Recensione a Raimon Panikkar, Mito, simbolo, culto

Raimon Panikkar, Opera Omnia, vol. IX, tomo 1, Mito, simbolo, culto, Jaca Book, Milano 2008.

Continua a tempo di record la pubblicazione dell’Opera omnia di Raimon Panikkar in italiano, per i tipi della Jaca Book. Solo pochi mesi fa Milena Carrara, amica e traduttrice di Panikkar, e Sante Bagnoli, direttore dell’editrice milanese, avevano presentato il primo volume dell’Opera, dedicato alla mistica come esperienza di vita, nella cornice del Convegno internazionale (Venezia, maggio 2008) in omaggio ai novant’anni del filosofo catalano. Ed ecco, sul finire dello stesso anno, la seconda uscita (vol. IX, tomo 1) dal titolo Mito, simbolo, culto.

A prima vista, il volume appare interessante per almeno due motivi: in primo luogo perché affronta in maniera esauriente il problema della conoscenza, del rapporto tra l’uomo e la realtà che lo circonda (argomento già affrontato direttamente da Panikkar nel caposaldo Mito, fede ed ermeneutica del 1979, ma qui ripreso e integrato con saggi in precedenza disseminati in varie riviste o raccolte, o non ancora tradotti in italiano); in secondo luogo perché traduce per la prima volta il consistente saggio di Panikkar sul culto, anch’esso del 1979 (qui proposto alle pp. 327-432), tema sul quale Panikkar si è di rado e frammentariamente pronunciato.

La nozione fondamentale di questo testo è quella di mito: «col termine mito oggi spesso s’intende qualcosa di irreale o semplicemente una leggenda più o meno fantastica. Con la parola mythos, invece, io intendo quello che tradizionalmente significava, vale a dire un modo diverso che gli uomini hanno di esprimere una convinzione, o piuttosto una verità che non è necessariamente “chiara e distinta” alla ragione e che, ciò nonostante, si accetta come ovvia e quindi non ha bisogno di essere dimostrata» (p. 4).

Senza mito non c’è pensiero: esso solo permette di evitare il regresso all’infinito nella ricerca del fondamento; più indietro non si può andare. Oltretutto, il mito — del quale si diventa consapevoli solamente nel corso dell’incontro con l’altro — rivela la fragilità di ogni aspirazione all’universalità. I miti dominanti di quest’epoca sono l’oggettività e la democrazia. La civiltà della nostra epoca ha soppiantato il mito della superiorità della razza bianca (che ha sostenuto la schiavitù istituzionalizzata in epoche non lontane: ed allora la cosa non sembrava tanto terribile ai più, così come non appariva scandaloso alla maggioranza dei greci dei primi secoli a. C.) con quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini: la democrazia si fonda su questo. È cambiato il mito, ma non ci si è liberati del mito in quanto tale: liberarsi dal mito è un’operazione impossibile. Che la realtà sia oggettiva, che una parte possa essere isolata dal resto cui è relazionata e considerata “di per sé”, che il tutto sia uguale alla somma delle parti, sono tutti miti. Un certo mito può essere più o meno condiviso (anche, al limite, da tutta l’umanità, in un dato momento storico) ma mai definitivo (non c’è infatti alcun modo di ottenerne una qualunque garanzia).

Non esiste (né potrebbe) un pensiero onnicomprensivo, puro, libero da qualsiasi pregiudizio; un pensiero che abbracci tutto, che abbracci cioè anche colui che pensa ed il mito stesso che lo rende possibile, non può esistere in alcun modo. Il mito attesta l’eccedenza dell’Essere rispetto al Pensare: la realtà non può essere esaurita dal pensiero (il pensiero non può cioè comprenderla interamente, in maniera esaustiva), proprio perché il pensiero — ancorato al mito — non ha una capacità di penetrazione “assoluta”, ma lascia sempre qualcosa al di fuori del proprio abbraccio.

Accanto a quella di mito Panikkar pone un’altra nozione fondamentale, quella di simbolo: il simbolo rappresenta l’intera realtà come appare e si manifesta attraverso la sua struttura molteplice. Un simbolo è precisamente la cosa, non la “cosa in sé”, che è un’astrazione mentale, ma la cosa come appare e si esprime. Il simbolo di una cosa non è né un’altra cosa né la cosa in sé, ma la cosa stessa così come si manifesta, com’è nel mondo degli esseri, nell’epifania dell’“è”: «il simbolo non è ciò che mette in relazione: è la relazione stessa (anteriore ai termini della relazione). Il simbolo non è un segno ma non è neanche qualcosa di meramente oggettivo. Il simbolo non ha in sé oggettività. […] Il simbolo, però, non è nemmeno pura soggettività. […] Io non sono padrone del simbolo: il simbolo non è esclusivamente soggettivo; non dipende dalla mia volontà né da ciò che vorrei farne» (p. 243).

Questo legame costitutivo è diretto, senza intermediari; non ha bisogno, cioè, di alcuna spiegazione: il simbolo è per il soggetto ciò che non ha bisogno di nessuna interpretazione. Qualunque cosa richieda una spiegazione, dovrà appoggiarsi a qualcos’altro di più fondamentale che renda possibile tale spiegazione. Ma del simbolo non si dà nessuna ermeneutica: essa lo trasformerebbe in segno, in concetto. Il simbolo è dunque qualcosa che “invita” alla relazione. Il simbolo è lo strumento del mito così come la ragione è il veicolo del logos; i simboli sono perciò i “mattoni ultimi con i quali è costruito l’edificio della realtà”. Non vi è conoscenza del simbolo, ma partecipazione; esso non permette niente altro che il rapporto personale. Mito e logos vanno di pari passo, come due occhi che guardano lo stesso oggetto, ma non nello stesso modo. Non si dà l’uno senza l’altro; per l’uomo, non c’è modo di conoscere alcunché senza l’ausilio di entrambi.

Il volume si giova della cura dello stesso autore, che firma anche l’editoriale introduttivo. Elegante e ben rifinito, nonché di grande spessore teoretico, questo libro merita certamente di far parte di ogni biblioteca di filosofia.