La morale nel pensiero anarchico: Piotr Kropotkin

1. Introduzione

Piotr Kropotkin1 è un personaggio pienamente inserito nelle problematiche del suo tempo. Preso da mille impegni, tra congressi, redazioni da giornali, intrighi burrascosi e spesso pericolosi, ha sempre saputo conciliare la sua attività di serio e profondo ricercatore scientifico, con quella di attivista del movimento anarchico. Nelle sue pagine siamo andati, così, cercando non solo una chiave di lettura per meglio comprendere l’epoca nella quale ha vissuto, ma anche e soprattutto una risposta sugli atteggiamenti morali dell’uomo. Perché l’uomo, in una società che ha assunto come unico criterio di credibilità e di veridicità la scienza, deve ancora chinare il capo di fronte a certi principi che sfuggono totalmente ai criteri di sperimentazione scientifica? Questi principi sono patrimonio dell’uomo stesso, come sostiene la tradizione metafisica Occidentale, o sono piuttosto imposti da entità astratte al di fuori del singolo? È attorno a queste domande che si sviluppano le riflessioni di Kropotkin.

2. Preambolo storico

Il diciannovesimo secolo deve considerarsi decisivo per quello che noi viviamo oggi. È vero che ogni epoca ha le sue caratteristiche peculiari, ma se con uno sguardo retrospettivo proviamo ad osservare tutto l’arco della storia, ci accorgiamo come il secolo scorso rappresenti un momento di passaggio determinante per l’intero genere umano (Kropotkin, 2011, p. 34). Certamente questo momento non è nato così a caso, ma è il risultato di una lenta evoluzione. Possiamo considerare la rivoluzione industriale la scintilla che ha provocato il capovolgimento generale, un capovolgimento che arriva ad assumere, per il modo efficace con il quale penetra e coinvolge la coscienza del singolo individuo, un carattere di emblematica novità. Nasce, infatti, un nuovo modo di concepire la realtà. L’uomo non vuole più fare la parte dello spettatore amorfo ed indifferente, impassibile di fronte a qualsiasi situazione, anche di oppressione nei suoi confronti. No, vuole sentirsi pienamente partecipe e più che mai protagonista nel cammino di questa nuova società nella quale si trova a vivere. È proprio in questo periodo che nasce la coscienza, nei singoli cittadini, di appartenenza ad un popolo. Possiamo ora chiederci: come è possibile che un semplice fenomeno di natura tecnica, come l’inserimento dell’industria nel mondo del lavoro, possa influenzare in modo così profondo ed incisivo l’intero apparato sociale sconvolgendo radicalmente l’elemento formatore di questo: l’uomo? Per rispondere a questa domanda è necessario comprendere che la rivoluzione industriale non è avvenuta in un giorno ben determinato. Questa trasformazione radicale e totale del modo di produrre è stata vissuta da chi si è trovato coinvolto, in ogni minimo istante della giornata con sentimenti di stupore, disagio e certamente anche di forte disapprovazione. Quest’ultimo atteggiamento era vissuto da tutti coloro che, a causa dei rinnovamenti tecnologici, si erano trovati a vivere in situazioni penose di miseria, sfruttamento e che non capivano dove effettivamente era avvenuta la trasformazione e in che senso doveva essere considerata positiva.

Del resto, noi che leggiamo questi avvenimenti su documenti o manuali di storia, non dobbiamo stupirci in quanto, da che mondo è mondo, chi detiene il potere sfrutta chi non c’è l’ha, chi ha di più non divide con chi ha meno, ma cerca a tutti i costi di accumulare sempre di più (alla faccia di quei pensatori alla «Rousseau» i quali sostengono che l’uomo per natura è buono). E, così, anche il diciannovesimo secolo ha conosciuto i suoi tiranni, che hanno saputo approfittare della buona occasione per allargare ancora di più il baratro tra sfruttato e sfruttatore. Eppure poteva forse essere la volta buona per creare un’eguaglianza di condizioni, per creare una società capace di donare ad ogni individuo le stesse possibilità, ove le uniche differenze tra i singoli sarebbero state di natura qualitativa e non più quantitativa. Ci si potrebbe anche chiedere: dove sta la differenza tra ciò che noi abbiamo descritto come fenomeno nuovo e quello che invece era prima se, infatti, il frutto di questa nuova situazione è ancora una volta l’oppressione dov’è la novità, dov’è il capovolgimento? All’inizio accennavamo al posto particolare che occupa la coscienza del singolo individuo in questo fenomeno. Ebbene, per noi è proprio a questo livello che è avvenuta la vera rivoluzione. È proprio quando l’uomo, la donna, il vecchio e il bambino si sono accorti di subire un torto, quando di questo torto ne hanno parlato con dei loro amici, i quali anche loro subivano le stesse umiliazioni, quando si sono accorti che moltissima gente come loro, attorno a loro stava subendo un’ingiusta e immeritata umiliazione che è nata la vera rivoluzione. La rivoluzione industriale, fatto nuovo nella storia, aveva prodotto la divisione tra capitalista e proletario, termini nuovi dietro i quali, però, si celava un problema vecchio come il mondo. È la coscienza di essere sottomessi da degli esseri potenzialmente uguali, che ha provocato la vera e propria svolta nella storia dell’umanità e non il semplice fatto. Certo che l’uomo ce ne ha messo di tempo per svegliarsi ed accorgersi di quello che stava avvenendo intorno a sé. Ci si può, però, legittimamente chiedere se questo risveglio, visto che la situazione storica era più o meno la stessa degli altri periodi storici, è avvenuta da sola. Se accettassimo ciò, potrebbe sembrare che il processo di coscientizzazione fosse contenuto in germe già all’inizio del mondo e quindi prima o poi sarebbe dovuto avvenire, in un modo o nell’altro. Accetteremo così, più o meno consapevolmente, una posizione dialettica sostenuta da alcuni pensatori (vedi la sinistra hegeliana), che svaluta in modo totale l’azione dei singoli uniti nella lotta per la liberazione da un’ oppressione, assegnando alla storia, entità astratta, l’unica responsabilità.

Piuttosto, invece, sarebbe il caso di fare entrare in gioco altri e nuovi fattori. Noi pensiamo che a questo risveglio abbia contribuito molto un modo diverso di riflettere sugli avvenimenti che stavano accadendo. Non si era mai verificato prima di allora che molti pensatori si fermassero ad elaborare considerazioni sulle possibilità e sulle modalità di una situazione storicamente datata. Ciò che è più sbalorditivo ed inaudito è dato dal fatto che ci si preoccupava del popolo, di come liberarlo da quella situazione assolutamente penosa ed insostenibile. Tutto questo è sbalorditivo poiché non ci sembrano molti nell’arco della storia i filosofi che sono scesi dai loro castelli per curarsi e soprattutto per utilizzare il proprio pensiero a servizio di chi stava peggio. Evidentemente gli eventi erano di portata così colossale che valeva davvero la pena fermarsi un attimo per produrre alcune considerazioni. Nascono, così, i sociologi o meglio un nuovo modo di pensare la storia e la società rivolto soprattutto a capire il tipo di rapporto esistente tra individuo e gruppo. Sorge, così, anche una cultura che non è più solo elitaria, ma che in molti casi ha come primo intento quello di incitare le masse a ribellarsi ai propri oppressori. È qui che avviene una nuova svolta. Da un modo di ribellarsi istintuale e perciò momentaneo, si passa ad un modo di ribellarsi consapevole. Non nasce, però, un unico modo di vedere il problema. Infatti, comunismo, socialismo, anarchia sono manifestazioni della pluralità di vedute che ruotano attorno allo stesso motivo. All’inizio cercavamo la scintilla che aveva provocato l’incendio, ebbene, ora l’abbiamo trovata. Sia ben chiaro, però che noi non attribuiamo il merito di questo risveglio ai soli pensatori. Assolutamente no. Anzi, a nostro avviso è l’unione di queste due forze teorica e pratica, che ha fatto si che il fenomeno si attuasse nella sua piena complessità. Poiché non si può comprendere la portata dell’evento se lo si analizza in modo generale, noi ora ci soffermeremo ad analizzare il momento storico sopra descritto dal particolare punto di vista di un autore: Kropotkin.

3. Una risposta al problema: l’anarchia

Il punto di partenza del discorso di Kropotkin è un’analisi sulla situazione socio – culturale del suo tempo. Egli intende far porre l’attenzione all’interlocutore sulla colossale trasformazione che è avvenuta e che ancora si sta sviluppando, che intacca tutti i livelli del sapere umano. Non è una trasformazione del mondo, bensì del modo di vederlo, di considerarlo; come? Un tempo la scienza studiava i grandi risultati e le grandi somme, oggi studia soprattutto gli infinitamente piccoli, gli individui che compongono le individualità contemporaneamente alla loro stessa intima aggregazione (Kropotkin, 1994, p. 87). È quindi, un orientamento nuovo che non coglie più l’oggetto come totalità ma come composto da elementi particolari che interagiscono. È un modo di vedere che non si ferma alla superficie, ma che invade tutti i campi del sapere umano. Kropotkin, analizza questa evoluzione prima nell’astronomia, poi nelle scienze fisiche, nelle scienze che s’occupano della vita organica, nella psicologia, nella storia, nella giurisprudenza, nella economia politica e, infine, nella filosofia. Che cos’è, però, che viene scalzato definitivamente da questa nuova concezione? Se il fenomeno non è più spiegato chiamando in causa una volontà divina bensì una serie di scontri ed incontri, cade il concetto di predestinazione, di disegno prestabilito. Non solo, ma se l’uomo non è più che una risultante, come il nostro autore afferma (Kropotkin, 1990, p. 116), sempre variabile, di tutte le diverse facoltà, che sono legate reciprocamente in modo che ognuna reagisca sull’altra pur vivendo della loro propria vita, che cosa ci sta a fare l’anima, intesa come organo centrale che regola il funzionamento delle altre facoltà? È evidente che da questa osservazione ne derivi una concezione della società del tutto diversa da quella precedente. Infatti, col nome di anarchia nasce una nuova interpretazione della vita passata e presente della società e, nello stesso tempo, una previsione sul loro avvenire. Kropotkin, quindi, considera e presenta l’anarchia come chiave di lettura del suo tempo, un interpretazione che non si ferma solo ad un mero livello critico, ma anche propositivo.

Il nostro autore precisa, poi, alcune linee fondamentali di questa nuova concezione: in primo luogo non lascia spazio alle minoranze dominatrici (preti, generali, giudici); riconosce che tutti i suoi membri hanno diritti uguali su tutti i tesori accumulati nel passato; non conosce la divisione tra sfruttati e sfruttatori. Infine, cerca l’armonia sociale non assoggettando tutti gli uomini ad una autorità, ma chiamandoli al libero sviluppo, alla libera iniziativa, alla libera azione ed alla libera associazione. «L’anarchia cerca il più completo sviluppo dell’individualità, unita al più alto sviluppo della associazione volontaria a tutti i livelli» (Kropotkin, 1994, p. 92). Questo ideale utopico di società vagheggiato per molti secoli, secondo Kropotkin ora può concretizzarsi nel suo aspetto economico, politico e morale, basandosi sulla necessità del comunismo. Uno degli elementi più originali del pensiero di Kropotkin è stato certamente questo, cioè che un ideale apparentemente utopico come l’anarchia aveva bisogno di una veste politica già da tempo collaudata, per realizzare i suoi piani. Il comunismo faceva proprio al suo caso. Era rivolto, infatti, come del resto l’anarchia, a liberare le masse lavoratrici dall’oppressione. Mentre, però, il comunismo una volta distrutto l’oppressore si sarebbe organizzato creando una nuova struttura di tipo burocratico analoga alla precedente, l’anarchia per essere coerente ai propri ideali, una volta fatta la rivoluzione di sicuro non avrebbe costruito un’organizzazione di tipo statale. Kropotkin aveva individuato così nel comunismo, un forte compagno di viaggio anche se, ad un certo punto del cammino, lo avrebbe dovuto salutare. Che cos’è, secondo l’anarchia ed il comunismo, che ostacola lo sviluppo della tanto agognata nuova società? Sono gli schiavi economici, sono coloro che arraffano tutto ciò che serve a vivere e a produrre impedendo continuamente di produrre il necessario per il benessere individuale. Sono i parassiti dello stato per i quali gli operai lavorano. Per assoluta necessità, l’abbondanza di alcuni è quindi basata sulla povertà degli altri. Il rapporto stretto anarchia – comunismo, conduce il nostro autore a prodigarsi in alcune considerazioni tipiche del pensiero di Marx. Afferma, infatti, che il sistema spinge l’individuo a vendere la sua forza lavoro ad un presso bassissimo per poter mangiare. Questa situazione disastrosa, però, costituisce anche alla condanna del sistema stesso. Si sono create una serie di situazioni in cui l’operaio per poter sfamare lui e la sua famiglia è costretto ad agire in base al volere del capitalismo. Ciò significa che per cambiare questo sistema, occorre attaccarlo nella sua essenza, la vendita e l’acquisto, e non nel suo effetto che è il capitalismo. Sono i nuovi rapporti di produzione che hanno provocato il disagio sociale ed è a questo livello che bisogna operare. Di tutto ciò i lavoratori hanno ormai una vaga intuizione.

Kropotkin, per comprendere la struttura sociale capace di eliminare i mali che la corrodono, rivolge le sue riflessioni alla stato. Per l’anarchia il migliore degli uomini è reso essenzialmente cattivo dall’esercizio dell’autorità. È importante sottolineare come l’autore giochi molto sul contrasto tra coercizione e reciproco aiuto, come corrispettivo antitetico del dualismo stato-anarchia. Perché lo stesso non potrà mai avere fortuna in una società di tipo anarchico? Perché sopprime e schiaccia la libertà del singolo. Non solo, ma lo Stato produce non l’aiuto reciproco, elemento fondamentale della natura umana, bensì la competitività frutto aberrante di rapporti fallaci. Kropotkin afferma che bisogna solo aprire un po’ gli occhi, scrollandosi di dosso tutti quei residui metafisico – religiosi, che non ci permettono di vedere chiaramente come stanno le cose (Kropotkin, 2015, p.74). Kropotkin mette poi in guardia coloro che tacciono l’anarchia di utopia, affermando che l’intento non è solo quello di demolire qualsiasi forma di potere instituito. Se il compito dell’anarchia fosse solo questo, cadrebbe nell’errore di coloro che dopo la rivoluzione hanno lasciato la ricostruzione della società nelle mani dei borghesi. L’anarchia, perciò, accompagna al lavoro di demolizione, quello di mantenimento ed allargamento dei costumi di socievolezza operato e garantito dall’azione continua di tutti (Kropotkin, 2015, p.112). Le istituzioni ed i costumi comunisti, scrive l’autore, s’impongono alla società non solo come una soluzione delle difficoltà economiche, ma anche per mantenere e soddisfare abitudini socievoli, che mettono gli uomini in contatto, gli uni con gli altri, stabilendo tra loro rapporti che facciano dell’interesse di ognuno l’interesse di tutti e li uniscono invece di dividerli (Kropotkin, 2015, p.98). Per confermare e sottolineare ciò Kropotkin elenca tre mezzi che servono a mantenere un certo livello morale in una società umana o animale: la repressione degli atti sociali, l’insegnamento morale, la pratica del reciproco aiuto. Per quanto riguarda il primo aspetto, c’è poco da dire in quanto l’importanza dei metodi repressivi si è manifestata in modo abbastanza evidente nel corso dei secoli. Per l’insegnamento morale (risulta dall’insieme delle idee dagli apprezzamenti di ognuno di noi sui fatti e sugli avvenimenti della vita quotidiana) afferma che può agire sulla società ad una sola condizione: di non essere ostacolata da un altro ordine di insegnamenti morali derivanti dall’uso delle istituzioni. L’ultimo elemento, l’aiuto reciproco, è considerato come strumento di progresso, di perfezionamento morale ed intellettuale della razza umana. Ogni qual volta l’istituzione è intervenuta a gelare i rapporti tra gli individui, ha provocato un cedimento del livello morale (Kropotkin, 2011, p.132). Definiti questi elementi, Kropotkin ripensa al rapporto anarchia-comunismo, stravolgendolo completamente. Dove prima individuava gli elementi contrastanti, ora vi trova l’accordo. In una società comunista, afferma, cambiano i rapporti sociali in quanto l’organizzazione del comunismo non può essere affidata a corpi legislativi si chiamino essi parlamenti, consigli municipali o comunali. Dev’essere opera di tutti, del genio costruttore della grande massa (Kropotkin, 1994, p.63).

È chiaro che per realizzare ciò, deve creare una ragnatela parcellare di associazioni per il continuo contatto fra tutti. Ma, ci chiediamo, che differenza c’è tra «ragnatela parcellare di associazioni» e «corpi legislativi, consigli comunali, municipali»? In queste parole Kropotkin sembra accorgersi dell’impossibilità di garantire la libertà degli individui senza un’organizzazione superiore. In realtà, come ci darà e come di fatto ci ha detto la storia, mettere lo Stato nelle mani del popolo significa ricostruire un nuovo organismo statale come il precedente, anche se, sotto alcuni aspetti, differente. Questo non è certamente l’intento di Kropotkin, soprattutto nel suo sforzo estremo di rimanere fedele all’originalità dell’ideale anarchico. Come mai, allora, Kropotkin arriva a confondersi e a mescolarsi con il pensiero comunista? Ciò appare piuttosto evidente dalle riflessioni seguenti dell’autore. Il più forte sviluppo dell’individualità può realizzarsi solo nel comunismo, inteso come garante dei bisogni primari di ogni singolo individuo. Il comunismo permette al singolo di realizzare le proprie potenzialità di mettere a frutto la propria creatività: è questa la lettura di Kropotkin (2015, p.188). A quanto pare il comunismo permette all’anarchia di svilupparsi come ideologia. Ma cosa accade quando il comunismo vuole sviluppare la propria ideologia? A questa domanda conosciamo sia la risposta teorica che quella storica. Da un punto di vista puramente teorico le due ideologie convivono, almeno secondo l’interpretazione del nostro autore, in quanto, in linea generale entrambe sostengono la realizzazione delle potenzialità del singolo. Da un punto di vista storico le cose cambiano di molto. Infatti, mentre l’anarchia non ha mai avuto modo di vedersi realizzata storicamente, il comunismo si, è ed proprio qui che sorgono i problemi. La storia, infatti, gli è stata nemica, nel senso che ha messo a nudo le fallace contenute già nei suoi presupposti teorici. È mancata a questo importante appuntamento soprattutto dove ci si aspettava non fallisse, vale a dire nel rispetto del singolo. Forse aveva ragione Kropotkin quando affermava che il comunismo e l’anarchia sono il necessario completamento l’uno dell’altra. L’anarchia avrebbe aiutato il comunismo a comprendere che la rivoluzione doveva avvenire non tanto per salvare la massa (termine ambiguo dietro al quale si nasconde una realtà mai pienamente definita), ma i singoli individui che la costituivano. Dal canto suo il comunismo, con la sua lettura economica del fatto sociale, poteva aiutare l’anarchia a rimanere più ancorata alla realtà. Forse uno dei motivi per cui l’anarchia come ideale non ha mai potuto concretizzarsi è proprio questa sua evidente mancanza di concretezza.2

A quanto pare sembriamo entrati in un circolo chiuso: l’anarchia si pone come estremo difensore del singolo, trascurando però ogni loro garanzia e tutela; d’altro canto il comunismo, mentre fornisce questa garanzia burocratica pone il singolo in una posizione piuttosto critica. Di questa svista teorica noi assolviamo Kropotkin per il solo fatto che non ha potuto assistere all’evento del comunismo, pur rimanendo inflessibili nell’affermare l’assurdità del comunismo anarchico. Come può, infatti, l’anarchia distruttrice di tutto ciò che ha qualcosa a che fare con il potere ed il comando, andare a braccetto con il comunismo amante del popolo, nella teoria, ma estremo oppressore di quel patrimonio ontologico appartenente al singolo, nella prassi?3 Proseguendo la nostra analisi osserviamo come il nostro autore intende l’umanità e, cioè, come una realtà in evoluzione. Egli afferma che ogni fase dello sviluppo di una società è una risultante di tutte le attività di ognuna delle intelligenze di cui si compone la società: essa porta l’impronta di tutti questi milioni di volontà. Kropotkin continua così nella sua linea sempre pronto ad affermare la complementarietà tra singolo e società, quest’ultima intesa non metafisicamente come entità astratta e a sé stante, bensì come insieme di particolarità individuali (Kropotkin, 2011, p.142). Nell’anarchia è il singolo al centro del discorso con tutte le sue facoltà. Appunto per questo l’autore è sempre molto attento a mettere in guardia da ogni atteggiamento superficiale. Infatti, mal comprese e soprattutto mal applicate le idee di libertà dell’individuo, possono portare ad atti che ripugnano i sentimenti sociali dell’umanità.

4. La morale anarchica

Alla base di una nuova visione della realtà c’è una nuova teoria. Per noi questa teoria nuova è la morale che indica un modo nuovo d’intendere l’uomo, il suo agire, il suo rapporto con gli altri. Molto spesso è guardando dalla morale che noi individuiamo il livello di civiltà di un popolo. Per Kropotkin, come per molti pensatori di questo periodo dell’ottocento, come Stirner4 e Nietzsche,5 una società che sta fondando tutte le sue potenzialità sulla tecnica e sta, quindi, innalzando la scienza come unica criterio di verità, ha bisogno di una morale che abbia gli stessi criteri degli altri settori. È vero che il mondo sta cambiando? E allora ogni più piccola parte deve subire questo rinnovamento. Affermando ciò, Kropotkin, si schiera con i nuovi pensatori e sociologi come Comte6 e Durkheim7 i quali, vedendo la società mutare in modo così radicale, affermavano che anche la morale e la religione dovevano subire lo stesso mutamento.8 Sottolineiamo il verbo mutare, che non è assolutamente sinonimo di eliminare come alcuni sostengono, ma che presuppone un non piccolo sforzo di riflessione speculativa capace di analizzare la situazione storica per creare in ogni momento le migliori condizioni di possibilità. Se non si vuole porre come assoluto nessuna realtà nemmeno la scienza, che nel periodo da noi preso in esame rischia spesso questo pericolo, occorre avere il coraggio di scendere dall’alto e camminare con l’uomo di ogni giorno mettendo a sua disposizione qualsiasi strumento che lo possa aiutare nel difficile travaglio nella vita di ogni giorno. È proprio quello che Kropotkin intende quando si accinge a scrivere: La morale anarchica e L’etica. Quali sono i punti cardini della nuova morale? Occorre prima di tutto precisare che il nostro autore nelle sue analisi procede con al fianco la vecchia morale, quella di matrice religioso-cristiana. Prende così, spunto da quelli che per lui sono stati gli errori fondamentali di questa vecchia morale, per confutarli gettando così le basi della nuova. In primo luogo, individua l’atteggiamento tipico di una mentalità religiosa che tende a dividere il genere umano in altruisti ed egoisti. I primi sarebbero coloro che hanno compreso e messo in pratica gli insegnamenti tradizionali, i secondi, al contrario, coloro che non hanno capito e sono andati per la loro strada.

Kropotkin risponde che tutte le azioni dell’uomo, buone o cattive, utile o nocive derivano da un solo motivo: la ricerca del piacere (Kropotkin, 2011, p.52). In fin dei conti, egli afferma che, se l’uomo che dona la sua ultima camicia non ci trovasse piacere non lo farebbe. Così se trovasse piacere nel togliere il pane al fanciullo lo farebbe. Il nostro autore, spostando gli esempi sul mondo animale conclude che, ricercare il piacere o evitare la pena è il fattore generatore del mondo organico, è l’essenza stessa della vita. Affermando ciò, Kropotkin ci vuole dire che non c’è assolutamente bisogno di chiamare in causa dei, diavoli o angeli per spiegare la natura umana; basta solamente porre un po’ più di attenzione a ciò che succede intorno a noi, soprattutto nel regno animale, per trovare innumerevoli analogie e ottime spiegazioni. La natura così, invece di essere specchio del divino come voleva una lunga tradizione filosofica, diventa chiave di lettura del fenomeno uomo. Dal binomio antitetico egoismo-altruismo, che definisce due diversi modi di atteggiarsi, il nostro autore passa ad analizzare un altro binomio antitetico che sta, ancora più del primo, alla radice del problema morale: vale a dire il rapporto esistente tra bene e male. I teologici, scrive l’autore (Kropotkin, 1990, p.236), non trovando spiegazioni alla distinzione tra queste due realtà, vi hanno scorto un’ispirazione divina. Non hanno saputo, però, constatare che gli animali, i quali vivono socialmente, sanno fare distinzione fra il bene e il male precisamente come l’uomo. Ciò che più colpisce è che le loro concezioni sul bene e sul male sono dello stesso genere di quelle dell’uomo. Il principio che regola il mondo naturale è questo: è utile questa cosa alla società? Allora è buona. È nociva? Allora è cattiva. Queste parole che segnano il passaggio da una morale oggettiva a una morale soggettiva, o meglio da una morale che riconosceva come punto di riferimento un assoluto dal quale valutare ogni singolo particolare, ad una morale che vede come unico ed indiscusso arbitro delle scelte e delle situazioni il singolo, l’io. In questo procedimento euristico occorre ammettere che Kropotkin è figlio del suo tempo. Si tratta di un generale modo di pensare che ha i suoi simboli in nomi come: Feuerbach, Marx, Engels, Stirner, Nietzsche, Kierkegaard, pensatori che hanno spinto pian piano la riflessione fino a scalzare definitivamente tutto ciò che rappresentava un «superiore» rispetto all’uomo, per dare finalmente spazio al soggetto.9 È quindi in questa atmosfera culturale che Kropotkin matura queste idee e delinea le linee fondamentali della mora anarchica.

L’autore da noi preso in considerazione, con simili premesse, tenta di andare alla scoperta delle origini della distinzione tra bene e male, cercando di motivare l’obbedienza che l’uomo deve alla morale. Kropotkin, per rispondere, chiama in aiuto Adam Smith, il quale afferma che l’origine sta nel sentimento di simpatia che passa pian piano allo stato di abitudine. Secondo il nostro autore, Smith non coglie un fattore fondamentale e cioè che il sentimento di simpatia non è tipico dell’uomo, ma esiste anche fra gli animali. Infatti, il sentimento di solidarietà è la caratteristica predominante della vita di tutti gli animali che vivono in società. In tutta la società animale la solidarietà è una legge della natura, che tra l’altro provoca i fattori fondamentali del progresso: Il coraggio e la libera iniziativa. Il sentimento morale è così, per Kropotkin, una necessità naturale, non diversamente della nutrizione e degli organi digestivi. Infine, senza questa solidarietà dell’individuo con la specie, il regno animale non si sarebbe mai sviluppato ne perfezionato (Kropotkin, 2011, p.158). Kropotkin è ben lontano dal negare ogni senso morale all’anarchia come alcuni avrebbero voluto. Egli vuole precisare che l’anarchia è un movimento sociale che coinvolge il singolo, cercando di offrire risposte nuove al rapporto tra le persone che vivono in società. D’accordo che anarchia è sinonimo di guerra allo stato, alla religione, all’autorità, ma questo non significa che l’uomo debba ribellarsi anche contro ciò che gli appartiene. Difatti, il senso morale è una facoltà naturale. Con ciò Kropotkin afferma della morale quello che i tomisti chiamavano come appartenente allo statuto ontologico, con chiaro riferimento ad un essere trascendente. Il nostro autore, da buon anarchico, recupera e rinnova il significato di senso morale, liberandolo totalmente da principi religiosi. L’umano ed il naturale sembrano essere criteri di valutazione di ogni elemento da prendere in considerazione. Così Kropotkin ha aggirato in modo superbo il problema del fondamento della morale e a coloro che gli domandano perché si deve ancora obbedire a certi principi, lui risponde chiamando in causa la natura. Non è questo uno sforzo di poco conto. In un clima come quello della seconda metà del milleottocento, come scrisse lo storico britannico James Joll,10 ove il movimento anarchico è alla ricerca di una propria identità, contesa tra il contesto sociale ed il singolo individuo, ove in nome dell’anarchia si è disposti a commettere qualsiasi delitto contro ogni rappresentante dell’autorità costituita,11 chiamare in causa e recuperare il senso morale poteva sembrare più un gesto di sfida che un gesto chiarificatore. Tanto più se si pensa che Kropotkin era un pensatore immerso totalmente nei problemi del suo tempo. Eppure, Kropotkin sembra non interessarsi di tutto questo e precede diritto per la sua via pronto a chiarire, per chi non l’avesse ancora capito, che l’anarchico non è un ribelle sanguinario, bensì uno che a tutti i costi vuole colmare l’abisso esistente tra operaio e padrone, tra sfruttato e sfruttatore, per gettare le basi di una società egualitaria. Questa nuova società si fonda su una nuova morale che è quella che stiamo tentando di descrivere.

Per Kropotkin un grosso freno allo sviluppo di questa nuova moralità è posto dai preti, dai giudici e dalle autorità. Quando costoro non ci saranno più, i principi morali perderanno ogni carattere di obbligazione e saranno considerati come semplici rapporti naturali fra uguali. Man mano che si stabilizzeranno, una concezione anche più elevata, sorgerà nella società. Lo scopo dell’etica consiste nel creare un’atmosfera sociale in grado di far comprendere alla maggioranza degli uomini, in modo assolutamente abitudinario, gli atti che conducono al benessere di tutti e al massimo di felicità per ciascuno. Kropotkin pensava che la società ideale sarebbe stata il frutto di una vigilanza eterna. Sebbene gli istinti umani siano in complesso buoni, il problema fondamentale dell’etica è di risolvere la contraddizione fra quei sentimenti che inducono l’uomo ad assoggettarne altri per utilizzarli ai propri fini e quelli che spingono gli essere umani ad unirsi per raggiungere fini comuni con sforzi comuni. I primi appellandosi a quel fondamentale tendenza che è il desiderio di unità e di simpatia reciproca. Gli istinti favorevoli alla solidarietà umana, al mutuo appoggio ed alla reciproca simpatia, devono quindi essere incoraggiati. L’umanità potrà così compiere un altro decisivo passo avanti.


  1. Piotr Alexeievich Kropotkin (Mosca 1842, Dmitrov 1921) è stato un rivoluzionario e teorico dell’anarchismo russo. Nato in una famiglia aristocratica, si è dedicato alla carriera militare. Durante il suo destino in Siberia contribuì all’esplorazione di quel territorio e adottò le idee anarchiche, influenzate da Proudhon e Bakunin. Dopo la repressione dell’insurrezione polacca nel 1863, lasciò l’esercito e si dedicò alla geografia, assumendo posizioni critiche contro il regime zarista. Durante i suoi viaggi in Europa e in Asia ha preso contatto con attivisti anarchici. Nel 1872 si unì alla Prima Internazionale (IWA), nella quale sostenne la corrente anarchica di Bakunin contro la leadership di Marx. Quando tornò in Russia nel 1874 fu arrestato per le sue attività rivoluzionarie; ma riuscì a fuggire in Francia nel 1876. Qui partecipò ai tentativi di riunificare il movimento operaio internazionale e fondò la rivista El Rebelde, nelle cui pagine difendeva le idee anarchiche e la necessità di renderle realtà attraverso l’uso della violenza. Nel 1882 fu arrestato dalle autorità francesi, trasferendosi in Inghilterra dopo la sua liberazione nel 1886. Tra le opere di Kropotkin si possono includere La conquista del pane (1888), Campi, fabbriche e laboratori (1899), e Memorie di un rivoluzionario (1906). Questi testi anno definito il comunismo libertario, ideologia dominante tra gli anarchici della fine del XIX e all’inizio del ventesimo secolo, che ha sostituito il collettivismo di Bakunin e Proudhon. L’obiettivo era quello di difendere l’organizzazione collettiva di comuni autosufficienti, governati da una concezione rigorosamente scientifica del mondo e da rapporti sociali basati sul sostegno reciproco, la libertà morale, la solidarietà e la giustizia. ↩︎

  2. Lo sostiene in modo particolare: D. Guerin, Per un marxismo libertario, Massari, Viterbo 2008. ↩︎

  3. Cfr. B. Mondin, Cultura, marxismo e cristianesimo, Massimo, Milano 2012. ↩︎

  4. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1999. ↩︎

  5. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1977. ↩︎

  6. A. Compte, Corso di filosofia positiva, La Scuola, Brescia 1987. ↩︎

  7. E. Durkeim, Le forme elementari della vita religiosa, Mimesis, Milano 2013. ↩︎

  8. Cfr. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 1989. ↩︎

  9. Cfr. la puntuale critica d E. Mounier, Il Personalismo, Ave, Roma 2004, p. 68. ↩︎

  10. Cfr. J. Joll, Cento anni d’Europa: 1870-1970, Laterza, Bari 1975. ↩︎

  11. Cfr. le tesi sostenute da M. Stirner nel suo più famoso lavoro: L’unico e la sua proprietà, cit. ↩︎