Il miserabile e il supplicante. Attualità della poesia di Charles Péguy

1. Introduzione

Esiste una coerenza interna che percorre tutta l’opera di Péguy1 e che poggia da una parte sul metodo intuitivo appreso da Bergson, dall’altra sulla concezione del tempo presente come punto cruciale in cui l’uomo può accogliere e vivere la realtà (plurale).2 Se questi punti nodali del pensiero Péguysta legano con fili sottilissimi le sue concezioni politiche con quelle di carattere morale e sociale, ciò vale soprattutto per le concezioni religiose. Occorre ricordare che la posizione di Péguy nei confronti del cristianesimo ha vissuto stagioni diverse. Péguy si è rapportato con la religione cattolica in accordo con la riflessione globale che stava conducendo intorno alla realtà. Proprio per questo, per offrire un giudizio il più obbiettivo possibile, occorre tenere presente il travaglio interiore percorso dal Nostro. Sarebbe pericoloso, infatti, fermarsi alla fase critica e polemica di Péguy, in quanto ne potrebbe scaturire una visione oltre che parziale, anche e soprattutto negativa. Non va dimenticato che Péguy ha avuto parole dure non tanto nei confronti del cattolicesimo quanto, piuttosto, nei confronti di coloro che dovrebbero salvaguardare ed annunciare il patrimonio religioso portato da Gesù sulla terra. Il rischio costante in cui si imbatte colui che si accosta all’opera di Péguy è quello di trasformarla immediatamente in blasfema. Una lettura attenta conduce invece a scoprire la fedeltà estrema di Péguy al messaggio rivelato, che si traduce in una ricerca continua e sofferta della sua essenza.

Le pagine positive della mistica péguyana non possono, dunque, essere lette ed analizzate senza tenere conto dell’impostazione filosofica che soggiace, e degli sviluppi che sul piano della critica sociale e morale ne conseguono. I Misteri, in definitiva, non possono essere compresi se non sono accostati alla prosa di Péguy.

Nelle pagine che seguono intendiamo proporre una chiave di lettura dell’opera religiosa di Péguy che tenga conto di quanto detta sopra. Dannazione, speranza, incarnazione, passione più che essere temi teologici, rappresentano il cammino di un uomo che scopre nella propria storia, nel presente della vita quotidiana, i segni di una Presenza.

2. Perché l’inferno?

Secondo l’opinione di molti studiosi, Péguy avrebbe abbandonato la religione cattolica poiché non riusciva ad accettare il dogma di un inferno eterno e, con esso, l’eventualità che qualche uomo si fosse potuto dannare per sempre. Già in Toujour de la Grippe il problema è posto dal nostro autore in tutta la sua chiarezza.

Noi siamo solidali con i dannati eterni. Noi non ammettiamo che uomini siano trattati disumanamente. Noi non ammettiamo che ci siano uomini respinti dalla soglia di nessuna città. Qui è il profondo movimento da cui siamo animati. Noi non ammettiamo che ci sia una sola eccezione, nel cielo e sulla terra. Una eternità di morte vivente è una immaginazione perversa, invertita.3

In queste poche righe troviamo la forza propulsiva che ha spinto Péguy a ricercare all’esterno ciò che non riusciva a trovare nella Chiesa, vale a dire una reale salvezza universale che non lascia perdere (dannare) nessun uomo, nemmeno uno. Il socialismo giovanile di Péguy va, dunque, collocato all’interno di questa problematica di sapore religioso.

La città armoniosa, descritta nella sua prima opera di impegno socio-politico, costituisce il tentativo di delineare i contorni di una città perfetta, armonica, pura4 in cui tutti trovano la possibilità di esprimersi in libertà. «Nella città armonica si genera l’anima della città, quest’anima vive e raggiunge la sua piena forma senza deformare le anime individuali e le anime delle famiglie e le anime delle amicizie e le anime delle nazioni, da cui esse sono derivate».5

Così la società che nasce da una tale armonia civile sarà in grado di promuovere organicamente gli interessi dei cittadini affinché questi possano offrirsi con tutta la libertà agli interessi dell’umanità. Persino gli aspetti normalmente intesi come negativi trovano una propria collocazione e un significato all’interno di questo paradiso terreno:

i dolori sani delle anime armoniche hanno gradazioni infinite all’occasione possono estendersi fino alle sofferenze più estreme e alle più estreme e alle più estreme esperienze del dolore. Esse crescono di forza e di bellezza fino alla più estrema sopportazione della solitudine, soprattutto del dubbio, della separazione e della morte.6

Già a partire dal 1902, vale a dire a quattro anni di distanza dalla Città Armoniosa, Péguy sposta il centro della propria riflessione. Abbandona, infatti, le analisi di carattere escatologico per concentrare i propri interessi sull’esperienza terrena. Lo troviamo, così, a riflettere intorno a due figure di uomini che hanno costellato la storia dell’umanità, e che hanno come caratteristica comune l’esperienza della dannazione e dell’inferno già sulla terra: il miserabile e il supplicante.

Agli occhi di Péguy chi si trova nella vera miseria non ha nessuna speranza di sottrarvisi:

Lo sguardo continuo che egli getta sulla sua miseria è esso stesso uno sguardo di miseria. Ne deriva la stessa impressione di disperazione totale, la miseria è tutta la sua vita, una schiavitù senza eccezione, un gusto di morte mischiato a tutta la sua vita. La morte era per i sapienti antichi l’ultima liberazione, per i miserabili non è che la misura che si fa colma dell’amarezza e della sconfitta, il punto supremo della disperazione. Il miserabile è nel centro della miseria, comprende le cose solo in un modo miserabile, proprio perché non crede alla vita eterna. Il miserabile come noi lo conosciamo, come è divenuto con l’esclusione della fede religiosa, possiede ormai solo una stanza per vivere e questa è piena di miseria fino all’orlo.7

Péguy individua un rapporto stretto tra il dolore umano causato dalla miseria e il dolore religioso causato dalla dannazione. È in questa nuova prospettiva che il nostro autore sembra ancor più inammissibile l’accettazione da parte di un cattolico della dannazione eterna di un uomo:

I cattolici seri si sono sempre preoccupati dell’inferno, sia con il problema se la loro anima sarà dannata oppure no (il problema della salvezza era capitale, per questo in molti tentativi per eludere ed eliminare l’inferno); sia con il diventare eretici e con l’insegnare la caducità delle pene dell’inferno; sia con il rimanere fedeli e penetrando nel profondo della loro fede con l’impegno della salvezza delle anime; sia scegliendo come oggi avviene decisamente l’infedeltà, abbandonando la fede cattolica per non dover ammettere l’inferno, e ai nostri giorni è senz’altro certo che la fede dovuta alla eternità delle pene è stata per la maggior parte dei cattolici seri il più serio motivo della loro apostasia.8

Péguy si rende conto, però, che eliminando il dogma dall’inferno non viene eliminata la sofferenza della miseria sulla terra e che, di conseguenza non è possibile abbassare gli sforzi.

Salvare i miserabili è una delle preoccupazioni più antiche della nobile umanità, sia che rivesta la forma della carità o della solidarietà, sia che si eserciti verso l’ospite in nome di Zeus ospitale o che accolga il miserabile come una figura di Gesù Cristo o che faccia fissare per degli operai un minimo di salario… è un sentimento umano vivace imperituro.9

3. La sorte dei supplicanti. Il caso di San Pietroburgo

La riflessione sul senso della dannazione a partire dalle miserie terrene acquista un nuovo vigore e apre prospettive più fiduciose quando Péguy si accinge ad analizzare la sorte dei supplicanti.

Nel dicembre del 1905, Péguy propose, infatti, un approccio religioso degli avvenimenti storici in un Cahier che egli chiama Les suppliants paralléles. A San Pietroburgo, il 22 gennaio, gli operai russi venuti per portare una supplica allo zar erano stati accolti da una fucilata e decine di morti restarono sulla piazza. A partire da un audace parallelo con l’inizio de L’Edipo Re di Sofocle, Péguy scrive una meditazione sulla condizione del supplicante, erede del medicante antico, portatore di tutta la gravità del mondo. Diversamente da come comunemente si immagina, Péguy fa notare che è il supplicante che tiene nl pugno la situazione e di conseguenza il supplicante è più grande del supplicato. La tragedia antica è una immensa operazione di rovesciamento. All’inizio dell’Edipo Re, il popolo di Tebe si prostrava in ginocchio dinanzial proprio capo. Alla fine, Edipo, vinto, a sua volta mendicante, è promosso alla dignità di supplicante: «Egli era entrato re della porpora e d’oro. Se ne andava nel comune fango e nella comune polvere. Era entrato re, usciva supplicante e eterno padre d’Antigone».10 Inspiegabile promozione che Péguy esplica in questo modo:

Il supplicante rappresenta. Non è più soltanto sé stesso. Addirittura non è più sé stesso. Non esiste più, lui. Non si tratta più di lui. Ed è per questo che l’altro dovrà stare in guardia. Spogliato di tutto in forza di questo stesso fenomeno che ha precisamente fatto la pericolosa felicità del supplicante, cittadino senza città, testa senza sguardo, bambino senza padre, padre senza bambini, ventre senza pane, collo senza letto, testa senza tetto, uomo senza beni, non esiste più come lui stesso… Gli dei e, dietro di essi, la fatalità lo hanno derubato della città. Ma gli dei gli hanno dato in qualche modo la città propria… nessuna idea di compensazione, neppure di giustizia e naturalmente nessuna idea di antitesi romantica. Ma una idea molto più profonda e molto più vera: che questi uomini hanno fatto la loro prova dimostrando che erano uomini plasmabili sotto le dita plasmanti della fatalità.11

Di quale misterioso regime il supplicante è testimone? Sia Simone Fraisse che Von Balthasar sono concordi nel sostenere che se da una parte è vero che in questa circostanza Edipo non è la figura di Cristo, dall’altra non è possibile nascondere un significato di matrice cristiana al discorso nel suo complesso.12 La sfortuna, infatti, sembra conferire al diseredato un diritto di entrare in una singolare città superiore dove non c’è bisogno di riuscire per essere grandi.

Attraverso la meditazione di Sofocle — commenta a questo proposito Simone Fraisse — Péguy è trasportato alla soglia del campo sacro dove i ruoli sono rovesciati. È vicino ad accettare una religione che mette il suo valore più alto nella messa in croce del torturato13

4. La forza di Giovanna

È solamente ne Il mistero della carità di Giovanna d’Arco scritto nel 1909 che il tema della dannazione è trattato da Péguy in tutta la sua drammaticità ed è analizzato non solo nei minimi dettagli, ma anche in seguito, nelle pieghe più profonde dell’esistenza umana.

Tre personaggi prendono parte a questo dibattito di coscienza: la piccola Mauviette, una cristiana semplice che esegue con buon umore il suo dovere di Stato; Madame Gervaise, dell’ordine di San Francesco, rappresentante della saggezza della Chiesa, insegna la sottomissione alla volontà divina; infine Giovanna che non riesce ad essere soddisfatta della serenità delle sue amiche. Per lei bisogna agire, occorre fare qualcosa pur di scrollarsi di dosso quel torpore che rende chiunque complice della dannazione universale. «Chi lascia fare è come chi fa fare. È tutt’uno. È la stessa cosa. E chi lascia fare e chi fa fare insieme è come colui che fa. Perché colui che fa ha almeno il coraggio di farlo».14

D’altronde come è possibile rimanere fermi ed impassibili dinanzia tanta disperazione e soprattutto dinanzia tanta dannazione? A Giovanna vengono alla mente i due bambini incontrati nel primo mattino che piangevano e gridavano dal dolore provocato dai morsi della fame. Giovanna non riesce a tranquillizzarsi nemmeno dopo aver dato loro «tutto il mio pane, il mio mangiare di mezzogiorno e il mio mangiare delle quattro»,15 perché il problema non si risolve: «Avranno fame stasera, avranno fame domani». Il pensiero di Giovanna corre allora alla schiera innumerevole di tutti coloro che non mangiano, gli afflitti, i miserevoli, gli infelici che ormai non bramano nemmeno più una carezza di consolazione.

La partecipazione intima alla sofferenza universale dell’umanità non si sofferma solo sui miseri. Giovanna prova infatti una tristezza infinita anche nei confronti di quei soldati che sembrano aver perso il senso del limite dissacrando le chiese, e compiendo i più iniqui gesti di sacrilegio. Dopo un lungo silenzio Giovanna si chiede:

Oggi non è più la terra che prepara l’inferno. È l’inferno stesso che trabocca sulla terra. Cosa c’è dunque, mio Dio, cosa c’è dunque di cambiato, cosa c’è dunque di nuovo, che ha fatto di questo popolo, del tuo popolo cristiano?16

Madame Gervaise, dialogando con Giovanna, si accorge che il vero problema di quest’ultima non consiste tanto nella presa di coscienza della miseria e della perdizione universale, quanto della propria. Da quando, infatti, Giovanna si è accorta che anche i suoi cari partecipano alla complicità ed alla vigliaccheria universale non riesce più a provare sentimenti d’amore nei loro confronti: «Ti sei accorta — insiste Madame Gervaise — che tutti loro sono vili, quelli che avevi amato; ti sei accorta che tuo padre è vile; che tua madre è vile […] Da quando ti sei accorta di questo sei menzognera».17

Rimaneva a Giovanna ancora una possibilità per liberare il cuore dalla propria situazione di miseria. Si avvicinava l’ora in cui avrebbe ricevuto per la prima volta il corpo del Signore. Giovanna aveva posto molte speranze in questo incontro, che avrebbe potuto e dovuto liberarla dalla disperazione e riportarla all’amore verso i suoi cari.

Madame Gervaise, però, come un bisturi scende nel profondo dell’interiorità di Giovanna mettendo a nudo il fallimento di un incontro tanto atteso.

Giorno atteso. Giorno di un lutto infinito, perché la comunicazione del corpo di Nostro Signore guarisce tutti i mali; e ti ritrovasti la sera; ed eri sola; e avevi ricevuto lo stesso corpo, lo stesso che i santi e le sante hanno ricevuto, e la comunicazione del corpo del signore guarisce tutti i mali; e Dio era venuto; e la sera ti ritrovasti sola nella medesima situazione; ma non era la medesima, era infinitamente peggiore.18

Giovanna sperimentava il mistero della dannazione: «Tutti quelli che amavo sono assenti da me». Questa solitudine infinita in un cuore lacerato da sentimenti di angoscia spinge Giovanna ad una richiesta estrema: dare se stessa — «il mio misero corpo» — per spegnere la fiamma della dannazione eterna. Madame Gervaise non può che rimproverare l’irruenza blasfema della sua giovane interlocutrice, ricordandole il grido tremendo di Gesù sulla croce. Per mostrare la forza, e, allo stesso tempo, la grande drammaticità di questo grido, Madame Gervaise riflette sulla passione di Gesù. Sono pagine famose di Péguy, quelle pagine che lo svelano al suo pubblico come convertito il cristianesimo. Il grido di Gesù sulla croce fu come un:

Clamore che risuonava nel cuore di ogni umanità; Clamore che risuonava nel cuore di ogni cristianità; O clamore culminante, eterno e valevole. Grido come se Dio stesso avesse peccato come noi; Come se perfino Dio si fosse disperato; O clamore culminante, eterno e valevole. Come si anche Dio avesse peccato come noi. E del più grande peccato. Che è quello di disperare. Il peccato della disperazione (…) E lui gettò il grido che risuonerà sempre, eternamente sempre, il grido che non si spegnerà mai, eternamente. In nessuna notte. In nessuna notte del tempo e dell’eternità.19

Péguy spinge la riflessione sulla passione sin nei dettagli di quelle ore interminabili che videro il Figlio di Dio morire a causa della stoltezza dell’uomo. Così facendo Péguy si colloca nel presente di quel tempo per ascoltarlo e per cogliere la profondità del mistero, fino a comprendere il motivo del grido straziante di Gesù sulla croce:

È che il figlio di Dio sapeva che la sofferenza Del figlio dell’uomo è vana a salvare i dannati, E sconvolgendosi più di loro della disperazione, Gesù morendo pianse sugli abbandonati. Dalla disperazione comune.20

Non si tratta, comunque, di una disperazione generica. C’è un uomo che è vissuto con Gesù, ha accolto le sue parole, ha mangiato con lui, ha partecipato alla sua missione sulla terra e nonostante ciò sarà dannato per l’eternità:

Vedeva tutto in anticipo e tutto nello stesso tempo. Vedeva tutto dopo. Vedeva tutto prima. Vedeva tutto durante, vedeva tutto allora. Tutto gli era presente dell’eternità. Conosceva il denaro e il campo del vasaio. I trenta danari d’argento. Essendo il figlio di Dio, Gesù sapeva tutto, E il Salvatore sapeva che Giuda, l’amato, Non lo salvava, dandosi interamente. Ed è allora che seppe la sofferenza infinita, È allora che conobbe, è allora che egli espresse, È allora che sentì l’infinita agonia, E gridò come un folle la spaventosa angoscia, Clamore che fece vacillare Maria ancora in piedi, E per pietà del Padre ebbe la sua morte umana.21

Come avrebbe potuto, allora, Giovanna pretendere di salvare i morti dannati dell’inferno eterno se lo stesso Gesù, il Salvatore, non era riuscito a portare con sé Giuda? È questo il rimprovero che Madame Gervaise rivolge a Giovanna e che conduce quest’ultima in uno stato di momentaneo smarrimento.

L’attenzione delle due interlocutrici si sposta lentamente sull’atteggiamento che gli apostoli hanno tenuto al momento della passione di Gesù. Mentre Giovanna li accusa aspramente sostenendo che non solo i santi francesi, ma anche gli uomini gloriosi della sua terra come Orlando, Carlo Magno, Goffredo, il re Luigi ed anche Madame Gervaise e lei stessa non avrebbero lasciato e tradito Gesù, madame Gervaise si prodiga sia nel tentativo di placare l’animo irruente di Giovanna, sia l’intento di guidarla al senso autentico della fede. C’è nel cielo e sulla terra ricorda Madame Gervaise a Giovanna, un tesoro di grazia, di preghiera, di sofferenza e di promesse, un tesoro tutto riempito, eternamente riempito da Gesù Cristo, ma che, misteriosamente può essere ancora riempito.

È pieno e aspetta che noi lo riempiamo. È infinito e aspetta che ne aggiungiamo. Spera che noi ne aggiungiamo. Ecco cosa dobbiamo fare quaggiù. Beate quando il buon Dio, nella sua misericordia infinita, si degna di accettare le nostre opere, le nostre preghiere e le nostre sofferenze per salvare una anima. Una anima, una sola anima è di un valore infinito.22

A Giovanna, però, non basta salvare un’anima, lei vuole salvare una infinità di anime, per questo le sembra che tante preghiere e tante sofferenze vadano perdute. «Ma quando l’anima è passata davanti al tribunale — risponde Madame Gervaise — se Dio l’ha condannata all’inferno eterno, le nostre opere non valgono per lei; è morta (…) Non diamo per lei, non diamo invano per lei le nostre opere vive, le nostre preghiere vive».23

L’inquietudine di Giovanna, non soddisfatta della risposta, la spinge a spostare la propria attenzione sul proprio tempo — che in realtà è il tempo di Péguy, il mondo moderno — in cui non si è solamente un’anima che rischia ma la stessa cristianità sta gradualmente sprofondando nella perdizione. Il mistero della carità di Giovanna d’Arco si chiude con l’esortazione che Madame Gervaise rivolge a Giovanna ad imparare a guardare agli eventi della storia non secondo la prospettiva umana, ma secondo quella di Dio.

E quand’anche fosse, questo riguarda il buon Dio: la cristianità stessa è sua, la Chiesa è sua. Quando ho detto la mia preghiera e fatto bene la mia sofferenza, egli mi esaudisce come male: non spetta a noi, non aspetta a nessuno chiedergliene ragione. Siamo nelle mani di Dio.24

5. Conclusione

Se il mistero della dannazione, che percorre come un fremito in tutta l’opera di Péguy, trova nel Mistero della carità di Giovanna d’Arco una prima — seppur un po’ troppo dogmatica per Giovanna — risposta, sarà ne Il portico del mistero della seconda virtù che il dramma delle pene eterne trova le risposte più convincenti e, in un certo senso, definitive. È importante, in ogni modo soffermare l’attenzione sul modo che Péguy ha di cogliere i misteri della vita, facendolo con calma, lasciandosi accompagnare dall’intuizione nel tempo presente senza la fretta di capire che cosa ci sarà dopo. E allora Péguy arrivierà al mistero della speranza non anticipando i tempi, per soffocare la sofferenza che l’idea di una dannazione eterna, non facendo finta di pensare ai supplicanti e ai miseri della storia inseguendo una sorta di modismo spirituale o sociale. Péguy vive il presente della propria storia, ascolta la realtà con tutto ció che di drammatico questa porta con sé. È questo che ha appreso dai suoi maestri ed é questo che vive. La speranza della salvezza, mistero che manifesterà al publico la conversione al cristianesimo dell’Autore, non sarà dunque una fuga in avanti, una pura illusione per fuggire dalle sofferenze del tempo presente, ma il frutto, anzi il dono che saprà percepire ed accogliere nel presente della sua vita.


  1. 4 gennaio 1873: Charles Péguy nasce a Orléans nel sobborgo di Bourgogne da Desiré e da Cécile-Charlotte Quéri. Ottobre 1879: Péguy entra nella scuola primaria del Sobborgo e comincia a frequentare il catechismo nella parrocchia di Saint-Aignan. Compie gli studi secondari nel Liceo di Orléans, rivelandosi uno degli allievi più brillanti, soprattutto nella conoscenza delle culture antiche e classiche. In questo periodo abbandona la pratica della fede cattolica, probabilmente per il suo rifiuto del dogma dell’inferno. Ottobre 1893: Dopo il servizio militare entra nel collegio di Saint-Barbre per seguire i corsi in preparazione alla Normale Superiore. 2 Novembre 1894: entra alla Normale e dà vita al progetto di scrivere una storia di Jeanne d’Arc. In questo periodo si dichiara socialista28 Ottobre 1897: Péguy si sposa a Parigi con Charlotte Baudouin e nel Novembre, in seguito al matrimonio, incompatibile col godimento della borsa di studio, si dimette dalla Normale e prosegue gli studi da esterno. Si conclude, così, la carriera scolastica di Péguy, negli ultimi anni della quale maturarono le sue amicizie più profonde e la natura profondamente religiosa del suo socialismo, come si noterà dai primi articoli e dalle prime opere. 1º maggio 1898: apre una libreria socialista con il nome di George Bellais. Nella libreria Péguy incontrerà figure si spicco della cultura francese del tempo: Romain Rolland, Charles Audler, Jean Jauré.5 gennaio 1900: Péguy pubblica il primo dei Cahiers de la Quinzaine, rompendo con i soci della libreria. I Cahiers sono Quaderni d’informazione e dossiers relativi ai problemi e ai fatti del momento. Tra questi si può segnalare i Congressi Socialisti, L’Affaire Dreyfus, Separazione Chiesa-Stato. Ottobre 1901: Al nº 8 di via della Sorbonne Péguy installa un piccolo negozio dei Cahiers con l’aiuto di pochi amici (Tharaud e Jules Isaac). Se il primo gruppo dei Cahiers (1900-1905) può considerarsi come relativo al periodo della creazione, dell’organizzazione dell’impresa e della presa di coscienza dei problemi teorici e politici essenziali, il secondo (1905-1909) segna un periodo di approfondimento e di maturazione che condurrà alla tacita riscoperta della fede. In quest’atmosfera Péguy sente e riscopre il senso degli Eroi, dei santi, della Patria francese. 1907 Charles Péguy si converte al cattolicesimo. E così ritorna sul dramma su Giovanna d’Arco, cominciando una febbrile riscrittura, la quale dà vita ad un vero e proprio «mistero», come viene scritto nei «Cahiers» del 1909, e questo nonostante il silenzio del pubblico il quale, dopo un breve e iniziale interesse, sembra non gradire più di tanto l’opera dell’autore. Péguy però va avanti. Scrive altri due «misteri»: «Il Portico del mistero della seconda virtù», datato 22 ottobre 1911, e «Il mistero dei Santi Innocenti», del 24 marzo 1912. I libri non si vendono, gli abbonati della rivista calano e il fondatore dei «Cahiers», si trova in difficoltà. Inviso ai socialisti per la sua conversione, non fa breccia nemmeno nel cuore dei cattolici, i quali gli rimproverano alcune scelte di vita sospette, come quella di non aver battezzato i figli, per venire incontro ai voleri della moglie. 1912: il figlio minore Pierre si ammala gravemente. Il padre fa il voto di andare in pellegrinaggio a Chartres, in caso di guarigione. Questa arriva e Péguy compie un cammino di 144 chilometri in tre giorni, fino alla cattedrale di Chartres, in piena estate. È la sua più grande dimostrazione di fede. Dicembre del 1913: ormai scrittore cattolico, scrive un poema enorme, che sconcerta pubblico e critica. Si intitola «Eve», ed è composto da 7.644 versi. Quasi contemporaneamente uno dei suoi saggi più polemici e brillanti vede la luce: «Il denaro». 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale. Péguy si arruola volontario e il 5 settembre 1914, il primo giorno della famosa e sanguinosa battaglia della Marna, muore colpito proprio al fronte. ↩︎

  2. Su questo punto cfr. Cugini, P., «A filosofia de Charles Péguy: às origens do pensamento pós-moderno».Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia[in linea], anno 12 (2010) [inserito il 12 agosto 2010], disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/&gt;, [71 KB],ISSN1128-5478. ↩︎

  3. Œuvres en prose, (1898-1908), con introduzione di Marcel Péguy, Paris 1959, pp. 192-193. ↩︎

  4. A questo proposito, Von Balthasar ha fatto notare che nella «Città Armoniosa», «il termine sacrale» «pur» è dappertutto ed intende un senso di vita e uno stile di vita che si reggano su rapporti di vita e di essenze personali e sociali del tutto sanati e non, come fa la purezza cristiana, su rapporti malati. Nella Cité solo oramai i rapporti sani saranno degni di essere riconosciuti e saranno in tal modo oggetto delle scienze» (H.U. Von Balthasar, Péguy, in stili laicali (a cura di) G. Sommavilla, Milano, Jaca Book 1975 p. 407). ↩︎

  5. Œuvres en prose, p. 41. ↩︎

  6. Ivi, p. 35. ↩︎

  7. Ivi, p. 507. ↩︎

  8. Ivi, p. 507. ↩︎

  9. Ivi, p. 598. ↩︎

  10. Ivi, p. 911. ↩︎

  11. Ivi, pp. 905-906. ↩︎

  12. «Péguy qui ha parlato ancora solo della supplica antica, quella di Cristo non è più nominata. Ma come in un retroterra la linea Edipo-Cristo è tracciata, entrambi compagni, in quanto invocati, il ponte partente fra il mondo infernale dell’esilio e la polis che protegge» (H.U. von Balthasar cit., p. 419). ↩︎

  13. S. Fraisse, Péguy, Paris, 1970. p. 73. ↩︎

  14. Péguy, C., Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, in I Misteri, Jaca Book, Milano 1986, p. 63. ↩︎

  15. Ivi, p. 28. ↩︎

  16. Ivi, p. 45. ↩︎

  17. Ivi, pp. 64-65. ↩︎

  18. Ivi, p. 66. ↩︎

  19. Ivi, pp. 78-79. ↩︎

  20. Ivi, p. 119. ↩︎

  21. Ivi, p. 122. ↩︎

  22. Ivi, pp. 150-151. ↩︎

  23. Ivi, p. 152. ↩︎

  24. Ivi, p. 154. ↩︎