Teismo ed antropologia in Max Scheler

Nella sua opera fondamentale riguardante la filosofia della religione, Vom Ewigen im Menschen, la cui prefazione alla prima edizione porta la data del 1920, Scheler sostiene una concezione che può esser senz’altro definita come teismo, ed anzi intende riproporre i contenuti fondamentali della visione agostiniana, fondandoli in modo nuovo «con gli strumenti di pensiero della filosofia fenomenologica» e liberandoli quindi anche «dagli involucri legati al tempo storico».1

Le due tesi fondamentali del teismo sono la personalità divina e la creazione ed entrambe si ritrovano affermate chiaramente nell’opera scheleriana che stiamo prendendo in esame. Si tenga presente che per Scheler la personalità divina non è un concetto che possa essere dimostrato mediante un’argomentazione metafisica od ontologica che riguarda l’Ens a se, cioè l’Assoluto e non Dio in quanto entità appartenente alla sfera religiosa: semmai, filosoficamente si potrà arrivare a pensare la spiritualità dell’Assoluto, non però la personalità. «Un’intera serie di tesi fondamentali — scrive Scheler —, che anche la religione pone come vere a partire dalla logica di senso dell’atto religioso stesso, possono essere dimostrate oltre a ciò anche filosoficamente con l’aiuto della metafisica. Assegno all’ambito di esse (soltanto come esempio) l’esistere (Existenz) di un ente, che solo a partire dalla sua essenza stessa ha la sua esistenza (Dasein); l’esistere di questo Ens a se come causa prima di ogni esistente in modo contingente (come settore dell’insieme di ciò che nell’eidologia è sviluppato come essenzialmente possibile); la spiritualità e razionalità di questo Ens a se e la sua natura come summum bonum e scopo finale di tutta l’attività mondana; la sua infinità. In nessun caso però aggiungo a ciò la sua personalità fattuale».2 Infatti, la persona si manifesta soltanto nell’atto dell’autocomunicazione, ed è quindi un attributo che può essere accolto soltanto per libera rivelazione e non dedotto in base a condizioni. Con rivelazione, però, non si intende qui l’oggetto di una teologia in senso confessionale bensì quello di una fenomenologia essenziale della religione, la quale ha tre compiti fondamentali: stabilire la struttura ontologica del divino, distinguere le forme di rivelazione in cui il divino si manifesta all’uomo, e infine elaborare una dottrina dell’atto religioso con cui l’uomo si prepara ad accogliere il contenuto della rivelazione.3

La fenomenologia della religione porta a distinguere nettamente l’atto religioso da quello della conoscenza metafisica: «L’atto religioso correlato accoglie qualcosa che diventa manifesto, che si presenta da se stesso (in qualcosa di altro); l’atto metafisico si fa ad esso incontro spontaneamente sulla base di operazioni logiche».4 Ciò implica anche differenze profonde riguardanti il tipo di relazione con l’oggetto, che nell’atto religioso assume un carattere simbolico, venendo così a mancare ogni deduzione di tipo necessario sia causale sia logico-oggettivo. L’ente contingente nel pensiero metafisico è solo esemplare dell’universale, del concetto, mentre nell’atto religioso il reale ha significato proprio per la sua unicità e concretezza. «Per questo anche la differenza smisurata per cui il processo di pensiero metafisico che conduce al concetto di Ens a se può prendere le mosse da ogni sussistente in modo casuale e relativo senza far differenza, mentre nella comprensione religiosa di questa fondamentale determinazione del divino sono sempre cose concrete del tutto determinate nella loro unicità o almeno nettamente circoscritte nella loro specie, e accadimenti — eventualmente anche esperienze vissute psichiche — quelli nei o presso ai quali il divino si dischiude».5 Potremmo dire quindi che la dimensione del divino è una dimensione pre-logica caratterizzata dall’accoglimento diretto della manifestazione a prescindere da atti di deduzione logica e causale. Gli atti logici hanno invece luogo nel sapere filosofico che è orientato all’Assoluto e non al divino dell’esperienza religiosa. L’Assoluto viene poi pensato in termini ontologici sulla base di due evidenze fondamentali, la prima delle quali si esprime nel giudizio che il «nulla non sia»6 — intendendo con ciò il nulla assoluto —, mentre la seconda afferma che qualcosa «è in modo “assoluto”», afferma cioè un ente «essente assolutamente»,7 che è poi l’ens a se o l’ens per se, che non dipende da altro per la sua verità o per il suo essere.

Per Scheler la religione ha un’origine nello spirito umano essenzialmente diversa da quella della filosofia e della metafisica, e pertanto egli rifiuta non solo l’identità totale di religione e filosofia quale è affermata dalla gnosi — per esempio dal panteismo hegeliano —, ma anche l’identità parziale, quale si trova, ad esempio, affermata nel tomismo. Intenzionalmente l’oggetto della metafisica è diverso da quello della religione, perché la prima ricerca il fondamento ultimo della realtà mentre la seconda è animata dalla richiesta della salvezza: non bisogna quindi trascurare la distinzione fra il Dio metafisico, che è il fondamento del mondo, e il Dio religioso. Tuttavia, non può esserci una contraddizione fra i due, perché l’unità dello spirito umano non lo consente, e poi il concetto di Ens a se può essere applicato anche al Dio religioso. «La visione apriorica dell’identità reale del Dio della metafisica e della religione richiede una composizione vera e reale di queste apparenti contraddizioni».8 Le fonti di conoscenza sono diverse, non si può quindi nemmeno porre la teologia naturale alla base di quella positiva, però la piena automia non può spingersi fino al contrasto, deve esserci una «conformità», e Scheler chiama appunto la sua posizione riguardo ai rapporti fra metafisica e religione «sistema di conformità».9

Potremmo chiederci ora se il concetto di creazione appartenga alla metafisica o alla religione. Per Scheler il concetto di creazione non implica solo che il mondo sia posto in essere da uno spirito infinito, poiché tale spirito potrebbe anche essere una causa necessaria che agisce come una potenza del destino, è richiesta invece anche la volontà libera e personale, e, come si è detto, la nozione di persona rientra nella sfera religiosa, Anche l’idea di un Dio che è intelligenza non porta alla creazione, la quale invece richiede l’amore che induce Dio a comunicarsi rivelandosi, invece di rimanere chiuso in se stesso. «Anche l’idea di un Dio creatore — scrive Scheler — presuppone l’amore come nucleo dello spirito divino e non il sapere. L’idea di Dio di Aristotele non possiede il contrassegno della forza creatrice, che invece è essenziale per l’idea cristiana di Dio, poiché l’attributo dell’amore manca all’oggetto di quest’idea».10 Inoltre, è nell’atto religioso che l’uomo si esperisce per la prima volta come creatura, e non nel quadro di un giudizio sul rapporto causale fra lo spirito divino e quello umano, bensì nell’esperienza vissuta delle cose finite come manifestazione di Dio. «Nell’atto religioso si tratta di qualcosa di più rispetto al giudizio di relazione. Si tratta di una esperienza vissuta di relazione, dell’esperienza vissuta dell’essere un riverbero e uno specchio vivente da parte dello spirito umano in rapporto a quello divino, Non solo “per» lumen Dei cognoscimus omnia bensì al tempo stesso ”in» lumine Dei».11 Per Scheler, dunque, è proprio nell’esperienza vissuta religiosa che l’idea di creaturalità trova la sua evidenza.

Nell’esperirsi come creatura l’uomo intuisce anche la vicinanza dello spirito divino, che si prende cura dello spirito umano, lo nutre e lo fonda. Ciò non significa però che si possa affermare l’identità dello spirito umano e di quello divino, come sostiene il panteismo: la vicinanza per Scheler, almeno in questa fase del suo pensiero, non va al di là di una similitudine con Dio che è iscritta nell’essere stesso dello spirito umano, mentre l’affermazione panteistica dell’identità fa sorgere gravi difficoltà riguardo alla spiegazione dell’errore, della colpa e del peccato. Tuttavia, anche nella fase teistica del pensiero scheleriano il rapporto fra lo spirito umano e quello divino ha carattere di immediatezza, nel senso che non è necessaria la mediazione della conoscenza del mondo per arrivare a conoscere Dio come spirito ma è sufficiente quella dello spirito umano, cosicché Scheler riprende la concezione di Agostino secondo la quale la conoscenza religiosa di Dio non richiede quella del mondo extraspirituale: «noi non conosciamo quindi Dio in lumine mundi bensì, al contrario, conosciamo il mondo in lumine Dei».12 Per questo può esserci uno scoprimento (Aufweis) dell’esistenza di Dio, o anche un’attestazione (Nachweis) che la riconfermi ma non una dimostrazione (Beweis) di tipo argomentativo a partire da verità riguardanti il mondo. La stessa esistenza di atti religiosi è già una prova sufficiente dell’esistenza degli oggetti di essi, cioè della sfera del divino, che fornisce l’unica spiegazione plausibile della possibilità di tali atti: «Anche a partire dalla classe degli atti religiosi dunque — scrive Scheler — diventa per noi certa l’esistenza di Dio e di un regno di Dio. Se l’esistenza di Dio non fosse dimostrata da altro, allora basterebbe l’impossibilità di far derivare la predisposizione religiosa da qualcos’altro che non sia Dio, il quale attraverso di essa si dà a conoscere all’uomo in modo naturale».13 Il divino insomma è una datità originaria e non è quindi possibile dimostrarlo a partire da altro, il che poi implica che il dato non sia solo ciò che è correlato all’esperienza sensibile.14 Poiché il sapere su Dio è un sapere mediante Dio, la sfera del divino non è un oggetto che possiamo porci di fronte per descriverlo. La stessa descrizione fenomenologica non è un concepire (begreifen), cioè un ricondurre il divino ad altri concetti, bensì consiste proprio nel salvaguardarne la datità originaria, sottraendo tutte quelle qualità che non rientrano in essa, secondo un metodo che è affine a quello della teologia negativa, che viene quindi dichiarata «fondamento per ogni teologia positiva».15

Una prospettiva antropologica è stata elaborata da Scheler già in questa fase teistica del suo pensiero, di cui abbiamo esposto alcuni aspetti fondamentali sulla base del trattato di filosofia della religione Vom Ewigen im Menschen. La trattazione antropologica corrispondente si trova nello scritto Zur Idee des Menschen, composto negli anni 1916-1917, in cui si avverte l’urgenza del problema del rapporto fra l’uomo in quanto essere spirituale e l’animalità, un problema che era stato posto soprattutto dal darwinismo con l’affermazione della derivazione diretta dell’uomo dalle scimmie antropomorfe. Si tratta del problema del rapporto fra l’uomo come specie zoologica, quale può essere studiato dalle discipline biologiche che rientrano nel quadro delle scienze naturali, e l’uomo storico che è invece oggetto delle scienze dello spirito; e per Scheler il problema del passaggio dell’uomo dallo stato di natura a quello di cultura non è storico ma metafisico. Egli si contrappone decisamente alla concezione razionalistica e positivistica secondo la quale l’uomo raggiungerebbe un miglior adattamento all’ambiente grazie ad un potenziamento della ragione strumentale: sul piano delle possibilità di sopravvivenza l’organo è sempre superiore all’utensile e l’istinto è sempre più affidabile dell’intelletto pratico. «Come l’utensile — scrive Scheler — è un mero surrogato per una manchevole trasformazione degli stessi organi, e quindi la sua formazione è in primo luogo la conseguenza di una stagnazione e fissazione dello sviluppo puramente vitale dell’evoluzione, così anche l’intelletto, che sussume i “casi” sotto regole generali e precede col calcolo la vita, è un surrogato per l’istinto manchevole o divenuto insicuro».16 Dal punto di vista dell’adattamento vitale l’uomo non è quindi l’acme di un processo evolutivo bensì una direzione sbagliata: «Se con Herbert Spencer si correla lo spirito in generale col valore della “promozione della vita”, allora bisognerebbe designare l’“animale dell’intelletto e dell’utensile” non, come egli fa, come la corona dell’evoluzione vitale bensì come l’animale costitutivamente malato, come l’animale in cui la vita ha fatto un faux pas e si è infilata in un vicolo cieco. La conseguenza del faux pas e il vicolo cieco sarebbe allora la “civilizzazione”. Questo Federico Nietzsche ha cominciato a vedere fra i primi e questo è stato il suo grande merito».17

L’apparizione dell’uomo sulla terra acquista invece un senso più chiaro e non appare come un passo falso, se si parte dal presupposto che egli non è un grado di perfezionamento dell’animalità, bensì il luogo in cui viene trasceso l’ordine della natura e appare quindi un più alto livello di realtà, quello dello spirito. L’uomo non è un essere statico che possa esser fissato mediante una determinazione stabile e quindi pensato mediante una definizione: egli è piuttosto un confine, un passaggio, «un “apparire di Dio” nel flusso della vita e un eterno “aldilà” della vita oltre se stessa».18 Il movimento di trascendenza è ciò che caratterizza l’uomo più nel profondo, cosicché quasi diventa questione secondaria la meta di esso, se si diriga cioè verso Dio o verso il superuomo. «Il fuoco, la passione al di sopra di sé — si chiami la meta “superuomo” o “Dio” — questa è la sua vera “umanità”».19 Anche se Scheler riconosce l’importanza di Nietzsche, e ne subisce l’influenza soprattutto per quanto riguarda la subordinazione dei valori utilitari connessi all’attività dell’intelligenza pratica e strumentale a più alte sfere assiologiche, preferisce Dio al superuomo come meta del trascendimento e concepisce quindi il modo di essere dell’uomo come strettamente correlato al divino: «“Uomo” in questo senso completamente nuovo è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa, è l’essere che prega e cerca Dio. Non “l’uomo prega” — egli è la preghiera della vita che va al di là di sé; “egli non cerca Dio” — egli è la X vivente che Dio cerca».20

Ciò comporta poi che la religione venga ad assumere un posto privilegiato nella vita spirituale: essa viene ad essere il centro della cultura, o anche della civiltà (Kultur) in senso spirituale, mentre la costruzione di strumenti e di macchine in cui consiste la civilizzazione, è solo un aspetto subordinato e quindi esteriore della attività umana. «La cultura (Kultur) spirituale è una cosa elevata. Tutto ciò che si chiama civilizzazione (Zivilisation), è solo il luogo necessario e il necessario meccanismo esteriore del suo apparire. Ma la cultura spirituale più concentrata, anzi la radice di ogni cultura, è la X a cui si dirige la preghiera e il movimento di un amore sacro: Dio».21 Anche Scheler fa dunque uso della distinzione fra civiltà e civilizzazione che era assai diffusa nella cultura tedesca e che ha trovato un’attenta elaborazione nell’opera di Spengler.22

L’homo faber, che è inventore e costruttore di strumenti e che è poi l’uomo della civilizzazione, è distinto dall’animale solo sulla base di una differenza di grado (Gradunterschied) dal momento che l’intelletto pratico, operativo, si ritrova anche negli animali superiori; un altro discorso bisogna fare invece per l’uomo che è caratterizzato dalla ricerca di Dio, poiché in lui si manifesta un ordine essenzialmente diverso da tutta la natura.23 Anche il problema dell’origine della specie umana, se essa derivi in modo diretto o indiretto da predecessori appartenenti a specie animali superiori, può esser posto correttamente, secondo Scheler, solo se si tiene presente la distinzione fra uomo naturale e persona spirituale: «Una seria ricerca naturalistica mostra solo una cosa: l’uomo = homo naturalis è un animale, una piccola via secondaria che la vita ha preso nella classe dei vertebrati, e poi qui dei primati. Egli quindi non si è “sviluppato”affatto a partire dal mondo animale, bensì egli era un animale, è un animale e rimarrà eternamente un animale. Diversamente il cercatore di Dio e i suoi predicati essenziali: questa è una nuova classe essenziale di cose, un regno di “persone” che non si è proprio per nulla “sviluppato”, così come non si sono “sviluppati” i colori, i numeri, lo spazio, il tempo ed altre autentiche essenzialità. Questo regno si apre in determinati punti del mondo vivente ed entra qui nella manifestazione. L’homo naturalis però si è tanto poco sviluppato dall’animalità, in quanto era, è e rimane animale».24 Facciamo osservare che qui si delinea piuttosto chiaramente una contrapposizione, un dualismo fra uomo naturale e persona spirituale che non mancherà di produrre i suoi effetti nell’evoluzione del pensiero scheleriano.

Anche il maggior contributo fornito da Scheler all’antropologia filosofica nel volume del 1928 Die Stellung des Menschen im Kosmos dà particolare rilievo al confronto fra l’uomo e l’animale, probabilmente proprio per l’influenza della problematica suscitata dalla teoria evoluzionistica del darwinismo. Egli distingue quattro livelli di vita psichica partendo dall’impulso affettivo che può essere attribuito già alle piante, come generico impulso alla crescita e alla riproduzione. Il secondo livello è l’istinto che è un comportamento non appreso che sta al servizio della specie e che ha particolare sviluppo nell’animale. Livelli ancora superiori sono la memoria associativa che si fonda sul riflesso condizionato e l’intelligenza pratica e strumentale, che può esser attribuita anche all’animale il cui comportamento non si riduce a mero automatismo istintivo. Ciò che invece l’animale non possiede è un quinto livello caratterizzato dall’apertura al mondo (Weltoffenheit), che è la capacità di svincolarsi dalla pressione della vitalità aprendosi quindi alla realtà nella sua oggettività, il che poi è una prerogativa che appartiene solo allo spirito di cui tale apertura è diretta manifestazione. Ciò che l’animale può percepire è determinato previamente dalla relazione dei suoi istinti innati con le caratteristiche dell’ambiente, cosicché il suo mondo ambiente è commisurato strettamente alle peculiarità fisiologiche ed anche morfologiche del suo organismo. L’uomo invece riesce a distanziare da sé l’ambiente, ad oggettivarlo e ad idealizzarlo distinguendo l’essenza dall’esistenza, e si eleva nella riflessione di sé all’autocoscienza: egli non è quindi chiuso nella sua struttura istintuale ma è aperto al mondo ed è proprio tale apertura a definire il suo modo di essere: «L’uomo è quell’X che si può comportare in misura illimitata come “aperto al mondo”. Il diventar uomini è innalzamento all’apertura al mondo in forza dello spirito».25 Si noti che proprio per questo emergere in primo piano del confronto fra l’uomo e l’animale, non solo per influsso del darwismo ma anche per quello proveniente dagli sviluppi della biologia — si tengano presenti anche le ricerche del biologo Jakob von Uexküll sul comportamento percettivo degli animali in rapporto all’ambiente — si potuto parlare di una nuova antropologia filosofica, costituendo appunto tale confronto un elemento di novità rispetto alla tradizionale indagine filosofica sull’uomo.

Per Scheler lo spirito, a differenza della vita e dell’impulso ad essa connesso, che si collocano nella sfera temporale, «è non solo sovraspaziale ma anche sovratemporale».26 Pertanto, «le intenzioni dello spirito tagliano per così dire il corso temporale della vita. Solo indirettamente l’atto spirituale è, nella misura in cui richiede l’attività, anche dipendente da un processo vitale temporale e per così dire insediato in esso».27 Siccome però nell’uomo sono presenti sia lo spirito che la vita, si viene a determinare un dualismo, una scissione, che Scheler cerca di superare trasponendo la dualità nello stesso essere assoluto e accentuando quindi l’immanenza dell’uomo in Dio, che è il luogo in cui vengono compiuti gli atti umani spirituali. «Il centro a partire dal quale l’uomo compie gli atti attraverso i quali egli oggettiva il suo corpo e la sua psiche e rende oggetto il mondo nella sua pienezza spaziale e temporale, non può essere esso stesso a sua volta una “parte” di questo mondo, non può quindi possedere alcun dove e quando determinato: può esser collocato soltanto nel più elevato fondamento dell’essere».28

Inoltre, Scheler introduce una modificazione nel concetto di spirito, rispetto alla sua precedente posizione, che porta ancora ad accentuare la compenetrazione fra l’uomo e Dio. Egli nega allo spirito la potenza: «Lo spirito è, come abbiamo già detto, in ultima analisi un attributo dell’ente stesso che diventa manifesto nell’uomo nell’unità di concentrazione della persona che si “raccoglie” in se stessa. Ma come tale lo spirito nella sua forma “pura” è originariamente semplicemente senza ogni «potenza», «forza», «attività». Per acquisire un grado sia pur piccolo di forza e di attività, deve subentrare quella ascesi, quella repressione degli impulsi e contemporanea sublimazione».29 Questa concezione, in cui si avverte soprattutto l’influsso del concetto di sublimazione di Freud, non intende ridurre lo spirito ad una mera sovrastruttura della vitalità e dell’inconscio ed attribuisce ad esso piena autonomia per quanto riguarda la elaborazione dei contenuti ideali attraverso il processo di derealizzazione; però la realizzazione di essi, la loro traduzione nella realtà, può avvenire soltanto per mezzo dell’energia fornita dall’impulso (Drang), che rientra nella sfera della vitalità, e a sua volta rinvia alla natura in quanto collocata nella temporalità; lo spirito può sì bloccare l’impulso, non fornendo ad esso il contenuto ideale o rappresentativo, però positivamente non può sostituirsi ad esso come energia che consente di passare alla realizzazione. Anche il fondamento del mondo, in quanto caratterizzato dall’attributo dello spirito, non è dotato originariamente di forza o potenza ma ha bisogno dell’impulso della storia del mondo per realizzare la sua divinità, la sua deitas, nell’uomo e attraverso l’uomo, cosicché lo spirito e l’impulso, che sono momenti costitutivi dell’uomo, si ritrovano anche nell’essere supremo. «Tanto poco l’uomo può raggiungere la sua destinazione senza sapersi membro di quei due attributi dell’essere supremo e senza sapere quest’essere a se stesso immanente, quanto poco l’Ens a se lo può senza la collaborazione dell’uomo».30

Chiaramente Scheler ha modificato la sua precedente posizione teistica proprio sulla base dell’approfondimento del problema antropologico. In Wom Ewigen im Menschen egli affermava la superiorità di Dio rispetto alla storia: «Dio non è potenza che debba poi realizzarsi in primo luogo temporalmente nella storia o che si debba esplicare in essa, bensì essere assolutamente attuale».31 In Die Stellung des Menschen im Kosmos, invece, la stessa realtà di Dio è costitutivamente implicata nel processo storico. Esplicitamente poi egli rifiuta la concezione teleologica propria del teismo, secondo la quale le forme più alte dell’essere produrrebbero quelle più basse,32 e quindi anche il concetto teistico di creazione: «Il pensiero di una “creazione del mondo dal nulla” si dissolve di fronte a questa argomentazione. Se nell’“essere per se stesso” è posta questa tensione originaria di spirito e impulso, allora il rapporto di questo essere al mondo deve esser di tipo diverso».33 Anche la distinzione fra persona umana e persona divina diventa decisamente più incerta, in quanto l’uomo non è più creatura di Dio, che ne è la causa, bensì manifestazione di lui.

Possiamo chiederci, a questo punto, quali motivazioni filosofiche e culturali abbiano indotto Scheler a modificare la sua precedente posizione teistica, e per rispondere a questa domanda ci serviremo anche di un volume di scritti postumi che contiene una serie di testi composti fra il 1922 e il 1928 — in parte si tratta anche di lezioni tenute in quegli anni — che appartengono alla fase di elaborazione dell’antropologia filosofica, che poi fu interrotta dall’improvvisa morte del filosofo.

Per Scheler è soprattutto il cambiamento nel modo di concepire il cosmo, indotto anche dalle scienze naturali e dalla biologia evoluzionistica, a rendere inadeguata e in qualche modo obsoleta la concezione teistica di una persona divina già compiuta fin dall’inizio. Dal momento che il cosmo non è più pensato come «una gerarchia ontologica ed assiologica delle cose del mondo che rimane ferma»,34 al modo dei Greci, ma come «un essere storico in divenire nel tempo»,35 anche il fondamento del mondo deve essere pensato in modo più dinamico, secondo tre principi metafisici che Scheler elenca in un testo del 1927: «1) Il fondamento del mondo è diveniente (non necessariamente nel tempo), non assolutamente compiuto. 2) Il divenire del fondamento del mondo sta in reciproca dipendenza solidale con l’accadere del mondo e del suo microcosmo, con la storia e con la storia universale (Weltgeschichte) dell’uomo. 3) Esso come puro spirito non può essere onnipotente, ma deve portare in sé un principio luminoso ed uno oscuro, uno spirituale ed uno non spirituale, sulla cui espansione riposa il processo del mondo…».36

Tuttavia, per quanto riguarda l’evoluzione in senso biologico Scheler ne limita la portata, in primo luogo in quanto sostiene che avviene solo all’interno di «direzioni fondamentali della vita, regno vegetale, animalità, umanità»,37 ma non nella successione fra di esse; e poi per quanto riguarda l’origine dell’uomo, ritiene sì che come essere vivente derivi dall’intero mondo animale, però come spirito lo ricollega invece al fondamento della realtà. «Metafisicamente egli è: a) parto specifico della vita universale, b) manifestazione dello spirito».38 Come persona l’uomo è manifestazione diretta di Dio in quanto spirito, «il quale diventa persona soltanto attraverso il processo del mondo».39

Oltre alla visione evolutiva, un altro fattore importante del mutamento della posizione di Scheler è influenza di Nietzsche, di cui egli apprezzava molto la critica del superficiale razionalismo dei positivisti. Da una parte egli rifiuta l’ateismo postulatorio di Nietzsche, secondo il quale la stessa esistenza di Dio rende impossibile l’autonomia dell’uomo; dall’altra però riconosce che l’ateismo non è privo di ragioni nei confronti del teismo tradizionale che concepisce Dio come un’entità in sé conchiusa e quindi in qualche modo separata dalla storia del cosmo e dell’uomo, e pertanto, per così dire, astratta. «Questa nuova direzione di idee ateistica è sorta da un rifiuto del teismo assai giustificato — del Dio e padre perfetto, onnivalente, onnisciente e onnipotente che sta dietro all’uomo».40 Scheler cerca una linea di mediazione fra l’ateismo di Nietzsche e il teismo tradizionale e la trova nella concezione secondo la quale Dio si fa persona attraverso la storia del cosmo e dell’uomo, in modo che venga meno la separazione fra l’uomo e Dio e quindi si possa affermare che «l’uomo è un “piccolo Dio” e Dio “un grande uomo”».41

Nell’ultimo Scheler si ha dunque un’accentuazione dell’immanenza di Dio nell’uomo che va a scapito della sostanzialità dell’uomo come persona individuale e finita: «È vero che persona è “Substantia” in rapporto all’organismo e al corpo; è falso però che lo sia in rapporto a Dio».42 Ciò implica poi anche l’originaria connessione delle persone in Dio, cosicché il tu diventa una determinazione a priori. Tuttavia, rimane una continuità con la precedente posizione teistica. In primo luogo, la religione continua avere una posizione centrale nella vita spirituale anche in Die Stellung des Menschen im Kosmos non diversamente da quanto sostenuto nello scritto Zur Idee des Menschen, appartenente alla fase teistica. Poiché si distacca dalla natura oggettivandola, l’uomo rischia di cadere nel nulla se non si appoggia ad una sfera superiore alla natura, che è quella del divino. La religione è quindi l’unico antidoto al nichilismo. «Il superamento del nichilismo nella forma di tali salvataggi e appoggi è ciò che noi chiamiamo religione».43 Questa affermazione si trova anche negli scritti postumi,44 con un ulteriore precisazione riguardante la storia della religione, che non è solo un processo nello spirito umano ma in Dio stesso. «La storia della religione in senso oggettivo, non la storia della pietà religiosa bensì delle idee date degli dèi stessi: questo è il crescente diventar consapevole di sé dell’Ens a se nell’uomo stesso, anzi crescente autorealizzazione — però nella intuizione prospettica dei singoli gruppi umani e nei limiti della loro autocomprensione».45 Scheler precisa però che correlare la figura del divino alle prospettive dei gruppi umani non significa renderlo una proiezione dell’uomo, come vogliono Feuerbach e i positivisti, oppure una mera sovrastruttura della società, come afferma Marx; e infatti egli conserva l’impianto metafisico del suo pensiero, cioè il concetto di un Ens a se, di un Assoluto, di un «essere supremo» che «pone se stesso eternamente e noi in sé».46 Certo la tendenza panteistica all’identificazione di uomo e Dio è innegabile; però esplicitamente Scheler precisa che si tratta di un’identità solo parziale, poiche Dio rimane nascosto, è quindi un «Deus absconditus»,47 e l’uomo non può esaurirne il mistero; egli si difende quindi dall’accusa di ridurre Dio all’uomo proprio appellandosi alla inconoscibilità divina: «Si è anche detto: tu antropomorfizzi Dio! A ciò rispondo: l’eterna sostanza stessa con i suoi infiniti attributi la conosco solo secondo l’essere. Io la antropomorfizzo così poco che anzi affermo come assolutamente “inconoscibili” questi infiniti attributi eccetto due — lo spirito e l’impulso. Ogni metafisica ha nell’essere sconosciuto, ágnostos theós, il suo assoluto limite. “Venerazione silenziosa”, è qui l’unica cosa che ci sia (limite della metafisica dell’Assoluto)».48

Il passaggio di Scheler dal teismo, che delimita piuttosto chiaramente la sfera umana da quella divina, ad una posizione che indebolisce la distinzione fra uomo e Dio e vede quindi una realtà divina meno concentrata e più diffusa nella sfera dell’immanenza — uomo e cosmo —, potrebbe addirittura esser considerata come convergente con alcune esigenze affermate dalla postmodernità. Si veda, ad esempio quanto scrive I. Sanna nella Introduzione al volume L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità: «La seconda parte, l’antropologia della postmodernità, l’abbiamo dedicata alla lettura critica dei soggetti dell’antropologia della postmodernità. Questa l’abbiamo presentata come un’antropologia che indebolisce le concezioni di Dio, dell’uomo e del mondo, ossia dei tre assoluti metafisici che costituiscono la base portante di ogni cultura. Nel capitolo quarto, allora, abbiamo esaminato lo scivolamento della concezione di Dio come un’essere personale, creatore dell’uomo e del mondo, ad una concezione d’una divinità diffusa, ossia lo scivolamento dalla concezione di un Dio personale a quella del divino impersonale».49 Bisogna dire però che la posizione dell’ultimo Scheler va incontro a non poche difficoltà, come mostra anche la storia successiva della nuova antropologia filosofica. Per esempio, il concetto di Ens a se come Ente assoluto che non dipende da altro, che Scheler conserva anche dopo la sua fase teistica, difficilmente può essere applicato ad un Dio che in quanto spirito è impotente ed ha bisogno dell’uomo per realizzarsi. Si potrebbe dire che Dio pone anche le condizioni per la propria realizzazione — la vita, l’impulso, l’uomo. Ma allora come si potrà sostenere che egli è privo di potenza? Bisognerebbe forse approfondire la distinzione fra Dio e l’essere assoluto od eterno, però non ci sembra che Scheler lo abbia fatto, forse anche a causa della sua prematura scomparsa. Un’altra difficoltà è poi il dualismo di spirito e vita, che fa incontrare nell’uomo due realtà eterogenee come la vita che si colloca nel tempo e lo spirito che è sovratemporale. Sembrerebbe quindi che l’ultima fase del pensiero scheleriano costituisca più una crisi della metafisica che un suo aggiornamento sulla base dei risultati raggiunti dalle scienze della natura e da quelle dello spirito.

Questa impressione di crisi della metafisica può trovare conferma dai successivi sviluppi della nuova antropologia filosofica e soprattutto dall’opera di Arnold Gehlen, che nel 1940 fece uscire un importante volume dal titolo Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, che contiene un’approfondita sintesi antropologica — prescindiamo qui dal contributo, egualmente di rilevante, di Helmut Plessner, poiché la sua derivazione da Scheler è meno evidente e diretta, essendo la sua opera principale, Die Stufen des Organischen und der Mensch, sostanzialmente contemporanea alla scheleriana Die Stellung des Menschen im Kosmos.50 Ora, Gehlen riprende l’impostazione antropologica di Scheler fondata sul confronto fra l’uomo e l’animale, fa suo anche il concetto scheleriano di apertura al mondo come carattere distintivo dell’uomo, però intende abbandonare il concetto di spirito che è un concetto metafisico e quindi razionalmente non controllabile, e poi anche responsabile della scissione dualistica presente fra le componenti della persona umana quale è pensata da Scheler, scissione in cui egli vede ripresentarsi il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa; e infine anche l’identità panteistica di intonazione spinoziana, con cui Scheler cerca di superare il dualismo, è solo una forma di metafisica obsoleta. Gehlen intende invece procedere empiricamente, in accordo con le scienze, e, diversamente da Scheler, non ritiene che l’antropologia filosofica debba porre espressamente la domanda su Dio.51 Ciò che può suscitare qualche sorpresa è che Gehlen ritiene che, abbandonando l’impianto metafisico, egli stia procedendo nella stessa direzione già imboccata da Scheler, dal momento che questi «nel suo ultimo periodo di Francoforte era sulla strada di abbandonare la metafisica in generale come posizione sostenibile».52 Ora, come appare anche dagli scritti postumi, Scheler ha ben presenti quelle posizioni che negano che l’uomo abbia sia una origine che una destinazione metafisica, e che quindi si possa spiegare senza residui a partire dalle leggi naturali, però, da parte sua, continua ad ancorare gli atti spirituali umani allo spirito divino, come del resto già faceva nella fase teistica. Tuttavia, il distacco di Scheler dal teismo tradizionale può dare qualche plausibilità alla pretesa di Gehlen di star portando a termine una svolta già intrapresa da Scheler stesso.

Fondamentale per Gehlen è il problema del dualismo, per evitare il quale, sia nella forma cartesiana che in quella scheleriana, egli intende fondare l’antropologia sul concetto di azione (Handlung), che è indifferente dal punto di vista psico-fisico, in quanto essa è il medio che collega l’interno con l’esterno, l’agente con l’ambiente che esso modifica, in un rapporto scambievole in cui la modificazione esterna indotta si ripercuote sullo stesso agente, in un processo circolare che sta al di là della contrapposizione fra interno ed esterno. «L’uomo — scrive Gehlen — è l’essere che agisce. Egli è, in un senso che bisognerà precisare ancor meglio, non “definito”, cioè egli è a se stesso ancora un compito — egli è, si può anche dire, l’essere che prende posizione. Gli atti del suo prender posizione verso l’esterno le chiamiamo azioni, e proprio in quanto egli è ancora per se stesso un compito, egli prende anche posizione nei confronti di se stesso e “fa di se stesso qualcosa”… Se si tien fermo ciò, si acquisisce una molteplicità di asserzioni singole sull’uomo che sono sviluppi della visione fondamentale: il progetto della natura di un essere agente».53

Il concetto di azione deriva, dal punto di vista filosofico, dal pragmatismo però contiene anche delle suggestioni derivanti dalla filosofia del soggetto del primo Fichte, che Gehlen ha studiato intensamente all’inizio della sua attività di ricerca. Tale concetto, in quanto implica in qualche modo l’autoporsi dell’uomo che si definisce con la propria azione, lascia aperto il problema del fondamento dell’azione umana, a differenza di quanto avveniva nella prospettiva antropologica di Scheler, che risaliva dall’apertura al mondo allo spirito e da questo all’essere assoluto, affermando che Dio stesso si conosce e si realizza nell’attività dell’uomo. È vero che Gehlen vuole sfuggire alla metafisica che egli ritiene razionalmente non dimostrabile, però finisce poi per incappare nelle aporie della filosofia del soggetto, come ha chiaramente messo in rilievo il teologo protestante Wolfhart Pannenberg in un suo trattato sull’antropologia filosofica che intende riproporre il concetto di spirito in una dimensione storica e nel quadro della implicazione reciproca fra la cultura e le strutture della società, evitando così di cadere nel dualismo psico-fisico criticato da Gehlen. «Anche l’interpretazione di Gehlen dell’“apertura al mondo” come punto di partenza dell’appropriazione del mondo per mezzo dell’agire umano rimane irretita nella tematica del soggetto e segnatamente in una singolare analogia con Plessner: in entrambi il soggetto deve sorgere soltanto nel corso del processo del suo comportamento, ma al tempo stesso deve esser pensato anche come principio di questo processo, per cui dovrebbe essere già compiuto fin dall’inizio».54 La conseguenza di questo irretimento nella problematica del soggetto è che l’azione umana viene ad avere un fondamento solo negativo, vale a dire si basa solo sulla carenza, sulla mancanza che caratterizzano l’uomo dal punto di vista biologico: egli deve agire e creare la cultura proprio per compensare la propria inadeguatezza organica e istintuale e quindi riuscire a sopravvivere, anche se partendo da tale premesse negative la sopravvivenza appare piuttosto inspiegabile. Del resto, Scheler aveva già acutamente fatto emergere la contraddizione intrinseca alla teoria negativa dell’uomo: «La teoria negativa presuppone appunto, in ogni forma in cui si presenta, già sempre ciò che deve esser spiegato mediante essa: lo spirito, la ragione, una propria legalità indipendente dello spirito e la parziale identità dei suoi principi con quelli dell’essere stesso».55 Insomma, Gehlen lascia aperto il problema del fondamento dell’azione che crea la cultura, che poi corrisponde allo spirito di Scheler, mentre quest’ultimo aveva elaborato una soluzione al problema, sia pur non priva di difficoltà.

Per Scheler il fondamento è lo spirito, però qui ci porterebbe troppo lontano tentare una giustificazione di questo concetto, e pertanto ci limitiamo a qualche considerazione conclusiva. L’esigenza posta da Scheler di un teismo che potremmo chiamare concreto, in cui Dio non è separato dal cosmo e dalla storia, ci sembra condivisibile, però essa può trovare, a nostro avviso, più facile soluzione in un’ area di pensiero influenzata dal cristianesimo, che si presenta come dottrina trinitaria ed incarnazionista. Vorremmo citare a questo proposito due esempi tratti dalla tradizione del pensiero cristiano.

In primo luogo vorremmo ricordare un padre della Chiesa vissuto fra il 6º e il 7º secolo, Massimo il Confessore, il quale presentò il monoteismo cristiano come il superamento di due posizioni unilaterali e quindi come una sorta di sintesi più alta. Nello scritto Interpretazione del «Padre nostro» egli mostra come il monoteismo cristiano sfugga sia al politeismo, che divide l’unico principio in una molteplicità di potenze anche tra loro contrapposte che ingenerano discordia, sia al monoteismo non trinitario che riduce l’unico principio ad una sola persona, privandolo così della sua ricchezza e quasi della sua sostanza. Entrambi queste posizioni unilaterali vanno incontro per vie opposte allo stesso male, mentre il cristianesimo associa l’unità del principio alla ricchezza della articolazione trinitaria della vita divina.56 Una mentalità analoga tendente al superamento dell’unilateralità mostra poi il concetto di liturgia cosmica, che ha un’importanza non marginale nel pensiero teologico di Massimo, come ha mostrato Hans Urs von Balthasar. Secondo tale concetto il sensibile non risulta separato dallo spirituale, né il cosmo naturale dal soprannaturale, ma la Chiesa, mediante la liturgia, trasforma ogni cosa in segno simbolico, trasfigurando il cosmo intero.57

Un altro punto di riferimento importante, per la questione che stiamo trattando, può essere il modo in cui nell’idelismo tedesco è stata pensata la storicità di Dio come automanifestazione nella storia, che si trova in Hegel e in Schelling. In Hegel è presente una tendenza al panteismo — che però è un concetto difficile da definire, dovendosi anche distinguerlo da quello di panenteismo — che risiede soprattutto nel concetto di sapere assoluto che tende a parificare il sapere umano a quello divino e che negli esponenti della Sinistra hegeliana è stata sviluppata fino all’immanentismo o addirittura all’ateismo. Schelling però nella fase tarda del suo pensiero, nella cosiddetta Spätphilosophie, pone un limite alla deduzione dialettica, distinguendo una filosofia negativa che procede a priori in modo deduttivo dalla filosofia positiva, che fa ricorso al dato indeducibile dell’esperienza. Se egli critica la metafisica premoderna, in cui rientrano sia Aristotele che la scolastica, è perché è una forma di razionalismo che coglie solo rapporti essenziali e quindi necessari, ed è pertanto inadeguato a pensare la libera azione storica. «Per il razionalismo nulla può sorgere attraverso un’azione, per esempio mediante una libera creazione, esso conosce soltanto rapporti meramente essenziali. Per esso tutto deriva soltanto modo aeterno, eterno, cioè in modo meramente logico, mediante un movimento immanente…».58 Il movimento viene ricondotto alla sostanza che diventa così la categoria ontologica fondamentale. Opposto al razionalismo è il teosofismo di J. Böhme, che ammette sì un processo in Dio ma non pensa l’azione di Dio come storica: «Il teosofismo secondo la sua natura non è meno astorico del razionalismo. Però il Dio di una filosofia veramente storica e positiva non si muove, egli agisce».59 Schelling intende elaborare una filosofia storica. Non si tratta tanto per lui di dimostrare l’esistenza di Dio, perché l’essere assoluto e necessario è un presupposto, un punto di partenza per il pensiero, bensì di dimostrare che l’essere necessario è spirito, che agisce liberamente e storicamente ed è quindi veramente Dio. La storia della mitologia e della rivelazione diventa dunque il processo dell’automanifestazione di Dio nella storia, in cui anche la coscienza umana raggiunge la sua maturità pervenendo ad una forma di religione libera, quale si ha nella rivelazione.60

Ci sembra dunque che anche nel periodo postmoderno l’elaborazione di prospettive antropologiche non possa prescindere dal ripensamento dei punti salienti della tradizione del pensiero cristiano.


  1. M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Bern und München 1954, p. 8. ↩︎

  2. Ivi, p. 141. ↩︎

  3. Ivi, p. 157. ↩︎

  4. Ivi, pp. 160-161. ↩︎

  5. Ivi, p. 161. ↩︎

  6. Ivi, p. 93. ↩︎

  7. Ivi, p. 94. ↩︎

  8. Ivi, pp. 136-137. ↩︎

  9. Ivi, p. 145. ↩︎

  10. Ivi, p. 220. ↩︎

  11. Ivi, p. 190. ↩︎

  12. Ivi, p. 194. ↩︎

  13. Ivi, p. 258. ↩︎

  14. Cfr. ivi, p. 250. ↩︎

  15. Ivi, pp. 168-169. ↩︎

  16. M. Scheler, Zur Idee des Menschen, in Vom Umsturz der Werte. Abhandlung und Aufsätze, Bern und München 1955, p. 185. ↩︎

  17. Ivi↩︎

  18. Ivi, p. 186. ↩︎

  19. Ivi, p. 195. ↩︎

  20. Ivi, p. 186. ↩︎

  21. Ivi, p. 186. ↩︎

  22. L’emergere della ragione strumentale che tende al dominio della natura ridotta a mera materia, che dal punto di vista sociologico è poi il fenomeno del capitalismo, è per Scheler una conseguenza della secolarizzazione, che liberando il mondo dalla partecipazione a significati religiosi e trascendenti lo rende disponibile per una razionalizzazione che è tecnicizzazione. «E proprio la nuova soprannaturalistica svalutazione religiosa del mondo elimina l’amore per il mondo e la posizione contemplativa verso di esso, riducendolo ad una mera “resistenza” prosaica per una energia lavorativa ora illimitata» (M. Scheler, Der Bourgeois und die religiöse Mächte, in Vom Umsturz der Werte, cit., p. 375). ↩︎

  23. Cfr. M. Scheler, Zur Idee des Menschen, cit., pp. 190-191. ↩︎

  24. Ivi. ↩︎

  25. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, in Gesammelte Werke, Bd. IX (Späte Schriften), hrsg. von M. Frings, Bern und München 1976, p. 33. ↩︎

  26. Ivi, p. 62. ↩︎

  27. Ivi↩︎

  28. Ivi, pp. 38-39. ↩︎

  29. Ivi, p. 45. ↩︎

  30. Ivi, p. 71. ↩︎

  31. M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, cit., p. 207. ↩︎

  32. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, cit., p. 51. ↩︎

  33. Ivi, p. 55. ↩︎

  34. M. Scheler, Schriften aus dem Nachlass, Bd. III (Philosophische Anthropologie), hrsg. vom M. Frings, Bonn 1997, p. 83. ↩︎

  35. Ivi↩︎

  36. Ivi, p. 219. ↩︎

  37. Ivi, p. 53. ↩︎

  38. Ivi, p. 99. ↩︎

  39. Ivi, p. 179. ↩︎

  40. Ivi, p. 211. ↩︎

  41. Ivi, p. 182. ↩︎

  42. Ivi, p. 179. ↩︎

  43. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, cit., p. 69. ↩︎

  44. «In questo inseparabile processo che accade nell’attimo l’essere X della ominazione (Menschwerdung), l’essere che rompe con l’esclusivo “principio naturale” e che si apre ad un “principio di artificio” sarebbe per così dire caduto nel nulla, se non avesse ancorato il suo centro al di fuori e al di là proprio di questa natura, al di sopra della quale egli si è posto» (M. Scheler, Schriften aus dem Nachlass, cit., p. 208). ↩︎

  45. Ivi, p. 245. ↩︎

  46. Ivi, p. 209. ↩︎

  47. Ivi, p. 247. ↩︎

  48. Ivi, p. 214. ↩︎

  49. I. Sanna, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Brescia 2001, p. 10. ↩︎

  50. Su Scheler e Plessner si vedano i riferimenti contenuti nel volume di Oreste Tolone, Homo absconditus. L’antropologia filosofica di Helmuth Plessner, Napoli 2000. ↩︎

  51. Cfr. A. Gehlen, Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentdeckung des Menschen, Reinbeck bei Hamburg 1961; Prospettive antropologiche, tr. it. di S. Cremaschi, Bologna 1987, p. 16. ↩︎

  52. A. Gehlen, Rückblick auf die Anthropologie Max Schelers, in Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, Gesamtausgabe, Bd. 4, Frankfurt am Main 1985, p. 254. ↩︎

  53. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden 1978, p. 32. ↩︎

  54. W. Pannenberg, Anthropologie in theologischer Perspektive, Göttingen 1983, p. 62. ↩︎

  55. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, cit., p. 49. ↩︎

  56. Massimo il Confessore, Interpretazione del «Padre nostro», in Umanità e divinità di Cristo, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Roma 1990, p. 79. ↩︎

  57. Cfr. H.U. von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus’ des Bekenners, Einsiedeln 1961; Liturgia cosmica. L’immagine dell’universo in Massimo il Confessore, tr. it. di L. Tosti, Roma 1976, p. 332. ↩︎

  58. F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung, in Schellings Werke, hrsg. von M. Schröter, München 1969, Ergänzungsbd. VI, p. 124. ↩︎

  59. Ivi, p. 125. ↩︎

  60. Sulla conciliabilità della filosofia dell’ultimo Schelling con la teologia cristiana e in particolare cattolica rimandiamo al volume di W. Kasper, Das Absolute in der Geschichte, che vede il concetto di rivelazione di Schelling riemergere, ai nostri giorni, nell’opera del teologo protestante W. Pannenberg (W. Kasper, Das Absolute in der Geschichte, Mainz 1965; L’Assoluto nella storia, tr. it. di M. Marassi e A. Zoerle, Milano 1986, p. 229). ↩︎