Recensione a Vikika Vujica, Ermeneutica della religione. E l’evento del dialogo in Raimon Panikkar

Vikika Vujica, Ermeneutica della religione. E l’evento del dialogo in Raimon Panikkar, Casini, Roma 2008, pp. 160, € 23,00.

Ermeneutica della religione è l’opera prima di Vikica Vujica, autrice bosniaca di lingua italiana la cui ricerca si muove in ambito teologico e storico-religioso. Appena pubblicato dall’editore Casini nella collana di filosofia «Interpretazioni», diretta da Gianni Vattimo e Santiago Zabala, questo libro è una introduzione alla filosofia della religione del filosofo catalano Raimon Panikkar, articolata in tre parti: definizione di “religione” (a partire dalle categorie panikkariane di mito e di logos), mistica come esperienza del “divino” e dialogo interreligioso, in particolare fra induismo e cristianesimo.

Quanto è possibile sottolineare l’uguaglianza tra le religioni? Si tratta di un’ipotesi inaccettabile? Cosa significa o come è possibile definire lo specifico della religione?, sono alcune delle domande (p. 123) cui l’A. tenta di rispondere, soprattutto sulla base dei primi testi di Panikkar in italiano (come ad esempio Religione e religioni, del 1964, o l’articolo “La demitizzazione nell’incontro tra Cristianesimo e Induismo”, del 1961). Fondamentale la distinzione tra la fede (come apertura costitutiva dell’uomo a un orizzonte di consapevolezza ulteriore, più ampio della razionalità; per cui Panikkar afferma che “la fede è senza oggetto”) e la credenza, espressione intellettuale della fede, che si incarna in una determinata epoca, cultura, religiosità: è la fede il terreno del dialogo fra le religioni, mentre su quello della credenza non può che aversi un mero scontro dialettico tra opinioni divergenti, destinato nel migliore dei casi alla ricerca del minimo comun denominatore tra le religioni, che alla resa dei conti non rende giustizia all’identità e alla particolarità di nessuna di esse.

Inoltre, il vero dialogo, quello che Panikkar chiama “dialogale”, che attinge a ciò che è oltre il logos, presuppone l’esperienza di ciò che è al di là della parola: il silenzio, «territorio comune alle religioni» (p. 61). Il silenzio, che non è prerogativa dei “religiosi di professione”, ma di ogni uomo che non lasci atrofizzare la propria dimensione religiosa, è il “luogo” in cui Dio parla direttamente al cuore dell’uomo: nella mistica c’è dunque lo spazio privilegiato dell’incontro tra le religioni, sottolinea Vujica, la quale si muove a suo agio fra i testi di Panikkar, che cita spesso e volentieri.

Sorvolando sulle pur necessarie precisazioni di termini quali “Dio”, “divinità”, Assoluto“, ecc., va rimarcato che le religioni non hanno tutte le stesse categorie (motivo per cui Panikkar ha introdotto la nozione di omeomorfismo), non si pongono le stesse domande e spesso, alla stessa domanda, danno risposte differenti: tanto per cominciare, non tutte sono teistiche, pertanto l’utilizzo di categorie come appunto ”Dio“ (a proposito ad esempio dell’”esperienza di Dio"), in contesti come quello dell’incontro fra culture, va fatto sempre con estrema prudenza. Incontro che l’A., con Panikkar, ritiene oggi necessario all’autocomprensione delle religioni, poiché l’ignoranza dell’altro provoca quell’indifferenza che è causa di tanti dei problemi contemporanei dei quali siamo testimoni (p. 83).

Il dialogo è caratterizzato come «forma dell’amore» (p. 84): l’amore è ciò che distingue il dialogo genuino (quello cioè che va incontro all’altro senza secondi fini) dalla conferenza, in quanto esso avvicina fra loro quelli che vi prendono parte, sul piano personale e relazionale oltre che su quello intellettuale. Ciò che non è esente da rischi, ma che non di meno è necessario, nella nostra epoca “globalizzata”, nella quale ogni incontro fra manifeste diversità rischia di degenerare in uno scontro di civiltà.

Alla domanda se sia davvero possibile comprendere l’altro rimanendo al contempo della propria convinzione, Vujica risponde che soltanto l’amore, quando è guida nell’incontro con l’altro, può favorire una comprensione piena e che comprendere non vuol dire affatto perdere ciò che è proprio (p. 103). La terza parte si chiude con un’abbondante panoramica dell’incontro tra il cristianesimo e l’induismo.

Infine, alcuni interrogativi conclusivi dell’A. richiederebbero forse (come Lei stessa suggerisce) l’approccio ad altri testi, anche recenti, di Panikkar, nei quali le nozioni di pluralismo e di a-dualismo bandiscono per così dire “automaticamente” l’idea di “religione universale” (cfr. ad es. “L’invisibile armonia: teoria universale della religione o fiducia cosmica nella realtà? ” scritto da Panikkar nel 1987 e pubblicato sulla rivista online «Filosofia.it», ottobre 2008), e dove la radicale relazionalità esclude ogni interpretazione relativistica del pensiero di Panikkar. Così come il dubbio dell’A. (p. 127) sulla “corrispondenza piena” tra la filosofia di Panikkar e la «visione cristiana del credere» richiede una trattazione a parte. Idee per un prossimo libro.