Parlare di Gesù Cristo post holocaustum

Come parlare di Gesù Cristo post holocaustum? Innanzitutto ascoltando come ne parla un ebreo interessato al dialogo ebraico-cristiano: Jules V. Isaac. «Il bagliore del forno crematorio di Auschwitz è il faro che rischiara, che orienta ogni mio pensiero. O fratelli miei ebrei, voi pure, miei fratelli cristiani, non pensate che quel bagliore si confonde con un’altra luce, quella della Croce?».1 Cosa significa per la teologia cristiana comprendere Gesù Cristo alla luce di Auschwitz? Col riconoscere che è impossibile elaborare una cristologia antigiudaica.2 Questo non vuol dire rinunciare o mettere al bando la Cristologia, accontentandosi di una semplice gesuologia; significa invece formulare una Cristologia in cui l’evento di Auschwitz incida profondamente nella determinazione dell’identità di Gesù. «Chi dice la gente che io sia?». La risposta che deve dare una Cristologia dopo Auschwitz non è altro che questa: «Tu sei un ebreo, veramente un uomo ebreo». Gesù Cristo non era un cristiano, ma un ebreo.3

Come parlare di Gesù Cristo post holocaustum? Si può parlare di Gesù Cristo confessando che «Gesù è ebreo e lo è per sempre».4 Come sottolinea giustamente Franz Mußner l’ebraicità di Gesù non è mero oggetto dello studio storico-critico ma appartiene intrinsecamente alla confessione di fede cristiana.5 Il legame di Gesù con il popolo di Israele è stato ricordato da Giovanni Paolo II nel suo discorso alla Pontificia Commissione Biblica e durante il Colloquio sulle radici cristiane dell’antisemitismo.6

Dopo la Seconda Guerra Mondiale e in particolare in seguito alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate la teologia cristiana ha tentato di comprendere il mistero di Gesù Cristo a partire dal legame inscindibile con il popolo di Israele. Karl Barth, Paul M. van Buren, H.U. von Balthasar e in particolare il teologo sistematico F.W. Marquardt, hanno parlato di Israele come «cristologia formale».7 La fede in Gesù ebreo deve rispettare lo statuto categoriale della tradizione biblico-giudaica.

1. La rivelazione cristiana nel confronto con ebraismo e islam

Se la Cristologia dopo Auschwitz non può dimenticarsi l’ebraicità di Gesù e il suo radicamento nel popolo di Israele, è pur vero che rimane compito fondamentale della Cristologia in quanto tale comprendere la profondità dell’affermazione paolina «Dio era in Cristo» (2Cor 5,19), senza tradire la rivelazione che Israele aveva già avuto di Dio. Potremo dunque dire che la rivelazione del Primo testamento costituisce per la teologia cristiana il tópos perí theologías. Questo presupposto ermeneutico è fondamentale per la comprensione dell’identità di Gesù Cristo. Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio a partire da categorie ebraiche? Come comprendere i due misteri centrali della fede cristiana — incarnazione di Dio e Trinità — tenendo presente la dinamica e la struttura rivelativa del PrimoTestamento?

Questi due misteri principali della fede cristiana costituiscono uno scandalo sia per il monoteismo ebraico che per quello islamico.8 L’ebraismo non solo ha diffidato, ma si è anche energicamente opposto a qualsiasi forma di apoteosi. La domanda fondamentale che ci possiamo ora porre, in dialogo con l’ebraismo, è questa: «una concezione cristologica di Dio è inconciliabile in linea di principio e in maniera assoluta col concetto ebraico di Dio?».9 Così si esprime Filone di Alessandria (verso il 30 a. C — 40 d.C.). «La trasformazione della natura umana creata e distruttibile della natura increata e indistruttibile di Dio è considerata dalla nazione ebraica come la bestemmia più orrenda. Forse Dio potrebbe diventare uomo, ma non un uomo Dio» (LegGai 118). Tra Dio e uomo non ci può essere comunione ontologica: l’essere di Dio è totalmente e radicalmente differente da quello dell’uomo. In questo caso vale l’espressione di Nm 23,19: «Dio non è un uomo». Anche se le Scritture ebraiche affermano una somiglianza tra Dio e uomo (cf Dt 8,5), questo non trasgredisce la differenza ontologica e la trascendenza tra Dio e uomo. «Dio è Dio, e l’uomo e uomo; i due possono incontrarsi; mai fondersi. C’è comunione; mai fusione».10 Né la divinità è umanizzata e tantomeno l’umanità è divinizzata.

La trascendenza di Dio è ancor più sottolineata e ribadita dall’islam. La sura 112 del Corano, detta del puro Monoteismo, recita in maniera solenne: «Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è uguale a Lui». Come proclama la shahada — Dio è grande e Muhammad è il suo profeta — compito dell’islam è di riaffermare senza tentennamenti e senza deviazioni il monoteismo delle religioni del libro (giudaismo e cristianesimo). Abramo, Mosè e altri profeti hanno adorato il Dio unico ma i seguaci di questi profeti hanno deviato dalla retta sottomissione (islam) ad Allah. Muhammad è il sigillo dei profeti. «Ha fatto scendere su di te [= Muhammad] il Libro con la verità, a conferma di ciò che era prima di esso. E fece scendere la Tôrah e il Vangelo, in precedenza, come guida per le genti» (Sura 3,3-4).11 Nell’islam il Corano viene prima del suo messaggero; nel cristianesimo la persona di Gesù precede e interpreta la stessa Bibbia. Per il Corano, la Parola di Dio divenne un libro; per il Nuovo Testamento, la Parola divenne carne.12 Nel Corano si parla con abbondanza di Gesù di Nazaret; è inserito «nella lunga lista dei profeti che vengono dopo Abramo ripetendone il messaggio (Sura 6,83-86)».13 Gesù è il figlio di Maria, è Messaggero di Dio e confermato di Spirito Santo. Il Corano attribuisce questa profezia a Gesù. «O Figli di Israele, io sono veramente un Messaggero di Allah inviato a voi, per confermare la Tôrah che mi ha preceduto, e per annunciarvi un Messaggero che verrà dopo di me, il cui nome sarà “Ahmad”» (Sura 61,6). Nel Corano Gesù viene letto allo stesso modo con cui nei Vangeli è interpretata la figura di Giovanni il Battista. Come il Battista è precursore di Gesù, così Gesù annunzia colui che dovrà venire dopo di lui. Di Gesù si nega assolutamente nel Corano la divinità, proprio perché Dio non può avere figli. Per la sura 4,171 del Corano è blasfemo confessare che Gesù sia Figlio di Dio. «O Gente della Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di Allah, una Sua parola che Egli pose in Maria, uno Spirito che proviene da Lui. Credete dunque in Allah e nei Suoi messaggeri. Non dite “Tre”, smettete! Sarà meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio? Gloria a Lui! A Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che è sulla terra. Allah è sufficiente come garante».

Nella sua prima lettera l’evangelista Giovanni mette in intima relazione la confessione della divinità di Gesù, quindi l’incarnazione del Figlio di Dio, con il mistero trinitario di Dio. «Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre» (1Gv 1,23). La logica interna della rivelazione cristiana sembra però contraddire sia il monoteismo ebraico che quello islamico. Sembrerebbe impossibile ogni forma di dialogo e di ascolto reciproco sulle verità fondamentali della fede cristiana. A questo punto ci può venire in aiuto il documento Dialogo e annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. «La pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver assimilato pienamente tale verità. In ultima analisi, la verità non è qualcosa che possediamo, ma una persona da cui dobbiamo lasciarci possedere. Si tratta quindi di un processo senza fine. Pur mantenendo intatta la loro identità, i cristiani devono essere disposti a imparare e a ricevere dagli altri e per loro tramite i valori positivi delle loro tradizioni. Così, attraverso il dialogo, possono essere condotti a vincere i pregiudizi, a rivedere le idee preconcette e ad accettare a volte che la comprensione della loro fede sia purificata» (49).14 Nell’attuale contesto di dialogo interreligioso la teologia è invitata a comprendere la verità della fede cristiana in relazione alle altre religioni monoteiste, in modo particolare modo all’ebraismo, purificando e precisando ciò che costituisce lo specifico e singolare della rivelazione in Gesù Cristo. Oltre che purificare il proprio linguaggio al teologo cristiano è richiesto di adattare il proprio al suo interlocutore, «non certo con l’intento e la sicurezza di convincerlo per mezzo di “dimostrazioni”, ma almeno con lo sforzo di “mostrare” la non-assurdità della sua concezione, ritenuta fondata sulla divina rivelazione"».15 Compito di una teologia cristiana è dunque quello di mostrare come la trascendenza e l’unicità di Dio non sono contraddetti dall’evento escatologico di Gesù Cristo e dalla confessione trinitaria; allo stesso tempo è compito della teologia cristiana svelare i possibili fraintendimenti che sono sottesi nella comprensione che le altre religioni, nel nostro caso ebraismo e islam, possono avere nei confronti della rivelazione cristiana. Sia l’islam che il cristianesimo riconoscono in Gesù di Nazaret una rivelazione profetica di Dio: lo stesso avviene per alcuni pensatori ebrei contemporanei.16 Per il cristianesimo, invece, Gesù è il profeta escatologico ovvero il vero profeta. Da questa differente interpretazione della storia e della persona di Gesù dipendono i due dogmi fondamentali della fede cristiana: incarnazione e mistero trinitario di Dio.

2. Gesù — profeta escatologico

Per i suoi contemporanei Gesù è stato molto di più di un rabbi, di un maestro di sapienza o di un Messia politico, anche se è indubitabile che in lui tutti questi elementi fossero presenti. Ciò che coagula tutti questi vari aspetti della persona di Gesù è la dimensione profetica. Romano Penna nel suo primo volume de I ritratti originali di Gesù il Cristo, dedicato agli inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, afferma che «la qualifica di Gesù come profeta è ben radicata nella tradizione e ci porta sicuramente allo stadio gesuano (non solo alla sua coscienza, ma anche all’interpretazione data di lui)». L’esperienza profetica di Gesù è ciò che permette di più di qualificare e di «definire l’identità di Gesù almeno sul piano della fenomenologia religiosa».17 Questa definizione di Gesù rende possibile il confronto tra la figura del Battista e quella di Gesù, e ci aiuta a vedere la stretta connessione tra l’esperienza profetica di Giovanni e quella di Gesù. L’identificazione di Gesù come profeta escatologico è attestata in Q e in Marco (secondo il criterio della cross-section), così come dalla tradizione propria di Luca (Lc 7,39) e dai brani propri di Giovanni.18 Come ha potuto provare Edward Schillebeeckx nei suoi due volumi dedicati a Gesù. La storia di un vivente e Il Cristo. La storia di una nuova prassi, l’interpretazione profetica di Gesù è tra le più originarie. Anche per Giuseppe Segalla il titolo di «profeta» è tra i più antichi, se non il più antico, dato a Gesù durante la sua vita pubblica e niente impedisce che Gesù stesso si sia attribuito, almeno implicitamente, questo titolo (Mt 13,57; Lc 13,33).19

Seguendo Schillebeeckx e molti altri esegeti del Nuovo Testamento possiamo dire che l’interpretazione profetica di Gesù è una delle più primitive, se non la più primitiva, tanto da farla risalire allo stesso Gesù. «La cosiddetta cristologia profetica dei vangeli non è affatto nel Nuovo Testamento un “cratere secondario”, che venne subito soppiantato; al contrario nella successiva riflessione cristologica della chiesa primitiva essa portò in forma conseguente, a partire dalla sua natura, alla cristologia del Figlio».20 Nello studio dedicato ai titoli cristologici Ferdinand Hahn ha mostrato come questo sostrato originario ed essenziale della cristologia prepasquale sia stato poi ricoperto da ulteriori stratificazioni, tanto da offuscare la dimensione originaria profetico-escatologica di Gesù.21 Tuttavia attraverso i Vangeli è possibile risalire alla memoria storica del fenomeno Gesù: in essa traspare la superiorità di Gesù sul Battista. Per esempio Luca chiama il Battista «il profeta dell’Altissimo» (1,76), mentre Gesù viene chiamato «Figlio dell’Altissimo» (1,32.35). Anche se il Battista e Gesù vengono paragonati ad Elia, tuttavia Matteo subordina Giovanni a Gesù chiamandolo il Messia (11,14; 17,13). Giovanni è l’unico che esplicitamente nega che il Battista sia il Cristo, Elia o il profeta escatologico (cf Gv 1,21.25). Egli «è la voce che grida nel deserto» (1,23) e dà testimonianza a Gesù. In questo cambiamento di prospettiva, specialmente in Giovanni, notiamo la lenta riflessione sull’identità di Gesù all’interno della storia di Dio con il suo popolo. Ciò non toglie che Gesù venga riconosciuto, fin dagli inizi della testimonianza storica dei Vangeli, come profeta escatologico (Lc 9,8.19; Mt 16,14). Gesù di Nazaret è differente dagli altri profeti poiché con il suo «amén légo hymín» e con la sua autorità (exousía) rivela la sua singolare apertura al Dio di Israele, radicata nell’esperienza dello Spirito.

3. Il profeta come «uomo del pathos»

Rifacendomi allo studio dedicato ai profeti di A.J. Heschel vorrei definire il profeta come una persona piena di pathos divino. «Il profeta è chiamato ish ha-ruah, uomo pieno di pathos divino».22 L’uomo è profeta di Dio poiché lo Spirito inabita ed ispira il profeta, cosicché la vita di Dio, l’esperienza di Dio diventa l’esperienza e la vita stessa del profeta. «L’esperienza profetica significa sperimentare una esperienza divina, o essere coscienti di esser stati l’oggetto dell’esperienza di Dio».23 In questo tipo di esperienza avviene «l’interiore identificazione personale del profeta con il pathos divino».24 Il compito del profeta è di comunicare non solo la parola di Dio ma anche ciò che Dio sente e prova dinnanzi alle situazioni e al comportamento umano. «Il profeta non è guidato da ciò che prova, ma da ciò che prova Dio».25 L’antropomorfismo dei profeti esprime questa identificazione tra Dio e l’uomo, per cui non si tratta di un accomodamento alla debolezza umana, ma corrisponde alla relazione che c’è tra Dio e la sua creatura. Nel profeta Dio appare in forma umana e nella sua parola comunica la Sua prossimità verso l’uomo. Nell’esperienza profetica viene superata, infatti, la dissomiglianza tra creatore e creatura. «Il pathos divino è come un ponte gettato sull’abisso che separa l’uomo da Dio […] Il fatto che gli atteggiamenti dell’uomo possono influenzare la vita di Dio, che Dio stia in un intimo rapporto con il mondo, implica una certa analogia tra creatore e creatura. I profeti non sottolineano solo la discrepanza tra Dio e l’uomo, ma anche il rapporto di reciprocità, che consiste in un legame di Dio con l’uomo e non solo nell’impegno contratto dall’uomo verso Dio. La disparità tra Dio e il mondo è superata in Dio e non nell’uomo».26 Il superamento di questa dissomiglianza non significa un’identificazione tra l’essere di Dio e quello dell’uomo. Il profeta fa solamente l’esperienza della parola e del pathos di Dio, non del Suo essere. «Dio è Dio, e l’uomo è uomo; i due possono incontrarsi; mai fondersi. C’è comunione; mai fusione».27

Secondo Heschel e la tradizione ebraica la Bibbia non ci dice nulla su Dio in se stesso; tutto quello che dice si riferisce alle sue relazioni verso l’uomo. Poiché Dio non ha rivelato se stesso, ma solamente la sua concreta volontà, è data una distinzione reale in Dio tra essenza e relazione. «La rivelazione non significa che Dio si fa conoscere, ma che fa conoscere la sua volontà; non la rivelazione del proprio essere da parte di Dio, la sua automanifestazione, ma la rivelazione della volontà e del pathos divini, dei modi con i quali Egli si rapporta all’uomo. L’uomo conosce la parola della rivelazione, ma non l’autorivelazione di Dio».28 Questa distinzione reale è introdotta per salvaguardare la libertà di Dio. Heschel concepisce infatti il pathos non come attributo, ma come funzione, evento di Dio. Il pathos non è una necessità di Dio, ma solo una modalità del suo agire. Dio non è condizionato quindi dall’azione dell’uomo nel suo reagire verso di lui. Il modo di comportarsi corrisponde sempre alla sua volontà: Dio agisce come vuole con il suo popolo. Il comportamento del popolo è solo causa occasionale del rivolgersi di Dio verso l’uomo: fondamentale rimane sempre la libertà divina. In tal modo la relazione tra Dio e mondo non potrà mai essere considerata essenziale ma solamente accidentale. Infatti, se il pathos fosse qualcosa d’essenziale e quindi un attributo di Dio la volontà di Dio non potrebbe più essere cambiata e l’alleanza tra Dio e popolo si rivelerebbe definitiva ed eterna. Non solo, ma in quanto definitivo, il pathos di Dio si identificherebbe con lo stesso essere di Dio: il pathos rivelerebbe così l’essere di Dio. A questo punto non ci sarebbe più una distinzione reale, ma solo formale tra essenza e relazione, tra Dio in sé e Dio per noi.

4. Dimensione escatologica di Gesù

Per comprendere il carattere escatologico della rivelazione profetica in Gesù di Nazaret faccio riferimento alle riflessioni di Ulrich Mauser. Nel suo studio dedicato all’unità del Primo e Nuovo Testamento (Gottesbild und Menschwerdung. Eine Untersuchung zur Einheit des Alten und des Neuen Testaments) Mauser fa vedere come l’idea dell’incarnazione di Dio non sia affatto estranea alla tradizione biblica ma attraversa tutta la rivelazione dal Primo fino al Nuovo Testamento.29 La creazione dell’uomo come immagine di Dio rappresenta l’inizio di questa storia dell’incarnazione ed avrà nei profeti la migliore concretizzazione. Parlando degli antropomorfismi biblici e della coscienza profetica, Mauser si rifà esplicitamente allo studio di Heschel sui profeti. «Heschel è cosciente di aver riscoperto non solo una nuova categoria ma di aver individuato la categoria fondamentale e decisiva per la comprensione della profezia di Israele. Il Dio di Israele è un Dio pieno di Pathos e la profezia è comunicazione ispirata del pathos divino nella coscienza del profeta».30 Mauser evidenzia come l’esistenza personale del profeta è congiunta intrinsecamente con l’incarnazione, in quanto «la sua vita è il luogo dove si ha rivelazione e il mezzo attraverso il quale essa si comunica».31 L’antropomorfismo dei profeti non è un puro accomodamento alla debolezza umana, ma è la cura e l’amore di Dio che si rispecchia in forma rappresentativa, potremmo dire si fa carne, nell’esperienza di vita e nel destino del profeta. L’amore di Osea non esprime «soltanto simboli di un atteggiamento di Dio verso il mondo, ma reali analogie di un altrettanto reale amore e cura di Dio».32 Nel profeta Dio appare en morphé anthrópou, senza che la natura divina si mescoli con quella umana. La parola di Dio si crea una vita umana, che comunica in forma umana la venuta di Dio verso l’uomo.

Facendo propria e sviluppando la concezione di Heschel sulla coscienza profetica, Mauser assume l’idea di pathos per interpretare l’evento escatologico di Gesù di Nazaret. Come abbiamo potuto osservare, per Heschel e per tutta la tradizione ebraica non si dà rivelazione di Dio se non come rivelazione della Sua volontà e dunque della Tôrah. La via o la parola di Dio non corrispondono totalmente all’essere di Dio.33 Se da un lato Dio ha identificato il suo agire e la sua parola con l’agire e la parola di un profeta, non abbiamo mai nel Primo Testamento un’identificazione tra Dio e la storia di un profeta. Sono narrati singoli episodi ed azioni profetiche, oracoli e messaggi profetici, nei quali è rappresentata la volontà di Dio. Questa rappresentazione è però sempre frammentaria. Anche per quei profeti, dove la rappresentanza appare più trasparente, il Primo Testamento non tira mai la conclusione che in una storia umana Dio si è reso totalmente presente. Questo limite, dice Mauser, viene superato solo nel Nuovo Testamento. Specialmente attraverso la riflessione paolina, la storia e la persona di un uomo diventano storia di salvezza.34 In questa esplicitazione cristologica dell’idea di pathos Mauser mostra chiaramente come «il Dio che è divenuto storia umana non è altro che il Dio d’Israele. Il Nuovo è perciò in continuità con il Primo Testamento, poiché l’antropomorfia di Dio e la teomorfia dell’uomo si sono realizzate nella vita umana di Gesù Cristo».35

La rivelazione del Primo Testamento è contraddistinta, infatti, dalla molteplicità dei mediatori tra Dio e uomo (cf Eb 1,1). In virtù di questo carattere molteplice non si dà autorivelazione di Dio: non abbiamo mai un’identificazione tra una parola o un evento e l’essere di Dio. Qualora la parola di Dio si lasciasse definire da un evento ben preciso, significherebbe che Dio si è voluto identificare come Dio in un determinato evento. «Nel momento in cui Dio si rivela come Colui che ama l’uomo con amore divino incondizionato, allora il mediatore non può essere pensato più nel senso di quelle figure veterotestamentarie, a cui giunge la Parola di Dio. Il mediatore non è più un uomo, a cui la missione divina costituisce una realtà estranea ed esterna, piuttosto è un uomo il cui essere e la cui libertà sono definite profondamente da Dio e dalla sua relazione».36 Dio non si identifica solamente con alcune delle parole o azioni di Gesù di Nazaret, ma con tutta la storia di Gesù di Nazaret. In virtù di questa identificazione, ne segue che questa storia diventa Parola di Dio: Gesù è la Parola nella quale Dio si è identificato.

A motivo dell’identificazione con Gesù di Nazaret, la Parola di Dio si rivela definitiva. L’identificazione non è più frammentaria: tra parola di Dio e parola del profeta, tra pathos di Dio e pathos del profeta, tra vita di Dio e vita del profeta sussiste una totale identificazione. L’evangelista Giovanni esprime questa differenza ontologica tra Gesù e gli altri profeti, affermando che lo Spirito discende su Gesù e su lui rimane: «émeinen ep’autón» (Gv 1,32). «A differenza di tutti gli eletti che lo hanno preceduto, egli non solo riceve lo Spirito, ma esiste anche, nella sua esistenza terrena, solamente per lo Spirito ed è perciò il compimento di tutti i profeti: è il vero profeta».37 Questa esistenza radicale di Gesù dallo/nello Spirito di Dio è rivelata pienamente al momento della croce, quando Gesù emette lo Spirito: «parédoken to pnéuma» (Gv 19,30). «Ciò che avvenne sulla croce di Gesù è nella sua unicità un evento che schiude le profondità della divinità. Il particolare evento escatologico dell’identificazione di Dio con l’uomo Gesù è contemporaneamente il segreto più intimo dell’essere divino».38 L’essere di Dio è dall’eternità rivolto a Gesù di Nazaret, poiché dall’essenza di Dio «deriva quell’autovincolamento che arriva fino alla croce».39

Per esprimere l’appartenenza ontologica tra divinità ed umanità, P. Schoonenberg, E. Schillebeeckx, L. Bouyer, E. Jüngel, W. Pannenberg ed in un certo senso anche K. Rahner vengono ad affermare che il Verbo eterno generato dal Padre è già orientato come verbum incarnandum o verbum vere incarnatum.40 Il radicamento ontologico di Gesù nella divinità del Padre, che il Concilio di Nicea denominerà di homoousía, è il fondamento della singolarità e dell’insuperabilità escatologica della rivelazione di Cristo.41 Con tale affermazione di fede il Concilio dichiara che Gesù è veramente generato da Dio Padre, cioè che questo uomo ha la sua origine (en arché) nell’eterna dinamica dell’essere stesso di Dio. Eternità e storia sono quindi strettamente congiunte senza separazione e allo stesso tempo ben distinte senza confusione. I quattro avverbi della definizione del Concilio di Calcedonia (451) — senza confusione e senza mutamento, senza divisione e senza separazione — precisano che il radicamento dell’uomo Gesù nell’essere di Dio non costituisce né una fusione né una relazione esterna tra Dio e uomo. Queste due realtà rimangono radicalmente e totalmente differenti tra loro: non c’è alcuna identità parziale nemmeno in un punto in comune. Dio non si altera divenendo uomo, ma è Dio in quanto altro. L’uomo non è divinizzato, ma è uomo in quanto altro da Dio. Affermando che Gesù è Figlio di Dio, la fede cristiana non ha voluto sconfessare il monoteismo ebraico, facendo di Gesù un secondo Dio accanto al Dio unico. James G.D. Dunn sottolinea che i primi cristiani non volevano affatto abbandonare il monoteismo della fede d’Israele. «È un’intuizione ed un’affermazione fondamentale del cristianesimo che la dottrina cristiana della trinità non è altro che una riproposizione del monoteismo ebraico».42 Ciò è evidente dal fatto che l’apostolo Paolo non ricevette opposizioni a motivo della sua cristologia, al riconoscimento che Gesù è il Signore (Kyrios), ma del suo insegnamento sulla Torà.43

La confessione di Gesù come Signore, quindi appartenente alla sfera del divino, non costituisce uno strappo dal monoteismo ebraico. La credenza e la speculazione su figure o modelli divini (godly models), la sapienza come personificazione di un attributo di Dio oppure lo Spirito di Dio come manifestazione dell’azione di Dio nella storia, hanno preparato la base su cui è stata possibile sviluppare la cristologia e la dottrina trinitaria. Predicando di Gesù la figliolanza divina, si vuole sottolineare il carattere definitivo della rivelazione avvenuta in Gesù Cristo. «La venuta di Dio nel Nuovo Testamento è in concreto la sua venuta nella storia di un uomo, e l’eccezionale dell’annuncio neotestamentario è il fatto che Dio compie la sua intera opera in una storia umana».44 Per poter affermare che l’essere dell’uomo Gesù ha rilevanza per l’essere stesso di Dio, se ne afferma la figliolanza. Gesù è altro da Dio (vere homo) in quanto altro di Dio (vere deus). Possiamo capire a questo punto perché lo stadio preliminare della cristologia profetica sia sfociata nella cristologia del Figlio e da questa venisse interpretata. In tal modo la riflessione di fede riconobbe nel predicato di Figlio «l’espressione linguistica più appropriata, dal punto di vista cristologico, del “fenomeno Gesù”».45 «L’unità d’azione profetica in Gesù arriva dunque fino alla coincidenza con YHWH. In ciò consiste il novum escatologico, non più superabile, del “fenomeno Gesù”. In Gv 10,30 tale esperienza e visione viene presentata nella formula: egó kai ho patér hén esmen».46

Nei Vangeli Gesù è infatti Colui che si lascia determinare totalmente dalla Parola di Dio, vivendo esclusivamente per il Padre. Gesù rivela in parole, gesti e in tutta la sua vita la prossimità e l’umiltà di un Dio che è Padre. «Il Dio che Gesù rivela non è tanto il Potente e il Glorioso, che impone irresistibilmente la propria superiore diversità, quanto piuttosto l’Accondiscendente e il Misericordioso, che si fa umile con gli umili facendosi carico delle loro debolezze (e così fino alla croce)».47 Benché per l’Islam Allah sia il Misericordioso e il Compassionevole, il Dio del Corano «non cerca di attraversare e, per così dire, non può attraversare l’abisso (tra il Creatore e l’uomo) fino al punto da diventare solidale con l’uomo ed essere totalmente con lui. Per tali ragioni, l’incarnazione e la divinizzazione non sono concepibili».48

Nella fede cristiana, invece, la prossimità di Dio arriva fino al punto estremo in cui Dio s’identifica in Gesù crocifisso, per cui questo Dio si rivelerà Padre di Gesù Cristo. Già nel periodo prepasquale Gesù aveva rivelato in modo particolare la vicinanza e l’intimità singolare con Dio suo Padre attraverso l’espressione «Abbà». «Gesù non fa che vivere in modo nuovo l’esperienza di un Dio che appartiene già da lungo tempo alla tipica fede d’Israele. È all’interno di essa che egli si colloca, ed è da questa collocazione che in qualche modo egli la fa esplodere. Intendiamoci: non che Gesù distrugga oggettivamente la fede d’Israele, che invece resta intatta e fulgida tanto da procurarle dei martiri gloriosi. Egli piuttosto ne infrange la struttura interna, senza proclamazioni rivoluzionarie, ma con il presentarsi in modo originale sul piano del vissuto, in parole e azioni».49 Proprio perché Gesù si è sottomesso al Padre, unico Dio, e non si è fatto uguale a Dio, davanti a Dio stesso è davvero il Figlio del Padre. Proprio nella distinzione dal Padre, unico Dio, ponendosi come uomo, Gesù è da uomo il Figlio dell’eterno Padre. «E sta proprio qui anche la ragione dell’identità indiretta di Gesù con il Figlio di Dio».50

Da questa esperienza singolare di Gesù con Dio Padre e dall’esperienza di salvezza avvenuta in Gesù di Nazaret le primitive comunità cristiane hanno confessato il mistero di Dio fatto uomo e il mistero del Dio trinitario.51 Questi due misteri hanno la funzione di narrare la vita, passione e morte di Gesù di Nazaret come storia di Dio. In quanto summa del Vangelo, la dottrina della trinità può garantire questa storia da qualsiasi riduzione razionalistica o mitica di Dio. Come gli inni, le omologie e i titoli cristologici hanno essenzialmente un valore salvifico e non meramente definitorio ed assertivo, così anche la trinità è una dottrina che esprime una verità salutare. Ciò significa che la dottrina della trinità deve essere elaborata non tanto mettendo insieme affermazioni bibliche sul Padre, sul Figlio e sullo Spirito, quanto riflettendo sull’esperienza di salvezza in Gesù di Nazaret.52 L’identificazione di Dio con Gesù crocifisso costringe a pensare una distinzione di Dio in se stesso, in cui Dio non si contraddice ma giunge ad una corrispondenza di amore. «Da ciò possiamo già concludere che non dobbiamo partire dalla Trinità per comprendere Gesù, ma vice versa: solo se partiamo da Gesù, la divina pienezza di unità (non tanto unitas trinitatis, quanto trinitas unitatis) diventa in qualche modo accessibile per noi. Solo dalla vita, morte e risurrezione di Gesù sappiamo che la Trinità è il modo divino dell’assoluta unità d’essere di Dio. Solo partendo da Gesù di Nazaret, dalla sua esperienza dell’Abba — fonte e anima del suo messaggio, della sua azione e della sua morte — e dalla sua risurrezione, si può dire qualcosa di significativo su Padre, Figlio e Spirito».53

5. Incarnazione e mistero trinitario

Il radicamento di Gesù di Nazaret nell’essere stesso di Dio suscita certamente delle questioni ontologiche e in particolare la questione di Dio. «Ciò che è più sorprendente non è tanto che Gesù Cristo sia Dio, quanto che Dio sia Gesù Cristo. Dunque, c’è in lui qualche cosa che gli permette di esserlo: e non solamente la sua onnipotenza che, per se stessa, non è altro che possibilità infinita; non solamente la libertà della sua grazia, che gli permette, essendo così eccelso, di discendere così in basso, ma qualche cosa che, positivamente, l’ha portato a condiscendere a tal punto da divenire uomo».54 Cosa è mai ciò che ha permesso questo? É l’amore. Dio ha rivelato che egli è in se stesso essere-con-noi (Emmanuele). «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31-32). Dio ha rivelato il suo essere-con-noi nell’identificazione con Gesù. In questo evento Dio mostra che la sua identità è in se stessa differenziata. L’identificazione che Dio fa di se stesso in Gesù presuppone un’autodeterminazione di Dio, nella quale Dio si distingue da sé. La condizione di possibilità perché Dio diventi altro da sé, è data dall’essenza divina che è segnata dall’alterità come Padre, Figlio e Spirito Santo. «La categoria dell’altro ha dunque proprio nel concetto di Dio il suo luogo originario: non come un aliud che altera l’essenza divina (ciò farebbe saltare il concetto monoteistico di Dio), ma come un essere-altro (alius, alius, alius) che personifica l’essenza divina e che costringe a pensare anche l’essenza divina come un’essenza immensamente ricca di tensione».55 Affermare la morte del Figlio di Dio (cf Rm 5,10; Rm 8,32; Gal 2,20) significa che Dio identifica se stesso in Gesù di Nazaret. Colui che è crocifisso non è solamente e radicalmente altro da Dio (vere homo) ma è altro di/in Dio (vere deus). La comunicazione da parte di Dio di tutta la sua essenza (vere deus) in altro-da-sé (vere homo) è il dono che Dio fa di sé come Spirito. Il radicamento di Gesù di Nazaret in Dio consiste nella comunicazione eterna che il Padre fa di sé al Figlio nello Spirito.

Se si ammette con il Concilio di Nicea che la distinzione in Dio non genera tanto un essere inferiore all’unico Dio, quanto un essere della stessa sostanza (homoóusios to patrí), vuol dire che la natura divina è in se stessa comunicabile. La generazione esprime questa comunicazione intradivina. Il commune soggiacente ai diversi «una natura tres personae» non è costituito quindi da una natura incomunicabile, ma dalla comunicazione personale che Dio Padre fa dello Spirito. «È essenziale per l’eternità di Dio definirsi come Padre attraverso il Figlio e lo Spirito Santo. È il mistero dell’amore, che è il Dio trinitario come comunione di reciproca alterità, essere entrambi senza contraddizione: relazionato a se stesso e donare se stesso. È essenziale per l’amore: che l’amante si ritragga a favore dell’altro che è amato».56

Arriviamo a questo punto alle radici dell’identità di Dio. Poiché Dio ha definito la propria divinità nell’identificazione con Gesù crocifisso, dovremmo dire che Dio è identico con se stesso (Dio è Dio) essendo per gli altri (Dio è uomo). Dio è comunicazione-di-sé a favore degli altri, poiché in se stesso è comunione. Se Dio non fosse comunione, la rivelazione di sé non potrebbe mai corrispondere pienamente e definitivamente a se stesso, cosicché ci sarebbe sempre una differenza reale tra Dio e la Sua rivelazione. «Non ci troviamo quindi davanti a un Dio solitario, chiuso in se stesso, ma siamo inseriti nella comunione della vita trinitaria di Dio. Ci troviamo sempre nella “struttura relazionale” di questa multiforme vita divina».57 «La rivelazione cristiana dimostra che Dio non è sostanza suprema, chiusa in se stessa, una monade ermeticamente chiusa, bensì vita che si comunica, movimento, apertura reciproca, communio»58 La concezione trinitaria di Dio vuole esprimere la ricchezza dell’essere relazionale di Dio come «evento di comunicazione».59 In questa autocomunicazione a favore degli altri «avviene quella particolare dialettica di essere e non-essere, vita e morte che, in quanto dialettica pacificata si chiama amore».60 Se Dio è autocomunicazione, alla forma, natura ed essenza di Dio appartiene l’ek-stasis, la relazione all’altro-da-sé (cf Fil 2,6-11). «Il centro di gravità si sposta dal sé all’altro, e si mette al centro il movimento (non più inteso in senso aristotelico) e la relazione (relativo, anch’essa non più intesa come categoria, come l’accidente più povero di essere)».61 La rivelazione di Dio come autocomunicazione significa che la natura di Dio è donazione di sé nel modo della kénosi.62 Come afferma K. Hemmerle nelle sue Tesi di ontologia trinitaria al centro della grammatica cristiana non c’è più il sostantivo ma il verbo. «Iniziare dall’amore, dal darsi, è iniziare dall’accadere».63 Evento e relazione definiscono l’identità più profonda di Dio. «Per quanto possa sembrare difficile, bisogna pensare la “relazione” come puro evento, come incessante processo, comprendendo così il motivo per cui il pensiero cristiano ha trovato un concetto proprio per indicarla: relatio subsistens».64

6. Aperture dialogiche della rivelazione cristiana

Il messaggio dell’alleanza di Dio con il suo popolo e il suo compimento in Gesù Cristo ci rivelano che l’infinita alterità di Dio non esclude ma include la reciprocità tra Dio e uomo.65 Come la reciprocità non mette in pericolo la trascendenza di Dio, così il suo compimento in Gesù Cristo non esaurisce la dimensione dinamica ed escatologica dell’autocomunicazione di Dio. Con l’evento dell’identificazione escatologica di Dio nell’uomo Gesù ha avuto inizio la definitiva communicatio tra divinità ed umanità. «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20); «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18); «il primogenito fra molti fratelli» (Rm 8,29). Come per mezzo di Gesù Cristo e in vista di lui sono state create infatti tutte le cose (Col 1,16-17), così in lui saranno ricapitolate (anakephalaiósasthai). Questa ricapitolazione è incominciata nella risurrezione di Gesù Cristo dai morti (cf Col 1,18). Nell’evento escatologico della croce non è stata rivelata solamente l’identificazione del Figlio di Dio con l’uomo Gesù, ma in lui con ogni uomo. La Gaudium et Spes al n. 22 afferma che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo». Per questo si parla a proposito del mistero dell’incarnazione non come di una assumptio hominis, ma come assumptio humanae naturae in personam filii. La dinamica escatologica dell’incarnazione non si è quindi conclusa con la resurrezione dai morti di Gesù di Nazaret ma continua finché ed affinchéDio non sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). L’evento escatologico dell’autocomunicazione di Dio, perciò, non si esaurisce con Gesù Cristo ma in lui e attraverso di lui anche noi diventeremo simili a lui: figli di Dio. «In Cristo ci è stato posto davanti agli occhi il fine — ma non lo abbiamo ancora raggiunto».66

La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Iesus, richiama quanto la Lumen Gentium afferma al n. 62, come l’unica mediazione di Gesù Cristo non esclude ma suscita mediazioni partecipate. Per Karl Rahner la mediazione unica e singolare di Gesù Cristo è il caso «escatologicamente perfetto, irrepetibile e inseparabile di una intercomunicazione umana davanti a Dio, di una solidarietà universale di salvezza».67 La salvezza non è un evento individualistico ma accade nella presenza dell’altro; assumendo la natura umana Dio media la salvezza attraverso la struttura intercomunicativa e relazionale dell’essere umano. L’unicità della mediazione di Gesù Cristo rende possibile che vi siano altre mediazioni (cf la mediazione di Maria). «Tutte le mediazioni intercomunicative salvifiche sono collegate alla loro meta unica e alla loro definitività escatologica in Cristo, ma proprio per questo sono tali e non invece conseguenze secondarie e a ben guardare superflue, della funzione di mediatore di salvezza che spetta a Cristo».68

Per dar ragione del carattere escatologico e intercomunicativo dell’evento di Gesù Cristo è importante abbandonare, specialmente in dialogo con l’ebraismo, ogni forma di Cristologia della discontinuità. Gesù è colui che adempie le speranze e le profezie del popolo ebraico. Cristo è il Messia e la Chiesa è il Nuovo Israele. La Cristologia della discontinuità privilegia una soluzione del rapporto tra ebraismo e cristianesimo in termini di sostituzione. Tra i principali esponenti di questo modello cristologico elenchiamo: Jean Daniélou, Hans Urs von Balthasar e Kurt Hruby. Ciò che riesce difficile per questo indirizzo cristologico è di riconoscere significato religioso al giudaismo contemporaneo.

Questi limiti sono superati dalla Cristologia della continuità che sottolinea, invece, la permanenza dell’alleanza di Dio con Israele. Nel suo discorso sull’antisemitismo Giovanni Paolo II ricordava che il popolo di Israele «persevera nonostante tutto perché è il popolo dell’Alleanza e perché malgrado le infedeltà degli uomini, YHWH è fedele alla sua Alleanza». Quando si parla di antica e nuova alleanza non si intendono due alleanze contrapposte o giustapposte l’una all’altra. La parola nuova, afferma N. Lohfink, non deve essere collegato secondo una visione evoluzionistica al superamento dell’antico, di ciò che ormai è sorpassato, ma deve essere collegato ad una valutazione positiva, con la quale s’intende dire che il recente mette «di nuovo» in luce l’originale. Con nuova alleanza, la tradizione deuteronomista, vuole esprimere infatti che l’unica alleanza «diventa “nuova” solo in quanto si libera dal velo che la copriva e comincia così a splendere in modo totalmente differente».69 Risuona qui il testo paolino di 2Cor 3,14-15: «infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore [= i figli di Israele]; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto». Il nuovo non è quindi un’aggiunta al vecchio, ma la definitiva interpretazione di ciò che è velato. La promessa di Geremia (31,31-34) è quella di un’alleanza definitiva con Dio. Oltre a questa promessa non c’è altro: il massimo, che Dio può offrire all’uomo, è la comunione con Lui.

La nuova alleanza non è altro che l’alleanza eterna di cui parla la tradizione sacerdotale. La formula dell’alleanza eterna è: «Voi siete il mio popolo ed io sono il vostro Dio». L’antica ed unica alleanza si manifesterà nel suo splendore quando sarà posta nel cuore. Questo significa che la nuova alleanza non può più subire la sorte di essere violata come la precedente alleanza. «Con lo sguardo rivolto alla “nuova alleanza” viene qui toccato il mistero della cooperazione tra Dio e la libertà dell’individuo, anzi, il punto culminante di tale cooperazione in cui l’uomo in piena libertà riposa completamente nella volontà di Dio».70 Con nuova alleanza s’intende quindi la piena e duratura realizzazione di ciò che una volta è stato dato. Con nuova si qualifica, quindi, la dimensione antropologica (en morphé tou theóu) dell’incarnazione: la relazione dell’uomo con Dio. La promessa di Dio consiste nel fatto che Dio scriverà la Torà nel cuore dell’uomo, per cui non sarà più un insegnamento dall’esterno. Ricordiamo che sono i profeti i primi a sviluppare una teologia del cuore. «L’interiorità della tôrah, che fa “nuova” l’alleanza, è la possibilità di un contatto diretto e immediato dell’individuo con il suo Dio e con la sua tôrah. La nuova alleanza è opera di Dio, è una promessa incondizionata di Dio, espressione del suo “amore irrevocabile” (Ger 31,3)».71 Il discorso sul cuore nuovo, come qualificante l’alleanza, ci fa chiedere se mai ci sia stato nel popolo d’Israele un simile cuore. «Noi cristiani a questo punto crediamo che un tale cuore ci sia stato e indichiamo Gesù di Nazaret, il “cuore di Gesù”. E siamo anche convinti che tutti coloro che si legano nella fede a questo cuore, anche se continuamente falliscono e sempre di nuovo sono bisognosi di perdono, hanno parte alla forza di fedeltà alla Torà di questo cuore e alla sua conoscenza di Dio, radicata nella più profonda intimità. Ed in ciò vediamo un compimento della promessa della “nuova alleanza” che sorpassa tutti i precedenti, in altre parole il suo compimento».72 L’alleanza sinaitica non è stata dunque soppressa, ma è giunta alla sua pienezza in Gesù. Seppur questo compimento dell’alleanza a parte hominis è definitivo ed escatologico in Gesù di Nazareth, non è da restringere solamente a lui. Il testo di Ger 31, afferma N. Lohfink, «parla di qualcosa che viene donato fin dentro alla profondità del cuore anche a quel popolo ebreo che non scorge ancora il volto del Messia che gli è stato promesso».73 Se la realtà di Gesù Cristo è compresa all’interno della categoria di alleanza, significa che l’incarnazione di Dio in Gesù di Nazaret è una verità anche per il popolo di Israele, «con il quale Dio stesso si è posto in alleanza, sotto il cui nome si è fatto conoscere nel mondo come Dio d’Israele».74 Poiché nell’alleanza Dio stesso si relaziona ad Israele, attraverso il libero e totale sì di Gesù, YHWH si farà conoscere come la ragione e il fondamento dell’alleanza.

Benché l’evento escatologico di Gesù Cristo sia il compimento e il paradigma dell’alleanza eterna, esso non è ancora pienamente realizzato. Gesù «è» e «non è» Messia. Il termine «Messia» ha un duplice significato: collettivo e individuale. L’interpretazione cristiana del messianismo è stata prevalentemente individuale. La dimensione collettiva e futuristica del messianismo (l’era messianica) è stata sottaciuta: questa dimensione, invece, è ampiamente affermata dall’ebraismo. Un’adeguata Cristologia deve tener presente questi due significati del messianismo ponendoli nella tensione temporale del «già e non ancora». Gesù è Messia (già), ma non lo è ancora con il Suo popolo (non ancora). Per questo modello cristologico l’antisemitismo e quindi l’evento dell’Olocausto non sono solo un’espressione di odio nei confronti di esseri umani, ma sono atti contro Israele e contro Dio. Tra i principali esponenti di questa cristologia sono da annoverare: Clemens Thoma e John T. Pawlikowski.

Quando confessiamo che «Gesù è il Messia» dobbiamo tener presente sia il già che il non ancora di questa affermazione. La perennità d’Israele è il segno che il tempo messianico, inaugurato in Gesù di Nazaret, non è pienamente concluso. «Il cristianesimo sa bene che le promesse dei profeti dell’Antico Testamento con Gesù di Nazaret non si sono ancora tutte compiute: la giustizia universale non si è ancora stabilita nel mondo, la pace tra tutti i popoli non si è ancora realizzata, la morte continua ad esercitare il suo potere distruttivo. Pertanto il cristiano deve aver comprensione se gli ebrei fanno riferimento proprio a questa mancata “realizzazione delle promesse” e se, proprio per tale mancanza, stentano a vedere in Gesù di Nazaret “il promesso”».75 Per il cristiano la confessione che Gesù è il Messia è dialettica: tiene presente della distensio temporum. «Il sì dei cristiani a Gesù Messia è di conseguenza un sì non ancora completo e definitivo, ma provvisorio e pieno di speranza. “Vieni, Signore Gesù, ora. Sì, vengo presto” (Ap 22,20)».76 La confessione cristiana «Gesù è il Messia» include una mancanza che rinvia all’eccedenza escatologica del «non ancora». «Il Redentore è già venuto nel mondo nella persona di Gesù Cristo, anche se ancora non ha avuto luogo la redenzione completa, cioè la liberazione di tutto il creato dalla caducità nell’assunzione della gloria dei figli di Dio, e la redenzione del corpo nella resurrezione dei morti».77 F. Mussner parla di un’eccedenza della promessa. «Le promesse dei profeti di Israele si sono adempiute solo parzialmente in Gesù di Nazareth. Resta dunque un’“eccedenza”, un grosso resto, che deve essere ancora condotto a compimento, e sul quale gli ebrei tornano sempre, forse con ironia e sarcasmo: Gesù non avrebbe realmente adempiuto le promesse del tempo messianico, e perciò egli non sarebbe il Promesso, come affermano i cristiani».78 J. Moltmann sottolinea che «il sì cristiano a Gesù, il Cristo, non è quindi un sì concluso e compiuto, ma resta aperto al futuro messianico».79

La tensione tra il già e il non-ancora non va interpretato, tuttavia, solamente come dialettica tra incompitezza e pienezza ma come dialettica tra accettazione e rifiuto. «La scissione originaria tra giudaismo e cristianesimo appartiene all’abisso della ricchezza di Dio».80 Nella lettera ai Romani l’apostolo Paolo afferma, infatti, che «l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rom 11,25-26). Le genti sono chiamate ad entrare nel popolo d’Israele; mentre questo si realizza, si consuma — si potrebbe dire nel modo dell’Aufhebung hegeliana — il rifiuto di Israele. «Nel “no” Paolo ha visto la volontà di Dio. Non perché si rifiuta, Israele si rende ostinato, ma proprio perché reso ostinato da Dio esso non può far altro che rifiutarsi. Ostinazione non significa riprovazione e non ha nulla a che vedere con il giudizio morale. Si tratta di un agire temporaneo di Dio nella storia, non del suo agire escatologicamente definitivo».81 Una teologia cristiana dell’ebraismo è chiamata a sviluppare una Cristologia che comprenda la continuità tra Cristo e Israele in maniera sia dialettica che relazionale: «una cristologia che non è antiebraica bensì pro-ebraica».82

Una tale teologia potrebbe essere chiamata: teologia della tardemah. Il termine tardemah indica torpore: quel sonno che Dio fece scendere su Adamo al momento in cui venne estratta la costola per plasmare Eva. Il rapporto Adamo-Eva può essere assunto come midrash per interpretare il rapporto tra Cristianesimo ed Ebraismo, così come Paolo usa l’immagine dell’ulivo e dell’oleastro (cf Rom 11,17). Come Eva trae la sua origine ed è formata dalla costola di Adamo, così le genti partecipano della radice e della linfa del’olivo. Come per la creazione della donna così anche per la nascita della Chiesa Dio fa scendere il suo torpore sul popolo dell’alleanza. Il termine tardemah ricompare spesso nell’Antico Testamento (Gen 15,12; 1Sam 26,12; Prov 19,15; Is 29,10; Rom 11,8). A noi interessano innanzitutto i due versetti di Is 29,10 e Rom 11,8 in quanto fanno riferimento ad una medesima situazione. «Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al giorno d’oggi». Il torpore serve a Paolo per comprendere l’indurimento di Israele come una realtà voluta da Dio. C’è un piano di Dio in questo indurimento. Il terzo versetto che può illuminare la teologia della tardemah è Gen 15,12. È il torpore che scende su Abram, al momento in cui Dio stipula l’alleanza. I due testi di Gen 15,12 e Rom 11,15 ci aiutano a comprendere la situazione di Israele. «Quando tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarano in mezzo agli animali divisi. Il quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram: “Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate”». Come l’alleanza in Gen 15,12 avviene mentre Dio passa in mezzo agli animali e li divide, così la separazione tra ebrei e cristiani è il segno dell’alleanza, in cui l’uno viene fatto per l’altro (cf Gen 2,21). L’indurimento di Israele, voluto da Dio, è per la salvezza delle genti. È un «no» per un «sì». «Se non ci fosse stato il rifiuto dell’intero Israele, la chiesa cristiana sarebbe ancora un movimento di risveglio messianico intragiudaico. Insieme al rifiuto ebraico, invece, la comunità cristiana ha fatto l’esperienza sorprendente che lo Spirito di Dio raggiunge i pagani e che costoro vengono direttamente coinvolti nella fede in Cristo senza essere prima costretti a farsi ebrei. La stessa missione tra le genti, iniziata da Paolo, è frutto indiretto del rifiuto ebraico».83 La nuova alleanza non ha quindi sostituito l’antica alleanza; la Chiesa non ha sostituito Israele. Allo stesso tempo non si può affermare che ci sia una via speciale o parallela di salvezza per Israele. L’esegeta O. Hofius afferma che Israele sarà salvato non attraverso la missione evangelizzatrice della Chiesa ma attraverso l’incontro diretto dello stesso Cristo che verrà alla fine dei tempi. Alla venuta del Messia, che sarà per i cristiani un ritorno, tutto Israele sarà salvato ma non senza il Messia.84 In attesa della parusia non si attende tanto la conversione degli ebrei quanto la redenzione d’Israele e la conversione delle genti. Non c’è che un’unica alleanza che dividendo in distensione temporis gli ebrei dai cristiani li unisce gli uni agli altri. Questa unione attraverso la divisione e il rifiuto conduce alla riconciliazione del mondo che avverrà nel modo di una «resurrezione dai morti» (Rom 11,15).

A questo evento escatologico partecipa il popolo della promessa e in Gesù Cristo tutte le genti. L’autovincolamento di Dio nell’uomo Gesù dà alla vita e alla storia di questo uomo un carattere particolare e singolare. Nel suo abbassamento Gesù ha rinunciato al proprio sé per l’Altro, che è Dio Padre, e attraverso questo abbassamento è divenuto «mediatore», posto in una relazione sempre più intima e profonda con ogni uomo. La singolarità ed unicità di Gesù Cristo non è esclusiva o inclusiva ma è kénotica. Nell’identificazione di Dio con la consegna che Gesù ha fatto della propria vita all’altro-da-sé, è stato rivelato sia chi è Dio e il modo con cui è presente nella storia di ogni uomo per farci partecipi della sua stessa pienezza: «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28).

Se la fede cristiana non può prescindere dalla concentrazione cristologica (Dio è Gesù e Gesù è Dio), allo stesso tempo non può minimizzarne la dimensione kénotica. La particolarità e la modalità dell’evento di Gesù Cristo costituisce il fondamento — diremmo kènotico — dell’universalità. Se il «non-essere» della morte di Gesù si rivela nella Resurrezione come «essere-per», l’universalità predicata di Gesù Cristo consiste nel «riconoscere nell’altro e nel limite che c’impone il nostro proprio fondamento».85 Se l’identità non solo del Gesù terreno ma anche del Gesù risorto è data dalla relazione con gli altri, significa che per scoprire la profondità della rivelazione di Dio in Gesù Cristo c’è bisogno dell’esperienza delle altre religioni. «Riconoscere l’altro nella sua differenza e nel limite che ci impone, è la logica stessa dell’esistenza pasquale».86 Il riconoscimento dell’irriducibile differenza delle altre religioni «è un correlato necessario dell’insistenza sul carattere distintivo della prospettiva della fede cristiana fondata sull’autorivelazione particolare e distintiva del Dio trino».87 La particolarità dell’evento trinitario dischiude ad un tipo di universalità che non è né esclusiva né inclusiva, ma relazionale-escatologica. «La salvezza di tutti è veramente presente e reale in Gesù nello stesso tempo rimanda a un futuro ultimo per il suo pieno dispiegamento».88

La salvezza non è ancora universale e non si è ancora del tutto adempiuta: diviene sempre più universale sui sentieri del dialogo interreligioso. Il cristianesimo è quindi «in costante dialogo, sia che lo voglia e sia che non lo voglia, con le altre religioni. Il suo significato e il suo impatto potrà essere pienamente compreso solo nell’ultimo giorno, quando la storia raggiungerà il suo compimento».89 La particolarità e l’unicità di Gesù, affermano sia C. Geffré che J.A. DiNoia, è in attesa di questa universalità.90 In Dialogo e Annuncio al n. 32 si afferma che i cristiani devono accettare di essere messi in discussione. «In effetti, malgrado la pienezza della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, alle volte il modo secondo cui i cristiani comprendono la loro religione e la vivono può avere bisogno di purificazione». Attraverso il dialogo interreligioso e di riconciliazione si attua ciò che manca ancora al mistero di Cristo (cf Col 1,24) e nello Spirito i fedeli sono guidati alla piena verità (cf Gv 16,13). In Gesù la Parola di Dio si è fatta parola e carne umana, perché ogni parola e carne umana possano divenire Parola di Dio. «Piuttosto che attenuare lo scandalo del Verbo fatto carne per facilitare il dialogo interreligioso, bisogna mostrare che è lo stesso principio incarnazionale, cioè la manifestazione dell’Assoluto nella e attraverso la particolarità storica, che ci invita a non assolutizzare il cristianesimo come religione che esclude tutte le altre».91 C’è quindi una tensione tra l’essere cristiano e il divenire cristiano che ci fa progredire verso un’esperienza sempre più radicale ed intima di Dio e ci introduce — come dice un’antica Omelia sul Sabato Santo — nella sala dove tutto sarà allestito, la mensa sarà addobbata, i forzieri saranno aperti. In altre parole, sarà preparato per l’uomo dai secoli eterni il regno dei cieli. Alla fine dei giorni sarà allora come alle Querce di Mamre, quando il Signore apparve ad Abramo. «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra» (Gen 18,1-2). Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto sicut erat in principio nunc et semper et in saecula saeculorum Amen.


  1. J. Isaac, Gesù e Israele, Nardini Editore, Firenze 1970, 400. ↩︎

  2. Cf M.B. McGarry, Christology after Auschwitz, Paulist Press, New York1977; G. Niekamp, Christologie «nach Auschwitz». Kritische Bilanz für die Religionsdidaktik aus dem christlich-jüdischen Dialog, Herder, Freiburg 1994. ↩︎

  3. J.B. Metz, «Unterwegs zu einer Christologie nach Auschwitz», in StZ, 125 (2000), 757. ↩︎

  4. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, «Ebrei e ebraismo per la chiesa cattolica», in Il Regno-documenti, 17/1985, 516. ↩︎

  5. Cf F. Mußner, «Jesus von Nazareth: vere homo Judaeus», in Catholica, 3 (2000), 200-207. ↩︎

  6. Giovanni Paolo II, «Il discorso di Giovanni Paolo II alla Pontificia Commissione Biblica», in L’Osservatore Romano 12/4/1997, 5; Id., «Il discorso di Giovanni Paolo II agli esperti del Colloquio vaticano sul rapporto tra cristiani ed ebrei», in L’Avvenire 1/11/1997, 22. ↩︎

  7. F.W. Marquardt, Das christliche Bekenntnis zu Jesu, dem Juden. Eine Christologie, Bd. 2, München 1991, 116. ↩︎

  8. «La questione più difficile da risolvere nel dialogo tra giudaismo e cristianesimo riguarda la divinità di Gesù, l’incarnazione e la trinità […] Tutti gli autori ebrei (ed anche musulmani) sono d’accordo nel considerare la divinità di Gesù come inconciliabile con un’autentico monoteismo e tale affermazione su Gesù è stata rifiutata come idolatrica» (M. Wyschogrod, «Inkarnation aus jüdischer Sicht», in EvTh, 55 (1995), 13). ↩︎

  9. C. Thomas, Teologia cristiana dell’ebraismo, Marietti, Casale Monferrato 1983, 137. ↩︎

  10. A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981, 192. ↩︎

  11. Già nell’Adversus Iudaeos Tertulliano aveva definito Gesù Cristo «il sigillo» di tutti i profeti che dà compimento a tutte le promesse e dopo di lui non ci sarà più d’attendere nessuno, se non il suo ritorno alla fine dei tempi. ↩︎

  12. Cf W.E. Phipps, Muhammad and Jesus. A Comparison of the Prophets and their Teachings, SCM Press, London 1996, 81. ↩︎

  13. M. Borrmans, Gesù Cristo e i musulmani del XX secolo. Testi coranici, catechismi, commentari, scrittori e poeti musulmani di fronte a Gesù, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, 20. ↩︎

  14. Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso — Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, «Dialogo e annuncio», in Il Regno-documenti, 15/1991, 471. ↩︎

  15. P. Gianazza, «Mistero trinitario e Islam», in A. Amato (ed.), Trinità in contesto, LAS, Roma 1993, 264-265. ↩︎

  16. Alcuni autori del giudaismo contemporaneo hanno parlato di Gesù come rabbi e profeta (cf G. Vermes e J. Klausner), benché il giudaismo ortodosso tradizionale faccia terminare la profezia con Malachia. L’islam riconosce ufficialmente Gesù come un profeta e precede Mohammad. ↩︎

  17. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 122. ↩︎

  18. Con criterio della cross section o dell’attestazione multipla, si considera autentico un detto o un’azione di Gesù se ciò viene riportato da diverse fonti letterarie (Marco, Q, Paolo, Giovanni) e in diversi modi letterari (parabola, disputa, miracolo, profezia e aforisma). Usando questo criterio si è venuti ad affermare che Gesù di fatto ha parlato del Regno di Dio. A motivo di questa molteplice attestazione è difficile che un dato fatto o una data parola possa essere creazione della Chiesa primitiva. Un altro esempio è dato dal racconto della purificazione del tempio. Ma questo non vuol dire che se un detto o un’azione è riportata da una sola fonte o in una sola forma letteraria non sia autentica. Ogni criterio deve essere usato sempre in unità con gli altri. ↩︎

  19. Cf G. Segalla, La cristologia del Nuovo testamento, Paideia, Brescia 1985, 48-50. ↩︎

  20. F. Mussner, «Origini e sviluppo della cristolgoia neotestamentaria del Figlio. Tentativo di una ricostruzione», in L. Scheffczyk, Problemi fondamentali della cristologia oggi, Morcelliana, Brescia 1983, 92; Cf Id. «Vom “Propheten” Jesus zum “Sohn” Jesus», in A. Falaturi — J. Petuchowski — W. Strolz (edd.), Drei Wege zu dem einen Gott. Glaubenserfahrung in den monotheistischen Religionen, Freiburg, Herder, 1977, 103-116. ↩︎

  21. Cf F. Hahn, Christologische Hoheitstitel. Ihre Geschichte im frühen Christentum, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1963, 351-404. ↩︎

  22. A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981, 129. ↩︎

  23. Ib., 351. ↩︎

  24. Ib., 117. ↩︎

  25. Ib., 126. ↩︎

  26. Ib., 16. ↩︎

  27. Ib., 192. ↩︎

  28. Ib., 348. ↩︎

  29. Cf U. Mauser, Gottesbild und Menschwerdung. Eine Untersuchung zur Einheit des Alten und des Neuen Testaments, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1971. In due suoi saggi Franz Mußner esamina lo studio di U. Mauser: F. Mussner, «Vom “Propheten” Jesus zum “Sohn” Jesus».; Id., «Ursprünge und Entfaltun der neutestamentlichen Sohneschristologie. Versuch einer Rekostrution», in L. Scheffczyk (edd.), Grundfragen der Christologie, (Quaest. Disput. 72), Herder, Freiburg 1975, 77-113. ↩︎

  30. U. Mauser, Gottesbild und Menschwerdung, 41. ↩︎

  31. Ib., 40. ↩︎

  32. Ib. ↩︎

  33. «Dio non rivela se stesso, rivela solo la via per arrivare a lui. L’ebraismo non parla di auto-rivelazione di Dio, ma della rivelazione del suo insegnamento nei confronti degli uomini. E così la Bibbia riflette la rivelazione di Dio nei suoi rapporti con la storia, piuttosto che la rivelazione di Dio in se stesso» (A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969, 284). ↩︎

  34. Il Nuovo Testamento identifica «l’evento di una vita umana con parola e azione di Dio […] Ha così parlato di Dio sotto forma di linguaggio e azione umana, di volontà e decisione umana, in modo più diffuso ed esplicito di quanto mai è avvenuto nell’Antico Testamento. L’antropomorfia di Dio nell’Antico Testamento viene spinta tanto all’estremo che si può intendere il Nuovo Testamento soltanto come suo punto di culminazione insuperabile» (U. Mauser, Gottesbild und Menschwerdung, 117). ↩︎

  35. Ib., 190. ↩︎

  36. P. Hünermann, Jesus Christus Gottes Wort in der Zeit. Eine systematische Christologie, Aschendorff Verlag, Münster 1994, 66-67. ↩︎

  37. J. Ratzinger, La Figlia di Sion. La devozione a Maria nella Chiesa, Jaca Book, Milano 1995, 47. ↩︎

  38. E. Jüngel, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982, 290. ↩︎

  39. J. Ratzinger, «La Nuova Alleanza. Sulla teologia dell’Alleanza nel Nuovo Testamento», in Rassegna di Teologia, 36 (1995) 9-22 qui 21. ↩︎

  40. Cf P. Gamberini, «Ontologia di relazione e cristologia», in C. Greco (ed.), Cristologia e antropologia, AVE, Roma 1994, 214ss. ↩︎

  41. D. Wiederkehr, «Linee di cristologia sistematica», in J. Feiner — M. Lohrer (edd.), Mysterium Salutis, III/1, Queriniana, Brescia 19771, 643, nota 36. ↩︎

  42. Cf J.D.G. Dunn, The Christ and the Spirit. Christology, vol. 1, William B. Eerdmanns Publishing Company, Cambridge 1998, 344. Cf anche M. Fatehi, The Spirit’s Relation to the Risen Lord in Paul. An Examination of Its Christological Implications, Mohr Siebeck, Tübingen 2000, 232-233. ↩︎

  43. Ib., 416. ↩︎

  44. U. Mauser, Gottesbild und Menschwerdung, 7. ↩︎

  45. F. Mussner, «Origini e sviluppo della cristologia», 104. ↩︎

  46. Ib., 93. ↩︎

  47. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, vol. I. Gli inizi, San Paolo, Cinsello Balsamo (MI) 1996, nota 430, 171. ↩︎

  48. C. van Nispen, «Approches biblico-theologiques de l’Islam», in A.A. Roest Crollius (Ed.), Understanding and Discussion: Approaches to Muslim-Christian Dialogue, vol XX, PUG, Roma 1998, 51. ↩︎

  49. R. Penna, «Gesù di Nazaret e la sua esperienza di Dio: novità nel giudaismo», in Lateranum., 45 (1999), 504. ↩︎

  50. W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, Queriniana, Brescia 1994, 421. ↩︎

  51. «L’esperienza cristiana dello Spirito così come viene dischiusa nelle lettere di Paolo è di stampo trinitario. I cristiani si trovano alla base di una relazione duale versoDio come Padre e verso Gesù come Signore nello e attraverso lo Spirito. Nello Spirito gridano abba a Dio e hanno una relazione figlio-padre verso di lui. Nello stesso Spirito invocano Gesù come kyrios a hanno una relazione servo-signore nei suoi confronti. In altre parole, nello e attraverso lo Spirito, i credenti sperimentano Dio come Padre e Gesù come Signore. Qui, se non altro, abbiamo la base esperienzaiel per una teologia trinitaria» (M. Fatehi, The Spirit’s Relation to the Risen Lord in Paul, 333). ↩︎

  52. Cf R. Haight, «The Point of Trinitarian Theology», in TJT, 4/2, 1988, 191-204. ↩︎

  53. E. Schillebeeckx, Gesù. La storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1976, 697. ↩︎

  54. Y. Congar, Jesus-Christ. Notre Médiator, notre Seigneur, Cerf, Paris 1965, 28. ↩︎

  55. E. Jüngel, «Die Wahrnehmung des Anderen in der Perspektive des christlichen Glaubens», in E. Ferri (ed.), Monoteismo e conflitto, CUEN, Napoli 1997, 149. ↩︎

  56. E. Jüngel, «Gottes ursprüngliches Anfangen als schöpferische Selbstbegrenzung», in Id., Wertlose Wahrheit. Zur Identität und Relevanz des christlichen Glaubens. Theologische Erörterungen III, Chr. Kaiser Verlag, München 1990, 154. ↩︎

  57. K. Lehmann, «Credo nella Trinità. Un percorso nella teologia trinitaria recente», in Il Regno-attualità, 22/2000, 749. ↩︎

  58. Ib., 753. ↩︎

  59. G. Greshake, La fede nel Dio trinitario. Una chiave per comprendere, Queriniana, Brescia 1999, 697. ↩︎

  60. E. Jüngel, Dio mistero del mondo, 289. ↩︎

  61. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento della filosofia cristiana, Città Nuova, Roma 1986, 39. ↩︎

  62. Cf A. Gesché, «Dieu est-il “capax hominis”», in Revue Théologique de Louvain, 24 (1993) 32. ↩︎

  63. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria, 40. ↩︎

  64. K. Lehmann, «Credo nella Trinità», 753. ↩︎

  65. Cf J. Ratzinger, «La nuova Alleanza. Sulla teologia dell’Alleanza nel Nuovo Testamento», 9-22. ↩︎

  66. R. Bernhardt, «Deabsolutierung der Christologie», in M. von Brück — J. Werbick (edd.), Der einzige Weg zum Heil? Die Herausforderung des christlichen Absolutheitsanspruchs durch pluralistiche Religionstheologen, Herder, Freiburg 1993, 192. ↩︎

  67. K. Rahner, «Il mediatore unico e le molte mediazioni», in Id., Nuovi Saggi, III, EP, Roma 1969, 261. ↩︎

  68. Ib., 272. ↩︎

  69. N. Lohfink, L’alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991, 47. ↩︎

  70. Ib., 50-51. ↩︎

  71. A. Bonora, «Alleanza», in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 30. ↩︎

  72. N. Lohfink, L’alleanza mai revocata, 57. ↩︎

  73. Ib., 60. ↩︎

  74. M. Wyschogrod, «Inkarnation aus jüdischer Sicht», 26. ↩︎

  75. Conferenza episcopale tedesca, «Rapporti fra Chiesa ed Ebraismo. (28 aprile 1980)», in L. Sestieri — G. Cereti (edd.), Le chiese cristiane e l’ebraismo, Marietti, Genova 1983, 317. ↩︎

  76. C. Marcheselli-Casale, «Gesù di Nazaret, Messia di Israele?», in G. Castello (ed.), Volti del Messia. Gesù di Nazaret e il dialogo ebraico-cristiano, Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale — Edizioni “S. Tommaso”, Napoli 1999, 73. ↩︎

  77. F. Mussner, Il popolo della Promessa, Città Nuova, Roma 1982, 410. ↩︎

  78. Ib. ↩︎

  79. J. Moltmann, La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia 1991, 49. ↩︎

  80. E. Przywara, «Cattolicità romana — ecumenicità cristiana universale», in AA. VV., Orizzonti attuali della teologia, vol. 2, EP, Roma 1967, 653. ↩︎

  81. J. Moltmann, La via di Gesù Cristo, 49. ↩︎

  82. Ib., 52. ↩︎

  83. Ib. ↩︎

  84. O. Hofius, «Da Evangelium und Israel. Erwägungen zu Römer 9-11», in ZthK, 83 (1986), 320. ↩︎

  85. S. Breton, Unicité et monothéisme, Cerf, Paris 1981, 152-153. ↩︎

  86. G. Geffré, «La singolarità del cristianesimo nell’età del pluralismo relgioso», in Filosofia e Teologia, VI (1992), 57. ↩︎

  87. C. Schwöbel, «Particularity, Universality, and the Religions», in G. D’Costa (edd.), Christian Uniqueness reconsidered. The Myth of a Pluralistic Theology of Religions, Orbis, New York 1992, , 37. ↩︎

  88. G. Colzani, «Assolutezza del cristianesimo? Sul pluralismo religioso, in risposta ad Angelo Amato», in M. Aliotta (ed.), Cristainesimo, relgione, religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 182. ↩︎

  89. M. Amaladoss, «Speaking of Jesus in India today», in TD, 46 (1999), 37. ↩︎

  90. «Nell’ultimo giorno ci sarà la rivelazione della convergenza misteriosa delle religioni tra di loro e del loro posto nell’unico disegno di Dio» (C. Geffré, «Le pluralisme religieux comme question théologique», Vie spirituelle, 3 (1998), 584); cf J.A. DiNoia, The Diversity of Religions. A Christian Perspective, The Catholic University of America Press, Washington 1992, 91. ↩︎

  91. C. Geffré, «Le pluralisme religieux comme question théologique», 586. ↩︎