Impostazione apriorico-costruttiva e impostazione fenomenologica in filosofia della religione

1.

Si potrebbe dire che la difficoltà fondamentale della filosofia della religione sta nel trovare un rapporto equilibrato fra i due elementi che la compongono, appunto la filosofia e la religione: la prima deve conservare la sua automia di disciplina razionale, senza assumere una posizione di subordinazione rispetto all’esperienza religiosa che la riduce a filosofia religiosa o a riflessione teologica; la seconda non deve però subire sopraffazioni da parte della ragione filosofica, che esplica correttamente il suo compito quando comprende il dato storico della vita religiosa, attenendosi così in qualche modo ai fenomeni dati nell’esperienza storica, e rinunciando quindi a costruire a priori un proprio concetto di religione, che risulterebbe inevitabilmente astratto.

Ci sembra che la consapevolezza di questo problema sia stata in genere presente negli studi di filosofia della religione dell’area culturale tedesca. Già lo Scholz, nel lontano 1921 metteva in guardia contro le costruzioni aprioriche in filosofia della religione. «Mi sembra che si comprenda da sé — egli scrive — che con la religione, con la quale ha a che fare la filosofia della religione, si può intendere solo la religione empirica. Vogliamo chiamare il tipo di filosofia della religione, che è orientato alla religione empirica, tipo recettivo. Lo chiamiamo recettivo, poiché “assume” la religione come una grandezza data».1 Il secondo tipo di filosofia della religione, quello costruttivo, si richiama non alla religione come è di fatto ma come deve essere, cioè alla religione ideale, e l’esempio più caratteristico di esso si trova in Kant, che «costruisce la religione a partire dai principi del suo sistema».2 Anche i neokantiani, sia della Scuola di Marburg che di quella del Baden, seguono un orientamento molto simile a quello di Kant, e sono interessati soprattutto al posto che la religione occupa nel sistema della filosofia. Scholz, pur riconoscendo che la filosofia non deve essere semplicemente passiva di fronte alla religione, finisce poi con l’affermare che «il tipo recettivo è da preferire incondizionatamente a quello costruttivo»,3 poiché il primo si occupa della religione reale mentre il secondo soltanto della religione possibile.

La distinzione fra i due tipi di filosofia della religione è stata ripresa successivamente da J. Hessen, che descrive il tipo recettivo come quello che non parte da una teoria filosofica ma dalla realtà religiosa, come è data nella storia e nella psicologia della religione. «Si è con ragione — egli scrive — caratterizzato come recettivo questo tipo di filosofia della religione. In effetti, qui non si costruisce, come nel tipo menzionato per primo, bensì si recepisce: la religione viene assunta come qualcosa di dato, che richiede di essere indagato e approfondito nella sua struttura oggettiva. Qui non si cerca di comprendere la religione sulla base della filosofia, bensì sulla base di se stessa. La determinazione essenziale della religione avviene sulla base di una descrizione quanto più possibile imparziale e priva di pregiudizi dell’originario fenomeno religioso».4 Ciò che qui è in questione non è una sorta di verifica storico-empirica, bensì la salvaguardia della religione come fenomeno originario, sui generis, non derivato da altro, che possiede una propria evidenza intrinseca, un proprio modo di porsi in rapporto con la verità. L’elemento empirico storico-psicologico è importante per cogliere la specificità della religione, però il procedimento empirico non basta: dietro i dati di fatto bisogna cogliere le connessioni di senso ed arrivare così all’intuizione dell’essenza della religione. Emerge qui un procedimento di carattere genuinamente fenomenologico, e quindi il tipo recettivo di filosofia della religione viene a configurarsi, nella sua forma più pienamente sviluppata, come tipo fenomenologico.

In anni più recenti l’aspetto recettivo della filosofia della religione viene generalmente identificato con quello fenomenologico: così W. Trillhaas con la sua Religionsphilosophie del 1972, per il quale la filosofia della religione non ha il compito di progettare o di costruire una religione, bensì di comprendere il senso della religione già esistente, proponendosi in primo luogo di preservare la peculiarità di essa, senza risolverla in altro, vale a dire in scienza, in arte o in morale. Lo stesso concetto di religione non deve essere definito in modo prevalentemente normativo, ma deve avere anche un’ampia base descrittiva che tenga conto della molteplicità e varietà dei fenomeni religiosi. Di qui deriva poi l’importanza della fenomenologia della religione, che non è soltanto una particolare disciplina storico-empirica, ma anche un metodo che si ritrova all’interno di altre discipline scientifiche che si occupano della religione, come, ad esempio, la storia delle religioni e la sociologia della religione. «La “fenomenologia” ha da impedire che venga presupposto un concetto precostituito e “cieco” di religione o che vengano fatte delle affermazioni sulla “religione” che non possono essere sostenute sulla base di un’attenta osservazione dei fenomeni».5

Significativo può essere che Trillhaas trovi troppo costruttiva, e quindi poco orientata «alla fenomenalità della religione reale»,6 l’interpretazione della religione data da Kant, il quale, sul piano di una impostazione critico-trascententale, tende ad espungere tutti gli elementi storico-positivi della religione tramandata, per ridurla al nucleo morale. «Più importante è però — scrive Trillhaas — che la religione non possa riconoscersi in questa interpretazione kantiana. Ciò che qui Kant impone alla religione come suo nucleo essenziale, non lo può riconoscere alcuna religione positiva come suo elemento proprio e intrinseco».7

Dalla fenomenologia in senso filosofico Trillhaas trae il concetto della messa tra parentesi della realtà dell’oggetto religioso: «Però di fronte agli atti, alle intenzioni ed agli atteggiamenti religiosi il contenuto per così dire oggettivo di essi ha solo un significato secondario, esso è messo tra parentesi nel senso della epochè fenomenologica».8 L’affermazione della realtà degli oggetti religiosi compete alla religione medesima, mentre la filosofia si esprime soltanto sul senso che tali oggetti hanno nel contesto della ragione: in questo modo la filosofia della religione diventa critica, in quanto non si rivolge più all’oggetto religioso ma alla stessa intenzione religiosa, tratta della religione non di Dio; non essendo più metafisica né in senso scolastico né in senso idealistico, essa può chiedersi solo quale sia il significato della fede in Dio della religione. In questo modo Dio non appare più come un oggetto in sé bensì come correlato di una relazione, l’altro lato della quale è l’umanità o la comunità religiosa. «Essenziale è che in ogni religione pensabile ci possiamo rappresentare Dio e il divino solo nel loro rivolgersi a noi, certo anche nel nascondimento e nell’occultamento, però anche allora di nuovo nella manifestazione (Offenbarung) davanti all’uomo e per l’uomo».9 Si tratta di superare la scissione o la contrapposizione soggetto-oggetto, secondo la quale o Dio ha una realtà in sé o è una proiezione della soggettività umana: Dio va cercato non al di fuori o al di sopra della religione, bensì in essa. Nell’indicare la via per il superamento dell scissione soggetto-oggetto Trillhaas si richiama ad Hegel, il che farebbe ancora pensare al predominio della soggettività, dell’autocoscienza; però poi nel trattare dell’inesprimibilità del sacro (Heilige), che può essere onorato solo mediante il silenzio che a sua volta è la dimensione profonda del linguaggio religioso in cui la verità è nascosta, si richiama anche a Heidegger, cioè ad un pensiero decisamente orientato al superamento della soggettività.10

Un ruolo importante viene attribuito al tipo fenomenologico di filosofia della religione anche da R. Schaeffler, secondo il quale la concezione fenomenologica porta a considerare l’apparire come momento essenziale dei fenomeni religiosi. «L’evento dell’apparire e la forma dell’apparizione sono essenziali per il sacro».11 La manifestazione, il phainesthai, non è qualcosa di estrinseco ma appartiene alla cosa stessa; «“la doxa”, il potente irradiarsi della “luce” divina, non è una “estrinsecazione” secondaria della realtà divina, bensì appartiene alla divinità stessa di Dio».12 Tutto ciò fa pensare alla metafisica dello spirito hegeliana, però la dialettica hegeliana dell’in sé e del per sé deve essere sottoposta a modifiche decisive per trovare applicazione nell’ambito della fenomenologia della religione. La dialettica delle epifanie del sacro, delle ierofanie, è da ricondurre alla compresenza nel sacro del momento della manifestatezza con quello della sottrazione: il sacro è sempre più grande di ciò che possiamo sapere di esso, cosicché «l’esser sottratto del sacro appartiene al modo della sua datità».13 La sottrazione, il nascondimento, produce sempre nuovi cambiamenti della coscienza religiosa e sta quindi alla base della storia delle religioni. «Se in questo modo la storicità della religione risulta dallo stesso rapporto religioso, dal modo in cui la ierofania in un primo momento distrugge il vecchio vedere ed udire per farlo poi risorgere in forma mutata, allora appartiene ai compiti di una fenomenologia della religione rendere comprensibile la storia delle religioni a partire da questo rapporto di noesi religiosa e noema religioso».14

Tuttavia, per Schaeffler l’impostazione fenomenologica non è sufficiente a costruire una filosofia della religione pienamente sviluppata, perché tende a cadere nella mera descrizione e quindi nel positivismo. E poi bisogna anche compiere quella svolta (Wendung) linguistica che è tipica della filosofia contemporanea, di modo che la dialettica delle ierofanie, prima pensata fenomenologicamente, diventa dialettica dell’atto linguistico religioso (Sprechakt) e del suo oggetto, dalla quale emerge che il discorso su Dio è un discorso ai limiti del linguaggio.

Fenomenologia e filosofia del linguaggio devono però essere orientate trascendentalmente, devono riflettere sulle condizioni di possibilità dell’atto intenzionale e dell’atto linguistico di porsi in rapporto con oggetti, nel qual caso esse s’incontrano con la teologia filosofica come teologia trascendentale, per la quale Dio è «il fondamento inoggettivabile di tutti gli oggetti, la condizione senza nome di ogni nominare e di ogni nominato, la luce che rende visibile tutti gli oggetti e tuttavia rimane essa stessa invisibile (come il raggio di luce ottico per l’occhio)».15 L’elaborazione di una filosofia della religione sistematica implica quindi la collaborazione del metodo fenomenologico con quello filosofico-linguistico e con quello trascendentale.

Schaeffler mette però in chiaro che l’elaborazione di un concetto di Dio filosofico-trascendentale, che poi può apparire come un prodotto della riflessione rispetto al Dio reale della religione che è indipendente dall’attività dell’uomo, non significa che si voglia costruire la religione o risolverla in filosofia. «La filosofia della religione egli scrive — non ha bisogno di “inventare” la religione; essa si trova davanti la religione come data (anche se molti filosofi della religione possono porsi il compito di superare questa religione “empirica” trovata mediante una razionale che alla fine la sostituisca)».16 Il discorso filosofico-trascendentale su Dio non intende sostituirsi a quello religioso, piuttosto si propone di interpretarlo; la dottrina filosofica di Dio «deve quindi rimanere ermeneutica».17 Anche per la filosofia della religione di impostazione trascendentale «il compito sta piuttosto nel rendere comprensibile la logica di senso dell’atto religioso»,18 cosicché la dottrina trascendentale di Dio viene ad essere una «offerta ermeneutica alla coscienza religiosa».19

Proprio attraverso il riconoscimento dell’importanza del momento fenomenologico, anche se non è l’unico metodo della filosofia della religione, Schaeffler tiene in debito conto l’aspetto recettivo di essa.

Anche J. Schmitz, nella sua Religionsphilosophie del 1982, distingue un tipo di filosofia della religione in cui il concetto di religione viene costruito a priori dalla ragione — come esempio si puo assumere il tipo di filosofia della religione inaugurato da Kant e poi proseguito dai neokantiani — e un altro in cui tale concetto viene tratto dai materiali di esperienza, e che si puo richiamare all’appello husserliano a ritornare alle cose stesse. La preferenza di Schmitz va a questo secondo tipo, dal momento che egli vuole elaborare «una filosofia della religione che non vede il suo compito nella costruzione e nella formazione di una religione razionale, bensì nell’investigazione di un ambito di fatti ad essa dato previamente, vale a dire la “religione”, per comprendere l’essenza, il significato e la legittimazione di essa …».20 Tale filosofia della religione si propone di analizzare l’atto religioso fondamentale e il suo oggetto intenzionale, per penetrare in questo modo fino all’essenza della religione e al suo contenuto di senso.21

Più complessa è la posizione di K. Wuchterl, che da una parte si richiama alla filosofia del linguaggio dell’ultimo Wittgenstein, che egli ritiene abbia avuto il merito di riabilitare la filosofia della religione, ma dall’altra vuole anche gettare un ponte fra la filosofia analitica e la tradizione fenomenologica ed ermeneutica. Per Wuchterl, «gli ultimi grandi progetti della filosofia della religione del nostro secolo sono sorti nell’ambito della fenomenologia».22 Egli però ha anche preso le distanze dal progetto fenomenologico husserliano, proponendo che esso venga integrato con la considerazione dei contesti comunicativi (kommunikative Zusammenhänge) e della comunità linguistica (Sprachgemeinschaft), al fine di elaborare una «fenomenologia mediata linguisticamente».23 Inoltre, egli propone anche l’assunzione della concezione, elaborata da Th.S. Kuhn, dei paradigmi, come concetti che hanno efficacia storica e che quindi orientano l’esperienza del mondo, la conoscenza in un determinato momento storico. «In questo modo la fenomenologia non è più la dottrina dei contenuti di coscienza necessari di singoli individui, bensì dottrina dei paradigmi contingenti della nostra storia».24

La religione ha a che fare con la contingenza (Kontingenz), che poi è costituita da quelle situazione in cui si manifesta un deficit di senso (Sinndefizit), soprattutto con quelle forme di contingenza che hanno rilevanza per la religione, come, ad esempio, il fenomeno della morte. In quanto superamento della contingenza la religione ha una sua forma di razionalità intrinseca che non deve essere giustificata né dalla scienza né dalla filosofia: si può quindi parlare di una ragione religiosa. «Religione è un superamento della contingenza (Kontingenzbewältigung) che trascende stabilmente tutte le possibilità filosofiche e che non ha nemmeno bisogno di una giustificazione filosofica».25

La filosofia della religione è per Wuchterl «la fenomenologia descrittiva delle esperienze di contingenza così come delle forme del (necessario) rapporto alla contingenza …»;26 in quanto disciplina descrittiva, e in questo senso fenomenologica, essa non è fondata metafisicamente: «Le autentiche decisioni di tipo contenutistico cadono nei paradigmi della metafisica e della religione. La filosofia della religione è solo una metateoria che contribuisce alla determinazione della propria collocazione e al generale orientamento, ma non può dedurre le legittimazioni di queste determinazioni di luogo».27 Anche la filosofia della religione rimane in qualche modo contingente: noi viviamo sempre in paradigmi che sono storicamente dati, mentre la verità assoluta ci è preclusa.

2.

Facciamo osservare che la distinzione fra impostazione apriorico-costruttiva ed impostazione recettiva o fenomenologica può essere illustrata anche in riferimento a filosofi che hanno dato contributi fondamentali alla discussione di filosofia della religione nel nostro secolo, e le cui posizioni possono in qualche modo essere considerate esemplari.

Un’impostazione di tipo costruttivo si riscontra, a nostro avviso, in Jaspers il quale contrappone alla rivelazione, che è poi la religione storica tramandata, la fede filosofica. Esplicitamente egli afferma il primato della filosofia sulla religione, cosicché il difficile equilibrio fra religione e filosofia, che è una delle difficoltà strutturali della filosofia della religione, è qui nettamente spostato a favore della filosofia, la quale «è temporalmente precedente alla rivelazione biblica; essa è esistenzialmente più originaria, poiché accessibile ad ogni uomo in quanto uomo, essa è capace di udire la verità anche nella Bibbia e di appropriarsene».28

Jaspers parla di una polarità fra rivelazione e fede filosofica: «Fede rivelata e fede razionale stanno come tali in rapporto polare fra di loro, sono interessate reciprovamente, non si comprendono senza residui, ma non desistono dal tentativo di comprendersi».29 In realtà però si tratta, a nostro avviso, di una contrapposizione: Jaspers infatti non cessa di sottolineare il carattere estrinseco ed eteronomo della rivelazione: «La rivelazione viene dall’esterno, dal momento che il Dio si manifesta in un punto nello spazio e nel tempo. L’uomo da se stesso non può trovarlo, poiché egli non è per sua “natura” aperto per questo Dio».30 Al contrario la fede filosofica rinvia a «cio che è più intimo nell’interno»31 (auf das Innerste des Innen) dell’uomo, ed è un pensiero che, a differenza della teologia, deriva da ciò che è originario nell’uomo: «Questo pensiero si chiama, se esso deriva da una rivelazione storicamente determinata ed è limitato da essa, teologia, se invece accade sulla base dell’origine dell’essere umano, filosofia».32

Proprio per salvare l’originaria libertà dell’uomo, che l’eteronomia della rivelazione mette pericolo, Jaspers intraprende il tentativo di costruire una religione filosofica, fondandosi sulla convinzione che anche la filosofia «può esser detta essa stessa religione» in quanto «accertamento dell’incondizionato».33 In ciò egli si richiama esplicitamente al programma kantiano di costruire una religione filosofica. «Io stesso — egli scrive — non posso fare altrimenti che pensare con Kant: qualora la rivelazione fosse realtà, sarebbe una sciagura per la libertà creata dell’uomo».34

Per Jaspers «la rivelazione è una comunicazione diretta o un’azione di Dio nello spazio e nel tempo, localizzata storicamente in determinati luoghi».35 La rivelazione pretende che l’azione di Dio trovi un’espressione adeguata e oggettiva nel fenomeno, il che poi significa per Jaspers che essa tende ad oggettivare tale azione, a legarla a realta oggettive nelle spazio e nel tempo, ad attribuirle cioè una sorta di corporeità. Al contrario, la fede filosofica dissolve tale oggettivazione e trasforma le realtà oggettive in cifre, in forme di espressione indirette, allusive, della trascendenza indefinibile ed inoggettivabile, che è poi il Tutto circoscrivente, l’Umgreifende. «Il grande passo, con cui l’uomo si trasforma, viene compiuto se la supposta corporeità (Leibhaftigkeit) del Trascendente viene abbandonata come realtà illusoria a favore dell’ascolto del linguaggio polivalente delle cifre (Chiffern). I contenuti pensati ed intuiti vengono spogliati della loro realtà oggettiva. Al posto di entità tangibili rimangono cifre nell’infinito mutamento dell’interpretare e della interpretabilità».36 Si tratta, dunque, di tradurre in cifre i miti della corporeità. Le cifre non solo mancano di oggettività in quanto sono vaghe, esposte ad un processo interpretativo mai concluso che ne impedisce l’assolutizzazione, ma anche in quanto l’interpretazione rinvia sempre all’esistenza, è un momento di quella chiarificazione esistenziale in cui ne va delle nostre scelte di vita, del senso della nostra esistenza. Corporeità della rivelazione e polivalenza del linguaggio esistenziale delle cifre sono i due aspetti che definiscono la contrapposizione fra rivelazione e fede filosofica. Jaspers ha cercato anche la via della conciliazione, però è rimasto piuttosto impigliato nella contrapposizione, come nelle pagine in cui polemizza con Karl Barth, mettendo in rilievo gli aspetti di positivismo biblico presenti nella di lui teologia. La conciliazione, più che a livello speculativo, sembra avvenire sul piano di una coesistenza comunicativa in cui il filosofo, pur non ammettendo la realtà della rivelazione, non ne nega almeno teoricamente la possibilità e considera quindi la rivelazione medesima come cifra della presenza di Dio.

Bisogna poi tener presente che sul problema del rapporto fra rivelazione e fede filosofica il pensiero di Jaspers è sottoposto ad una continua oscillazione. In alcune pagine di Der Philosophische Glaube angesichts der Offenbarung egli afferma che il concetto di rivelazione deve essere mantenuto puro, senza attenuazioni (Abschwächung) che cerchino di mediare fra fede rivelata e filosofia comprendendo il concetto di rivelazione in analogia con fenomeni che potremmo dire naturali, come il manifestarsi delle cose nella visione spirituale, nella creazione poetica o artistica, o come l’emergere di nuovi atteggiamenti umani in modo imprevedibile e anche retrospettivamente non comprensibile.37 Però non afferma Jaspers stesso, che l’essere, l’Allumgreifende, il Tutto onnicircoscrivente, diventa manifesto (offenbarwerden) in molteplici apparizioni? «L’essere — egli scrive — sarebbe in qualche modo il Dio uno, l’Atman-Brahman, il Nirvana, il Tao, l’uno di Plotino, la sostanza di Spinoza, il Nulla, il deserto, il vuoto, il caos. Storicamente queste sono le manifestazioni (Erscheinungen) nei cui pensieri l’essere parla in modo peculiare nelle diverse situazioni».38 Ma allora non dovrà esserci un’analogia col manifestarsi di Dio nella rivelazione? Per negare l’analogia, per tener ferma fino all’estremo la contrapposizione fra fede filosofica e rivelazione, Jaspers dovrebbe affermare che Allumgreifende non si manifesta affatto, il che egli sembra tentato di fare in alcuni passi in cui, prospettando un trascendimento al di là di tutte le cifre, parla del «Tutto che è il Nulla», della «pienezza che rimane senza rivelazione».39 In tal caso però le cifre sarebbero mere forme soggettive dell’autochiarificazione esistenziale senza più alcun riferimento ontologico, e il pensiero jaspersiano diventerebbe filosofia meramente esistentiva, volendo usare la distinzione heideggeriana di esistentivo (existenziell) ed esistenziale (existenzial), che corrisponde a quella di ontico ed ontologico, tanto più che Jaspers non segue nemmeno la via della mistica che porta alla perdita delle cifre. Egli, però, finisce coll’ammettere l’analogia con la rivelazione; così egli scrive, infatti, a proposito dell’interpretazione delle cifre: «Noi parliamo di illuminazione interiore, di pneuma, di conversione, di ispirazione della decisione, di una certezza che si instaura improvvisamente. C’è un’analogia tra fede filosica e fede rivelata».40 Lo stesso Jaspers si accorge di star introducendo una di quelle attenuazioni del concetto di rivelazione che precedentemente aveva escluso: «Ma tale concezione — egli si chiede — non è una delle attenuazioni della rivelazione?».41 Il rischio dell’inconseguenza diventa qui palese, ed è come se Jaspers oscillasse fra la mediazione di fede e sapere tipica dell’idealismo tedesco e la scissione di cristianesimo e filosofia posta da Kierkegaard e da Nietzsche, sia pure per opposte ragioni. Le difficoltà della posizione di Jaspers sono forse quelle, in generale, della impostazione apriorico-costruttiva, che per costruire una religione filosofica ed affermarne la superiorità deve contrapporsi alla religione rivelata, che è poi quella storica, tramandata, senza però poter evitare di presupporla come antecedente storico. Tali difficoltà ci inducono a preferirire l’impostazione fenomenologico-recettiva.

Tipicamente fenomenologica è l’impostazione di Scheler, per il quale «né Dio stesso né l’idea di Dio possono essere “costruiti”».42 Strutturalmente, infatti, l’atto religioso è accoglimento di una manifestazione, a differenza dell’atto filosofico che pensa l’Ens a se, vale a dire l’Assoluto che non dipende da altro. «Per quanto l’idea metafisica dell’Ens a se venga a coincidere dal punto di vista logico con la prima determinazione religiosa del divino, tuttavia la via della conoscenza di esse è fondamentalmente diversa. L’atto religioso correlato accoglie qualcosa che diventa manifesto e che presenta se stesso (in un altro); l’atto di conoscenza metafisico gli si pone di fronte spontaneamemte sulla base di operazioni logiche».43 L’atto religioso coglie poi delle relazioni simboliche fra l’Assoluto — che appunto si manifesta in altro — e il mondo, mentre l’atto filosofico ricerca relazione causali.

In questo modo Scheler giunge ad elaborare un concetto filosofico di rivelazione, in applicazione dell’assioma che il sapere riguardante Dio è anche un sapere mediante Dio. «La religione — egli scrive —, in ciascuna delle sue forme secondo la ricchezza del contenuto, sgorga sempre da un’unica sorgente: oggettivamente dalla ’rivelazione’ di Dio (a sua volta ricca di gradi e di livelli), soggettivamente dalla fede. Qui con “rivelazione” non intendo ciò che i teologi positivi chiamano “la rivelazione”, e nemmeno la rivelazione vera (per non parlare di quella “positiva”, bensì soltanto lo specifico modo di datità di ogni tipo di dati di intuizione o di esperienza vissuta di un oggetto dell’essenza del divino e del sacro, cioè il tipo di datità specifico dell’essere comunicato o del venir comunicato, sia in modo immediato che mediato».44 Rivelazione significa anche che i contenuti dell’esperienza religiosa sono irriducibili a quelli della filosofia — ad esempio, il concetto personalità divina e inaccessibile per la metafisica —, dal momento che la religione ha una sua peculiare sfera di oggetti.

Scheler si spinge tanto oltre nel sostenere l’autoevidenza dell’atto religioso da giungere ad affermare che già l’esistenza di tale atto è una prova nel (senso dell’Aufweis, del mostrare, più che del Beweis, del dimostrare) dell’esistenza della sfera degli oggetti religiosi. «Anche a partire dalla classe di atti religiosi, dunque, noi diventiamo certi dell’esistenza di Dio e di un regno di Dio. Se null’altro dimostrasse l’esistenza di Dio, allora sarebbe sufficiente l’impossibilità di derivare la disposizione religiosa da qualche altra cosa che non sia Dio, che attraverso di essa rende se stesso conoscibile all’uomo in modo naturale».45 Infatti, l’atto religioso trascende il mondo nella sua totalità, il che non sarebbe possibile se nulla ci fosse al di là dell’empirico, del finito. Non si può parlare però di un cedimento totale della filosofia di fronte alla religione, dal momento che la conoscenza religiosa non può essere, secondo Scheler, in contrasto con le generali visioni in campo ontologico, logico, etico ed estetico.46 È, questa, la concezione del sistema di conformità (Konformitätssystem), secondo la quale religione e metafisica devono essere compatibili fra di loro per non infrangere l’unità dello spirito umano, anche se non c’è fra di esse identità né parziale né totale .47

3.

Per Scheler l’uomo compie necessariamente l’atto religioso, il problema è solo se riesca a trovare un oggetto adeguato o se invece non finisca con l’assolutizzare qualcosa di finito. «Ogni spirito finito — egli afferma — crede a Dio o ad un idolo».48 Ora, secondo Schaeffler, questa posizione di Scheler, che viene sostenuta sulla base di una fenomenologia che indaga le strutture permanenti degli atti e l’essenza sovrastorica degli oggetti, non tiene conto della crisi cui la religione va incontro nel contesto storico di una secolarizzazione radicale, non tiene conto, cioè, dell’elemento storico. «E così diventa una prova di conferma della fenomenologia-della-religione, se essa è in grado di interpretare in modo adeguato questa storicità gravida di crisi della della religione».49

Per Schaeffler questa prova è stata, per così dire, superata da Heidegger, che ha interpretato fenomenologicamente la crisi della religione come Fehl Gottes, mancanza di Dio, attingendo anche all’esperienza poetica di Hölderlin. Per Heidegger le crisi nella storia della religione derivano sì dalla presunzione dell’uomo ma anche dall’intreccio fra manifestarsi e nascondersi che è peculiare di ogni ierofania. In base alla dialettica di manifestazione e nascondimento Heidegger ha mostrato come anche nell’età della povertà è possibile rimanere vicini al Dio assente nel modo dell’interrogare e del cercare.

Si può essere d’accordo con Schaeffler che Heidegger ha pensato la secolarizzazione, la crisi della religione, nel quadro di una impostazione che rimane ancora fenomenologica e che si arricchisce, mediante l’interpretazione storica, della dimensione ermeneutica. Anche B. Welte, nella lezione del semestre invernale 1967-68 Geschichtlichkeit und Offenbarung, volendo approfondire la tematica della storia, si richiama al pensiero heideggeriano e all’orientamento fenomenologico di esso. «Noi ci lasceremo guidare — egli scrive — dalla iniziale massima di Heidegger “alle cose stesse”, e il nostro pensiero meditante sarà pertanto orientato fenomenologicamente, cioè esso farà attenzione a percepire ciò che la cosa (Sache) della storia fa vedere e concede di esperire di per se stessa, per custodirlo nel pensiero e nella parola».50 Per Welte ogni epoca storica possiede un modo suo proprio di comprensione fondamentale (Grundverständnis) del mondo e il mutamento epocale (der epochale Wandel) consiste proprio nel cambiamento di tali modi. Questo processo, però, che in qualche modo si impone all’uomo singolo presentandosi come un destino universale (universales Geschick), ha un fondamento che è precedente rispetto all’uomo stesso. Per pensare tale fondamento Welte si richiama all’essere di Heidegger: «Possiamo chiamarlo con Heidegger l’essere. Questa parola fondamentale deve per noi nel momento attuale soltanto accennare alla peculiare origine che ci precede e sulla base della quale avviene di volta in volta l’assegnazione all’uomo del modo in cui egli può comprendersi e muoversi nel suo mondo».51

Il discorso ha anche poi in Welte uno sviluppo teologico, sulla base del concetto biblico di rivelazione. Dal punto di vista della filosofia della religione è particolarmente interessante il modo in cui Welte pensa l’esperienza religiosa nella secolarità (Säkularität) della nostra epoca che è caratterizzata dal Fehl Gottes, dalla mancanza di Dio. Chiaramente Welte illustra il carattere fenomenologico del proprio procedimento: la riflessione, come egli la intende, non è costruzione concettuale ma «lo scoprimento e rischiaramento di possibili esperienze immediate»,52 e non è quindi in contrasto con l’immediatezza dell’esperienza; in questo modo la riflessione era intesa anche da Husserl, «come scoprimento di ciò che mostra se stesso (e quindi immediatamente)».53

Ciò che caratterizza, secondo Welte, la nostra civilizzazione tecnico-scientifica, improntata dall’illuminismo e dalla ragione strumentale che tende a porsi come totale, è la mancanza dell’esperienza religiosa, corrispondentemente all’affermarsi dell’autonomia del mondo. Anche questa però è un’esperienza, sia pur negativa, esperienza dell’assenza, del nulla. «Là dove l’esperienza di Dio e quindi l’esperienza religiosa in quanto tale venne a mancare, è subentrata al suo posto l’esperienza del nulla. E questa esperienza è l’autentica base di tutte le forme di moderno nichilismo».54 Il nulla però è ambiguo: esso può essere vuoto e privo di significato, oppure può nascondere in sé qualcosa di divino, nel modo dell’abisso del mistero. Il nichilismo dell’età della razionalizzazione scientifica può rovesciarsi, dunque, in un’esperienza del divino che presenta delle affinità con la teologia negativa e con la mistica: «l’esperienza del nulla e dell’oscurità può capovolgersi nella fiducia nel Dio oscuro»,55 dando così luogo ad una vera e propria svolta (Wende). L’importanza di questa trattazione sull’esperienza religiosa che si trova in Das Licht des Nichts sta nel fatto che questa viene situata in un contesto storico che non è soltanto quello della modernità secolare: anche il momento in cui la modernità esperisce il proprio limite viene preso in considerazione — noi oggi parleremmo di postmodernità —, con la conseguente possibilità dell’apertura di nuovi orizzonti, e soprattutto del rovesciamento del nichilismo dell’epoca moderna dall’interno .56

Riferendoci sempre al tema della storicità della religione, vorremo concludere con una osservazione sulla fenomenologia storico-empirica della religione, che può fornire un valido ausilio alla filosofia della religione — come del resto anche la storia delle religioni e la sociologia e la psicologia della religione — mettendo a disposizione un materiale già organizzato secondo tipologie e rapporti strutturali su cui può esercitarsi la riflessione filosofica. Secondo F. Wagner tale fenomenologia — egli fa riferimento soprattutto a R. Otto, G. van der Leeuw, F. Heiler, M. Eliade, G. Widengren — è orientata nel complesso all’uomo arcaico e non può sostenere la critica illuministica, risultando così inadeguata alle condizioni della moderna società secolarizzata, in cui i sottosistemi sociali (economia, diritto, politica, ecc) non esplicano una funzione religiosa. «La fenomenologia della religione elabora, pertanto, un contributo non sull’antropologia del comportamento religioso in generale, bensì sull’antropologia del comportamento religioso nelle società arcaiche».57 La fenomenologia della religione presuppone un’unità di religione e cultura che non si ritrova nelle società modernizzate che presentano una differenziazione funzionale. Facciamo però osservare che potrebbe esserci qualcosa di costante nel rapporto religioso delle civiltà arcaiche e in quello delle societa modernizzate, pur tenuto conto di tutte le debite differenze storiche, almeno, ad esempio, il rapporto di dipendenza del soggetto individuale finito dalla potenza divina. Quindi la fenomenologia della religione potrebbe ancora essere considerata un contributo sul comportamento religioso in generale, pur dovendosi tener conto, certo, del fenomeno della secolarizzazione.

La versione tedesca di questo articolo sarà pubblicata in un volume miscellaneo in onore del prof. Bernhard Casper dell’Università di Friburgo in Germania.


  1. H.Scholz, Religionsphilosophie, Berlin 1921. ↩︎

  2. Ivi, p. 26. ↩︎

  3. Ivi, p. 27. ↩︎

  4. J. Hessen, Religionsphilosophie, Bd. I Methoden und Gestalten der Religionsphilosophie, München-Basel 1955, p. 22. ↩︎

  5. W. Trillhaas, Religionphilosophie, Berlin-New York 1972, p. 17. ↩︎

  6. Ivi, p. 24. ↩︎

  7. Ivi, p. 27. ↩︎

  8. Ivi, p. 57. ↩︎

  9. Ivi, p. 135. ↩︎

  10. Cfr. ivi, p. 269. ↩︎

  11. R. Schaeffler, Religionsphilosophie, Freiburg-München 1983, p. 111. ↩︎

  12. Ivi, p. 112. ↩︎

  13. Ivi, p. 126. ↩︎

  14. Ivi, p. 125. ↩︎

  15. Ivi, p. 100. ↩︎

  16. Ivi, p. 211. ↩︎

  17. Ivi, p. 219. ↩︎

  18. Ivi. ↩︎

  19. Ivi, p. 220. ↩︎

  20. J. Schmitz, Religionsphilosophie, Düsseldorf 1984, p. 25. ↩︎

  21. Ivi, p. 27. ↩︎

  22. K. Wuchterl, Philosophie und Religion. Zur Aktualität der Religionsphilosophie, Bern-Stuttgart 1982, p. 11. Wuchterl si riferisce soprattutto a Rudolf Otto, a Scheler e ad Hessen. ↩︎

  23. K. Wuchterl, Analyse und Kritik der religiösen Vernunft. Grundzüge einer paradigmenbezogenen Religionsphilosophie, Bern-Stuttgart 1989, p. 145. ↩︎

  24. Ivi, pp. 150-151. ↩︎

  25. K. Wuchterl, Philosophie und Religion, cit., pp. 132-133. ↩︎

  26. K. Wuchterl, Analyse und Kritik der religiösen Vernunft, cit., p. 175. ↩︎

  27. Ivi, p. 174. ↩︎

  28. K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, München-Zürich 1984, p. 500. ↩︎

  29. Ivi, pp. 100-101. ↩︎

  30. Ivi, p. 107. ↩︎

  31. Ivi, p. 527. ↩︎

  32. Ivi, p. 36. ↩︎

  33. Ivi, p. 476. ↩︎

  34. Ivi, pp. 37-38. ↩︎

  35. Ivi, p. 103. ↩︎

  36. Ivi, p. 154. ↩︎

  37. Ivi, p. 105. ↩︎

  38. Ivi, p. 415. ↩︎

  39. Ivi, p. 425. ↩︎

  40. Ivi, pp. 188-189. ↩︎

  41. Ivi, p. 504. ↩︎

  42. M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, in Gesammelte Werke, Bern-München 1954, Bd. V, p. 253. ↩︎

  43. Ivi, pp. 160-161. ↩︎

  44. Ivi, p. 143. ↩︎

  45. Ivi, p. 258. ↩︎

  46. Ivi, p. 288. ↩︎

  47. Cfr. ivi, pp. 142ss. ↩︎

  48. Ivi, p. 261. ↩︎

  49. R. Schaeffler, Der »Gruß des Heiligen« und die »Frömmigkeit des Denkens«. Heideggers Beitrag zu einer Phänomenologie der Religion, in Auf der Spur des Heiligen. Heideggers Beitrag zur Gottesfrage, hrsg. von G. Pöltner, Wien-Köln 1991, p. 83. Precedentemente, nel volume Frömmigkeit des Denkens. Martin Heidegger und die Katholische Theologie, Darmstadt 1978, Schaeffler aveva discusso il problema di un possibile incontro del pensiero dell’ultimo Heidegger con la teologia cattolica. ↩︎

  50. B. Welte, Geschichtlichkeit und Offenbarung, hrsg. von B. Casper und I. Feige, Frankfurt am Main 1993, p. 24. ↩︎

  51. Ivi, p. 117. ↩︎

  52. B. Welte, Das Lichts der Nichts. Von der Möglichkeit neuer religiöser Erfahrung, Düsseldorf 1985, p. 16. ↩︎

  53. Ivi, p. 17. ↩︎

  54. Ivi, pp. 42-43. ↩︎

  55. Ivi, p. 53. ↩︎

  56. Anche in Geschichtlichkeit und Offenbarung Welte tratta della rivelazione nel momento storico attuale (cfr. pp. 160-169). ↩︎

  57. F. Wagner, Was ist Religion? Studien zu ihrem Begriff und Thema in Geschichte und Gegenwart, Gütersloh 1986, p. 328. ↩︎