩︎

  6. Citazione tratta da: Storia della Critica (1980-1997) di G. Gigliotti (p. 303 nota) contenuta in Introduzione a Kant di A. Guerra. ↩︎

  7. Un interessante confronto fra Leibniz e Kant è sostenuto da Butts in Sogno e ragione in Kant. In questo testo è centrale il significato che lo studioso dà all’espressione «metodologia del doppio governo» (M.D.G.) riferita sia a Leibniz che ne è l’origine, sia a Kant che la riutilizza in modo personale. La M.D.G. in Leibniz comprende un dualismo metodologico, il primo dei quali, quello metafisico che ci consente di raggiungere il sovrasensibile, fonda le sue certezze sui principi della logica (non-contraddizione) e della ragion sufficiente ed ha valore superiore al secondo, quello di tipo meccanicistico-cartesiano adatto per conoscere gli oggetti della natura che gli uomini in quanto esseri imperfetti possono raggiungere solo grazie al carattere di necessità delle cause: in Leibniz entrambe le «modalità» sono fruibili dagli esseri umani. Kant interpreta la M.D.G. capovolgendone i significati: «Sostituisce l’esigenza di una spiegazione metafisica profonda con quella d’uso puramente metodologico» (Butts 1984: 23 corsivo mio). Tuttavia la comprensione della natura, seppur realizzata tramite le leggi scientifiche (sostanza, causalità ecc.), deve avere una sua progettualità. Per questo l’uso regolativo della ragione, una «ragione post-metafisica» (Renaut 1997: 47) orienta il nostro pensiero verso una natura che non solo si deve comportare secondo principi scientifici, ma deve avere anche un senso (Butts 1984: 23). Sulle motivazioni che prevedono un collegamento fra costituivo e regolativo e quindi sul nesso epistemologico che lega la prima alla terza Critica si sta dirigendo negli ultimi anni l’attenzione della critica (Gigliotti 2007: 315). ↩︎

  8. Interessante a riguardo dell’argomento qui trattato è il testo di S. Neiman The Unity of Reason, p. 50. ↩︎

  9. E’ questo un aspetto filosofico che ha radici profonde nella storia del pensiero, con il quale Kant ha dovuto fare senz’altro i conti. Leibniz, uno dei bersagli preferiti del criticismo kantiano, ci ha fornito una metafora esplicativa della questione: una città vista dalla cima di un’alta torre posta al suo centro (Monadologia §57). La vista dall’alto (quella di Dio) è intuire l’essenza stessa, a differenza di quella umana che ha diverse prospettive «orizzontali» che quindi contribuiscono ad un punto di vista talmente vario da risultare confuso. ↩︎