Recensione a Leonidas Donskis, Amore per l’odio. La produzione sociale del male nelle società moderne

Leonidas Donskis, Amore per l’odio. La produzione sociale del male nelle società moderne, Erickson, Trento 2008, € 20,00.

«Odi ergo sum. Odio quindi sono. I secoli diciannovesimo e ventesimo potrebbero essere adeguatamente descritti come l’età dell’odio collettivo e organizzato; il ventesimo secolo, in particolare, spazia dalla teoria cospirativa della società all’odio ideocratico» (p. 25). Si apre così il bel libro Amore per l’odio (ed. Erickson, 2008), di Leonidas Donskis, docente lituano di Filosofia e Scienza Politica, incentrato sul rapporto tra la modernità e l’odio: più precisamente, sulla “fabbricazione” dell’odio da parte della modernità, che ne ha reso sistematica ed efficiente la produzione su vasta scala. (Il lettore vorrà perdonare le lunghe citazioni che seguiranno; ma la complessità dell’argomento trattato le richiede, e al contempo la precisione dell’autore le suggerisce: i brani riportati varranno più — e saranno più sintetici — di tante parafrasi).

La modernità nasce sotto il segno dell’odio. Fin dal sorgere dell’illuminismo, primo grande parto della modernità, essa si celebra come tale a partire dalla rottura che opera e vuole ostentare come caratteristica peculiare e fondante: «un forte senso del “noi” contro di “loro”, la battaglia per la giusta causa che descrive gli uomini e le donne d’ingegno come paladini della luce e come campioni di ragione, coscienza, giustizia e tolleranza contro i demoni dell’oscurità, i bigotti e i folli — questo era il primo vagito dell’illuminismo in quanto prima forma di autocoscienza della modernità» (p. 27). La consapevolezza di stare dalla parte del giusto, del vero, perfino del sacro (incarnato dal simbolo laico della “dea ragione”) fa sì che la lotta possa essere condotta senza quartiere e senza remore: lo si fa senza per il bene di tutti (e dunque si potranno legittimamente sacrificare i molti che vi si opporranno).

Di lì si giunge all’oggi, passando per la rivoluzione industriale, il colonialismo, la Shoah. Donskis, rifacendosi esplicitamente a Zygmunt Bauman (autore della prefazione all’edizione italiana di questo libro) e alla sua teoria della società “liquida”, spiega che il motivo per cui l’odio attecchisce con tanta facilità nelle società contemporanee è rintracciabile nella asimmetria tra il bisogno di certezze, da un lato e la difficoltà crescente di ritrovarne in un mondo in continuo e sempre più rapido mutamento dall’altro, che rende gli uomini disperati, disposti ad aggrapparsi a qualsiasi cosa offra loro la parvenza della stabilità. «Il fatto generalmente riconosciuto da tutti i maggiori filosofi sociali e sociologi di oggi è che la modernità ha distrutto le vecchie certezze senza fornire alcun nuovo progetto individuale realizzabile, normativo, prescrittivo e imperativo. Creare una tale individualità per se stessi, senza alcuna assistenza da una fonte visibile, e fermamente attendibile, come una tradizione culturale solida o una fede durevole e immune da cambiamenti, è intollerabilmente difficile, se non impossibile, per coloro che non si sentono a loro agio nel mondo moderno in cui ci si fa da sé. Da qui un disperato bisogno di credi, teorie o pratiche che promettano di lottare senza incertezze e anche di far rivivere i simboli dismessi e i valori dimenticati. L’odio perviene a tali anime disturbate come promessa di restaurazione della certezza. Il mondo moderno, troppo complesso e minaccioso per poter indicare quale tipo di valori debbano essere presi in considerazione e a quale tipo di idee dare credito, improvvisamente diventa trasparente ed evidente. L’immagine di un nemico ripristina la fiducia in noi stessi, nella nostra capacità di sostenere la giusta causa, la causa sacra, il giusto e il virtuoso contro il vizioso, il guasto e l’incomprensibile Un nemico è ciò che possiamo collocare al di là della nostra portata e comprensione» (p. 144).

Tuttavia, l’odio è una condizione inadatta all’uomo, una specie di equilibrio instabile in cui l’uomo può essere condotto e forzato a rimanere, ma che tende sempre per inerzia a ritornare nello stato iniziale (che è quello di serenità e pacificità); ecco perché i regimi politici che intendono fondare il loro potere (lo scorso secolo ne ha conosciuti diversi) sull’odio devono provvedere a una continua produzione ideologica dell’odio, che alimenti costantemente lo “stato di squilibrio” dei soggetti governati: «ci sono molte ragioni per guardare all’odio come a qualcosa di innaturale che contraddice la condizione umana. Naturale è ciò che assimiliamo durante un lungo periodo, ciò che diviene parte della nostra esperienza del mondo e delle nostre attività, nonché ciò che è costitutivo del nostro Sé individuale e collettivo, anziché ciò che le altre società considerano innaturale. Se l’odio per noi e per gli altri o per la nostra condizione finisce per prevalere su ogni altro aspetto della nostra esperienza, allora per noi diviene naturale. Lo stesso vale per le menzogne, l’agire politico e la farsa sociale. Se la nostra condizione ci porta a pensare per polarità o a vedere il mondo secondo prospettive estreme, restano poche alternative all’emergere dell’odio. Se nella vita non abbiamo visto altro che guerra e odio collettivo organizzato, l’idea di una coesistenza pacifica, del dialogo e del rispetto reciproco ci apparirà innaturale e completamente irrealistica. Se non abbiamo visto altro che massacri e violenza, presto o tardi finiremo per abituarci alla loro esistenza. Ciò significa che non sono gli individui umani, ma al contrario le idee inumane e i regimi politici che le istituzionalizzano che devono essere incolpati per le distorsioni dell’umanità» (p. 189).

L’odio può divenire dunque una seconda natura, un abito stravagante al quale in un modo o nell’altro si diviene avvezzi tramite l’opera incessante di apparati di potere che vi si dedicano senza risparmio di energie. Opera che consiste essenzialmente nella costruzione e nella propaganda di una visione del mondo adatta a trasmettere il flusso dell’odio in ogni parte della società. Donskis si concentra sul meccanismo più classico ed efficace, quello della cosiddetta “teoria cospirativa”, quella teoria per la quale la spiegazione di tutti i motivi oscuri per i quali le cose non vanno (ad ogni livello) risiede nel complotto di un gruppo, una classe, una razza che trama, appunto, nell’ombra, per la distruzione dell’umanità e il trionfo del male (l’autore porta l’esempio degli ebrei, di cui si è in passato ritenuto che avvelenassero i pozzi di acqua potabile al fine di uccidere i cristiani e di sopprimere la cristianità intera, per appropriarsi del mondo). Meccanismo che si accompagna di necessità alla sospensione del proprio personale giudizio critico (che spesso non permette di risalire alla causa del singolo malessere, ad esempio della mia gastrite), in favore di una adesione acritica (ma stavolta esplicativa) alla teoria cospirativa di turno: «la teoria della cospirazione non lascia spazio all’autoriflessione critica e all’autocoscienza. A questo punto, diventa un nemico mortale della filosofia morale. Laddove la filosofia politica moderna, se adeguatamente compresa, è un’estensione della filosofia morale, il punto di partenza della teoria della cospirazione è la radicale negazione della riflessione critica, del giudizio critico, dell’affidabilità morale. Invece, l’assunto della teoria della cospirazione è che le agenzie del bene e del male siano state fondate una volta per tutte, e che l’unica distinzione tra bene e male è che il bene è senza forza e condannato a soffrire per sempre, mentre il maligno è potentissimo e motivato soprattutto dalla sete di potere. L’infinita manipolazione e il potere illimitato sono i fini ultimi che motivano le forze del male. Il mondo è troppo debole, vulnerabile e fragile per smascherare i veri padroni e le loro sporche manipolazioni con le quali tengono il mondo nel buio e nell’ignoranza, nella stupidità e nell’autoinganno — questo è il messaggio rivelatore che la teoria della cospirazione trasmette ai suoi aderenti» (p. 110).

Ovviamente questo automatismo mentale non scatta in tutti: esso attecchisce in presenza di una mentalità avvezza a dipingere la realtà in chiaroscuri privi di toni grigi, di un’abitudine a vedere le cose in quel certo modo, “senza cattiveria”, per cui i buoni cristiani si trovano su una sponda e gli atei immorali sull’altra, gli onesti lavoratori a destra e i mendicanti fannulloni a sinistra. Come in una specie di inconsapevole preparazione al peggio, l’odio viene così seminato in attesa che passi qualcuno (l’agitatore popolare di turno) a raccogliere: e in un batter d’occhi ci si ritrova “noi” contro di “loro”, pronti a condurre una battaglia fratricida in nome dei valori più alti, il bene, la verità, la civilizzazione (clamoroso il caso dei sinti a Venezia: i sinti sono una comunità stabilita saldamente alla periferia di Mestre da decenni, i cui membri — di seconda e perfino di terza generazione — sono perfettamente integrati, votano, lavorano e pagano le tasse come ogni cittadino italiano, i loro figli vanno regolarmente a scuola. Nel corso del mese di giugno 2008, alla notizia che il Comune di Venezia finanzierà la costruzione di un campo per i sinti secondo le vigenti norme urbanistiche di sicurezza e igienico-sanitarie, un paio di agitatori della Lega nord hanno mobilitato una cinquantina di squinternati per impedire l’inizio dei lavori, richiedendo «un referendum perché siano i veneziani ad esprimersi su un’opera che costa denaro pubblico». Fino al giorno prima, non ci si era neanche accorti del fatto che i sinti fossero stanziati a due passi).

Donskis evidenzia che un tale dispositivo mentale (quello del Male potentissimo contro il Bene debolissimo) preesiste alla modernità illuminista, nella quale confluisce provenendo proprio da quel cristianesimo che l’illuminismo intendeva estirpare. In questo senso esso è tutt’altro che universale, essendo propriamente occidentale: «è piuttosto raro che l’odio appaia privo della sua maschera. Tende a celare se stesso, presentandosi impegnato in una battaglia per una nobile causa o di eroica resistenza al male. Può parlare in nome di Dio, e questo è esattamente ciò che solitamente accade. In realtà la sola cosa in cui gli odianti credono e che prendono seriamente è il Diavolo. Senza il Diavolo come fonte di forza e principio unificatore di ogni tipo di demonologia, l’odio sarebbe incapace di sostenere se stesso» (p. 28). Ma c’è un altro motivo che riconduce al cristianesimo (ovvero, a un certo tipo di cristianesimo che, pur avendo goduto maggior fama in passato, non di meno è presente oggi): la tendenza a svalutare il concreto in favore dell’ideale-astratto, l’al di qua in favore dell’aldilà, l’evidenza in favore del dogma. Tendenza che, nel caso in questione, assume la forma del dare la precedenza alla teoria generale rispetto alla concretezza umana particolare: «la logica intrinseca dell’odio è inalienabile dalla propensione a subordinare l’individualità umana agli insiemi di idee astratte o anche a una singola idea attorno alla quale compia la sua rivoluzione l’intero immaginario dei nemici. Lo scoppio di violenza e terrore, giudicando secondo la logica dell’odio, non è nient’altro che una conseguente e indispensabile continuazione dell’eterna lotta tra il bene e il male. L’assassinio e il disprezzo della vita umana possono essere facilmente giustificati come una logica estensione della battaglia delle idee. Questa sorta di logica si rifiuta di accettare gli esseri umani in quanto tali. Gli esseri umani in carne ed ossa vengono trasformati dall’immaginazione turbata negli infedeli, negli agenti del male, in demoni o cospiratori mondiali» (pp. 28-29).

Considerazione che lascia intravedere uno spiraglio, la possibilità di affrancarsi dalla viscosa spirale dell’odio; non certo vincendo la battaglia delle idee (la quale non può essere vinta che con l’eliminazione di — almeno — uno dei contendenti), bensì ritornando al contatto con l’altro, alla conoscenza diretta, senza intermediari, alla riappropriazione della propria capacità di giudizio. In una parola, con il dialogo con l’altro, con le altre culture e civiltà, tramite la consapevolezza che l’altro è un uomo — magari anche molto diverso, di cattivo carattere e forse perfino ostile — ma non certo un fumetto, malefico supereroe distruttore semionnipotente il cui unico fine è l’annichilimento di tutto ciò che è. L’altro ha forse dei figli, proprio come me, il mio stesso mal di denti, le mie stesse aspirazioni (o altre: ma delle aspirazioni — comunque — umane). Conoscendo l’altro, l’odio — “automaticamente”, per così dire — cede il posto all’empatia, alla prossimità; infatti, più ci avviciniamo all’altro, più lo conosciamo, meglio riusciamo a comprenderlo. E non si può odiare colui che si comprende: «odiamo coloro che non siamo capaci di comprendere e le cui esistenze richiedono una nuova considerazione, un po’d’inventiva o anche l’annullamento di alcuni nostri concetti, idee e immagini. Odiamo, perciò, coloro che costituiscono una minaccia per la nostra sicurezza mentale e per la nostra certezza» (p. 29). Il dialogo è la vera via verso la pace. In questo consiste il suo «miracolo» (p. 38).